[Il 18 aprile 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali». — Presidenza del Vicepresidente Tupini.]
Presidente Tupini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l'onorevole Colonnetti. Ne ha facoltà.
Colonnetti. Onorevoli colleghi, il problema della scuola, la cui soluzione questa Assemblea si accinge a delineare nei tre articoli ad esso dedicati, è, prima di tutto e soprattutto, un problema di libertà. Ed è sotto questo aspetto, e sotto questo soltanto, che io mi propongo di trattarlo qui, nella convinzione che solo se noi riusciremo ad inquadrare i nostri ordinamenti scolastici in un regime di libertà, la scuola risorgerà a vera grandezza e diventerà, come è giusto che diventi e come noi vogliamo che diventi, il più efficace strumento della ricostruzione nazionale. E tanto più necessaria mi sembra questa presa di posizione da parte nostra, dopo gli interventi, avvenuti ieri, di diversi egregi colleghi di parte socialista: interventi che, ispirati essi pure indubbiamente al nostro stesso desiderio di libertà, hanno rivelato preoccupazioni in omaggio alle quali la libertà verrebbe ad essere a parer mio irrimediabilmente menomata e, sotto un certo punto di vista, sia pure con le migliori intenzioni, travisata.
Cercherò, dunque, sia pure brevemente, di precisare il mio pensiero, fissandone il punto fondamentale di partenza e dichiarandone senza ambagi, e senza riserve, le ultime e inevitabili conseguenze.
Il principio della libertà della scuola deriva direttamente dal concetto della personalità umana e dai rapporti che intercorrono fra essa e la collettività.
Questo concetto di personalità implica quello di vocazione cui ogni individuo è necessariamente ordinato e che costituisce, per ogni individuo, un valore che ha precedenza e dignità di fine rispetto a qualunque altra realtà umana, e che in nessun caso e per nessuna ragione può essere sacrificato.
Ma la persona, isolatamente presa, è soggetta ad insufficienze ed a limiti che si oppongono allo sviluppo ed al perfezionamento delle sue facoltà, e che essa può superare solo integrandosi con altre persone.
Questo perfezionamento, di cui l'educazione costituisce il momento caratteristico e saliente, trova la sua prima e naturale sede nella famiglia che a ciò è ordinata come a suo fine e dove il diritto dei figli ad essere educati si traduce nel dovere di educare proprio dei genitori, e reciprocamente, il diritto della famiglia ad educare soddisfa al dovere che i figli hanno di istruirsi e di perfezionarsi.
Sennonché i genitori, anche se animati dalla maggior buona volontà, non possono il più delle volte compiere da soli l'opera dell'educazione ed istruzione del fanciullo, e spetta alla scuola compiere quest'opera supplendo i genitori là dove questi non potrebbero assolutamente mai arrivare.
Vi sono però tanti modi di compiere quest'opera. Educazione e istruzione non si compendiano infatti nell'arido apprendimento di un certo numero di cognizioni positive incontrovertibili, ma hanno — e non potrebbero non avere — un contenuto spirituale che può essere diversamente orientato e che può a sua volta diversamente orientare la formazione della personalità del fanciullo. Perciò resta ai genitori il diritto di scegliere la scuola cui affidare i loro figli, in modo che essa risponda al loro ideale educativo ed alla loro concezione della vita; e compete allo Stato — che deve in questa loro opera tutelarli ed aiutarli — il dovere di lasciare alla scuola la più ampia libertà di realizzare quell'ideale nei limiti, ben s'intende, dell'ordine e del bene comune.
E qui io debbo rilevare il mio fondamentale dissenso dall'onorevole Binni, il quale ieri non esitava a definire «chiusa» la scuola orientata e «libera» quella di Stato, dove, proprio perché possono insegnarvi uomini di ogni fede, un orientamento può, in qualche caso almeno, venire a mancare.
Io non voglio contestare all'onorevole Binni il diritto di pensare e di sostenere che una scuola non orientata sia la più adatta per mettere fin dal principio il fanciullo dinnanzi alle perplessità di quella che dovrà essere in seguito la sua scelta di un certo ben determinato modo di concepire la vita. Ma vorrei che egli, con pari liberalità, mi riconoscesse il buon diritto di altri genitori, i quali pensano che più salutare sia per i loro figli l'essere fin dal principio avviati verso quella concezione della vita, che è, per loro, la più vera e la più sana. Vorrei che egli mi riconoscesse che vi possono essere dei genitori i quali, seguendo il pensiero di un grande Pontefice che ieri stesso è stato qui autorevolmente citato, sono convinti che al suo compito educativo la scuola non possa pienamente assolvere, se l'insegnamento di tutte le materie non è tutto permeato e saturato di spirito cristiano.
