[Il 18 aprile 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali». — Presidenza del Vicepresidente Tupini.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Zotta. Parlerò sul problema familiare, il quale è trattato negli articoli 23, 24, 25 del progetto di Costituzione, limitando le osservazioni alle esigenze del tempo concesso dall'onorevole Presidente per questa discussione.

Incomincio da un rilievo, che non viene da questo settore, ma da me personalmente, e non so quanto sia condiviso dai colleghi del gruppo parlamentare democristiano. Cioè: l'articolo 23 sulla famiglia ha una formulazione che mi sembra insufficiente ad esprimere quel concetto vivo, che della famiglia noi italiani abbiamo, e che dovrebbe necessariamente in un testo costituzionale avere una dizione chiara, aperta, inequivocabile.

Due concetti sono fissati in questo articolo 23 del progetto.

L'uno afferma il carattere organico del gruppo familiare e la originarietà dei suoi diritti, colla dizione:

«La famiglia è una società naturale. La Repubblica ne riconosce i diritti».

L'altro concetto definisce il rapporto tra la famiglia e lo Stato, cioè la essenza finalistica del controllo che lo Stato esercita sulla famiglia.

Io ho proposto un emendamento.

Quando si dice: «e (la Repubblica) ne assume la tutela» — vedremo poi questo termine «tutela» — «per l'adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della Nazione», io ho proposto, per dare, appunto, quel carattere di concretezza, quel contenuto che manca, questa aggiunta: «in armonia con la tradizione religiosa, sociale e giuridica del popolo italiano».

Perché, onorevoli colleghi, noi abbiamo una definizione stilizzata valida per tutti i tipi di famiglia.

Questa definizione può prestarsi per la famiglia italiana, per quella anglosassone, per la russa, per la mussulmana, per la famiglia primitiva.

Si dice: «La famiglia è una società naturale. La Repubblica ne tutela i diritti».

Di quale famiglia si intende parlare? Vi è la famiglia cristiana, la quale si fonda sul carattere sacro del matrimonio, esige indissolubilità del vincolo coniugale, ripudia lo stato di concubinato, distingue la filiazione legittima da quella illegittima.

Vi sono anche nel mondo civile tanti altri tipi di società coniugale, da quelli che non riconoscono il crisma della santità, riconducendo il vincolo coniugale ad una mera convenzione di parte, risolubile quando che sia; a quelli che non riconoscono né il crisma sacramentale, né quello legale dello Stato civile, ravvisando il matrimonio nel concubinato.

Ora, io domando: questa dizione a quale di questi tipi si riferisce?

Alla famiglia, quale è intesa dalla coscienza areligiosa, sociale e giuridica del popolo italiano? Questo parrebbe desumersi dal successivo articolo 24, dove si consacra il principio della indissolubilità del matrimonio. Se è così, dobbiamo intendere la tutela statale, come diretta al potenziamento di tutti gli elementi, che rafforzano l'istituto familiare e alla lotta contro tutti i fattori che lo debilitano.

Ma, onorevoli colleghi, la dizione formale non autorizza questa sola interpretazione, specialmente se la raffrontiamo col capoverso dell'articolo 25, molto noto e già molto discusso, ove si stabilisce che per i figli nati fuori del matrimonio si crei uno stato giuridico e sociale non inferiore a quello dei figli legittimi, giungendosi per questa via alla parificazione della famiglia legittima con quella illegittima. Ed allora la dizione del testo non si riferisce più ad una famiglia cristiana, ma ad un'altra famiglia.

Dunque, questo articolo 23, che sta all'inizio come un titolo, riceve la sua qualificazione, la sua concretezza ed individuazione negli articoli successivi, ed in questi articoli successivi non c'è univocità tale da farci credere che in quell'articolo sia consacrato il principio della santità del matrimonio cristiano. Ecco perché io propongo l'emendamento aggiuntivo.

