[Il 18 aprile 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Gullo Fausto. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, io non condivido l'opinione di coloro che hanno rivolto severe critiche, dal punto di vista formale e stilistico, al progetto di Costituzione in discussione; tanto meno condivido il rammarico dell'amico onorevole Calamandrei, che la Costituzione non sia stata scritta da un poeta, fosse pure Ugo Foscolo. Di Costituzioni scritte da poeti ne conosco una sola; e l'esempio non si può dire veramente imitabile.
Trovo invece che il nostro progetto di Costituzione ha quasi sempre uno stile semplice e piano, facilmente intelligibile e scevro di retorica.
È per questo che io non intendo perché l'articolo 23 si inizi con l'affermazione che «la famiglia è una società naturale», della quale, se dovessi proprio dire il mio pensiero, non afferro il significato.
L'onorevole Bosco Lucarelli ha proposto un emendamento; vorrebbe, cioè, che all'aggettivo «naturale» si sostituisse «originaria». La frase acquisterebbe, così, un significato, in quanto si porrebbe la famiglia all'origine, prima, cioè, che sorgesse ogni forma, anche primordiale, di Stato.
Ma evidentemente la Costituzione con tal definizione risolverebbe un problema che invece non è stato ancora risolto. È sorta prima la famiglia e dopo lo Stato? O non è vero che originariamente esisteva soltanto ciò che Gian Battista Vico definisce una «infame riunione delle cose e delle donne»? che l'umanità cioè nei suoi primordi non conobbe la famiglia? Con questa definizione la Costituzione prende senz'altro partito, sostiene cioè che la famiglia sia originaria, sia la prima ad essere apparsa nel consorzio umano. Ora a me non pare che nella Costituzione sia opportuno che si dica questo, superando le opinioni che sono molteplici, come tutti sanno, e che vanno da quella del patriarcato o del matriarcato, alla teoria di coloro che, come Meyer, sostengono che lo Stato è anteriore alla famiglia. La teoria che ora incontra i maggiori consensi (e dico questo per limitarmi alla famiglia romana, che è quella che ci interessa di più, perché è la precedente diretta della famiglia nostra) è quella del Bonfante, secondo la quale si sarebbe avuto all'inizio una famiglia che era però un organismo politico, uno Stato embrionale, onde si spiegherebbe, per esempio, quel jus vitae et necis, diritto di vita e di morte, che altrimenti parrebbe ingiustificabile, e che costituirebbe, non un diritto del pater familias, ma una potestà sovrana del capo dello Stato sui componenti di questo Stato embrionale.
Anche ad accettare questa teoria del Bonfante, che ora raccoglie il maggior numero di consensi, si ha una concezione della famiglia che mal si attaglia alla definizione che si introduce nel progetto di Costituzione. A me pare, ripeto, che di questa definizione si possa fare a meno, dato che ciò che si vuol fissare è il principio che lo Stato riconosca i diritti della famiglia così come essa è ora in questa società in cui viviamo ed in cui viene a porsi la Costituzione che stiamo per approvare.
Io quindi sarei senz'altro per la seguente formulazione: «La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo con speciale riguardo alle famiglie numerose». In tal modo l'articolo 23, privo della inutile definizione, non può non incontrare il plauso di quanti pensano che è necessario rafforzare il nucleo familiare, salvaguardarne i diritti, assumerne la tutela da parte dello Stato, ottenendo così che ogni cittadino possa crearsi una famiglia, e possa nello stesso tempo avere in essa quella sufficienza economica che ora non tutti trovano nel nucleo familiare.
Ma l'articolo che molto ha richiamato l'attenzione degli onorevoli componenti dell'Assemblea, e che ha suscitato qualche reazione nell'opinione pubblica, è l'articolo 24: «Il matrimonio è basato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi».
Diceva l'onorevole Crispo, ed è stato ripetuto ieri dall'onorevole Calamandrei, che essi intendono l'uguaglianza morale dei coniugi, ma non intendono l'uguaglianza giuridica di essi. E si riportavano alle norme del Codice civile, il quale dà al marito una posizione preponderante, di supremazia, nella società familiare trovando in ciò un ostacolo insuperabile per l'affermazione della parità giuridica dei coniugi.
Noi approviamo questa affermazione della Costituzione: è necessario che si affermi questa parità morale e giuridica dei coniugi. Non troviamo che questa parità morale e giuridica dei coniugi debba essere compromessa dalle necessità proprie della società coniugale. Parità giuridica non può voler dire medesimezza assoluta di attribuzioni.
Ogni qual volta ci si trova di fronte ad una società, qualunque essa sia, e di fronte, quindi, anche alla società coniugale, è evidente che non si può parlare di medesimezza di compiti. Vi può benissimo essere parità giuridica e insieme diversità di attribuzioni. Il necessario è che venga rafforzata e cementata questa speciale società, che è la società familiare, poggiandola sulla perfetta parità morale e sulla perfetta parità giuridica dei coniugi, pur avendo presenti i compiti diversi che essi assolvono.
L'articolo, affermata tale parità, continua entrando in quello spinoso argomento che è l'indissolubilità del matrimonio.
Non vorrò io riprendere quanto è stato così profondamente e così brillantemente trattato ieri e dall'onorevole Calamandrei e dall'onorevole Cevolotto. Noi facciamo, innanzi tutto, una questione, dirò così, topografica. È stato già detto e ripeto ancora oggi che, per noi, non è affatto necessario che di questo argomento si parli nella Costituzione. Pensiamo, anzi, che di esso non si debba far parola; la questione non è di natura costituzionale. Non c'è alcuna Costituzione che accolga una formulazione simile a quella contenuta nell'articolo 24 del nostro progetto: è materia, questa, esclusivamente di Codice civile.
Noi non intendiamo affrontare la questione spinosa del divorzio. Pensiamo che nel momento che l'Italia attraversa, quando tanti bisogni urgono e tanti problemi aspettano una loro risoluzione, non si debba risollevare la questione del divorzio. Potremmo anche dire un'altra cosa, e cioè che quelle classi che noi soprattutto rappresentiamo non sentono questo problema, e non lo sentono per un duplice ordine di ragioni: prima, perché sono pressate da ben altri problemi che occorre prontamente risolvere e poi perché del problema stesso ad esse sfugge il punto di vista giuridico. Da qui bisogna trarre una considerazione che ha la sua importanza. Ieri l'onorevole Calamandrei con brillante parola discorreva del divorzio nei rapporti delle classi ricche, e, in definitiva, egli diceva che queste classi in questo momento hanno il divorzio in Italia, mentre la legge fissa l'indissolubilità del matrimonio. Ma è da osservare che il divorzio lo hanno anche le classi umili, con questa differenza: che la classe ricca trova modo di sistemare giuridicamente la situazione, mentre la classe povera non ha la preoccupazione di tale sistemazione giuridica. Il povero fa ben altro: nel momento in cui la famiglia, che egli ha creato, diviene insostenibile, in quanto il legame di amore e di fede diventa legame di odio, ed egli pensa che debba essere spezzato, lo spezza senz'altro. Io stesso so per scienza diretta di matrimoni celebrati con la festa tradizionale, senza che intervenisse né l'ufficiale dello stato civile, né il parroco, dato che uno dei due coniugi era legato giuridicamente con altra persona. Specialmente nel ristretto ambiente di piccoli paesi montani del Mezzogiorno d'Italia, questi matrimoni sono considerati matrimoni perfettamente validi, pur non intervenendo né l'ufficiale dello stato civile, né il sacerdote. (Commenti). È proprio così, ed io ne parlo per scienza diretta. Ed è un fatto che si rinnova con una certa frequenza, specialmente oggi, oggi che tanti giovani, che sono stati assenti per lunghi anni per ragioni di guerra o di prigionia, tornati a casa hanno trovato il loro nido familiare sconvolto, e aumentato il numero dei loro familiari. Qualcuno si è deciso per il colpo di pistola, ed ha risolto la questione in questo modo; ma altri hanno pensato senz'altro di abbandonare la famiglia. Ma non hanno sentito di poter abbandonare anche la speranza, il bisogno intimo e profondo di crearsi un'altra famiglia, di dover considerarsi finiti dopo aver dato alla loro Patria quattro o cinque anni di sofferenze, ed hanno fatto una cosa semplice: hanno fatto un divorzio per conto loro, hanno creato una famiglia che giuridicamente è illegale, ma che così non è appresa dall'ambiente in cui vivono.
E accade in tal modo che, a causa dell'indissolubilità del matrimonio affermata dalla legge, si creino queste unioni illegali, che però non sono giudicate immorali dall'ambiente in cui il fatto avviene.
A proposito di questo problema così pressante ed urgente, io, come Ministro della giustizia, posso per esempio dire agli onorevoli colleghi che sono molteplici e continue le istanze che mi pervengono da ogni parte d'Italia perché si faciliti la procedura di disconoscimento della paternità, e mi si fanno premure perché si approvi un provvedimento, che del resto fu proposto anche nel dopoguerra passato. Intendiamoci: una cosa è la indissolubilità del matrimonio di fronte ad una situazione normale ed ordinaria ed un'altra di fronte ad una situazione eccezionale. Così come si hanno tremila omicidi all'anno in Italia, è naturale che si abbiano, poniamo, centomila adulteri, per essere un po' pessimisti; ma quando avviene una guerra mondiale come quella che è avvenuta, anche l'adulterio non si tiene più nei suoi binari normali, e diventa un fenomeno sociale così straordinario, così eccezionale che non si trova affatto illogico che si vada incontro ad esso con una norma altrettanto straordinaria ed eccezionale.
Nel dopoguerra passato fu proposto un provvedimento di scioglimento di matrimonio, destinato appunto a migliaia di soldati che tornando avevano trovato sconvolto il loro nido familiare, tale cioè da spezzare la possibilità di ogni convivenza. Ed io ricordo la risposta che diede per le stampe un insigne rappresentante del partito popolare, del partito cioè democristiano di allora, che trovò da obiettare una cosa sola. Disse: il caso è veramente eccezionale, veramente straordinario; ma poiché noi siamo sicuri che esso non si ripeterà, perché l'umanità, dopo questo grande bagno di sangue, va sicuramente verso un lunghissimo periodo di pace, a noi non pare che sia il caso di adottare provvedimenti eccezionali.
Purtroppo la realtà lo ha smentito in maniera violenta e terribile. Ma nessun altro argomento quell'uomo, che pur era per l'assoluta indissolubilità del matrimonio, trovò da opporre. Penso che sia da esaminare la possibilità dello scioglimento almeno in questo caso, quando, cioè, per ragioni di guerra, il marito è stato lontano per anni e trova il nucleo familiare sconvolto, ed aumentato il numero dei suoi componenti.