Certo, per giungere a questo, bisogna aver sorpassato lo stato d'animo che trapelava ieri così chiaramente dalle parole di un altro nostro egregio collega, l'onorevole Giua; il quale è evidentemente preoccupato di quelli che tradizionalmente si usano definire conflitti tra la scienza e la fede, e non nasconde il suo dubbio che intralci al progresso della scienza possano essere frapposti dalla Chiesa Cattolica.
Sono spiacente che non sia presente l'onorevole Giua; ma se fosse presente, vorrei dirgli che mi è parso sentire nelle sue parole l'eco di posizioni mentali che io francamente consideravo definitivamente superate. Sappiamo tutti che le sue preoccupazioni hanno dominato il pensiero di molti studiosi del secolo scorso; sappiamo tutti che conflitti sono nati ed hanno dolorosamente amareggiato molte nobili menti, allorquando qualche inattesa e apparentemente rivoluzionaria conquista della scienza ha posto gli studiosi di fronte alla necessità di revisioni radicali del loro modo di concepire il creato. Sappiamo anche che uomini di chiesa, preoccupati di mettere d'accordo queste conquiste con la lettera dei Sacri Testi (che non sono, né hanno mai avuto la pretesa di essere dei trattati scientifici) per eccessivo — e in certo senso ben spiegabile — attaccamento ad interpretazioni tradizionali, e a volte anche, per incapacità di evolverle con la necessaria prontezza, hanno commesso errori di cui il successivo sviluppo del pensiero ha fatto giustizia.
Ma i fiumi d'inchiostro che il processo di Galileo ha fatto spandere, a questo se non altro hanno servito: a dimostrare cioè che non è lecito dagli errori degli uomini (e sia pure degli uomini di chiesa) trarre argomento per affermare l'esistenza di un reale conflitto tra la scienza e la fede. La quale ultima ha anzi sempre trovato nei progressi della scienza argomento per nuovi e spesso impensati conforti; tanto che sono proprio le conquiste più rivoluzionarie e più ardite della scienza quelle che, quando le idee si chiariscono e le posizioni si precisano, più decisamente ci danno l'impressione della superiorità della concezione spiritualistica dell'universo.
Io non voglio tediare questa Assemblea, né farle perdere con divagazioni scientifiche un tempo che essa deve riservare ai suoi più immediati compiti; ma non posso non dire qui quanto, nella mia vita di studioso, io sia stato impressionato dal misterioso, ma sicuro parallelismo che le nuove concezioni relativistiche dello spazio e del tempo presentano con la concezione che dello spazio e del tempo avevano, in tempi davvero non sospetti, sant'Agostino e san Tommaso d'Aquino.
L'onorevole Giua ci ha detto ieri i suoi timori per un possibile futuro conflitto tra il pensiero cristiano ed i progressi che stanno in questi anni facendo le scienze biologiche, ed in particolare la genetica.
Ora io mi sento a questo proposito perfettamente tranquillo. Prova ne sia che quando, alcuni mesi or sono, nella mia veste di Presidente del Consiglio nazionale delle Ricerche, ho dovuto nominare un Direttore del centro di Biologia istituito a Napoli, non ho esitato a scegliere un valente studioso specializzato in embriologia sperimentale il quale, per avventura, è anche sacerdote. E non ho mai pensato, che tra la sua attività di ricercatore ed il suo pensiero di credente potessero o dovessero sorgere conflitti di sorta.
Creda pure l'onorevole Giua che se la genetica troverà il modo di influire sulle caratteristiche dei nascituri, essa si vedrà sbarrato il cammino dalla Chiesa Cattolica, solo nell'ipotesi che gli uomini, dei nuovi trovati si voglian servire per fini lesivi della dignità umana. Che se invece quei trovati potranno servire a liberare preventivamente qualche creatura da tare ereditarie e ad elevarne le condizioni di vita, la Chiesa sarà al suo posto, al fianco della scienza, per una umanità fisicamente e spiritualmente migliore. (Applausi).
Ma è ora, onorevoli colleghi, che io vi chieda scusa della ormai troppo lunga parentesi, e che io ritorni in argomento. E vi ritorno per dire all'onorevole Preti ed all'onorevole Binni, che, rivendicando la libertà della scuola noi non pensiamo né desideriamo in alcun modo menomare la scuola di Stato, di cui io sono il primo a riconoscere l'alta funzione e le indubbie qualità e benemerenze.
Ma vogliamo che, accanto ad essa, viva e prosperi anche la scuola orientata, e che i genitori italiani, tutti i genitori italiani, siano effettivamente liberi di mandare all'una o all'altra i loro figli.
In questo consiste la libertà della scuola.