Quando il progetto dice: «La famiglia è una società naturale. La Repubblica ne riconosce i diritti», vuol significare che noi accettiamo il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici. La famiglia costituisce una formazione sociale, da cui deriva il possesso di diritti anteriori alla legge positiva, diritti che lo Stato riconosce e garantisce. È una teoria questa che si contrappone a quella della statualità del diritto di Hegel e di Jellineck; e trova le sue radici profonde nella scuola francese con Duguit e Hauriou, ma soprattutto in un grande giurista italiano: Santi Romano.

A questo proposito è stata fatta un'osservazione non scevra d'interesse dall'onorevole Preti, il quale ha detto: se voi vi riportate al concetto della pluralità degli ordinamenti giuridici di Santi Romano, voi dovete necessariamente riconoscere anche le associazioni a delinquere. È un rilievo esattissimo questo, perché, onorevoli colleghi, se noi ci fermiamo alla nozione formalistica, noi introduciamo il concetto puro di istituzione, di ordinamento giuridico, e ci mettiamo sulla china che ci porta a dover riconoscere tutte le forme di aggregazioni sociali, non esclusa quella a delinquere. Noi andiamo perciò in cerca di un contenuto, ed è quel contenuto che manca in questo articolo, il quale come è attualmente formulato può essere benissimo interpretato come allusivo anche alla famiglia dei popoli primitivi, alla famiglia poligamica, perché tutte le famiglie sono società naturali e tutte hanno una propria struttura, cioè un proprio ordinamento giuridico e quindi diritti loro propri.

Diamolo questo contenuto! Ma dove lo cerchiamo? Non indubbiamente nel campo del diritto naturale o razionale, in un terreno cioè controverso per le diverse concezioni e definizioni, per i diversi obbietti e limiti. Noi non abbiamo in altri termini un tipo di famiglia valido per tutti i casi, che ci autorizzi a pensare che il testo intenda alludere a quel tipo. Non esiste, come non esiste un tipo di Stato, un tipo di societas gentium, un tipo di una qualunque formazione sociale, ma esiste un determinato Stato, una determinata società delle genti, una determinata formazione sociale, una determinata famiglia. È questa famiglia che noi vogliamo definire». Ecco perché io ho presentato questo emendamento. Perché mi sembra che soltanto allora l'articolo palpiti, viva, dia una nozione precisa e concreta, indichi una direttiva al futuro legislatore, consacri un principio, che è nella coscienza cattolica e giuridica del popolo italiano. Soltanto allora, onorevoli colleghi, non vi potrà essere in avvenire perplessità di interpretazione, perché si saprà che la Costituzione ha voluto consacrare il principio della famiglia italiana, di quella che si basa sul carattere sacro del matrimonio, che ripudia il concubinato, che trae origine da una unione, che non è solo dei corpi, ma delle anime, che ha quindi per obbietto la reciproca assistenza, la procreazione e l'educazione dei figliuoli, il benessere economico, in una comunanza indissolubile di vita: consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio.

Ora, questo è l'ordinamento giuridico, questi sono i diritti che deve tutelare la Repubblica; un complesso cioè di posizioni giuridiche, le quali hanno radici così profonde nella coscienza del popolo italiano, hanno una rispondenza così immediata nell'animo umano, da collocarsi per la loro forza cogente, almeno per quanto riguarda la nostra gente, sul medesimo livello di quei diritti primordiali e fondamentali della personalità umana, che sono i diritti alla vita ed alla libertà. E come questi, infatti, essi devono essere intangibili ed anteriori ad ogni legge positiva, in quanto una qualsiasi violazione di essi importerebbe offesa alla vita e alla libertà della famiglia, cioè per quella connessione che esiste tra la famiglia e la società, costituirebbe un attentato alla saldezza morale ed alla prosperità della Nazione.

