[Il 7 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Villabruna. [...] A proposito di questa norma, mi consenta l'Assemblea di dire che non mi sento di approvare la disposizione contenuta nel progetto, con la quale, in una forma categorica e cruda, si stabilisce che i magistrati non devono essere iscritti ad alcun partito politico. E questo evidentemente non perché non avverta una necessità che è intuitiva. È intuitivo che il magistrato, se vuol salvaguardare la propria indipendenza, non può legarsi a un partito, e sottostare alla disciplina di un partito; ciò sminuirebbe la sua indipendenza, o, nella migliore delle ipotesi, creerebbe il sospetto di una minorata indipendenza; e, in certi casi, l'apparenza, equivale alla sostanza.
Nella mia coscienza di liberale non soltanto, ma nella mia sensibilità di uomo, io non mi sento di approvare questa norma, perché, inserita nella Costituzione, per me questa norma ha tutto il sapore di una lezione di buon costume che si vuol dare ai magistrati, e che i magistrati non meritano.
Questo è un problema che deve essere affidato esclusivamente alla sensibilità ed alla coscienza del magistrato; è il magistrato, esso per primo, che deve avvertire il dovere morale, per la tutela della sua indipendenza, di non legarsi ad un partito; e badate, che questa è una delle tante — e forse la non più grave — delle inibizioni e delle restrizioni alle quali il magistrato necessariamente deve uniformare la sua vita pubblica e privata, per non vedere sminuito il suo prestigio, e per allontanare il sospetto che egli sia legato a forze, le quali limitino o vulnerino la sua dignità e la sua indipendenza.
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Bettiol. [...] Ma il problema dell'indipendenza della Magistratura è ancora un problema astratto, perché quello che conta veramente è di studiare i mezzi per rendere concreta la libertà effettiva del singolo magistrato chiamato a dire ciò che è diritto. E qui, nel progetto costituzionale, credo che questa libertà sia garantita dalle norme le quali dichiarano che i magistrati sono inamovibili, dalla norma la quale afferma che i magistrati si distinguono fra di loro, non già per diversità di gradi — è pericoloso stabilire una gerarchia tra i magistrati, perché l'espressione tipica della gerarchia è il comando che il superiore rivolge all'inferiore, e che può essere in certi determinati casi cogente, obbligatorio, anche se anti-giuridico — ma per diversità di funzioni; ed in terzo luogo dal fatto che i magistrati dipendono esclusivamente dalla legge, e che essi poi non possono far parte di partiti politici o di associazioni segrete.
Io condivido pienamente il punto di vista del progetto, il quale fa divieto ai magistrati di aderire a partiti politici. Ho sentito questa mattina le intelligenti argomentazioni del collega Ruggiero, ma non mi hanno convinto, circa la necessità di vietare ai magistrati di appartenere ai partiti politici, perché l'appartenenza ad un partito politico rappresenta pur sempre una situazione psicologica nell'anima del giudice, dalla quale egli difficilmente può prescindere e che può essere influenzata dal di fuori.
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Carboni Angelo. [...] Incomincio con l'approvare nel modo più assoluto il principio della apoliticità del magistrato, fissato nel progetto di Costituzione con il divieto di appartenenza ai partiti politici. Quando si dice divieto di appartenenza ai partiti, non si stabilisce che il magistrato non debba avere idee politiche e non debba interessarsi di problemi politici (questa sarebbe una norma innaturale); si dice soltanto che il magistrato non deve partecipare attivamente alla vita dei partiti. E questa a me pare un'ottima norma, la quale varrà a sottrarre il magistrato al pericolo delle interferenze dei partiti, con enorme vantaggio per l'imparzialità della funzione giudiziaria.
Il divieto d'iscrizione ai partiti politici costituisce la reazione al malcostume del periodo precedente, quando non soltanto l'appartenenza al partito nazionale fascista era diventata condizione per poter adire ai concorsi della Magistratura, ma quando alcuni magistrati non avevano ritegno di tenere udienza vestendo sotto la toga la divisa fascista ed eccitando negli imputati l'ostentazione dei distintivi di appartenenza allo stesso partito, quasi per sollecitare una solidarietà disonesta. Giusta reazione e misura saggiamente prudenziale, seppur si possa ritenere che in regime democratico sarebbe naturalmente impossibile il riprodursi di una degenerazione verificatasi soltanto nell'ambiente aberrante del totalitarismo fascista. E mi piace ricordare che la grande maggioranza dei magistrati italiani ha accettato favorevolmente la proposta del divieto di appartenenza ai partiti politici, con la consapevolezza che esso, mentre non li estranierà dalla vita pubblica, alla quale saranno chiamati a partecipare per altra via, li porrà al riparo anche dal semplice sospetto di parzialità, che è dannoso al decoro della funzione giudiziaria, quanto la parzialità stessa.
Il divieto servirà anche ad eliminare una frequente occasione di distrazione dei magistrati dall'esercizio delle proprie mansioni. Altri ha già detto che il magistrato deve fare soltanto il magistrato: deve cioè fare soltanto istruttorie, requisitorie, sentenze. Cessi la corsa agl'incarichi, ai comandi, cessino le applicazioni fuori del ruolo della Magistratura. Come è proposto in diversi emendamenti, vedrei volentieri allargato il divieto all'accettazione di cariche ed uffici pubblici e d'incarichi presso Commissioni od organi di carattere politico.
A cura di Fabrizio Calzaretti