Quando, nel 1869, al primo Parlamento riunito in Firenze, Vito d'Ondes Reggio presentava un progetto di legge il cui primo articolo diceva: «L'insegnamento è libero; può esercitarlo chiunque goda dei diritti civili», egli, pur riallacciandosi alle tradizioni dei nostri migliori pedagogisti del secolo scorso, da Antonio Rosmini al Capponi, al Lambruschini, al Tommaseo, intendeva fare un'affermazione di principio. Non voleva, come neppure oggi si vuole, ridurre la questione alla difesa di un gruppo di scuole private; ma affermava la tesi di un insopprimibile diritto della persona e della famiglia, quel diritto alla libertà di insegnamento che, dalla Rivoluzione francese in poi, ha trovato nel monopolio statale della scuola un'aperta violazione ed un'amara sopraffazione contro la fecondità delle libere iniziative.
Noi respingiamo, in maniera assoluta, la concezione dello Stato che si è venuta formando nei tempi moderni, secondo la quale la sua sovranità consiste nel proclamarsi fonte unica di ogni diritto, cosicché tutti i diritti soggettivi, a cominciare da quello dello sviluppo della personalità, non sono che sue benevole concessioni. Per noi, anche nel campo scolastico, lo Stato entra in funzione come tutore di diritti della persona e della famiglia con esse consostanziati, diritti della persona e della famiglia, il cui esercizio deve dallo Stato essere aiutato ed agevolato in vista della formazione e del perfezionamento degli individui e del raggiungimento del bene comune.
Supplire alle insufficienze della persona e della famiglia, ed integrare le loro iniziative al fine di condurre ogni persona al massimo perfezionamento compatibile con le sue doti naturali e con il presente ordine sociale, questa è la funzione dello Stato. Ed è in questi limiti che si delineano chiaramente quei doveri e quei diritti di fronte ai quali prende significato e valore il concetto della libertà della scuola.
Lo Stato dovrà dunque provvedere alla pubblica istruzione aprendo scuole sue e consentendo che ne aprano enti o privati, e vigilando a che tutte queste scuole, pubbliche o private che siano, offrano le dovute garanzie sia per quanto riguarda l'idoneità degli insegnanti, sia per quanto riguarda le modalità tecniche dell'insegnamento e la sua conformità alle leggi vigenti.
Per quel che si riferisce a questa vigilanza, io credo che potremmo — uomini di tutti i partiti — esser tutti d'accordo nell'auspicarla sempre più efficiente; perché sappiamo tutti che abusi e manchevolezze sono anche troppo frequenti, così nella scuola privata come nella scuola pubblica, così nelle elementari come nelle università; ed una vigilanza esercitata con competenza e senso di responsabilità potrebbe finalmente mettere lo Stato in condizione di intervenire tempestivamente ed efficacemente ovunque lo richiedano la dignità e la serietà dell'insegnamento.
Ma non basta che lo Stato consenta alla scuola privata di esistere se ne ha i mezzi e se soddisfa a ben determinate condizioni.
Il diritto di insegnare, così inteso, costituisce bensì un minimo inalienabile: ma rappresenta quello che si potrebbe chiamare una libertà negativa, epperò insufficiente.
Ed invero l'insegnamento ha oggi tali esigenze di specializzazione dei docenti, di salubrità di locali, di installazioni e di attrezzature costose, che la scuola privata, se abbandonata a se stessa, non può più sussistere o può sussistere solo al servizio dei ricchi, per non dir dei ricchissimi.
Ora, non i ricchi soltanto devono poter scegliere la scuola cui affidare i loro figli. Se questa scelta ha un senso — come noi pensiamo che l'abbia, in relazione con quei diritti inalienabili della famiglia cui abbiamo detto che lo Stato deve rispetto e tutela — essa deve potersi liberamente esercitare da tutti i cittadini, a qualunque classe sociale appartengano, qualunque siano le loro condizioni economiche.
Una scuola libera, a disposizione soltanto dei privilegiati della fortuna, non solo contrasta con tutte le nostre tradizioni e travisa quelle che sono le origini dell'enorme maggioranza delle nostre scuole, di cui nessuno può dimenticare le benemerenze e che sono state create per il popolo, e che anzi proprio all'istruzione dei poveri erano, nel pensiero e nella volontà dei fondatori, espressamente destinate, ma urta — onorevoli colleghi — contro quel bisogno di giustizia sociale che tutti sentiamo imperioso ed a realizzare il quale sono volti i più nobili e concordi sforzi di questa Assemblea.
Perché la libertà di insegnamento sia effettiva per tutti, perché di essa possano valersi i poveri come i ricchi, perché la scuola cessi di essere un privilegio di classe, e resa accessibile a tutti, divenga veramente quello strumento di sano rinnovamento sociale che tutti auspichiamo, perché essa contribuisca a preparare una più vasta partecipazione del popolo ai compiti ed alle responsabilità della vita nazionale, bisogna che tutti i cittadini senza distinzione di ceto o di condizione, possano contare sull'assistenza anche economica dello Stato, qualunque sia la scuola nella quale compiono i loro studi.
Sarebbe qui fuori di luogo — onorevoli colleghi — una discussione delle modalità con cui questa assistenza potrà domani venir realizzata. Questo è compito della legislazione futura e dovrà assolversi con quella gradualità che le circostanze imporranno.