Si parla di tutela, o signori. Chiariamo questo concetto con una aggiunta, ed allora lasciamo correre tutti gli aggettivi e tutti i sostantivi. Tutela! Ma se questo termine è usato nel senso tecnico giuridico nell'articolo 23, — e non dovrebbe essere diversamente, perché nella Costituzione si parla in termini giuridici, i quali hanno un solo significato e non presentano equivocità di interpretazioni — occorre ricordare che la tutela si esercita sugli incapaci; il che farebbe temere una ingerenza eccessiva dello Stato nella famiglia. Se non è un termine giuridico, ed allora bisogna specificare che cosa si vuole intendere. È questo concetto che noi dobbiamo cercare e che io vedrei espresso nella dizione aggiuntiva da me proposta.

Passo poi al secondo emendamento: «Il capo della famiglia è il marito».

Giannini. È una illusione!

Zotta. Ma noi viviamo di queste illusioni! Noi abbiamo fissato in questo articolo 24 il concetto dell'unità della famiglia e dell'indissolubilità del vincolo coniugale. Se ne vuole aggiungere anche un altro: quello dell'uguaglianza giuridica e morale dei coniugi. Io direi che questo principio è già accolto dalla legislazione vigente, perché riposa sul concetto etico dell'uguaglianza degli esseri umani. Lo si vuole introdurre nella Costituzione? Ma lo si armonizzi con l'altro della unità della famiglia e lo si armonizzi in maniera che non sorga dubbio di interpretazione, perché non deve andare a scapito di questa unità.

Mi pare di aver sentito, su questo punto, più in privato che nell'aula, che questo concetto di gerarchia familiare, che è nella tradizione del popolo italiano, sia già espresso nella dizione «unità della famiglia». Io dissento da questa interpretazione, alla quale mi sembra acceda anche l'onorevole Presidente dell'Assemblea. Mi pare che egli l'abbia accennato in una interruzione. Unità della famiglia, sì, unità di questo nucleo, ma noi dobbiamo anche precisare chi dirige il nucleo, noi dobbiamo preoccuparci della unità della direzione. Sono due concetti diversi.

Presidente Tupini. Mi permetta che lo interrompa: voglio esprimere il mio pensiero a riguardo con una formula latina che non riesco ancora a tradurre in italiano in modo tale che renda lo stesso concetto.

Zotta. Sì, l'ho già sentita la formula: primus inter pares.

Presidente Tupini. Non pare anche a lei che se riuscissimo ad esprimere questa formula bene in italiano, daremmo soddisfazione alle comuni esigenze?

Zotta. Però mi sembra non sia espressa chiaramente nella dizione del progetto.

Presidente Tupini. Lo stesso dico io.

Zotta. E mi riporto anch'io ad una reminiscenza del mondo latino. Non vi è dubbio sulla unità della repubblica romana; essa però aveva una duplicità di direzione espressa nella collegialità: i due consules dotati di par potestas. Il primus inter pares si trovava invece negli altri Stati italici. Vi era un meddix che aveva accanto un meddix minive. Ora la famiglia, quanto ad unità di direzione, è da paragonarsi al meddicium osco non al consolato romano.

Se la dizione da me proposta non può appagare, se ne trovi un'altra, ma che esprima chiaramente questo concetto, il concetto cioè che è stato fatto proprio dalla legislazione vigente, la quale ha già abolito tutte le disparità sopravvissute, ha integralmente soppresso l'istituto dell'autorizzazione maritale, sicché, nel campo del diritto privato, vi è una eguaglianza assoluta dei due coniugi, e tuttavia ha conservato in vita il concetto della gerarchia familiare, che importa subordinazione della moglie verso il marito e dei figli verso i genitori. In altri termini, io dico questo: non ci sarebbe bisogno di questa mia aggiunta, se non ci fosse stata l'altra dell'affermazione solenne dell'eguaglianza dei due coniugi. Sia ben chiaro che si intende consolidare nella Costituzione lo spirito della tradizione, ma non crearne uno nuovo, che sia come la premessa di pericolose innovazioni nell'avvenire.

I coniugi sono eguali! Ma la famiglia, come ogni istituto collettivo, non vive se non ha un capo e il capo lo trova nella persona del più capace e, me lo consentano, del più forte.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti