[Il 7 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l'onorevole Villabruna. Ne ha facoltà.

Villabruna. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi! Sono un modesto empirico, che sente l'ansia e la predilezione per le cose semplici e concrete.

Per questo io mi sono sforzato di esaminare gli articoli del progetto sotto un punto di vista che indubbiamente è modesto, ma che — per me — riveste un certo interesse: ho cercato di accostarmi, per quanto era possibile, alla realtà, per poter rispondere più agevolmente ad alcune domande che si sono affacciate alla mia mente.

Io mi sono chiesto, quali risultati positivi ci possiamo attendere, e quali vantaggi concreti ci possiamo ripromettere da questa parte della Costituzione, quando sarà stata da noi approvata, e passerà, per il collaudo, da quest'Aula nelle aule giudiziarie?

Stanno di fronte a noi questioni gravi e preoccupanti.

La prima questione è quella che riguarda la Magistratura. Siamo tutti d'accordo nel riconoscere che la Magistratura è in fase di progressiva decadenza; e tutti concordi nel riconoscere che è diventata, urgente ed indilazionabile la necessità di rialzare le sorti della Magistratura. Ebbene, io mi domando: siamo noi ben certi di aver fatto tutto ciò che era possibile, per rialzare davvero le sorti della Magistratura, per portarla a quel livello di dignità e di indipendenza che è indispensabile per l'esercizio della sua altissima funzione?

V'è poi un'altra questione, alla quale stamane accennava l'onorevole Dominedò: la giustizia considerata come la suprema garanzia del popolo. Ed io mi domando: abbiamo noi fatto qualche cosa di più e di meglio, che non di dare al popolo soltanto la sensazione vaporosa che qualche cosa è stato fatto nel campo della giustizia, senza poter dire esattamente se in meglio o in peggio? Siamo noi in condizioni di poter dire che le innovazioni che, attraverso la Costituzione, intendiamo introdurre, siano di tale natura da assicurare al popolo italiano un migliore funzionamento della giustizia?

Io mi sono proposto questi interrogativi, ed ho avvertito la necessità di questo richiamo alla realtà, perché non posso dissociare il mio pensiero dal ricordo di quello che è stato il triste destino della giustizia in questo ultimo trentennio.

Io non vado a ricercare se quello che è accaduto sia accaduto per forza di cose o per colpa di uomini. Mi limito ad una semplice constatazione, ad una realtà incontestabile: in questo trentennio la giustizia è stata bistrattata e maltrattata senza pietà; la giustizia è stata messa in balìa di tutti gli eventi che hanno funestato e contristato questo tormentoso periodo storico; la giustizia è diventata materia di preda, asservita a fini politici; per la realizzazione di questi fini politici la giustizia è diventata il campo sperimentale delle innovazioni le più strane, ha dovuto subire le trasformazioni e le deviazioni le più capricciose e le più insensate. Il capriccio e l'arbitrio hanno trionfato istericamente in tutti i settori della giustizia, sia nel campo funzionale come nel campo legislativo.

Nel campo funzionale, siamo passati dai giurati agli assessori, dagli assessori ai tribunali speciali, dai tribunali speciali alle assise straordinarie: un cambiamento di scena continuo, un ballo in maschera a più riprese, nel quale, purtroppo, non è cambiata soltanto la foggia dei costumi, ma, quello che è ben più grave, sono cambiate, ad ogni ripresa, il criterio della legge, la mentalità dei giudici e la composizione dei collegi giudicanti. Tutto questo non poteva non essere fonte di danni gravissimi e di gravissime ingiustizie, talvolta irreparabili. Questo nel campo funzionale.

E nel campo legislativo? Noi abbiamo dovuto sottostare al diluvio delle leggi speciali, le più barocche e le più scellerate; leggi speciali che, nelle loro sperequazioni, hanno ridotto la funzione del giudice e la funzione della giustizia a un qualche cosa di così incerto, di così malsicuro e di così contraddittorio, da dare ragione a chi amaramente concludeva che, anche per la giustizia, si sarebbe potuto istituire un listino di borsa, che segni giornalmente le variazioni delle quotazioni.

Ora, tutto questo evidentemente non poteva durare: è venuto per noi il momento di una grande opera di rinnovazione o di riedificazione che, se riusciremo veramente a compiere, sarà per noi titolo legittimo di orgoglio. È venuto il momento in cui bisogna ritrovare la via per ridonare al magistrato la sua dignità, e la sua indipendenza, e per conferire alla giustizia l'indispensabile requisito dell'equilibrio, della certezza e della stabilità.

Ora, prima di noi, la Commissione dei Settantacinque si è accinta a questa grandiosa opera di rinnovazione e di riedificazione, ed io mi rendo conto della gravità e della complessità del compito che la Commissione dei Settantacinque doveva assolvere. Comprendo queste difficoltà: e basta leggere i verbali dei lavori dei Settantacinque per intravvedere lo sforzo, quasi estenuante, che la Commissione ha dovuto compiere per conciliare in formule di compromesso tendenze diverse, le quali ripetevano la loro origine non soltanto da contrasti di natura dottrinaria, ma da un fattore di natura politica, che è perfettamente comprensibile, anche se può diventare pericoloso e talvolta aberrante, sul terreno della tecnica giudiziaria. È pesato sui lavori della Commissione il ricordo ancora troppo recente, ed il risentimento ancora troppo vivo delle amare e dolorose esperienze del fascismo. Ed ecco perché, a proposito del lavoro compiuto dalla Commissione, non mi sento di dire che esso sia riuscito, per intero e in ogni punto, a superare vittoriosamente la prova.

Il progetto di Costituzione contiene alcuni principî d'ordine generale, che rappresentano la base della grande riforma giudiziaria alla quale ci accingiamo; sennonché, quando il progetto passa, dall'enunciazione astratta di questi principî, all'individuazione ed alla specificazione degli organi che dovrebbero concretamente attuare quelle norme, a me pare che, in tal momento, nel passaggio dall'astratto al concreto, dal generale allo specifico, il progetto di Costituzione perda della sua omogeneità.

Io non dirò — perché potrebbe sembrare irriverenza — che il progetto di Costituzione sia uno zibaldone; mi permetterò di dire soltanto che, in qualche punto, esso dà l'impressione di un mosaico variopinto, nel quale il vecchio si mescola al nuovo senza un evidente nesso logico, ma bizzarramente, attraverso un eclettismo, disposto a tutte le accettazioni e a tutte le concessioni.

Voi, signori della Commissione, avete fatto rivivere istituti che erano tramontati e che, secondo me, non meritavano l'onore di essere riportati in vita; avete accolto innovazioni delle quali temo non abbiate calcolato tutte le possibili conseguenze. Per la voluttà di essere eclettici ad oltranza, voi avete corso questo rischio: di sminuire in voi stessi l'ardimento dei novatori e, nel tempo stesso, la saggezza e la prudenza dei restauratori.

E io cercherò di fornire qualche esempio di quanto ho detto: e mi soffermerò su alcuni punti che rappresentano il sintomo più appariscente e la manifestazione più vistosa dello spirito di arrendevolezza e di eclettismo che ha guidato la Commissione nella compilazione del progetto di Costituzione. Voglio, in particolare, soffermarmi su tre punti: la partecipazione delle donne alla Magistratura, il ripristino della giuria, la soppressione della giurisdizione militare in tempo di pace.

Nessuno può contestare che la partecipazione delle donne alla Magistratura rappresenti una innovazione estremamente ardita, tanto ardita da rivoluzionare la nostra tradizione in materia di ordinamento giudiziario. Io mi sono soffermato sulla disposizione che riconosce alle donne il diritto di partecipare alla Magistratura, e vi dico francamente che questa norma mi ha seriamente preoccupato, perché mi riesce facile di intravvedere l'inevitabile pregiudizio che la giustizia subirebbe il giorno in cui anche alle donne fosse consentito l'onore di vestire la toga dei magistrati: Ed io mi sono compiaciuto, quando ho constatato che da parte di una donna, dell'onorevole Federici, era stato proposto un emendamento soppressivo che corrisponde perfettamente a quello da me proposto.

Certo, v'è da sperare nel buonsenso e nel buon gusto delle donne; v'è da sperare che le donne — o almeno una buona parte di esse — non si lasceranno prendere da una frenesia di nuovo genere; e non sentiranno un eccessivo ardore di partecipare alla vita giudiziaria. Questo lo possiamo sperare; ma intanto il pericolo c'è.

Merlin Angelina. Quale pericolo?

Villabruna. Abbiamo aperto un varco, spalancata una porta, la quale potrebbe consentire alle donne, ove lo volessero o lo gradissero, di invadere il campo della giustizia.

Merlin Angelina. Invadere! Come se fossimo nemiche!

Villabruna. E allora, onorevoli colleghi, io mi domando: il giorno in cui le donne penetrassero nel sacro tempio della giustizia, il giorno in cui la giustizia dovesse essere amministrata da un corpo giudiziario misto, parte costituito da uomini e parte costituito da donne, me lo dite che cosa ne guadagnerebbe, o meglio, che cosa ne perderebbe la giustizia?

Non v'è Carta costituzionale, la quale possa avere la pretesa di violentare le leggi della natura; non credo che vi sia alcuna Carta costituzionale che possa compiere un tale miracolo, se pure si trattasse di un miracolo: che riesca a portare sullo stesso piano la mentalità degli uomini e quella delle donne. Le donne — e non credo con questo di recare offesa al sesso gentile —...

Una voce. Anzi!

Villabruna. ...hanno un modo di sentire, un modo di vedere, un modo di ragionare, un modo di giudicare che molto spesso non si concilia con quello degli uomini. E allora, il giorno in cui avrete affidato l'amministrazione della giustizia ad un corpo giudiziario misto, che cosa avrete ottenuto? Avrete portato nel sacro tempio della giustizia un elemento di più di confusione, di dissonanza, di contrasto; avrete creato, in sostanza, una giustizia bilingue, una giustizia che parlerà due linguaggi diversi, secondo che, nelle varie circostanze, avrà a prevalere la voce degli uomini o la voce delle donne.

Se tutto questo possa giovare al prestigio, alla serietà della giustizia, alla certezza nell'applicazione della legge, lo lascio giudicare a voi.

Altro punto: il ripristino della giuria.

Io non voglio qui ripetere quello che stamane — da pari suo — è stato detto dall'onorevole Crispo in punto di giustizia resa dai giurati; non dirò di tutti gli inconvenienti che derivano da una giustizia monosillabica, che rappresenta il trionfo dell'ignoranza, dell'impreparazione, della facile impressionabilità; una giustizia monosillabica che, appunto per essere tale, non consente la garanzia della motivazione, come non consente praticamente il rimedio del giudizio di secondo grado.

Io ho tentato di scoprire — e non vi sono riuscito — le vere ragioni per le quali il progetto di Costituzione ha ritenuto di riservare un posto d'onore alla giuria, ed ha pensato di risuscitare un rudere, superato dal tempo, e che certamente non ha lasciato di sé il migliore ricordo.

Perché, perché dovrebbe risorgere la giuria? Avete inteso di rendere omaggio alla sovranità popolare? Ma, signori della Commissione, a questo avevate provveduto, e provveduto a sufficienza, quando, all'articolo 94, avevate detto che la funzione giurisdizionale è esercitata in nome del popolo.

Non vi è nessuno che non avverta la bellezza, la grandiosità di questa proclamazione! E di essa il popolo ve n'è e ve ne sarà grato.

Ve n'era a sufficienza perché il popolo si sentisse soddisfatto di questa consacrazione della sua sovranità, e non chiedeva di più. Parliamoci chiaro: coloro che si accalorano nell'esaltare la giuria, e vorrebbero rimetterla in vita, in definitiva si ostinano ad iniettare nelle vene del popolo un eccitante, un afrodisiaco che il popolo non gradisce, ma che, nella gran maggioranza, rifiuta.

Gli è che il popolo non sente l'ambizione di partecipare direttamente all'amministrazione della giustizia. Il cittadino — e lo possiamo attestare noi penalisti, che di queste cose abbiamo esperienza quotidiana — per quanto può, cerca di esimersi dal fastidioso incarico di fungere da giurato. Sì, potrete trovare soltanto qualche malinconico pensionato, che non sa come riempire la propria giornata, a cui può sorridere la prospettiva di arrotondare il magro stipendio col modesto compenso che viene corrisposto ai giurati.

La realtà è che i cittadini, nella loro grande maggioranza, per quanto sanno e per quanto possono, cercano di essere esonerati dal compito di fungere da giurati. Ed allora, perché ritornare ai giurati, a questa forma di giustizia che, ripeto, è un giuoco a mosca cieca, è il trionfo della ignoranza, della impreparazione e della facile impressionabilità. Su questo terreno si era fatto un piccolo passo avanti, che dava, perlomeno, la garanzia della sentenza motivata, quando si erano istituiti gli assessori.

Mastino Pietro. Un grande passo indietro.

Villabruna. Un piccolo passo avanti, in quanto consentiva il concorso anche del magistrato togato. Intendiamoci bene, amico Mastino, non che questa fosse stata una soluzione ideale del problema, non che l'assessorato non abbia dato luogo a gravi inconvenienti. Basterebbe ricordare lo sconcio delle cosiddette sentenze suicide, rivelatrici del contrasto che inevitabilmente sorge laddove non v'è un collegio giudicante omogeneo.

Ricordo che un mio eminente collega, quando si è costituito l'assessorato, presagendo tutti gli inconvenienti che inevitabilmente sarebbero derivati da un giudizio reso da un collegio giudicante misto, si era permesso, forse con poca riverenza, di dire che, con la instaurazione degli assessori fiancheggiati dai magistrati, la giustizia, anziché essere simboleggiata dalla donna con le famose bilance, più degnamente poteva essere simboleggiata dal centauro che, come ognuno sa, è uomo dalla cintola in su ed è bestia dalla cintola in giù. Ora, io non vorrei aggiungere irriverenza ad irriverenza, ma mi permetto di dire che, se dovessimo cercare l'emblema degno della capacità intellettuale e tecnica dei giurati, forse non basterebbe nemmeno più il centauro, ma bisognerebbe scendere ancora di qualche gradino la scala zoologica.

Ma, si dice: i giurati portano nei loro giudizi un senso di umanità, hanno una sensibilità maggiore dei magistrati togati; il giudizio dei giurati aderisce maggiormente al sentimento dell'opinione pubblica. Questo è vero sino ad un certo punto, perché credo che ognuno di noi potrebbe ricordare casi di assolutorie scandalose e, nel tempo stesso, verdetti intonati a una severità assolutamente irragionevole, ed insensata. Questi squilibri, queste sperequazioni si verificano tanto con i giurati come con i giudici togati. È questione di temperamento. Vi è il giudice mite e il non mite; il clemente e il non clemente, così tra i giurati che tra i magistrati. Ma per me vi è un altro pericolo ben più grave nel responso dei giurati ed è quello a cui stamane accennava l'onorevole Crispo: nel responso dei giurati troppo spesso giuoca il fattore passionale e lo spirito di parte. Non dimentichiamo che noi viviamo in un'età nella quale i partiti si rafforzano, si estendono. La sfera di influenza dei partiti tende a farsi sempre più estesa e sempre più profonda. Lo spirito del partito oggi è presente in tutte le questioni, e soprattutto nelle questioni giudiziarie.

E quale il pericolo per la giustizia? Immaginate, ad esempio, che un democristiano sia tradotto alla Corte di assise per rispondere di un delitto politico, e che il caso voglia (e non è un caso infrequente; è quello che oggi spesso si verifica nelle assisi straordinarie) che la giuria sia composta in prevalenza di elementi appartenenti ad un partito avversario. Ma credete voi seriamente che questo disgraziato imputato potrà confidare nella serenità e nella imparzialità dei propri giudici? E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Supponete che vi sia un Tizio, il quale sia rinviato a giudizio dei giurati per rispondere, ad esempio, di vilipendio ai ministri del culto compiuto attraverso la stampa, e supponete che il caso voglia che a presiedere la giuria ci sia un mangiapreti arrabbiato sul tipo del nostro collega ed amico Tonello. (Si ride). Ma ditemi, signori, se in questo caso l'imputato non può scommettere, anche se colpevole, sulla propria assolutoria prima ancora di aver aperto bocca.

Ora questi esempi rappresentano altrettanti attentati alla serietà ed alla imparzialità della giustizia, attentati ai quali si potrebbe mettere rimedio in un solo modo, quello che ha suggerito stamane il collega Crispo, il quale, nel mettere in luce una delle tante incongruenze e contraddittorietà del progetto di Costituzione, si chiedeva: ma perché soltanto per i magistrati e non per i giurati è stata escogitata la norma, secondo cui i giudici non possono appartenere a dei partiti politici? Ma io mi domando: quanti di coloro i quali oggi battono le mani all'istituto della giuria, esaltano la giuria, sarebbero disposti ad approvare una norma, con la quale si disponesse che non possono fungere da giurati coloro che appartengono a partiti politici? A parte l'ovvia osservazione che, se si dovesse stabilire una norma di questo genere, la giuria sarebbe automaticamente ed in anticipo abolita per assoluta mancanza di materia prima.

A proposito di questa norma, mi consenta l'Assemblea di dire che non mi sento di approvare la disposizione contenuta nel progetto, con la quale, in una forma categorica e cruda, si stabilisce che i magistrati non devono essere iscritti ad alcun partito politico. E questo evidentemente non perché non avverta una necessità che è intuitiva. È intuitivo che il magistrato, se vuol salvaguardare la propria indipendenza, non può legarsi a un partito, e sottostare alla disciplina di un partito; ciò sminuirebbe la sua indipendenza, o, nella migliore delle ipotesi, creerebbe il sospetto di una minorata indipendenza; e, in certi casi, l'apparenza, equivale alla sostanza.

Nella mia coscienza di liberale non soltanto, ma nella mia sensibilità di uomo, io non mi sento di approvare questa norma, perché, inserita nella Costituzione, per me questa norma ha tutto il sapore di una lezione di buon costume che si vuol dare ai magistrati, e che i magistrati non meritano.

Questo è un problema che deve essere affidato esclusivamente alla sensibilità ed alla coscienza del magistrato; è il magistrato, esso per primo, che deve avvertire il dovere morale, per la tutela della sua indipendenza, di non legarsi ad un partito; e badate, che questa è una delle tante — e forse la non più grave — delle inibizioni e delle restrizioni alle quali il magistrato necessariamente deve uniformare la sua vita pubblica e privata, per non vedere sminuito il suo prestigio, e per allontanare il sospetto che egli sia legato a forze, le quali limitino o vulnerino la sua dignità e la sua indipendenza.

Terzo punto: soppressione della giurisdizione militare in tempo di pace. Io mi sono chiesto, anche qui: quale il motivo di questa norma, quale la ragione, quale il fine di questa disposizione? Mi sono chiesto: «L'avete introdotto per salvaguardare il principio della unità della giurisdizione?». La ragione, francamente, non sarebbe seria: perché basta scorrere il progetto di Costituzione per constatare che sono tante e tali le esclusioni e le eccezioni contenute nel progetto, per cui possiamo dire che la unicità della giurisdizione ormai è rimasta soltanto un pio e non glorioso ricordo.

È stato fatto, invece, per un senso di avversione, di diffidenza verso il giudice militare? E allora, permettetemi di dire che questa diffidenza è del tutto ingiustificata. E, badate, che se modestamente lo dico io in questo momento, vorrei che fosse vivo Bentini, perché venisse lui con la sua eloquenza a rivendicare degnamente lo spirito del giudice militare. Io ricordo un discorso di Bentini, pronunciato alcuni anni orsono in questa Aula. Parlando in nome del Gruppo socialista — mentre si discuteva sulla giustizia militare — Bentini, con quello slancio di generosità che gli era proprio, ha sentito il dovere di rivendicare il senso di umanità e di clemenza del giudice militare (Approvazioni). Ed allora perché sopprimere il giudice militare?

Intendiamoci bene! Io sono tra coloro che postulano una giurisdizione militare, in tempo di pace, ridotta e limitata esclusivamente ai reati tipicamente militari: cioè, la funzione punitiva militare deve consistere soltanto nella integrazione della funzione disciplinare, strumento indispensabile per tenere salda la compagine dell'esercito. Orbene, se la giurisdizione militare in tempo di pace deve essere limitata unicamente ai reati strettamente militari, con quale serietà affidare il giudizio di questi reati, che costituiscono una forma aggravata d'infrazione alla disciplina militare, a giudici ordinari?

Signori, questo significherebbe semplicemente voler disambientare la giustizia, affidare il giudizio di questi reati a magistrati svogliati, inetti, perché assolutamente lontani dallo spirito e dalle esigenze della vita militare.

Si dice: si costituisca una Magistratura specializzata. Questo dovrebbe essere il rimedio; ma, secondo me, non sarebbe un rimedio, ma un modo di complicare le cose.

Ben strana pretesa quella di prendere un ramo della Magistratura ordinaria e confinarlo in un reparto stagno. Che cosa avverrà di questo ramo, il quale, da un lato, perderebbe il contatto con la Magistratura ordinaria, e, dall'altro, non avrebbe contatto con la vita dell'esercito? Questo ramo sarebbe destinato a disseccarsi, perdendo, così, i pregi e le caratteristiche sia del magistrato civile come del magistrato militare.

È per queste ragioni che io aderisco all'emendamento proposto dall'onorevole Gasparotto per la soppressione del comma, con cui si stabilisce che i tribunali militari potranno essere istituiti soltanto in tempo di guerra.

Riguardo all'indipendenza della magistratura, non v'è più molto di nuovo da dire. È problema delicato, appassionante, divenuto attuale dopo quanto abbiamo subìto durante il periodo fascista, ma è un problema non nuovo, che ha le sue radici in un lontano passato. Basterebbe ricordare che, della indipendenza della magistratura, se ne parlò innanzi al Parlamento italiano mezzo secolo fa; e molti tra di noi conoscono il mirabile discorso che in quella occasione, e su questo tema, fu pronunziato da Giuseppe Zanardelli; discorso che conserva tale freschezza di idee, da poter essere utilmente ripetuto ancora oggi in quest'Aula.

Aveva ragione il collega Bozzi, quando ieri diceva che il problema dell'indipendenza della Magistratura ha due aspetti: un aspetto, dirò così, esteriore ed un aspetto interno.

Un aspetto esteriore, che riguarda i rapporti tra la Magistratura e gli altri poteri dello Stato; un aspetto interno, che riguarda l'esplicazione dell'attività funzionale del magistrato in seno alla medesima Magistratura.

Ed aveva del pari ragione l'onorevole Bozzi, quando affermava che il progetto di Costituzione ha risolto soltanto a metà il problema dell'indipendenza della Magistratura. Sì, è vero, voi della Commissione avete considerato le garanzie dell'indipendenza della Magistratura in rapporto alla carriera dei magistrati; ma, alla fin fine, voi avete considerato questo problema soprattutto nei rapporti col potere esecutivo; il vostro sforzo è stato rivolto a sganciare, per quanto fosse possibile, la Magistratura dal potere esecutivo. E l'avete fatto, secondo me, in una forma che mi pare felice.

Certo, la soluzione ideale difficilmente si può trovare in questa materia. Da un lato v'è l'aspirazione di rendere la Magistratura più indipendente possibile; dall'altro, v'è una esigenza che tutti avvertiamo: non possiamo considerare la Magistratura come un astro isolato e vagante al di fuori di ogni sistema. Anche la Magistratura deve muoversi nell'ambito della sovranità dello Stato e deve collaborare con gli altri poteri dello Stato, per l'attuazione di tale sovranità. Sì, è difficile trovare una soluzione ideale; mi pare tuttavia che il progetto, su questo punto, abbia trovato una soluzione abbastanza felice, allorquando, dopo aver stabilito le necessarie garanzie, le opportune difese, che possono garantire l'indipendenza della Magistratura nel suo funzionamento interno, sia per quanto riguarda la carriera dei magistrati, sia per quanto riguarda il governo interno della Magistratura di fronte alla necessità di creare un collegamento tra la Magistratura e gli altri poteri dello Stato, ha stabilito, al capoverso dell'articolo 97, che «il Ministro della giustizia promuove l'azione disciplinare contro i magistrati, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario».

Che cosa significa questo? Si è inteso di riconoscere al Ministro della giustizia una potestà di vigilanza sull'andamento della Magistratura, ed anche un potere ed un dovere di intervento, in caso di trasgressione. Io avrei preferito che a questo capoverso si fosse data una formulazione ancor più ampia e più chiara, che si fosse detto esplicitamente, che il Ministro della giustizia risponde del buon andamento della Magistratura in seno al Governo e di fronte al Parlamento.

Ma è stato, dicevo, risolto soltanto a metà il problema dell'indipendenza della Magistratura. Per esempio, neppure una parola è detta nel progetto sull'autonomia finanziaria della Magistratura. Eppure occorreva rendersi conto che mettere la Magistratura al riparo dalle insidie e dai pericoli che possono provenire dal potere esecutivo significa tutelare l'indipendenza della Magistratura soltanto da un fianco, ma significa anche lasciare scoperto l'altro fianco, lasciarlo esposto ad altre insidie, di diversa provenienza, ma non per questo meno temibili. Bisogna prendere gli uomini quali veramente sono. Fintanto che non si sarà risolto radicalmente il problema del trattamento economico del magistrato, fintantoché il magistrato non sarà liberato dalla preoccupazione del bisogno, noi non potremo pensare ad un magistrato sicuramente corazzato contro tutti i pericoli, che possono insidiare e minacciare la sua indipendenza.

Si è pensato di creare l'organo che dovrebbe garantire l'indipendenza della Magistratura: il Consiglio Superiore della Magistratura. Io mi permetto di dissentire sui criteri che sono stati seguiti dalla Commissione circa la composizione di quest'organo. Avete creato un corpo di guardia, con la consegna di difendere l'indipendenza della Magistratura, e ne avete fatto un corpo di formazione mista, in parte nominato dalla Magistratura ed in parte dall'Assemblea. Avete pensato anche a nominare il generalissimo, nella persona del Presidente della Repubblica. Perché? A quali fini e con quali scopi avete pensato di affidare la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura al Presidente della Repubblica? Soltanto per dare maggiore prestigio a questo Consiglio? È soltanto un arabesco, un pennacchio, come direbbe l'onorevole Ruini, destinato ad abbellire la facciata? Se così è, leviamolo di mezzo senz'altro, non creiamo delle inutili illusioni, ricorrendo all'espediente di elementi decorativi. Materia ornamentale ve n'è già tanta in questa Costituzione, che toglierne una parte non credo che nuoccia alla saldezza della Costituzione stessa.

Ma, signori, dalla lettura di qualche opuscolo e di qualche ordine del giorno provenienti dall'Associazione dei magistrati, ho potuto constatare che alla presidenza del Consiglio, affidata al Presidente della Repubblica, si intende dare ben altro significato e ben altro valore.

Si sostiene: il Presidente della Repubblica sia il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, perché egli possa essere, quando occorra, il supremo moderatore ed il supremo coordinatore nei rapporti della Magistratura con gli altri poteri dello Stato. La tesi incomincia a diventare seria. Io faccio l'ipotesi di un eventuale conflitto fra i poteri dello Stato e mi domando: ma, in quale situazione di imbarazzo verrà a trovarsi il Presidente della Repubblica, il quale, in caso di conflitto, dovrebbe intervenire non come una autorità collocata al disopra della mischia, ma come il rappresentante diretto ed il diretto esponente di una delle parti in conflitto?

Quanto ai membri eletti dall'Assemblea è inutile che io dimostri — è già stato detto da altri — quale pericolo rappresenti il fatto, che proprio in seno al Consiglio Superiore della giustizia — l'organo che avrebbe la funzione specifica di tutelare l'indipendenza della Magistratura — siano inclusi elementi, i quali devono la loro elezione ad una Assemblea squisitamente politica come è l'Assemblea Nazionale.

Ma v'è qualche cosa di ben più singolare in questo articolo, permettetemi di dirlo, qualche cosa di così singolare, che per me ha persino un sapore umoristico, allorquando a proposito degli eletti dall'Assemblea Nazionale, si stabilisce che costoro non possono esercitare la professione finché fanno parte del Consiglio stesso.

V'è da presumere che, se l'Assemblea Nazionale intende scegliere gli elementi che devono far parte del Consiglio Superiore della Magistratura nella cerchia degli avvocati, ricercherà i più degni, i più eminenti: i professionisti di primo piano. Ma allora, se vogliamo stare nella realtà, ditemi quanti ne troverete professionisti di primo piano, dotati di tale spirito francescano da rinunciare ai loro vistosi proventi professionali, soltanto per l'onore di appartenere al Consiglio Superiore della Magistratura? E se costoro non fossero animati da tanto spirito di sacrificio (lo domando a voi, e lo vorrei domandare soprattutto all'onorevole Einaudi), che cosa verrebbe a costare all'erario il Consiglio Superiore della Magistratura, quando dovesse corrispondere un adeguato emolumento a questi satrapi della professione, disposti a deporre la corona di principi del foro per assumere quella di membri del Consiglio Superiore della Magistratura?

È per questo che io mi sono permesso di proporre un emendamento che modifica l'articolo del progetto. Intendiamoci bene: io personalmente sono dell'opinione che sarebbe molto meglio costituire un Consiglio Superiore formato esclusivamente da magistrati, ma si nutre il timore della casta chiusa, il timore che il Consiglio Superiore si cristallizzi nell'egoismo dei suoi interessi e delle sue prerogative. Bisogna, è stato detto, aerare l'ambiente, bisogna immettere elementi estranei alla Magistratura, ecc.

Ebbene, io mi sono permesso di proporre una soluzione che non ha la pretesa di essere la più felice, ma che forse rappresenta un modo per sfuggire agli inconvenienti che ho testé enunciati; ed ho ragionato in questo modo: prima di tutto riduciamo la durata del periodo in cui i sullodati membri debbono restare in carica, onde non possano infeudare il Consiglio per la bellezza di sette anni. Riduciamola a quattro anni; parimenti riduciamo il numero dei componenti soltanto ad un terzo. Inoltre, gli elementi estranei alla Magistratura siano scelti fra i Presidi delle facoltà di giurisprudenza, cioè tra persone lontane, per ragione dei loro studi, dalla politica, e che, per la loro cultura, per il posto che occupano, possono dare lustro al Consiglio Superiore della Magistratura. Ed ho proposto, che siano designati dal Consiglio Superiore della pubblica istruzione, per togliere di mezzo la procedura macchinosa delle elezioni, e anche perché mi è stato assicurato che il Consiglio Superiore della pubblica istruzione è, di per se stesso, un corpo elettivo.

Ho finito, salvo ricordare, se l'onorevole Presidente mi consente, l'onesto e candido ordine del giorno, che mi sono permesso di presentare relativamente al ripristino delle Corti di cassazione regionali soppresse dal fascismo.

Dico candido ed onesto ordine del giorno perché le ragioni per le quali io sollecito la restaurazione di un istituto già esistente e soppresso dal fascismo, sono nitidamente esposte, ed apertamente precisate nel mio ordine del giorno. Non v'è che da scorrerlo, per conoscerle, e per poterne apprezzare l'intrinseco valore, accanto alla confutazione delle ragioni opposte.

È un ordine del giorno — (lo dico a titolo di soddisfazione) — che reca le firme di colleghi di tutti i settori della Camera. E questo è un fatto consolante, perché significa che, quando ci troviamo di fronte a ragioni di autentica giustizia, scompaiono le distinzioni e le divergenze di partito.

Il mio ordine del giorno ha suscitato proteste, che avevo preveduto, perché riconosco lealmente, che esso involontariamente ferisce interessi rispettabilissimi, anche se non tutti di ragione prettamente ideale, che si sono venuti consolidando in questi venticinque anni.

Ma ecco che è sopraggiunta la protesta della Suprema Corte, e per di più, ieri in quest'Aula ha echeggiato il grido appassionato, angosciato dell'amico Bozzi: «Corti di cassazione regionali? Ma, dopo di esse, sbucheranno le Corti di cassazione di ogni singola Regione. In tal modo — diceva l'amico Bozzi — voi frantumate l'unità della giurisprudenza, voi colpite a morte l'unità dello spirito nazionale». Poco è mancato che non si sia detto che la Patria è in pericolo...

Gasparotto. La patria giurisprudenza.

Villabruna. Amico Bozzi, prima esistevano cinque Cassazioni regionali, e di questo delitto di lesa patria noi non ce ne siamo mai accorti.

Si dice: «Le Cassazioni regionali frantumano l'unità della giurisprudenza». Orbene, la difformità della giurisprudenza esiste anche con la Cassazione unica e, in fondo, non è un gran male, perché l'urto delle idee giova nelle questioni giuridiche. Ed io mi permetto di dirle, amico Bozzi, che la Cassazione unica ha un grande inconveniente: quello di favorire uno stato di inerzia, perché una volta trovata la massima della Cassazione unica, a chi vien dopo di essa non par vero di sedersi su quella massima come sopra una soffice poltrona, dalla quale non è facile e non è gradito di sollevarsi.

E infatti, senza far torto al Supremo Collegio, non c'è che da esaminare la giurisprudenza d'oggi per dover lealmente riconoscere che, con la Cassazione unica, la giurisprudenza si è anchilosata, si è impoverita.

Persico. No!

Villabruna. Il collega Persico dice di no, perché quanto più povera è la giurisprudenza, tanto più facili sono per lui le vittorie in Corte di cassazione. (Ilarità).

Ora, onorevoli colleghi, uno dei pregi delle Cassazioni regionali sarà precisamente quello di destare lo spirito di emulazione fra Cassazione e Cassazione, e di dare così impulso alla giurisprudenza e all'elaborazione del diritto.

E non venite a dirmi che con il ripristino delle cinque Cassazioni, ciascuna Regione pretenderà di averne una sua. Intanto resti ben chiaro che noi chiediamo che siano ripristinate esclusivamente le Cassazioni soppresse dal fascismo; per quanto riguarda quelle che potranno essere invocate dalle singole Regioni, a ciò penseranno i nostri nipoti, se questa Costituzione sarà ancora in piedi.

Ma — ed ho finito — v'è una ragione che vale, amico Bozzi, tutte le altre perché la nostra istanzia sia accolta: è inutile proclamare democrazia!, democrazia!, democrazia!, quando all'atto pratico si tenta poi di ostacolare qualsiasi iniziativa che sia diretta a dare una fisionomia democratica alla giustizia, che tenda a spianare la via per portare la giustizia al livello del popolo, per renderla ad esso accessibile.

È inutile voler negare una patente verità: vi sono preoccupazioni, condizioni di difficoltà che in quest'Aula non sono forse avvertite, non sono forse considerate in tutta la loro importanza; ma, nella vita reale, me lo sa dire lei, amico Bozzi, che cosa significa affrontare, specialmente in materia civile, un ricorso in Cassazione? La Cassazione è diventata un articolo di lusso, è un bel tempio nel quale possono accedere, sì, quelli che dispongono di larghi mezzi finanziari, ma dalla cui porta debbono rimanere fuori coloro che non sono in queste condizioni.

Ecco la ragione più forte, che ci ha stimolati a chiedere il ripristino di queste Cassazioni regionali. Noi domandiamo che si elimini un iniquo privilegio, che si metta la giustizia alla portata di tutti, perché un simile privilegio è ingiusto e antidemocratico!

Noi sentiamo l'onesto orgoglio di avere formulato tale istanza col nostro ordine del giorno. Avrà fortuna? Non avrà fortuna? Io non lo so. Concludo però con il dire, che io mi sento fiducioso, quando penso che il nostro ordine del giorno è stato presentato ad un'Assemblea che giustamente si gloria del suo spirito democratico, delle sue origini democratiche, e, se questo veramente è, io credo che l'Assemblea non sarà insensibile al nostro appello. (Applausi Molte congratulazioni).