Ma è compito di questa Assemblea impostare i limiti e fissare le direttive della legislazione futura, in termini tali che la libertà non resti indefinitamente una semplice dichiarazione giuridica, ma diventi al più presto possibile per il popolo italiano una realtà operante. Per il che occorre che lo Stato provveda, come è suo dovere, a predisporre ed organizzare le condizioni economiche che valgano a rendere possibile l'effettivo esercizio della libertà.
L'esempio di altri Paesi in cui questo ideale è in atto basta a rassicurarci sulla possibilità della sua realizzazione, e ci conforta, e ci autorizza ad affermare che, in ogni caso, quelle provvidenze che verranno anche da noi escogitate al duplice fine di rendere effettivo l'obbligo scolastico fino ai quattordici od ai sedici anni, e di assicurare poi ai più meritevoli la continuazione degli studi nel campo della preparazione professionale o dell'alta cultura, dovranno essere attribuite alla persona con piena ed assoluta facoltà di utilizzarle in quella qualsiasi scuola, pubblica o privata, nella quale essa intende compiere la sua educazione.
Questo per quanto riguarda la libertà dei cittadini di scegliersi la loro scuola.
Ma non si esaurisce qui il problema della scuola — non si esaurisce se non si ha il coraggio di affermare un'altra libertà: quella della scuola stessa, della stessa scuola di Stato, a darsi i suoi ordinamenti.
E qui l'argomento assume un particolare rilievo se si guarda all'Università ed agli Istituti di alta cultura, la cui attuale decadenza, da tutti sentita, è in gran parte dovuta all'avvenuta soppressione di ogni autonomia, di ogni libertà.
L'Università è oggi soffocata dalle masse dei giovani che si affollano alle sue porte senza possedere attitudini e nemmeno aspirazioni alla preparazione scientifica o ad una reale elevazione morale e sociale, spinti soltanto dal proposito di conquistarsi in qualunque modo un titolo che apra la via ad uffici lucrosi.
L'Università non si salva se non attraverso un radicale rinnovamento dei suoi ordinamenti, capace di attuare una severa selezione ed un orientamento dei giovani. Tali nuovi ordinamenti dovranno essere così variamente articolati e differenziati da preparare i giovani meritevoli e capaci, perché forniti delle necessarie attitudini e perché orientati, avviandoli mediante una specifica formazione verso le singole attività professionali o verso le più alte mete della cultura.
Ad un tale risultato non si arriverà mai se non si metteranno in gioco le libere iniziative attraverso una completa autonomia di governo didattico ed economico dei singoli Istituti; autonomia che sola può permettere agli Istituti stessi di darsi un particolare e ben determinato carattere nella costituzione stessa del corpo insegnante e nella libera adozione di quegli ordinamenti che, caso per caso, più si confanno al raggiungimento dei fini che i singoli istituti si propongono, adeguando al programma i mezzi di cui essi dispongono.
L'autonomia, se reale e completa, varrà a fissare le responsabilità dei corpi insegnanti e a restituire all'insegnamento superiore quel prestigio che esso ha ormai perduto.
Allo Stato resterà il diritto di disciplinare l'esercizio delle professioni attraverso il conferimento dei relativi diplomi di abilitazione. E nell'esercizio di questo suo diritto avrà sempre modo di operare quel controllo che deve garantire ogni cittadino e stimolare le Università nell'esplicazione delle loro libere attività.
Se questa Assemblea avrà il coraggio di affermare il principio dell'autonomia degli Istituti di alta cultura, essa potrà ben dire di aver con ciò posta una pietra basilare dell'edificio nuovo nel quale si matureranno i futuri destini e le future grandezze d'Italia. (Vivi applausi — Molte congratulazioni).
Presidente Tupini. È iscritto a parlare l'onorevole Zotta. Ne ha facoltà.
Zotta. Parlerò sul problema familiare, il quale è trattato negli articoli 23, 24, 25 del progetto di Costituzione, limitando le osservazioni alle esigenze del tempo concesso dall'onorevole Presidente per questa discussione.
Incomincio da un rilievo, che non viene da questo settore, ma da me personalmente, e non so quanto sia condiviso dai colleghi del gruppo parlamentare democristiano. Cioè: l'articolo 23 sulla famiglia ha una formulazione che mi sembra insufficiente ad esprimere quel concetto vivo, che della famiglia noi italiani abbiamo, e che dovrebbe necessariamente in un testo costituzionale avere una dizione chiara, aperta, inequivocabile.
Due concetti sono fissati in questo articolo 23 del progetto.
L'uno afferma il carattere organico del gruppo familiare e la originarietà dei suoi diritti, colla dizione:
«La famiglia è una società naturale. La Repubblica ne riconosce i diritti».