Ma questa è un'osservazione che ho fatto incidentalmente. La nostra posizione, la posizione che noi assumiamo di fronte all'articolo 24, è che non si tratta di materia costituzionale, e quindi che non c'è necessità di alcuna affermazione di indissolubilità. E v'è un argomento, che è bene ripetere. Essendo stato approvato l'articolo 7, con cui sono stati richiamati quei patti concordatari che fissano l'indissolubilità del matrimonio, è perfettamente inutile — anche per coloro che vogliono che nella Costituzione sia fissato e stabilito il principio — che nell'articolo 24 si inserisca l'affermazione che il matrimonio è indissolubile.
Ripeto: proponendo che questa affermazione venga cancellata dalla Costituzione, noi non vogliamo affatto affrontare la questione del divorzio, perché pensiamo che vi siano problemi molto più urgenti: vogliamo che si faccia la riforma agraria; vogliamo che si faccia la riforma industriale. Del divorzio non è necessario parlare ora; risolviamo questi problemi che sono più pressanti nella vita della Nazione.
[...]
Molè. [...] Dopo aver inteso i discorsi, alcuni veramente notevoli, pronunciati dai rappresentanti di ogni parte dell'Assemblea, io voglio anzitutto, riesaminando l'articolo 23, affermare definitivamente il concetto che bisogna, da questo articolo, estromettere due enunciazioni inutili, o addirittura dannose: la definizione della famiglia, già pericolosa per se stessa come tutte le definizioni, e tanto più quando la definizione non definisce; e l'impegno solenne che alla Repubblica faremmo assumere di provvedere, con speciale riguardo, alle famiglie numerose: impegno, per i suoi riflessi concreti, anche più pericoloso della definizione della famiglia, perché risuscita ingrate memorie.
Cominciamo dalla definizione. L'onorevole Orlando ha autorevolmente negato che la famiglia sia una società naturale. Già io osservo anzitutto, che sarebbe più esatto parlare di comunione naturale, perché la società è fondata sulla comunione di persone e di cose, ma richiama in più l'esistenza di un vincolo di natura contrattuale.
Ma, sia comunione o sia società, non posso non essere d'accordo con l'onorevole Orlando, nel rilevare che quando voi mi parlate di società naturale a proposito di questo istituto che ha riflessi ed aspetti così vari e così numerosi, voi accennate soltanto all'elemento naturale, all'origine fisica della famiglia, che è il presupposto di ogni comunione sessuale, anche del concubitus vagus: ma trascurate gli altri elementi, che individuano e qualificano il nostro istituto familiare e non sono meno importanti, anzi sono, se non più, ugualmente importanti dal punto di vista etico, giuridico, politico.
Fu risposto all'onorevole Orlando che evidentemente egli non aveva inteso il valore di questa definizione, in quanto società naturale vuol significare società di diritto naturale. Ma l'obiezione dell'onorevole Orlando fu così sentita e ritenuta valida dagli stessi democratici cristiani, che l'onorevole Bosco Lucarelli ha inteso il bisogno di proporre un emendamento per spiegare che cosa sarebbe questa società naturale. Non mi pare tuttavia che la soluzione sia felice. Non è facile definire, nella sua complessità, questa vivente e vitale realtà familiare, che costituisce l'istituto fondamentale della vita associata.
E la prova è che invano noi cerchiamo una definizione della famiglia nelle Costituzioni, nelle legislazioni o nei Codici.
Il legislatore romano, che pure ha scolpito nel bronzo dei secoli la stupenda definizione del matrimonio, attraverso la formula di Modestino, non parla della famiglia. Non ne parla nemmeno il Codice canonico, pur così diligente in questo campo e così minuzioso. Non ne parlano nemmeno le Costituzioni recenti. Ne parla lo Statuto irlandese, con una formula che è pressoché identica a quella che ci è proposta. E allora mi perdonino, il mio caro amico onorevole Tupini, Presidente della prima Sottocommissione, e i suoi colleghi valorosi, se io dico che hanno — o Dio! — peccato un po' d'immodestia, e non sono riusciti con la loro formula... irlandese a oscurar la concinnitas concettosa del legislatore romano o la sapienza del legislatore canonico. (Ilarità).
Esaminiamo dunque la formulazione emendatrice e integratrice dell'onorevole Bosco Lucarelli. Noi ritroviamo, forse, più accentuati i motivi della nostra perplessità e del nostro dissenso. Se io devo stare a quello che ho sentito in quest'Aula, e che ho letto nel resoconto più completo e più autorizzato del suo discorso, pubblicato dal Popolo, per l'onorevole Bosco Lucarelli e per i suoi amici, società naturale vuol significare società originaria, fondamentale, di diritto naturale che ha preceduto lo Stato e la legge, che ha una sfera di diritti inalienabili, che lo Stato non può intaccare e deve riconoscere.
È un'applicazione del criterio architettonico della Costituzione e della concezione pluralistica del diritto sociale che ha esposto in quest'Aula l'onorevole La Pira.
Nella sua concezione (ch'egli dice organica) del corpo sociale, fra l'individuo e lo Stato si frappongono le comunità naturali (comunità familiare, comunità religiosa, comunità di lavoro, comunità locale, comunità nazionale) attraverso le quali la personalità umana si svolge, e che hanno diritti originari intangibili. Di questi diritti delle comunioni intermedie che costituiscono i vari status (personale, familiare, religioso, professionale, territoriale) lo Stato, organizzazione complessiva, deve, senza interferire, prendere atto. Poiché questi status sono un prius di fronte allo Stato e alla sua legge, una specie di presupposto necessario e intangibile, lo Stato, se vuole attuare i fini per i quali è costruito, ha appunto il compito (corrispondente ai suoi fini) di garantire i vari status e di tutelare e assicurare con le sue leggi questi diritti originari. Ammettiamo per un momento questa concezione, nella sua rigidità integrale.
Ma la famiglia è una comunione originaria?
Se questa definizione voi l'applicate alla comunione dei credenti, è chiaro che per i credenti la comunione religiosa è una comunione originaria. Per i credenti la divinità precede tutte le cose create: Dio è sempre stato al di sopra della realtà sensibile e delle vicende umane. Erat in principio. È, e come è oggi sarà sempre. Questa verità senza principio e senza fine rivelata dal messaggio precede anche il messaggio: è articolo di fede. La comunione dei credenti in questa verità è dunque originaria.
Ma, io mi domando, se questa concezione di comunione originaria, precedente allo Stato, che prescinde dallo Stato, che vanta diritti preesistenti suoi propri, inalienabili di fronte allo Stato, che dal processo storico di evoluzione delle consociazioni umane non ha avuto nascita e forse nemmeno contributo, che la legge deve semplicemente riconoscere; io mi domando se questa concezione di comunione originaria, nata come Minerva dal cervello di Giove, adulta, armata, autonoma, completa nei suoi organi, definita nei suoi lineamenti essenziali, e però atta al raggiungimento dei fini del progresso umano e della perfettibilità dell'individuo e della società, si possa adattare alla famiglia.
Quale famiglia?
Dopo le epoche del branco umano e delle unioni fuggevoli vennero il matriarcato, la poliandria, la poligamia. Queste furono le comunioni naturali originarie. Ma io mi rifiuto di confondere la famiglia con queste comunioni originarie naturali.
Io parlo della «nostra» famiglia. Noi dobbiamo definire, nella carta statutaria, la «nostra» famiglia. Questa definizione unilaterale, mutilata, manchevole, mortificante, che confonde la inferiorità morale, anzi l'amoralità delle unioni meramente naturali con la sanità morale della famiglia, ed a noi ripugna, tanto più dovrebbe ripugnare anche alla vostra coscienza, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, poiché voi non potete dimenticare, non dovreste dimenticare, che la famiglia ha origine dal matrimonio e che il matrimonio è per i cattolici un Sacramento. Voi lo dimenticate, proprio nel momento in cui, per questo carattere religioso del matrimonio, ne affermate la indissolubilità.
Voi vi fermate alla coniunctio maris et foeminae e dimenticate nientemeno il consortium omnis vitae e la humani et divini juris communicatio. (Commenti).
Perché, se la nostra famiglia origina pur sempre dalla stessa necessità naturale, che strinse le prime comunioni ferine ed umane, è tuttavia un prodotto storico della civiltà condizionata alle necessità economiche, alle credenze religiose, alla evoluzione delle leggi morali e giuridiche. Natura e storia. Al fondo è sempre la stessa realtà insopprimibile, dovuta a un'imperiosa esigenza che sorge con la vita.
È la vita che non vuole morire. È l'istinto dell'uomo che vuole perpetuarsi. È il genio della specie che deve sopravvivere alla morte dell'individuo. Legge di natura: quanto di più naturale ci sia. Questa esigenza, che è una fatalità organica, può definirsi, sì, originaria e anche innata, se è nata con l'uomo, nel momento stesso in cui l'uomo è nato, perché l'uomo non dovesse tutto morire.
Ma la famiglia non è ancora nata. Nascerà molto più tardi.
Non basta questa esigenza originaria.
Oltre questo elemento di necessità vitale, che spiega del resto anche l'amplesso belluino, ma non determina la formazione parentale agli albori della vita umana, ditemi voi quanti altri elementi occorrano perché sorga finalmente l'organismo familiare, ed evolva, si disciplini, si perfezioni, si elevi grado a grado — di pari passo col processo di faticosa elevazione umana — da unione meramente naturale a entità religiosa, etica, giuridica, fino a raggiungere il vertice dell'eticità nella famiglia con un solo padre e una sola madre, che opera quella unità spirituale che fa di due esseri un essere solo per la creazione e l'educazione di altri esseri, e converte, come disse Emanuele Kant, l'amore fisico nel dovere morale; dovere di coabitazione, di fedeltà, di assistenza fra i coniugi, dovere di protezione e di abnegazione verso i figli.
Le fasi di questo processo formativo dell'organismo familiare (matriarcato, poligamia, monogamia) corrispondono alle varie fasi della civiltà umana: dalla caverna alla capanna, alla casa; dalla tribù errabonda al villaggio, alla città, allo Stato; dalla idolatria al paganesimo, alla umanità del messaggio cristiano; dalla pastorizia all'agricoltura, alla civiltà industriale; dalla schiavitù alla eguaglianza degli esseri umani.
La storia della famiglia è la storia dell'umanità, la storia delle religioni, la storia dei valori etici, la storia dei cicli economici, la storia dei sistemi politici, la storia delle trasformazioni sociali.
Così si spiega la complessità di questo istituto che ha elementi, aspetti, riflessi, così ricchi e così vari, che la vostra definizione trascura: da quello religioso che pose alle origini Fustel de Coulanges, per il quale la famiglia sorse dalla religione degli avi, dei penati, dei lari e che afferma con il matrimonio la chiesa cristiana, a quello morale che nella conversione dell'amore in dovere determinò Emanuele Kant; da quello economico, su cui si indugiarono i materialisti storici, a quello giuridico-politico, che misero in evidenza i maestri del diritto romano, e soprattutto il nostro Bonfante, configurando la famiglia come un piccolo stato.
L'istituto della famiglia fu paragonato a un'erma trifronte: come ente politico in quanto la sua unità impone la soggezione gerarchica a un capo; come comunione etica, per il dovere reciproco di fedeltà, di protezione fra i suoi componenti; come nucleo economico, per il patrimonio familiare necessario ai bisogni della vita associata.
Ma se tutto questo fuoriesce dalla formula che voi proponete, noi respingiamo la vostra angusta definizione che non definisce. E non solo non definisce, ma è pericolosa. Perché la concezione pluralistica, che pone fra l'individuo e lo Stato le comunioni originarie, perché l'affermazione delle comunioni naturali che con i loro diritti originari inalienabili si ergono di fronte allo Stato e di fronte alle leggi dello Stato, vi porta a concepire le comunioni, e quindi la famiglia, come stati nello Stato, che possono svuotare di ogni contenuto lo Stato.
Noi ammettiamo questi cerchi concentrici attraverso cui passa l'individuo. È della natura, è della storia, è della necessità umana che l'individuo cerchi di andare verso forme di solidarietà sempre più ampia e più completa. L'uomo solo è meno che nulla: ha bisogno degli altri uomini. Nel suo bisogno di socialità, l'individuo diventa famiglia, si unisce ad altri individui nelle comunioni religiose, professionali, locali. Ma questi cerchi concentrici non sono immobili. Ma fra tutte queste comunioni non ci sono compartimenti stagni.
Si verifica viceversa il fenomeno dei vasi intercomunicanti.
Lo Stato condiziona la famiglia, la famiglia condiziona lo Stato. Esigenze e diritti reciproci devono comporsi fra di loro. Che, se ammettiamo questi sforzi dell'individuo verso forme sempre più ampie di solidarietà umana, attraverso le comunioni intermedie che tutte insieme confluiscono nel corpo sociale, non possiamo concepire uno Stato nello Stato, non possiamo concepire la famiglia contro lo Stato, così come non concepiremmo uno Stato contro la famiglia. Che cosa diciamo noi? Noi diciamo che il diritto individuale, il diritto familiare, il diritto sociale devono armonizzarsi nell'unità dello Stato, che è la suprema organizzazione sociale e politica. E che non ammettiamo una serie di sovranità per sé stanti, che cozzino fra di loro e annullino la sovranità dello Stato. Altrimenti può diventare realtà il pericolo denunciato da questi settori dell'Assemblea. Dalla teoria della famiglia, comunione originaria con diritti intangibili, si può arrivare alla conclusione (e alcuni oratori di sinistra l'han letto in un programma ufficiale della Democrazia cristiana) che l'istruzione è una funzione e un diritto originario della famiglia, e che però, essendo la famiglia arbitra della scuola, lo Stato non può avere — tutt'al più — che una funzione ausiliaria, ancillare di fronte ad essa.
Ma allora noi vi diciamo che, se non vogliamo lo statalismo, la soffocazione della famiglia e delle comunioni, attraverso il monopolio di tutte le attività e funzioni da parte dello Stato, non vogliamo nemmeno l'annullamento dello Stato, lo svuotamento dello Stato di fronte alla famiglia.
Non intendo con ciò dire che a questo programma miri la teoria pluralistica dell'onorevole La Pira: ma la sua teoria contiene questo pericolo. Io apprezzo, stimo, ho un sentimento particolare di affetto per l'onorevole La Pira, perché nella freschezza del sorriso e nella purezza dell'animo dà la sensazione, la visione dello stato di grazia: egli è un santo. Ricordo però che i santi, quando legiferarono, furono qualche volta dei pericolosi legislatori. (Ilarità).
E allora, o signori, lasciamo stare tutte le definizioni tendenziali e finalistiche, di destra o di sinistra, di natura filosofica o d'ispirazione teologica che, prestandosi ad particolare orientamento di un partito, è naturale non soddisfino gli altri. Noi facciamo una Costituzione. Già si è osservato che nelle Costituzioni le definizioni sono fuori posto. Comunque, noi dobbiamo fare una Costituzione per tutti. E poiché non troviamo una formula che ci unisca tutti e ci soddisfi tutti, quale valore ha una definizione che non definisce e presenta il pericolo di indirizzi equivoci e di interpretazioni tendenziose?
Onorevole Tupini, rinunciamo alla sapienza... irlandese (Si ride) e torniamo al legislatore romano e al Codice canonico, che hanno definito il matrimonio, ma non hanno mai cercato di definire la famiglia.
Nei Codici noi troviamo soltanto l'enumerazione dei parenti, degli ascendenti, discendenti, collaterali, affini: delle stirpi, dei gradi, delle generazioni. Contentiamoci dei Codici. Rinunciamo alla definizione.
La famiglia è quella che è. E non è con un articolo di statuto o di Codice che se ne suggerisce il concetto o se ne ispira il sentimento. Si sente o non si sente. È qualche cosa di augusto, di santo che portiamo prima che nel cervello nell'anima: nessuno va a leggere i testi storici e filosofici, le Costituzioni e i Codici, per sapere che cosa è questa comunione dei vivi e dei morti che va dalle culle alle tombe: il consorzio di tutta la vita, il focolare, la casa, i figli che crescono intorno al padre augusto e alla madre veneranda.
[...]
L'articolo 24 dice: «Il matrimonio è basato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Che cosa significa? Noi abbiamo sancito la parità morale, sociale, politica dell'uomo e della donna, alla quale abbiamo anche garantito condizioni uguali di lavoro e di guadagno. Ma una perfetta uguaglianza — non morale, che è indiscutibile — ma giuridica possiamo garantirla nella famiglia? Questo è il problema. E io non vorrei, per averlo posto, che le nostre gentili colleghe di deputazione, onorevole Iotti, onorevole Mattei, onorevole Rossi, pensassero — come pare — che sia in me la preoccupazione di svalutare o deprimere la funzione della donna moderna.
Che cosa credono? Che io voglia riportarle alla conocchia e al fuso? Che io sia un nostalgico adoratore della donna di cento o di cinquecento o addirittura di mille anni fa, alla quale si attagliava l'epigrafico elogio latino: Domo mansit, lanam fecit, fidem servavit? Noi ci contentiamo del fidem servavit! Il resto è finito senza rimpianti. (Si ride). Perché la donna ha dato tali prove delle sue molteplici capacità in tutti o quasi tutti i campi dell'attività umana che le abbiamo schiuso tutte le porte, anche quelle del Parlamento. È entrata nella vita pubblica senza uscire dalla vita privata. Oggi l'uomo e la donna sono sullo stesso piano. Ma non nell'ambito della famiglia. Ora è questo il problema che ci pone ex novo la formulazione dell'articolo 24.
L'articolo 24 stabilisce un principio di parificazione assoluta, che non era nei Codici. Costituisce dunque una innovazione. Ha dunque uno scopo. Avrà dunque delle conseguenze. Esaminiamo lo scopo e le conseguenze di questa innovazione.
L'onorevole Guardasigilli ha trascurato questo esame, ma questo esame è necessario, per stabilire se il nuovo principio costituzionale, che deve dare l'orientamento alla nuova legislazione, non è in contrasto con le vigenti disposizioni, soprattutto con quelle che attengono alla unità della famiglia. Parità fra i coniugi, siamo d'accordo. La posizione della madre non dev'essere inferiore a quella del padre di fronte ai figli: chi può metterlo in dubbio? Io dirò qualcosa di più. Che la madre, per certi riflessi di natura e dal punto di vista sentimentale, è forse superiore al padre: è la più alta espressione, il cardine, la forza di coesione della famiglia: per i figli è l'immagine stessa della purità, della abnegazione, del sacrificio che riscatta nella maternità la stessa miseria del sesso. Madre, cioè, non più donna, nella religione familiare: madonna.
Ma io vi pongo il problema concreto della direzione interna e della rappresentanza esterna della famiglia.
La famiglia è un organismo complesso: noi ne abbiamo rilevato i suoi molteplici aspetti. Abbiamo detto poco fa che questa comunione è il nucleo essenziale dello Stato; è una specie di piccolo Stato nello Stato. E come in qualunque comunione, l'unità non può e non dev'essere diretta e rappresentata che da uno solo.
Questo piccolo Stato non può non avere chi lo personifichi. Non sarà la monarchia familiare di Giovambattista Vico. Non lo vogliamo. Ma nemmeno l'anarchia familiare. Sarà la Repubblica familiare. Ma con un capo. Ogni organismo collettivo ha un esponente che lo rappresenta e disciplina. L'ha anche questa Assemblea. L'ha finanche il Partito comunista. È inevitabile che l'abbia una comunione complessa e permanente come la famiglia. Credete voi per ragioni di predominio? No. Per l'esigenza insopprimibile di funzionamento organico, che assicuri il raggiungimento dei suoi fini.
Io non vi leggo gli articoli del Codice che presiedono al funzionamento organico e assicurano l'unità della famiglia. Voi li conoscete.
Il Codice dice che la moglie segue la condizione del marito, ne assume il cognome, è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli fissi la sua residenza; che il marito deve mantenerla e proteggerla, che ha la patria potestà sui figli, che deve accettare l'eredità, ecc., ecc.
È una serie di attribuzioni in cui la legge determina i poteri di direzione interna e di rappresentanza esterna del marito: cioè la preminenza giuridica del marito.
Ebbene, onorevoli colleghi, io non capisco come l'onorevole Guardasigilli abbia potuto affermare che la norma dell'articolo 24 non ferisce profondamente l'unità della famiglia e la sua costituzione secolare, quale risulta dal Codice.
Se la Costituzione determina e indirizza la norma positiva dei Codici, che non possono essere in contrasto con la Costituzione, poiché l'articolo 24 della Costituzione sancisce la perfetta eguaglianza giuridica, è evidente che gli articoli del Codice vigente, che contrastano con questa eguaglianza, non possono né resistere, né sussistere.
Eguaglianza giuridica fra coniugi significa infatti che non c'è più un pater familias, non c'è più chi la rappresenti, non c'è più chi dà il nome alla moglie e ai figli, non c'è più chi possa e debba fissare il domicilio, non c'è più il marito che possa dire alla moglie: «tu mi devi seguire».
Chi dà il nome? Chi determina la coabitazione? Chi avrà nella nuova famiglia l'attribuzione di questi poteri? Io non mi soffermo — come vedete — sui poteri di rilevanza economica e nemmeno sulla generica dichiarazione che il marito è il capo della famiglia. La famiglia ha una sua intima disciplina, creazione spontanea della quotidiana collaborazione e delle affinità spirituali: la gerarchia non s'impone con la norma del Codice, che interviene solo quando l'unità è già spezzata.
Ma ci sono alcuni poteri del marito, che sono esclusivi suoi propri, che hanno fondamento in imperiose esigenze di natura, che gli sono attribuiti non nel suo interesse, ma nell'interesse della famiglia. Questi poteri costituiscono le colonne d'Ercole, dinanzi alle quali deve arrestarsi ogni rivendicazione di parità femminile. E sono il diritto del marito a dare il nome, a determinare il domicilio, a imporre la coabitazione della moglie col marito. Ho letto proprio in questi giorni che c'è un grande paese, in cui l'uomo e la donna sono entrambi liberi di assumere l'uno o l'altro dei rispettivi cognomi e di scegliere il loro domicilio o di mantenerlo — ciascuno — per conto suo. Me ne dispiace: ma su questo campo non mi sento di seguire codesti paesi evoluti. Perché la promiscuità dei cognomi o l'assunzione del cognome della donna, e l'indipendenza e pluralità dei domicili segnerebbero la disgregazione della famiglia. Sarebbe il commercio girovago dei sessi senza ditta familiare, finirebbe la continuità e la sicurezza delle geniture. Vi pare piccola cosa questa forzata unità del nome, quest'obbligo della convivenza, questo comando della legge: la moglie deve seguire il marito? È su questa piccola formalità che riposa la certezza della paternità per i figli.
Se noi non fissiamo quest'obbligo del nome e della coabitazione, noi togliamo di mezzo la legittima presunzione della paternità. La togliamo di mezzo in questo campo misterioso della natura, l'arcano della procreazione, in cui l'amore è cieco, la determinazione dell'amplesso fecondo è impossibile e il padre è sempre putativo. (Si ride). I padri sono certi legalmente: dal punto di vista della prova non v'è certezza assoluta, non avete che una presunzione di certezza, attraverso il nome e la coabitazione. Mater semper certa, pater incertus. Pater est is quem justae nuptiae demonstrant. Si presume che sia il marito della madre, cioè colui di cui ella porta il nome. Ma il presupposto di questa presunzione è la coabitazione continua della madre col padre.
I vecchi giuristi riconobbero nel matrimonio la pietra angolare della famiglia, proprio per questo: perché il matrimonio è l'istituto fondamentale della ricerca della paternità, in cui la prova è regolata formalmente. Tanto vero che se uno dei coniugi abbandona l'altro, sorge il motivo della separazione coniugale, e ai figli che nascessero dalla moglie lontana dal marito — nel tempo decorso dal 300° al 180° giorno anzi nascita — mancherebbe la presunzione legale della paternità del marito, perché la paternità presunta finirebbe di esistere di fronte alla impossibilità fisica della paternità. L'articolo 235 autorizza il disconoscimento. E l'articolo 244, in base al criterio della ripresa della coabitazione e della fine della lontananza, fissa i termini di decadenza dell'azione.
Ora io vi pongo il problema che è insieme giuridico e pratico. Che avverrebbe di queste norme del Codice, che riassumono la sapienza e la esperienza di secoli nel fissare e perfezionare l'istituto fondamentale della famiglia, se accettassimo in pieno l'assoluta parificazione dei diritti dei coniugi? Evidentemente queste norme verrebbero meno. Crollerebbero i cardini della famiglia.
Nello stesso momento, in cui ci preoccupiamo di dare un padre — e sarà un titolo di onore per questa Costituente — ai figli che non lo hanno, lo toglieremmo a quelli che lo hanno. Colpiremmo i figli legittimi, mentre ci apprestiamo a sollevare la inferiorità dei figli illegittimi.
No. Non è possibile. Possiamo porre sullo stesso piano morale l'uomo e la donna. Ma non possiamo disconoscere la diversità del compito e delle loro funzioni nella famiglia.
C'è un ostacolo di natura.
Quella piccola, piccola differenza che è fra l'uomo e la donna. (Si ride).
Jaurès, che fu un così fervido sostenitore della parità, aggiunse tuttavia che è ridicolo pretendere che la donna diventi uomo e l'uomo diventi donna.
Onorevoli colleghi, voi non potete sovvertire la natura senza sovvertire la morale e il diritto. Dipende dal modo come si nasce. (Ilarità).
La natura dice che i figli li fa la madre; e la madre è sempre certa, il padre incerto. La legge segue la natura. Impone alla moglie il nome del marito e la coabitazione perché questi due elementi danno la certezza del padre e la sicurezza delle geniture. E senza la certezza del padre e la sicurezza della genitura non esiste la famiglia.
Tutela i figli nella famiglia. I figli soprattutto. Noi dobbiamo perciò mantenere i diritti che la legge dà al marito nell'interesse dei figli.
[...]
Nobile. [...] Su questo Titolo dei rapporti etico-sociali mi riservo di presentare qualche emendamento che, a suo tempo, quando si passerà alla discussione degli articoli, illustrerò concisamente. Qui, in sede di discussione generale, desidero esporre il mio punto di vista sulla questione dell'indissolubilità del matrimonio, né vi meraviglierete, spero, che scelga proprio questo tema così difficile e delicato. Dopo tutto, si tratta di una questione sulla quale chi sia capo di famiglia ed abbia una lunga esperienza di vita è competente a parlare, e la mia esperienza forse si è notevolmente accresciuta con le osservazioni che ho potuto fare durante i molti anni che ho soggiornato negli Stati Uniti d'America e nella Russia sovietica. Alla compilazione della Carta costituzionale ognuno di noi ha il dovere di apportare il proprio contributo, qualunque esso sia, e questo dovere si impone con maggiore forza quando si tratta di dettare le norme per un istituto che, come quello della famiglia, è alla base della società umana, e della cui integrità noi italiani siamo particolarmente gelosi.
L'articolo 24 del progetto che stiamo esaminando stabilisce che la legge regola le condizioni dei coniugi, al fine di garantire la indissolubilità del matrimonio e l'unità della famiglia. Con la discussione di questo articolo, inevitabilmente, si è ripresentata, ancora una volta, nei dibattiti della vita pubblica italiana, la questione del divorzio.
Si fa notare che l'Italia è uno dei pochissimi paesi dove la legge non ammette il divorzio. Le dita di una mano sono anche troppo per contarli: la Spagna, l'Irlanda, l'Italia e qualche altro Stato. In Irlanda il divorzio assoluto, cioè l'annullamento, richiede niente di meno che uno speciale atto del Parlamento, ed è perciò costoso e rarissimo. In Italia il Codice civile considera alcuni casi di annullamento, ma altri casi, ben più numerosi e complicati, contempla il diritto canonico. Tuttavia questi annullamenti in Italia sono molto rari, ammontando, nel complesso, a poche diecine: cinquanta o sessanta all'anno. Nel 1940 su 122 istanze si ebbero 65 annullamenti. Nello stesso anno la Sacra Rota annullava, su 80 ricorsi presentati, 15 matrimoni. Ma in altri paesi o quasi completamente cattolici o solo in parte cattolici, quali ad esempio la Francia, l'Austria, la Germania, gli Stati Uniti d'America, la legge civile ammette il divorzio, e bisogna riconoscere che, a lungo andare, anche molti cattolici finiscono col ricorrervi. D'altra parte, per quello che mi consta, negli Stati Uniti la Chiesa cattolica, pur non ammettendo un nuovo matrimonio, non proibisce ai fedeli di ricorrere alla procedura del divorzio quando si tratti di assicurarsi gli alimenti; ma è chiaro che una volta che il cattolico abbia riconquistato la sua libertà col divorziare legalmente, finisce poi assai spesso col disobbedire all'obbligo fattogli dalla Chiesa; sicché, almeno nei casi più gravi, è difficile che la professione di fede cattolica costituisca un ostacolo insormontabile al contrarre nuove nozze. Certa cosa a me pare che la frequenza dei divorzi nei paesi occidentali, più ancora che con la fede religiosa, sia collegata coi costumi e le condizioni sociali, altrimenti non si spiegherebbe il fatto curioso che nella protestante Inghilterra il numero dei divorzi nell'anno, ad esempio, 1927, per considerare un anno normale nel periodo di pace, era di soli 2671, mentre nella cattolica Francia se ne avevano ben 18.487, cioè circa sette volte di più.
Nei Paesi dove il divorzio esiste, il numero di essi è in continuo aumento, non solo in senso assoluto, ma anche in rapporto alla popolazione o al numero dei matrimoni, indice, questo, indubbio di una crescente instabilità dell'istituto familiare. Per 22 Paesi europei la media annuale dei divorzi su ogni cento matrimoni è aumentata da 5,16 nel 1931 a 5,77 nel 1934, considerevole aumento trattandosi di un periodo di soli tre anni. Ma negli Stati Uniti d'America l'aumento è spaventoso: mentre nel 1870 per ogni 10.000 persone coniugate ve ne erano 81 divorziate, il numero di queste nel 1900 era cresciuto a 200 e nel 1928 a 400. Nel settembre dell'anno scorso la Federal Security Agency annunciava che nel 1945 si era avuto niente meno che un divorzio per ogni tre matrimoni, esattamente 502.000 divorzi su un milione e 618.331 matrimoni.
È vero che si deve tener presente che un incremento eccezionale dei divorzi nell'immediato dopo-guerra è un fenomeno costante; ma pur tenendo conto di ciò, non si può negare che la proporzione dei divorzi negli Stati Uniti d'America sia giunta a tal punto da costituire un pericolo serio per la saldezza dell'istituto familiare.
Del resto, a chi ha vissuto a lungo in quel paese sono ben note l'estrema facilità con cui le unioni matrimoniali vi si contraggono e vi si sciolgono, la lassità dei legami familiari che da ciò deriva e la diminuita autorità dei genitori sui figliuoli, la cui indipendenza raggiunge talvolta limiti per noi incredibili. Ricordo il caso, capitato a New York, di una fanciulla di sedici anni, appartenente a famiglia oriunda italiana, la quale citò il proprio genitore davanti al magistrato, accusandolo di averla violentemente redarguita perché abitualmente tornava a casa tardi nella notte, dopo essersi accompagnata coi suoi amici. E il magistrato diede ragione alla fanciulla, trattando il padre da uomo di altri tempi. Del resto si conoscono dati che veramente ci riempiono di stupore sulla corruzione giovanile negli Stati Uniti. Ne citerò uno solo: la massima parte delle fanciulle delle High Schools, che corrispondono press'a poco al nostro ginnasio, giungono all'ultimo anno di corso senza essere più vergini. A proposito di ciò comparve sulla rivista Liberty una serie di articoli impressionanti di una signora che da molti anni era sponsor di un collegio di ragazze.
Le cause del grande, preoccupante accrescersi dei divorzi in America, come, sebbene in minor misura, anche negli altri paesi del mondo, non possono non mettersi in relazione con le trasformazioni sociali che hanno avuto luogo nell'ultimo secolo per effetto dell'industrialismo, trasformazioni che hanno dato come risultato l'emancipazione economica della donna. La parte sempre maggiore che questa prende alla vita economica, distraendola dalle attività familiari e rendendola sempre più economicamente indipendente dal marito, porta inevitabilmente all'indebolimento dei legami familiari.
Le unioni matrimoniali in America dipendono più che da ogni altra cosa dall'attrazione sessuale e dalle esigenze della personalità. Sui legami della famiglia prevalgono gli egoismi individuali. In molti casi il matrimonio è considerato dalla donna americana semplicemente come un mezzo per conquistarsi una posizione sociale. Per migliorare questa, dopo un primo marito essa passa ad un secondo e poi ad un altro ancora, percorrendo per così dire una specie di carriera matrimoniale.
Fino a qual punto l'enorme numero di divorzi che hanno luogo in America sia conseguenza della facilità con cui il divorzio stesso viene concesso dalla legge, talvolta per i motivi più futili e ridicoli, è difficile stabilire. Sono i costumi che fanno le leggi, ma certamente queste a lor volta reagiscono sui costumi. Vi sono Stati dell'Unione nord-americana dove si può cambiare moglie o marito con la facilità con cui si cambia una casa d'abitazione. A Reno si concede il divorzio dopo avervi soggiornato solo pochi giorni.
È interessante a questo riguardo citare l'esperienza russa. Nel 1931, quando per la terza volta tornai nell'Unione Sovietica, trovai che la famiglia era in piena dissoluzione: l'aborto era ammesso legalmente come diritto che non si potesse negare a nessuna donna, in nessun caso; il divorzio estremamente facile. Bastava la denuncia allo stato civile di una sola delle due parti, perché l'unione precedentemente registrata venisse considerata come sciolta, e si potesse procedere a contrarre nuove nozze, le quali d'altra parte non richiedevano alcuna formalità, bastando la semplice richiesta di registrazione. Anzi si poteva fare a meno anche di questa, perché era riconosciuto il matrimonio di fatto.
Le conseguenze di questo stato di cose furono talmente disastrose che la legge dovette correre ai ripari. L'aborto fu proibito, tranne nei casi in cui la sua necessità fosse riconosciuta dai sanitari per salvare la vita della donna, con leggi che rapidamente divennero sempre più severe. In quanto al divorzio si cominciò con accrescere le tasse richieste per la registrazione. Ma, più tardi, la sola denunzia non bastò più: la legge prescrisse che solo il magistrato aveva facoltà di sancire il divorzio.
Con questi provvedimenti restrittivi, la ricostruzione della famiglia procedette a larghi passi. Oggi la Russia è uno dei paesi dove indubbiamente il divorzio è meno facile, anche perché chi vi ricorre senza ragioni molto serie si espone al pubblico disprezzo.
Come si vede, le due grandi Confederazioni, la nord-americana e la sovietica, hanno proceduto in senso nettamente opposto: negli Stati Uniti si va verso un progressivo indebolimento dell'istituto familiare; in Russia verso un rinsaldamento di esso. Ora, queste due esperienze ammoniscono ad essere molto guardinghi, a resistere alle suggestioni di coloro che patrocinano il divorzio.
Nei Paesi delle grandi democrazie occidentali, la propaganda per il divorzio si basa sull'affermazione che la felicità matrimoniale sia possibile solo quando il legame coniugale armonizzi con quello dell'affetto; e, con ciò, si giunge all'estrema conseguenza di ammettere il divorzio per semplice e mutuo consenso, senza alcun riguardo alle conseguenze che ne possono derivare.
Contro questa, che io giudico una aberrazione, il popolo italiano è bene in guardia. Esso, per istinto, nella sua enorme maggioranza, non vuol sentir parlare di divorzio, nemmeno oggi quando, per le condizioni create dalla guerra, tanti matrimoni sono rotti e tante separazioni legali hanno luogo, come ci ha anche ricordato l'onorevole Cevolotto.
Nel divorzio, il popolo italiano istintivamente scorge un pericolo per l'istituto familiare. Certo, non si può negare che vi siano casi in cui il divorzio riuscirebbe a dare pace, tranquillità, felicità forse, a persone che con un matrimonio infelice hanno perduto questi preziosi beni. Ma il legislatore deve porsi il quesito se, per soddisfare alle esigenze sia pure giustificate d'un singolo individuo, non ne venga un danno ad altri cento, ad altri mille. Si potrebbe, ad esempio, ammettere il divorzio nel caso di adulterio, ma, una volta aperta una breccia nell'indissolubilità che oggi protegge la famiglia italiana, sarà poi difficile impedire che la breccia si allarghi.
È certissimo che vi sono matrimoni così mal riusciti che hanno tramutato il focolare domestico in una bolgia infernale. E ben si vorrebbe, concedendo in tal caso il divorzio, dare al coniuge incolpevole la possibilità di rifarsi una famiglia; ma bisogna aver riguardo alle conseguenze che possono derivarne all'intera collettività. Ammesso infatti il divorzio in un caso, sarà difficile al legislatore resistere alle pressioni per estenderlo ad altri casi analoghi.
I fautori del divorzio sostengono che esso condurrebbe alla diminuzione del libertinaggio, del numero dei suicidi, dei nati illegittimi e adulterini, dei reati contro il buon costume e dell'ordine delle famiglie. In quanto a quest'ultimo è difficile sostenere tali asserzioni con argomenti validi.
Il fatto è che l'istituzione del divorzio diventa fatalmente un incitamento al divorzio. Quando si giunge, come ho detto che avviene in America, alla proporzione di un divorzio per ogni tre matrimoni, non si può più parlare di ordine familiare, perché si finisce talvolta coll'arrivare a situazioni così complicate e strane nel campo dei rapporti fra figli e genitori che realmente l'ordine della famiglia è completamente distrutto.
In quanto agli altri argomenti, mi si consenta citare, a conforto del mio assunto, qualche dato statistico.
Il numero dei figli illegittimi in Italia, prima della guerra (1931), fu del 5,1 per cento dei nati vivi. Ma, nello stesso anno — se si fa eccezione dell'Inghilterra, dove la percentuale fu del 4,4 per cento, e degli Stati Uniti, dove, nonostante l'enorme numero di divorzi, si ebbe in quell'anno una percentuale del 3,5, e dell'Irlanda dove fu del 3,4 per cento — in tutti i paesi, dove esiste il divorzio, la percentuale degli illegittimi sui nati vivi fu ben più alta che non in Italia. Cito la Francia col 7,9 per cento, la Germania con l'11,7 per cento, la Svezia col 16,3 per cento. Ad ogni modo sempre la media italiana resta notevolmente al di sotto della media che si ha in tutti i paesi europei, media che dal 1930 al 1934 si aggirò attorno al 7,5 per cento.
Gravi, fondamentali obiezioni possono farsi contro l'istituzione del divorzio in Italia. Esso, almeno oggi, ripugna alla coscienza del nostro popolo, e soprattutto all'enorme maggioranza delle nostre donne. Si comprende bene, che in un paese dove la donna economicamente è ancora così strettamente dipendente dall'uomo, essa rifugga da un istituto che inevitabilmente minaccerebbe la stabilità del matrimonio.
E tuttavia, onorevoli colleghi, vi sono casi atroci in cui, nel superiore interesse della pubblica moralità, bisognerebbe concedere, non dirò il divorzio, ma lo scioglimento stesso e l'annullamento del matrimonio.
Alludo a taluni casi di grave indegnità, morale. Ad uno mi riferisco più particolarmente, al quale hanno accennato anche l'onorevole Cevolotto e l'onorevole Gullo, quello del soldato che tornando dal fronte, o dalla lunga prigionia, trova il focolare domestico irrimediabilmente devastato da una donna indegna che, approfittando dell'assenza del marito, esposto ai rischi mortali della guerra, lo ha tradito, nel modo più abbietto, né di ciò s'è mostrata pentita, nemmeno quando l'uomo generosamente era disposto a perdonare. In casi come questi, ed altri consimili, come negare al disgraziato che si trova ad essere legato ad una donna così degradata, come negargli la possibilità di farsi legalmente un'altra famiglia?
Si obbietta. Ma concedendo la liberazione formale da un vincolo matrimoniale già irreparabilmente infranto, il legislatore verrebbe a premiare il colpevole. Giustissimo; un tal premio non si dovrebbe concedere. Al coniuge che si fosse comportato nel modo indegno che ho accennato dovrebbe essere negata la possibilità legale di nuove nozze.
In conclusione, onorevoli colleghi, sono avverso alla istituzione del divorzio; ma vorrei vedere accresciuto il numero dei casi in cui il matrimonio possa legalmente dichiararsi nullo.
Certamente io ignoro quale sia la formula giusta che bisognerebbe al riguardo inserire nella Costituzione, pur conservando l'articolo 24 tale come è. Ma quello che so è che il problema esiste, e che dovrebbe essere risoluto se non si vuole profondamente turbare l'ordine sociale.
Mi sia permesso fare — col dovuto rispetto — un'osservazione.
Il diritto canonico contempla una quantità di casi di annullamento del vincolo matrimoniale. Uno d'essi mi ha colpito in modo particolare: quello in cui nel contrarre il matrimonio sia stata apposta una condizione contra bonum sacramenti, cioè contro il principio dell'indissolubilità. La Congregazione del Sant'Uffizio il 6 aprile 1843 emanava una istruzione in cui si dichiarava: «certum est matrimonium contractum cum conditione ipsius substantiae et nominationi ipsius indissolubilitati repugnante, nullum esse». Questo caso offre la possibilità almeno teoricamente a cattolici poco scrupolosi di ottenere il divorzio in un paese dove esso non esiste, come è il nostro. Basterebbe, ad esempio, che nel momento di contrarre il matrimonio i futuri coniugi s'impegnino con clausola tenuta segreta a sciogliere il matrimonio, quando si verifichino date circostanze. Se non vado errato, alcuni anni fa si ebbe il caso clamoroso di un'alta personalità che ebbe annullato il matrimonio precedentemente contratto, e dal quale erano già nati dei figli, precisamente per la causa «ob exclusam indissolubilitatem», per avere cioè escluso l'indissolubilità.
A me sembra assurdo che si finisca col concedere quanto precisamente si vorrebbe vietare; ma quello che voglio fare osservare è che, essendovi già tanta varietà di casi in cui si può dichiarare invalido un vincolo matrimoniale, non vedo perché non si possa studiare la possibilità di contemplarne un altro che permetta di annullare il matrimonio, quando uno dei due coniugi si fosse comportato nel modo indegno che ho citato avanti, a proposito dei reduci dalla guerra. Basterebbe, ad esempio, parlare di errore nel consenso.
Sono ignorante di sottigliezze giuridiche, e i competenti potranno a ragione accusarmi di leggerezza parlando come faccio di argomenti così gravi; ma a me pare che una soluzione, nell'interesse della pubblica moralità, bisogna pur trovare al grave problema. È vero che i casi di annullamento sono rari: appena qualche decina all'anno. Tuttavia è diffusa l'opinione che personalità influenti per posizione sociale, politica od economica possano riuscire ad ottenere quello che al comune italiano è negato. (Commenti al centro). Tanto più vero è ciò, in quanto assai frequenti sono i casi di ricchi italiani che ottengono di divorziare in Ungheria, Svizzera o Austria, senza nemmeno perdere definitivamente quella cittadinanza italiana alla quale temporaneamente rinunciano per ottenere il divorzio.
Concludendo, si deve distruggere l'impressione, oggi prevalente nel popolo italiano, che in Italia l'annullamento del matrimonio o il divorzio esistano, ma solo per pochi privilegiati.
[...]
Bruni. Signor Presidente, onorevoli colleghi, gli articoli 23, 24 e 26, che riconoscono i diritti della famiglia e l'indissolubilità del matrimonio, mi trovano consenziente, quanto alla loro sostanza.
[...]
Ruggiero. Onorevoli colleghi, mi intratterrò su questa parte del progetto riguardante i rapporti etico-sociali sugli articoli 23 e 24, considerando questi articoli brevemente solo dal punto di vista strettamente giuridico.
Vi dirò subito, onorevoli colleghi, che questi due articoli, proposti e imposti dai rappresentanti della Democrazia cristiana in seno alla Sottocommissione...
Moro. Sono stati regolarmente votati.
Ruggiero. ... appaiono come lo sforzo di un partito il quale voglia introdurre nella Carta costituzionale i precetti della morale cattolica. Dirò allora, entrando subito in argomento, che per me, per la mia modestissima opinione, questi due articoli sono assolutamente inaccettabili. Sono inaccettabili per vari motivi: primo motivo, essenzialissimo, forse insuperabile è questo: che, secondo me, esiste una incompatibilità insanabile, irriducibile, inconciliabile tra quella che è la natura della Carta costituzionale e i principî affermati in questi articoli. Noi, vedete, onorevoli colleghi, per fare la Carta costituzionale — io non voglio aver l'aria di dare dei suggerimenti — dovremmo tener presente una regola veramente imprescindibile, che è questa; nella Carta costituzionale vanno inseriti i principî, i quali, anche se non riescono a conseguire un'adesione unanime, tuttavia sono profondamente e largamente sentiti dalla collettività; vanno inseriti quei principî i quali abbiano avuto una consacrazione, direi, storica ed etica: quei principî che possano esser considerati come il portato della coscienza comune. Questi sono i principî che vanno nella Carta costituzionale.
E allora, se così è — e ritengo che non possa non essere così — gli articoli 23 e 24 non dovrebbero essere inseriti nella Carta costituzionale, perché, secondo me, sono l'espressione concreta di ideologie particolari e di postulati, che si risolvono — permettetemi di dirlo — in termini di morale cattolica. Quindi, incompatibilità tra le norme particolari affermate da questi principî e la natura essenziale della Carta costituzionale. Badate, noi non vi diciamo che siamo contro il divorzio, perché non entriamo nel merito della questione. Noi vi diciamo: Poiché queste norme, contenute negli articoli 23 e 24, hanno un carattere di innegabile peculiarità, poiché contrastano con la natura essenziale della Carta, non possono entrare nella Carta costituzionale. Questo noi vi diciamo; infatti la Carta costituzionale comporta sempre dei grandi comandamenti, degli imperativi categorici, che impegnano la legislazione di un popolo per generazioni e generazioni. Quindi vanno nella Carta costituzionale solo quei principî che possono conseguire questo elemento, che cioè la collettività si sia messa d'accordo su quel principio, un principio, insomma, che abbia una garanzia di durabilità. Ora, se così è, noi, quando avremo affermato che il matrimonio è indissolubile, che cosa avremo fatto? Avremo escluso per sempre — se la Carta costituzionale deve essere guardata come un fatto che si proietta nel tempo — il principio del divorzio. Ora, noi questo oggi non lo possiamo fare. Perché? Perché noi non possiamo impegnarci per le generazioni venture. In effetti, nel nostro assetto sociale, fino a questo momento, non è mai apparsa questa esigenza forte e urgente del divorzio, tanto è vero che, pur non essendo consacrato il principio dell'indissolubilità del matrimonio nello Statuto albertino, tuttavia da noi non è stato mai fatto nessun tentativo concreto per portare in discussione il problema del divorzio, salvo una piccola discussione, senza conseguenze, che una volta si fece alla Camera in una assai lontana legislatura. Però, noi dobbiamo anche guardare a quelli che vengono dopo di noi.
Una voce al centro. Si modifica la Costituzione!
Ruggiero. E allora non faremmo un documento che si proietta nel tempo, che dura per un lungo periodo di anni. Se ci impegniamo per quelli che verranno dopo, avremo fatto una Carta costituzionale che naturalmente non risponde ai requisiti che deve avere una Carta costituzionale. In questo modo noi, in maniera molto arbitraria, e tenendo presenti solo gli elementi etici di oggi, escluderemmo per sempre, o per un lungo periodo di anni, quello che è il principio del divorzio.
Moro. Si farà una revisione costituzionale.
Ruggiero. Non possiamo, se vogliamo rimaner fedeli al principio che deve informare la Carta costituzionale, non possiamo inserire il principio dell'indissolubilità del matrimonio, perché esso non ha in sé quel carattere di immanenza, non ha in sé quella consacrazione etica, non ha quella portata universale che debbono invece avere tutti i principî che vanno consacrati nella Costituzione.
Vogliamo considerare un po' il divorzio al di fuori di quella che è una valutazione forse troppo settaria, troppo faziosa, troppo personale? Guardiamo il divorzio, per quello che è, nella sua portata etica. Allora noi vedremo che la totalità o, per lo meno, la quasi totalità dei popoli ammette il divorzio. E allora deve nascere in noi questa constatazione: se tutti i popoli ammettono il divorzio, come facciamo noi a considerare il principio dell'indissolubilità del matrimonio come un principio di tale portata da poterlo consacrare nella Carta costituzionale?
Noi non possiamo infatti non tener presente la valutazione che altri popoli fanno di questo istituto, e ciò appunto perché noi vogliamo riguardare questo istituto dal punto di vista della sua eticità.
Io non penso infatti che noi dobbiamo riguardare il popolo italiano come un popolo che abbia diverso substrato etico, e che per esso valgano dei principî diversi da quelli che possono valere per altri popoli civili.
Quindi noi non possiamo ritenere cardinale ed essenziale il principio dell'indissolubilità del matrimonio, per questo motivo di incompatibilità insanabile e irriducibile tra il principio particolare che esprime un postulato ideologico e quello che è il carattere essenziale della Carta costituzionale.
E allora, per rimanere fedeli alla natura della Carta costituzionale, dovremmo arrivare a questa conseguenza logica, che cioè non possiamo consacrare questo principio dell'indissolubilità del matrimonio nella Carta costituzionale. Una questione quindi di incompatibilità, come vedete. Non entro nel merito.
Adesso vi pongo dinanzi ad un'altra valutazione, che è una valutazione, diciamo, di carattere giuridico comparativo. Noi prendiamo tutte le Costituzioni moderne e vediamo se in queste costituzioni si sia fatto cenno del principio dell'indissolubilità del matrimonio. Ebbene, noi vediamo che in nessuna Carta costituzionale si è fatta menzione di questo principio.
E allora vedete che quelle che possono essere le mie opinioni di carattere personale, e quindi di carattere arbitrario, io le riempio di un contenuto di grande valore probatorio, cioè della sostanza politica delle altre Costituzioni.
Non so, quindi, per quale motivo noi dovremmo fare una Costituzione che si discosti da tutte le altre Costituzioni. Allora voi vedete che deve nascere spontaneamente quel senso di diffidenza per cui si dice: qui si vuole includere nella Carta costituzionale qualche cosa che deve rimanere lontano dalla Carta, perché non è compatibile ed è estraneo alla Carta.
È vero che c'è una Costituzione che parla di questo principio, ma non metterebbe conto di richiamarla. C'è una Costituzione che considera il principio della indissolubilità ed è la Carta costituzionale dell'Islanda.
Mi pare che l'Islanda sia una grossa esportatrice di stoccafisso. Non vorrei che diventasse solo per l'Italia anche esportatrice di prodotti costituzionali.
Quindi io mi riferirò alle altre Costituzioni, perché noi, quando facciamo la Costituzione, non possiamo rinunciare alla scienza giuridica di altri popoli, alla esperienza storica degli altri popoli, alla saggezza umana degli altri popoli. Quindi, dobbiamo vedere se esistono per la nostra attività legislativa dei precedenti ai quali possiamo adeguarci. Altrimenti faremo un'opera arbitraria, la quale non trova, e non può trovare, consacrazione nella storia delle Costituzioni degli altri popoli.
Quindi noi fino a questo momento possiamo porre un principio fondamentale, che cioè, senza entrare in merito al contenuto dell'istituto del divorzio o della indissolubilità del matrimonio, noi possiamo affermare che non si può fare l'inserimento di questi articoli nella Carta costituzionale. Perché? Perché l'articolo 23 e l'articolo 24 contengono dei principî e degli interessi particolari, che appunto per essere particolari non sono compatibili con lo spirito della Carta costituzionale.
Ma, onorevoli colleghi, vi è da parte dei democratici cristiani uno speciale atteggiamento per cui queste buone ragioni molte volte non trovano nessun accoglimento da parte loro.
Badate che io ho questa impressione: che gli onorevoli colleghi della Democrazia cristiana non guardino la Carta costituzionale per quella che è o che dovrebbe essere nei suoi elementi costitutivi, nei suoi attributi essenziali, ma la guardino un poco come una occasione di cui approfittare per inserire nella Carta stessa quelli che sono i postulati della loro ideologia. Colgono un poco la palla al balzo. (Commenti). Perché io non posso comprendere come giuristi di esimio valore, quali quelli democristiani, non si siano fermati a considerare che, ad un certo punto, c'è una specie di limite che non può essere superato nella Carta costituzionale; e quindi non si può inserire in questa qualche cosa che non ha niente a che vedere con la stessa Carta costituzionale. Ed allora il partito della Democrazia cristiana ricorre a quello che è il principio della maggioranza. Da parte dei rappresentanti democristiani si pone un articolo, una enunciazione di legge, una proclamazione di principio e lo si fa passare nella Sottocommissione e noi ci troviamo di fronte al progetto della Costituzione.
E poi ci vien detto: anche se questo principio, se questa enunciazione di diritto sia incompatibile con la Carta costituzionale, noi ci avvaliamo della maggioranza e introduciamo egualmente il principio o la enunciazione, se ci fa comodo.
È successa la stessa cosa quando si trattava dell'articolo 7. L'articolo 7 che cosa esprime? L'introduzione di un trattato internazionale nella Costituzione. Ma ciò può avvenire? Ricordo quello che con frase felicemente sintetica disse opportunamente l'onorevole Calamandrei: Se noi avessimo fatto un Trattato internazionale con la Francia, lo avremmo inserito della Carta costituzionale? No! Invece quando si è trattato del trattato internazionale che va sotto il nome di Patti lateranensi esso è riuscito a passare nella Carta costituzionale, anche se rappresenta qualcosa che non ha niente a che vedere con essa.
Vedete dunque come funziona questo principio della maggioranza, che i democristiani raccolgono per forza propria ed anche perché riescono ad attirare altre forze intorno al loro Gruppo.
Ma la maggioranza non può essere considerata al disopra di certi principî fondamentali, perché quando, per esempio, la maggioranza pone un articolo e questo articolo, considerato nella sua natura, è compatibile con la Carta costituzionale, non è estraneo alla Carta costituzionale, non è indipendente da essa, allora la maggioranza può riempire questo articolo del contenuto che vuole. Ciò è accaduto per esempio con l'articolo riguardante la stampa. Ad un certo punto questo articolo viene riempito con delle norme volute dalla maggioranza e per le quali gli agenti di pubblica sicurezza possono fare il sequestro. La maggioranza poteva in questo caso far valere la sua forza, perché si trattava di riempire un articolo di un contenuto invece che di un altro.
Ma quando un principio non è compatibile con la Carta costituzionale, ed è un principio estraneo ed indipendente, che non ha nulla a che fare con la Carta costituzionale, allora mi pare che la maggioranza, ove voglia introdurre quel principio e quella proclamazione, faccia qualcosa che si mette al disopra della Carta costituzionale; per cui, se non vado errato, la Carta costituzionale potrebbe essere considerata così profondamente inficiata da doversi definire incostituzionale.
Ora la Carta costituzionale ha una struttura, una natura, una fisionomia che non possono essere mai alterate da quella che è la forza della maggioranza. La Carta costituzionale ha dei lineamenti che non possono essere deformati dalla forza della maggioranza, altrimenti la maggioranza si metterebbe al disopra del diritto astratto, categorico.
Io penso, per questi motivi di incompatibilità, che gli articoli 23 e 24 non dovrebbero trovare inserimento nella Costituzione; a meno che — mi si passi l'espressione e mi si scusi il tono polemico — si faccia una Costituzione, la quale appaia, a chi la guardi spassionatamente, attraverso una interpretazione solamente giuridica, come concepita in sacrestia o generata nell'ultima pretura dell'ultimo villaggio della Repubblica d'Italia.
Noi abbiamo il dovere di guardare la Carta costituzionale, rispettando i divieti ed i limiti che essa pone, attraverso la sua struttura e la sua fisionomia.
Altra osservazione; e chiedo scusa ai democristiani se potrà sembrare irriverente quello che dirò.
Io vorrei domandare ai miei amici democristiani se essi siano sempre convinti di assolvere, quando fanno la Costituzione, il mandato ad essi affidato.
Moro. Non c'è dubbio su questo.
Una voce al centro. Perché lo domanda a noi?
Ruggiero. Perché si tratta d'una cosa che riguarda voi. (Commenti).
Dunque, quando una parte del popolo italiano ha conferito al partito democristiano il mandato di fare la Costituzione, ha conferito il mandato di contribuire a fare una Costituzione che esprimesse principî generali e non interessi particolari, che ottemperasse alle grandi istanze della coscienza politica e non d'una ideologia particolare. Può avere dato il mandato di fare una Costituzione che rispondesse al comandamento d'una civiltà anche cristiana, ma non cattolica. (Interruzioni).
Se mi si consente di parlare, continuo.
Presidente Terracini. È lei che suscita queste reazioni; ha detto che avrebbe parlato in tono polemico; quindi non si meravigli.
Piuttosto, tratti il tema costituzionale e non faccia l'interpretazione delle elezioni, fatto più che superato.
Ruggiero. Mi pare di rimanere nel giusto, quando affermo che, siccome siamo qui per obbedire ad un impegno preciso, quello cioè di fare la Costituzione, penso che dobbiamo fare una Costituzione la quale resti nell'ambito, nei lineamenti, nei caratteri e negli attributi della stessa Costituzione.
Non si può con la forza rompere i limiti e i divieti posti dalla Costituzione.
Io devo domandare se assolviamo veramente a questo compito.
E volevo dire: possono avere gli amici democristiani il mandato di fare una Costituzione, che risponda ai comandamenti di una civiltà cristiana, non cattolica? (Interruzioni).
Guerrieri Filippo. Non ci insegni il nostro dovere; sappiamo benissimo quale è.
Presidente Terracini. Onorevole Ruggiero, lei ha accennato ad un concetto interessantissimo ma la prego di non insistervi oltre.
Ruggiero. Tanto per cambiare argomento, quando si leggono gli articoli della Costituzione si riporta la stessa impressione che si ha andando in giro per la città di Roma: tutti gli obelischi e i monumenti che erano dedicati ad un Cesare, ad un Dio pagano, ad un trionfo, sono stati contrassegnati da una croce.
Così, signor Presidente, è avvenuto un po' per gli articoli della Costituzione. Noi stiamo suggellando nella Costituzione il principio cattolico e non mi pare sia proprio questo che abbia voluto il popolo italiano. Ed ho anche l'impressione che i democristiani, i quali avrebbero dovuto fare con noi la Costituzione del popolo italiano, stiano facendo invece il vade mecum dei chierici. (Commenti).
Quindi questo primo motivo va concluso ed esaurito e si risolve in questi termini: non è possibile che si faccia luogo all'inserimento degli articoli 23 e 24 per il motivo che esiste una incompatibilità, una divergenza insanabile tra i concetti espressi da questi articoli e la natura essenziale di quella che deve essere la Costituzione.
Inoltre, questi due articoli, considerati dal punto di vista giuridico, sono così viziati, così deformi e sbagliati, che non possono trovar luogo nella Costituzione, se vogliamo tener presente la nostra dignità di legislatori o di Soloni, come ci chiamano i giornali umoristici.
Cominciamo a considerare la definizione della famiglia come società naturale. Io non rifarò l'esame che hanno fatto gli altri su tale oggetto, ma pongo una questione pregiudiziale: per quale motivo quando si è trattato di configurare l'istituto della famiglia, si è sentita la necessità di dare la definizione della famiglia? Badate, se questo si fosse fatto per altri principî ed altri istituti, io direi: è diventata una prassi nel progetto di Costituzione e quindi è necessario che vi sia una definizione della famiglia.
Moro. Non è una definizione, è una determinazione di limiti.
Ruggiero. Qui ci troviamo però di fronte ad una definizione. E perché è stata fatta una definizione, quando in nessun caso questa definizione è stata data per altri istituti e per altri principî? Sennonché a questo punto non si può non pensare che forse è una definizione che nasconde qualche fine che non appare troppo chiaro. Nella Costituzione nostra non è stata data neppure la definizione del principio della libertà, a differenza di quello che è stato fatto nella Carta costituzionale francese. Forse non abbiamo dato la definizione di libertà, perché la libertà in Italia può essere considerata anche un fatto opinabile.
Ma, comunque, di nessun istituto o principio è stata data la definizione.
Perché è stata data la definizione dell'istituto della famiglia?
La ragione è questa: si vuole stabilire che la famiglia è una società naturale per poter stabilire un concetto di immanenza attraverso il tempo e la storia e quindi, arrivare alla conseguenza della inscindibilità della famiglia.
C'è, poi, il contrasto, forte, nella stessa definizione. Fino a questo punto, posso dire che c'è prima di tutto una definizione di cui non mi potrei rendere ragione, e poi una definizione, la quale appare contrastante, quando voi considerate l'articolo tutto insieme:
«La famiglia è una società naturale: la Repubblica ne riconosce i diritti. ecc.»
Ora, io mi domando: come non vedete voi il contrasto forte, inconciliabile, irriducibile che nasce fra queste due entità distinte e diverse, cioè tra una entità naturale che sarebbe la famiglia e la famiglia oggetto di diritto?
Io mi domando: come è possibile che si dica che la famiglia è una società naturale e che la Repubblica ne riconosce i diritti, ecc.; come si fa a qualificare la famiglia «naturale» e poi considerarla oggetto di diritto? Proprio nel momento in cui interviene la Repubblica per darle un riconoscimento di carattere giuridico, allora quella entità perde il suo stato di naturalità, se così si può dire. Quindi emerge un contrasto veramente forte che non si può in nessun modo comporre e che comporta necessariamente l'esclusione di questo articolo per questo secondo motivo: perché la norma mi pare giuridicamente deforme.
Ci troviamo di fronte a due concetti: società naturale ed entità di diritto. Ci troviamo di fronte ad una entità primigenia, originaria, elementare, anteriore ad ogni principio statale, anteriore ad ogni ordinamento giuridico e poi, successivamente, ci troviamo di fronte ad una entità di diritto che si inserisce nella vita giuridica intesa nel suo complesso di norme e di umani rapporti.
Insomma, mi pare che qui ci sia un così grosso errore di carattere giuridico; che quando si deve passare dalla prima alla seconda parte dell'articolo (e badate che si tratta di poche parole) bisogna lanciare come un arco acrobatico nello spazio, arco che tende a collegare le caverne trogloditiche e il palazzo di giustizia, che tende a collegare le adunanze, dove i barbari esprimevano la loro opinione agitando in un modo o nell'altro le loro lance, e questa Assemblea Costituente.
Non riesco ad intendere come si possa, onorevoli colleghi, conciliare questi due elementi opposti, cioè una famiglia considerata come preistorica e storica, remota e presente, antica e moderna, naturale e giuridica: è un contrasto che non può passare nella Carta costituzionale. (Interruzione dell'onorevole Moro). Vedo che l'ottimo amico onorevole Moro avrebbe il desiderio di chiarire: lo farà dopo. Ma io intendo quello che l'amico Moro vuol dire, cioè quello che ha già detto in sede di Sottocommissione. Egli ebbe a dire che si tratta di due concetti diversi, separati e distinti.
Ma domando al mio ottimo amico Moro, di cui conosco le insigni qualità di giurista: come è possibile che in un solo articolo, cioè nel giro di una breve frase, nell'ambito di quattro parole, come è possibile — amico Moro — porre due concetti così distanti, così lontani, tanto che io ho parlato di arco che deve passare attraverso il tempo e lo spazio?
Badate, un articolo non può essere considerato come qualche cosa che sia passibile di frattura, non può essere composto di due elementi antitetici; un articolo è qualcosa di omogeneo, di coerente, che contiene elementi che convergono tutti verso un determinato punto.
Per questi due motivi, secondo me, questi due articoli non possono trovar luogo nella Costituzione: prima, perché c'è una incompatibilità profonda tra le norme contenute negli articoli 23 e 24, e poi perché quegli articoli contengono in sé dei vizi così gravi che inficiano la necessaria omogeneità che una norma della Costituzione deve contenere in sé.
Dominedò. Si dimentica così il carattere dichiarativo e non costitutivo del riconoscimento.
Ruggiero. Ma vi è un terzo motivo. Ad un certo punto, noi ci troviamo di fronte quella norma la quale dice: «Il matrimonio è basato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. La legge ne regola la condizione a fine di garantire l'indissolubilità del matrimonio e l'unità della famiglia». Come vedete, noi ci troviamo di fronte a due concetti, che la legge deve prendere in considerazione: l'indissolubilità del matrimonio e l'unità della famiglia. Mi pare che ad un certo punto la nostra attenzione sia stata così profondamente presa dalla prima proposizione, cioè dal primo concetto, che la seconda proposizione, cioè il secondo concetto, che riguarda l'unità della famiglia, sia stato un po' trascurato. Ora, io mi domando: nella Carta costituzionale questa espressione «unità della famiglia» che portata deve avere, che valore deve avere, quale forza, vincolativa e normativa deve avere? Io dicevo a certi cari amici, questa mattina, conversando di questo articolo: badate, che se noi stiamo al dettato della norma, arriviamo a questa considerazione; che cioè non sono più ammesse le separazioni personali tra coniugi. Ma è mostruoso, ma è illogico, è ridicolo, è pazzesco! hanno detto i miei amici. Ed io con loro ho detto che è ridicola e pazzesca una cosa di questo genere. Però bisogna considerare il contenuto letterale della norma. Come vedete, noi ci troviamo di fronte a due quesiti: uno che stabilisce l'indissolubilità del matrimonio ed uno che stabilisce l'unità della famiglia. Ora io mi domando: se tutti siamo d'accordo nel ritenere che si vuole escludere il divorzio quando parliamo del principio della indissolubilità del matrimonio, perché non dovremmo essere tutti d'accordo nel ritenere che qui si vuole escludere l'istituto della separazione personale quando si parla dell'unità del matrimonio? Badate che questa mia preoccupazione, che può sembrare campata in aria a chi non ha avuto il tempo e la possibilità di seguire i lavori della Commissione, era apparsa, e in maniera evidente, nei lavori della Sottocommissione. Tanto è vero che l'onorevole Mastrojanni osservava ad un certo punto: «L'unità della famiglia, d'altra parte, la legge non potrebbe ottenerla se non attraverso una coazione fisica, vale a dire costringendo i coniugi alla convivenza e alla coabitazione anche quando esista una manifesta incompatibilità di carattere». Quindi, come vedete, questa preoccupazione emerse anche durante i lavori della Commissione e non è stata dissipata. L'onorevole Moro rispondeva all'onorevole Mastrojanni che era d'avviso contrario al suo facendogli rilevare che l'ipotesi della separazione dei coniugi, che la legge consente, è un caso limitato che non incide sulla disciplina normale che la legge si deve proporre allo scopo di garantire l'unità della famiglia.
L'onorevole Mastrojanni ebbe a dichiarare che le spiegazioni dell'onorevole Moro non lo avevano persuaso, né avevano distrutto le sue argomentazioni, ribadendo che la legge potrà regolare i rapporti familiari, ma non potrà garantire l'unità della famiglia, se non giungendo all'assurdo di una coercizione sui coniugi che non è ammissibile.
Rispondeva l'onorevole Moro che non credeva che per i casi di separazione, che rappresentano una percentuale all'incirca dell'uno per cento, si debba sottrarre alla legge il potere di regolare la vita familiare allo scopo di garantire l'unità di indirizzo.
Mi pare, onorevole Moro, se io non ho le traveggole e se qui non è scritta cosa diversa da quello che era il suo pensiero, che ci sia fortemente da impensierirsi per questa preoccupazione, cioè che non sia proprio il caso di ritenere che qui si voglia proprio escludere la possibilità di una separazione personale.
Tanto è vero che ad un certo punto, poiché l'onorevole Mastrojanni riproponeva la stessa questione e domandava se il principio dell'indissolubilità del matrimonio comprendeva l'istituto della separazione legale per i casi di incompatibilità e per altre ragioni, l'onorevole Dossetti rispondeva che l'indissolubilità del matrimonio e l'unità della famiglia non vietano che si possa giungere, in determinati casi, alla separazione legale dei coniugi.
A me basterebbe questa dichiarazione: «in determinati casi»; mi pare però che sarebbe stato opportuno, logico ed ovvio che si fosse detto «nei casi previsti dalla legge». Invece questi casi che dovranno essere determinati potranno essere una limitazione rispetto al complesso delle norme vigenti. Comunque, io posso anche rinunciare ad ammettere che si voglia escludere la separazione personale, posso rinunciare a questa mia interpretazione, che forse è troppo recisa e personale, e vi domanderò se voi, nella vostra coscienza di giuristi, non vedete che possa sorgere il dubbio che si voglia escludere l'istituto della separazione personale. Noi nella Carta costituzionale, che impegna tutta la vita futura della nazione, dobbiamo sentire il dovere di essere molto chiari, perché si tratta di formulare dichiarazioni che hanno un valore permanente. Dalla lettura di questo articolo risulta che vi è una deficienza grave, la quale potrebbe incrinare quello che è il principio fondamentale del nostro diritto generale, cioè l'istituto della separazione; e vi esorto perciò a dare alla dizione dell'articolo una chiarezza maggiore di quella che non abbia.
Queste sono le obiezioni che intendevo far presenti e i motivi per cui intendo che questi articoli non possono essere inseriti nella Costituzione: l'incompatibilità è il primo motivo, la difformità giuridica è il secondo motivo e poi — terzo motivo — la proposizione relativa all'unità della famiglia che porterebbe uno sconvolgimento profondo dell'istituto familiare. Proposizione che, se realmente portasse all'esclusione dell'istituto della separazione personale, vedrebbe serrati in uno stesso destino insuperabile e infrangibile e vedrebbe inchiodate ad una stessa croce due persone, cioè i coniugi.
Questo non mi pare possa essere consentito, perché, badate, noi verremmo a distruggere l'ordinamento giuridico italiano che ha già avuto la sua consacrazione attraverso la tradizione e l'esperienza del diritto nostro.
Per questi tre motivi mi auguro che i due articoli di cui ho parlato non trovino accoglimento nella Carta costituzionale.
Io dovrei esortare i partiti a seguirmi su questo terreno. Non lo potrei fare, signor Presidente, perché io sono qui il più modesto, l'ultimo venuto e la mia voce è la più piccola di tutte: non credo quindi di poter avere la facoltà di esortare i partiti. Però, quando si pensa alla inclusione del principio dell'indissolubilità del matrimonio... non posso non pensare ai liberali, perché i liberali non possono permettere in alcun modo che venga recisa per sempre un'ideologia che potrebbe maturare nella coscienza popolare. L'onorevole Corbino, la sera in cui si ebbe a votare l'articolo 7, disse che i liberali erano conservatori. Io non devo fare appunti all'onorevole Corbino, che è uomo di così chiara scienza, ma non posso non pensare che quando un liberale dice che il liberalismo è conservatore, nega l'essenza stessa del liberalismo. Il liberalismo è una specie di coscienza critica della storia, è un principio eternamente rinnovatore, è una specie di impulso che rifà tutto quello che precedentemente esisteva per foggiarlo e riplasmarlo in altra forma; è una specie di demonio distruggitore di se stesso. Se dunque i liberali sono aderenti a questo principio così come lo conosco io, attraverso i miei modesti studi, non dovrebbero mai arrivare a questa soluzione: di impedire che una ideologia non possa in nessun modo maturarsi; il che significherebbe cristallizzare un principio in una posizione di inamovibilità, il che non può essere consentito a nessuno, e tanto meno ai liberali.
Io penso che noi siamo un po' preoccupati, quando facciamo questa Carta costituzionale, di non urtare troppo fortemente la coscienza popolare. Ci siamo messi in testa — o forse è una mia idea personale — che il popolo italiano sia qualche cosa che resti alieno da ogni forma di rinnovamento, che sia estraneo ad ogni evoluzione, che sia un popolo inchiodato in una certa posizione di staticità spirituale e di inamovibilità storica; e quindi ci mettiamo a fare una Carta costituzionale che forse non risponde a quelle che sono le vere esigenze del popolo italiano.
Vi dirò una cosa sola: io so quello che voi stessi mi insegnate, che cioè la guerra porta sempre con sé una specie di spirito di rinnovamento intimo nelle coscienze popolari, una specie di ansia, di anelito verso nuovi orizzonti. E di questo noi non teniamo conto. A me sembra che il popolo italiano abbia una grande aspirazione verso una strada nuova. Noi non teniamo conto di questo e facciamo una Costituzione che può essere definita una Costituzione assolutamente conservatrice. Io penso che il popolo italiano — e credo lo pensino tutti — è adesso una specie di forza che dorme; però ho anche la convinzione che esso sta tentando in tutti i modi di esplodere; e non solo, vedete, perché non ha di che vivere, ma perché vuole trovare questa grande strada nuova dove incontrarsi con la sua verità spirituale. Ho l'impressione che noi ci mettiamo a fare una politica, industre, sottile e sagace di arabeschi, di ricamucci e di geroglifici, mentre dovremmo dire al popolo italiano, attraverso la politica, e attraverso la Costituzione, una parola di chiarezza e di verità. Noi stiamo forse ricamando su un vulcano. Il popolo nostro ha bisogno di vedere e di sapere, per esempio, se l'economia che si segue è un'economia conservatrice e ideologica nello stesso tempo, se lo Stato può essere confessionale e laico, se la Repubblica può essere a volte repubblicana ed a volte monarchica.
Presidente Terracini. Onorevole Ruggiero, lei entra in tema di discussione generale del preambolo.
Ruggiero. Ora, concludendo quanto nasceva spontaneamente sulla mia bocca e chiedendo scusa all'onorevole Presidente se sono andato fuori dei limiti, dirò che io penso che, come costituenti, come cittadini, come uomini, noi abbiamo il dovere di dire al nostro popolo questa parola di chiarezza e di verità. (Applausi).
A cura di Fabrizio Calzaretti