L'altro concetto definisce il rapporto tra la famiglia e lo Stato, cioè la essenza finalistica del controllo che lo Stato esercita sulla famiglia.
Io ho proposto un emendamento.
Quando si dice: «e (la Repubblica) ne assume la tutela» — vedremo poi questo termine «tutela» — «per l'adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della Nazione», io ho proposto, per dare, appunto, quel carattere di concretezza, quel contenuto che manca, questa aggiunta: «in armonia con la tradizione religiosa, sociale e giuridica del popolo italiano».
Perché, onorevoli colleghi, noi abbiamo una definizione stilizzata valida per tutti i tipi di famiglia.
Questa definizione può prestarsi per la famiglia italiana, per quella anglosassone, per la russa, per la mussulmana, per la famiglia primitiva.
Si dice: «La famiglia è una società naturale. La Repubblica ne tutela i diritti».
Di quale famiglia si intende parlare? Vi è la famiglia cristiana, la quale si fonda sul carattere sacro del matrimonio, esige indissolubilità del vincolo coniugale, ripudia lo stato di concubinato, distingue la filiazione legittima da quella illegittima.
Vi sono anche nel mondo civile tanti altri tipi di società coniugale, da quelli che non riconoscono il crisma della santità, riconducendo il vincolo coniugale ad una mera convenzione di parte, risolubile quando che sia; a quelli che non riconoscono né il crisma sacramentale, né quello legale dello Stato civile, ravvisando il matrimonio nel concubinato.
Ora, io domando: questa dizione a quale di questi tipi si riferisce?
Alla famiglia, quale è intesa dalla coscienza areligiosa, sociale e giuridica del popolo italiano? Questo parrebbe desumersi dal successivo articolo 24, dove si consacra il principio della indissolubilità del matrimonio. Se è così, dobbiamo intendere la tutela statale, come diretta al potenziamento di tutti gli elementi, che rafforzano l'istituto familiare e alla lotta contro tutti i fattori che lo debilitano.
Ma, onorevoli colleghi, la dizione formale non autorizza questa sola interpretazione, specialmente se la raffrontiamo col capoverso dell'articolo 25, molto noto e già molto discusso, ove si stabilisce che per i figli nati fuori del matrimonio si crei uno stato giuridico e sociale non inferiore a quello dei figli legittimi, giungendosi per questa via alla parificazione della famiglia legittima con quella illegittima. Ed allora la dizione del testo non si riferisce più ad una famiglia cristiana, ma ad un'altra famiglia.
Dunque, questo articolo 23, che sta all'inizio come un titolo, riceve la sua qualificazione, la sua concretezza ed individuazione negli articoli successivi, ed in questi articoli successivi non c'è univocità tale da farci credere che in quell'articolo sia consacrato il principio della santità del matrimonio cristiano. Ecco perché io propongo l'emendamento aggiuntivo.
Quando il progetto dice: «La famiglia è una società naturale. La Repubblica ne riconosce i diritti», vuol significare che noi accettiamo il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici. La famiglia costituisce una formazione sociale, da cui deriva il possesso di diritti anteriori alla legge positiva, diritti che lo Stato riconosce e garantisce. È una teoria questa che si contrappone a quella della statualità del diritto di Hegel e di Jellineck; e trova le sue radici profonde nella scuola francese con Duguit e Hauriou, ma soprattutto in un grande giurista italiano: Santi Romano.
A questo proposito è stata fatta un'osservazione non scevra d'interesse dall'onorevole Preti, il quale ha detto: se voi vi riportate al concetto della pluralità degli ordinamenti giuridici di Santi Romano, voi dovete necessariamente riconoscere anche le associazioni a delinquere. È un rilievo esattissimo questo, perché, onorevoli colleghi, se noi ci fermiamo alla nozione formalistica, noi introduciamo il concetto puro di istituzione, di ordinamento giuridico, e ci mettiamo sulla china che ci porta a dover riconoscere tutte le forme di aggregazioni sociali, non esclusa quella a delinquere. Noi andiamo perciò in cerca di un contenuto, ed è quel contenuto che manca in questo articolo, il quale come è attualmente formulato può essere benissimo interpretato come allusivo anche alla famiglia dei popoli primitivi, alla famiglia poligamica, perché tutte le famiglie sono società naturali e tutte hanno una propria struttura, cioè un proprio ordinamento giuridico e quindi diritti loro propri.
Diamolo questo contenuto! Ma dove lo cerchiamo? Non indubbiamente nel campo del diritto naturale o razionale, in un terreno cioè controverso per le diverse concezioni e definizioni, per i diversi obbietti e limiti. Noi non abbiamo in altri termini un tipo di famiglia valido per tutti i casi, che ci autorizzi a pensare che il testo intenda alludere a quel tipo. Non esiste, come non esiste un tipo di Stato, un tipo di societas gentium, un tipo di una qualunque formazione sociale, ma esiste un determinato Stato, una determinata società delle genti, una determinata formazione sociale, una determinata famiglia. È questa famiglia che noi vogliamo definire». Ecco perché io ho presentato questo emendamento. Perché mi sembra che soltanto allora l'articolo palpiti, viva, dia una nozione precisa e concreta, indichi una direttiva al futuro legislatore, consacri un principio, che è nella coscienza cattolica e giuridica del popolo italiano. Soltanto allora, onorevoli colleghi, non vi potrà essere in avvenire perplessità di interpretazione, perché si saprà che la Costituzione ha voluto consacrare il principio della famiglia italiana, di quella che si basa sul carattere sacro del matrimonio, che ripudia il concubinato, che trae origine da una unione, che non è solo dei corpi, ma delle anime, che ha quindi per obbietto la reciproca assistenza, la procreazione e l'educazione dei figliuoli, il benessere economico, in una comunanza indissolubile di vita: consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio.
Ora, questo è l'ordinamento giuridico, questi sono i diritti che deve tutelare la Repubblica; un complesso cioè di posizioni giuridiche, le quali hanno radici così profonde nella coscienza del popolo italiano, hanno una rispondenza così immediata nell'animo umano, da collocarsi per la loro forza cogente, almeno per quanto riguarda la nostra gente, sul medesimo livello di quei diritti primordiali e fondamentali della personalità umana, che sono i diritti alla vita ed alla libertà. E come questi, infatti, essi devono essere intangibili ed anteriori ad ogni legge positiva, in quanto una qualsiasi violazione di essi importerebbe offesa alla vita e alla libertà della famiglia, cioè per quella connessione che esiste tra la famiglia e la società, costituirebbe un attentato alla saldezza morale ed alla prosperità della Nazione.
Si parla di tutela, o signori. Chiariamo questo concetto con una aggiunta, ed allora lasciamo correre tutti gli aggettivi e tutti i sostantivi. Tutela! Ma se questo termine è usato nel senso tecnico giuridico nell'articolo 23, — e non dovrebbe essere diversamente, perché nella Costituzione si parla in termini giuridici, i quali hanno un solo significato e non presentano equivocità di interpretazioni — occorre ricordare che la tutela si esercita sugli incapaci; il che farebbe temere una ingerenza eccessiva dello Stato nella famiglia. Se non è un termine giuridico, ed allora bisogna specificare che cosa si vuole intendere. È questo concetto che noi dobbiamo cercare e che io vedrei espresso nella dizione aggiuntiva da me proposta.
Passo poi al secondo emendamento: «Il capo della famiglia è il marito».
Giannini. È una illusione!
Zotta. Ma noi viviamo di queste illusioni! Noi abbiamo fissato in questo articolo 24 il concetto dell'unità della famiglia e dell'indissolubilità del vincolo coniugale. Se ne vuole aggiungere anche un altro: quello dell'uguaglianza giuridica e morale dei coniugi. Io direi che questo principio è già accolto dalla legislazione vigente, perché riposa sul concetto etico dell'uguaglianza degli esseri umani. Lo si vuole introdurre nella Costituzione? Ma lo si armonizzi con l'altro della unità della famiglia e lo si armonizzi in maniera che non sorga dubbio di interpretazione, perché non deve andare a scapito di questa unità.
Mi pare di aver sentito, su questo punto, più in privato che nell'aula, che questo concetto di gerarchia familiare, che è nella tradizione del popolo italiano, sia già espresso nella dizione «unità della famiglia». Io dissento da questa interpretazione, alla quale mi sembra acceda anche l'onorevole Presidente dell'Assemblea. Mi pare che egli l'abbia accennato in una interruzione. Unità della famiglia, sì, unità di questo nucleo, ma noi dobbiamo anche precisare chi dirige il nucleo, noi dobbiamo preoccuparci della unità della direzione. Sono due concetti diversi.
Presidente Tupini. Mi permetta che lo interrompa: voglio esprimere il mio pensiero a riguardo con una formula latina che non riesco ancora a tradurre in italiano in modo tale che renda lo stesso concetto.
Zotta. Sì, l'ho già sentita la formula: primus inter pares.
Presidente Tupini. Non pare anche a lei che se riuscissimo ad esprimere questa formula bene in italiano, daremmo soddisfazione alle comuni esigenze?
Zotta. Però mi sembra non sia espressa chiaramente nella dizione del progetto.
Presidente Tupini. Lo stesso dico io.
Zotta. E mi riporto anch'io ad una reminiscenza del mondo latino. Non vi è dubbio sulla unità della repubblica romana; essa però aveva una duplicità di direzione espressa nella collegialità: i due consules dotati di par potestas. Il primus inter pares si trovava invece negli altri Stati italici. Vi era un meddix che aveva accanto un meddix minive. Ora la famiglia, quanto ad unità di direzione, è da paragonarsi al meddicium osco non al consolato romano.
Se la dizione da me proposta non può appagare, se ne trovi un'altra, ma che esprima chiaramente questo concetto, il concetto cioè che è stato fatto proprio dalla legislazione vigente, la quale ha già abolito tutte le disparità sopravvissute, ha integralmente soppresso l'istituto dell'autorizzazione maritale, sicché, nel campo del diritto privato, vi è una eguaglianza assoluta dei due coniugi, e tuttavia ha conservato in vita il concetto della gerarchia familiare, che importa subordinazione della moglie verso il marito e dei figli verso i genitori. In altri termini, io dico questo: non ci sarebbe bisogno di questa mia aggiunta, se non ci fosse stata l'altra dell'affermazione solenne dell'eguaglianza dei due coniugi. Sia ben chiaro che si intende consolidare nella Costituzione lo spirito della tradizione, ma non crearne uno nuovo, che sia come la premessa di pericolose innovazioni nell'avvenire.
I coniugi sono eguali! Ma la famiglia, come ogni istituto collettivo, non vive se non ha un capo e il capo lo trova nella persona del più capace e, me lo consentano, del più forte.
Ancora cinque minuti.
Presidente Tupini. Parli pure, onorevole Zotta, che l'Assemblea lo ascolta molto attentamente.
Zotta. Mi sento un po' preoccupato per l'ora tarda e la preoccupazione mi spinge ad esser breve.
Veniamo adesso all'altro emendamento da me proposto; soppressione del capoverso dell'articolo 25. Dalle premesse fissate nell'articolo 23 e nell'articolo 24, scaturiscono inevitabilmente queste conseguenze: distinzione netta fra famiglia e concubinato, distinzione netta tra filiazione legittima e filiazione illegittima. Qui si inserisce una questione molto delicata, la quale ha un profondo contenuto di umanità; una questione che risale ai principî della solidarietà, della eguaglianza umana. Migliorare cioè la condizione degli illegittimi; perché la colpa dei genitori non ricada su chi non ha chiesto di venire al mondo. Questione umanissima, sulla quale devo fare questo rilievo, compiacendomene, che in sostanza, diversità di vedute tra i vari settori non esistono. La diversità è soltanto formale: e mi spiego. Questa formulazione, così come è espressa dal progetto, il quale stabilisce che venga garantito ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico, che escluda inferiorità civili e sociali, porta in una interpretazione logica a delle conseguenze, che non sono accettate da nessuno di questi settori, come è stato chiaramente specificato nei vari interventi dei colleghi che mi hanno preceduto. Vi è stata soltanto una voce, che poteva apparire discorde. Quando l'onorevole Merlin Umberto disse: «Ma in questo modo, amici miei, voi ponete il genitore nel dovere di introdurre nella sua casa dei figli naturali, e logicamente con essi anche la mamma, perché se i figli naturali hanno gli stessi diritti dei figli legittimi, è naturale che essi abbiano anche diritto all'assistenza della mamma», vi è stato un mormorio indistinto di protesta nei settori di sinistra. Ho notato però questa interruzione dell'onorevole Calosso: «tendenzialmente sì».
Ora, onorevoli colleghi, se dovessimo appagarci delle assicurazioni sulla interpretazione che viene data oggi a questa disposizione da tutti coloro che sono intervenuti nella discussione, noi saremmo tranquilli, perché questa interruzione dell'onorevole Calosso potrebbe essere anche presa così, come un motto di...
Una voce. ...di spirito.
Zotta. ...già di spirito; ma il fatto è che questo spirito, col decorso degli anni, diventa potente, come avviene per tutti gli spiriti, per tutte le essenze alcooliche; specialmente quando mutano le circostanze ambientali, sociali e politiche. Vi può essere tutta una evoluzione od involuzione inaspettata ed indesiderata in avvenire. E allora questa disposizione va intesa precisamente nel senso paventato, che cioè, il genitore abbia il dovere di introdurre nella casa — perché questo dovere gli viene da una chiara disposizione di legge, la quale parifica i figli naturali ai legittimi — i figli illegittimi, e con essi la madre. E allora, onorevoli colleghi, questi nostri tardi nepoti diranno che la nuova Costituzione del popolo italiano — la prima Costituzione che sa darsi il nostro popolo — ha distrutto la famiglia come organismo unitario, ha introdotto l'immoralità nella casa, ha legittimato la poligamia. (Commenti a sinistra).
Vi è un altro lato, è un dilemma questo, da cui non si esce, una volta affermata la posizione di eguaglianza. Il genitore crea un'altra casa per i figli illegittimi e per la madre di essi, cioè istituisce un'altra famiglia. E allora, onorevoli colleghi, è distrutta non solo l'unità della famiglia, ma anche il vincolo dell'indissolubilità, perché questo sarà un comodo ripiego per poter spezzare quel vincolo che noi dichiariamo adesso, nella Costituzione, indissolubile. Questo sarà il mezzo cui faranno ricorso tranquillamente tutti coloro che vogliano ripudiare il coniuge e la famiglia legittima, attratti dalla prospettiva di nuove nozze, perché hanno la tranquillità di costituire un'altra famiglia, che ha le stesse possibilità di una famiglia legittima.
Le provvidenze, sì, le condividiamo nella sostanza. Esse sono nostre. Ci muove uno spirito di pietà per questi derelitti. Che cosa si può fare per essi? Bisogna tentare tutto quello che è possibile e mi sembra che la questione possa essere posta in questi termini: commisurare il bene che si opera in una sfera con l'inevitabile male che si crea in un'altra sfera di esseri umani, che è molto più ampia della prima, perché se noi creiamo questa parità per gli uni, noi danneggiamo grandemente, in profondità e in estensione, gli altri.
Questo è il problema dal punto di vista umano, perché non è generosità quella che, per beneficare alcuni, ha bisogno di danneggiare molti altri; non è giustizia quella che elimina le conseguenze di un male, recando danno a chi non lo ha causato. La giustizia consiste nel ristabilire l'armonia, non nello spostare lo squilibrio da un punto ad un altro.
Si è solennemente dichiarato in quest'Aula che bisogna migliorare le condizioni dei figli illegittimi. Ma sì, senz'altro! Incominciamo, per esempio, col sollevare la condizione dei figli naturali, non adulterini né incestuosi, sancendo tutti gli obblighi da parte dei genitori verso questi derelitti, obblighi sia di indole morale che di indole patrimoniale. Consacrando questi obblighi, non c'è infatti pericolo per l'istituto familiare. Essi si possono anzi ampliare con una ricerca più ampia della paternità e della maternità. Ma altri casi vengono prospettati: sentivo stamane l'onorevole Ruini, il quale citava come questo problema fosse stato tormentosamente vissuto da Salandra, da Scialoia, da Gianturco, e proponeva che ci fosse una possibilità di legittimazione quando uno dei genitori naturali non fosse legato da matrimonio e nei confronti di questi. Negli altri casi è opportuno intensificare l'azione di assistenza da parte di istituzioni private o pubbliche.
In ogni caso occorre eliminare l'umiliazione del marchio d'infamia, che pesa dolorosamente sulla fronte di questi disgraziati, quando essi debbono dichiarare fra i consociati la loro paternità.
Bisogna insomma distruggere per legge ciò che ha carattere di inferiorità, ma purché si mantenga saldo l'istituto della famiglia.
Mancini. Concretizzi queste provvidenze.
Zotta. È compito del Codice civile, non della Costituzione. Io perciò ho presentato un emendamento per la soppressione del capoverso. Comunque non vi insisto, se altri emendamenti sono redatti in forma più aderente al mio pensiero. Io accedo senz'altro ad essi, perché il pericolo è che, pur approvando qui il concetto dell'indissolubilità del matrimonio, lo distruggiamo di fatto, facendo passare una norma che pone sullo stesso piano figli naturali e figli legittimi.
Non è chi non veda quanto sia esiziale questa visione. È esiziale a tutti. Anzitutto agli artefici del dramma, perché essi non saranno più trattenuti dal pensiero di rovinare una disgraziata quando sanno di poterne legalizzare la posizione; non saranno più tormentati dallo spettro di coloro che vengono al mondo. La possibilità stessa di costituire altri focolari costituisce un motivo di inconsiderazione, di leggerezza nella scelta del primo. La unione dell'uomo e della donna, che nella famiglia italiana, grazie a Dio, riposa finora sulla coesione delle anime, ove trova il più sicuro presidio per la sua saldezza morale, questa unione verrebbe ad essere occasionata, con una facilità di trasposizioni, da fattori effimeri, da capriccio, da curiosità, da libidine. Chi ne soffrirebbe enormemente sarebbe l'altro coniuge, la donna. È un fatto questo che non è stato valutato in questa discussione. La moglie, la quale è elemento fondamentale, essenziale, per la formazione della casa, per la costituzione e la conservazione del patrimonio familiare, dovrebbe assistere inerte con i propri figliuoli alla distruzione della sua casa, dovrebbe vedere i suoi risparmi alimentare altre case, dovrebbe vedere disgregarsi quel patrimonio affettivo ed economico cui essa ha dedicato le migliori energie nella sua sublime missione domestica. Esiziale per lo Stato, se è vero quello che abbiamo scritto che dalla famiglia lo Stato trae forza e impulso per il suo proprio sviluppo.
Salviamo la famiglia, onorevoli colleghi! In questa grande povertà, in questo grande travaglio, dopo tante sciagure belliche e politiche, ci sia conservato questo che è l'unico patrimonio del popolo italiano (Applausi), questo da cui il popolo trae motivo di conforto per credere ancora nel suo avvenire! (Applausi — Molte congratulazioni).
A cura di Fabrizio Calzaretti