[...]

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Vinciguerra. Ne ha facoltà.

Vinciguerra. Onorevoli colleghi, è mia modesta opinione che il nostro intervento in questo dibattito debba avere per scopo di porre dei concreti problemi giuridici e di starvi poi vicini per quanto più è possibile; giacché questa materia del Titolo IV è assai vasta e anche un po' seducente, per cui essa consente ed ha consentito le più ampie divagazioni; divagazioni alle volte non del tutto innocenti.

Per esempio, una di queste si è avuta a proposito delle Corti di assise, materia da procedura penale, materia che va riservata all'Assemblea legislativa di prossima elezione. Ma non si è tralasciata l'occasione per dire che il ripristino della Corte d'assise con i giurati rappresenterebbe la irruzione della folla anonima, del numero — diceva l'onorevole Crispo — indifferenziato nell'amministrazione della giustizia. Il numero indifferenziato non sa distinguere; e, di conseguenza, non sa giudicare. E poi, in via di esemplificazione, si diceva: Ma vi pare possibile nel momento in cui i giudizi penali diventano prevalentemente tecnici, avere il giudizio esatto dal povero montanaro, dall'operaio o dal semi-analfabeta, che è stato scelto per l'occasione e investito dell'alta funzione della giustizia? Dimenticava però l'onorevole Crispo che le migliori arringhe in materia di tossicologia ebbe a pronunciarle Nicola Amore proprio innanzi alle Corti di assise con i giurati.

Una divagazione, a mio modo di vedere: in quanto sarebbe bastato dire che i giurati vanno selezionati, prescelti da categorie sociali che offrano le dovute garanzie, e dire ancora che alle Corti d'assise vanno riservati i delitti politici, i reati passionali, per vedere semplificato enormemente il problema e non sentirsi autorizzati a prospettarlo sotto la forma paurosa d'una demagogia che invade, per cui si è sentito quasi il bisogno di tracciare le linee di un trattatello di perfetta democrazia.

Sì, si dimentica, a proposito della aborrita Corte di assise, che il giurato poteva essere scartato se non offriva le dovute garanzie. Un maestro delle giurie è l'onorevole De Caro, e sa se c'era o meno questa garanzia! Si dimentica — d'altra parte — che la giuria è destinata alla valutazione del fatto umano, del fatto umano nel suo complesso, nella sua naturalità e passionalità, dinanzi al quale il giudice togato, abituato alla formula, all'inquadratura giuridica, alle volte resta opaco, ed inaccessibile.

Per questi oppositori la giuria è pericolosa e l'onorevole Villabruna faceva un esempio dei più caratteristici, un esempio che è stato come un anello dalla magnifica catena di idee ardite della sua esposizione. E faceva l'ipotesi di un imputato che vada a finire dinanzi ad una giuria composta prevalentemente di democristiani, ed egli sia per ipotesi un socialista o un comunista, e prospettava la triste sorte del disgraziato. Ma l'esempio non calza col vero, perché se è stato fatto il divieto ai magistrati di appartenere a partiti politici, ognuno di essi avrà ciò non pertanto le sue idee politiche, la sua passione politica; dimodoché, se quell'esempio dell'onorevole Villabruna dovesse valere qualche cosa, dovrebbe portare diritto alla abolizione di tutte le forme di giudizio, comprese quelle dei magistrati. Quell'esempio fa parte delle assurdità che vengono messe in campo per combattere l'istituto della giuria, che ha reso grandi servizi alla libertà, un istituto che comunque ci viene dalla libera Inghilterra, la quale, se non erro, non è poi il paese più arretrato ed analfabeta di questo mondo.

Dunque, si è divagato intorno alle Corti di assise.

E invece, abbiamo da porre problemi giuridici concreti. Uno per la Magistratura è stato posto, e non ho la pretesa di dire delle cose originali: quello sulla indipendenza del potere giudiziario.

Come garantire questa indipendenza? È un problema. Ma di contraccolpo ci si domanda: come evitare che la Magistratura diventi una casta? Infatti, onorevoli colleghi, un potere giudiziario che sia casta è non meno pericoloso di un potere giudiziario che sia prono, asservito al potere esecutivo. Si obiettava che un'autonomia rigorosa concessa al potere giudiziario per costituirne l'indipendenza non può portare di per se stessa al pericolo della casta chiusa, e si citava l'esempio dei consigli professionali e di questa stessa Assemblea — mi pare che parlasse così l'onorevole Crispo — la quale e i quali consigli professionali con la loro autonomia in nulla hanno pregiudicato anche al loro libero e salutare funzionamento. Ma se non erro c'è qui un equivoco fondamentale. Sta in questo: la Magistratura ha funzioni di sovranità, applica la legge, ha una forza e una attività di sanzioni operativa verso di tutti. La sentenza che sia passata in giudicato costituisce un ostacolo, uno sbarramento per tutte le pretese. Ora, i consigli professionali hanno la stessa autorità, lo stesso potere di applicazione di legge? Lo avrebbe per caso l'Assemblea politica, per esempio la nostra Assemblea Costituente? Sissignori; noi abbiamo il potere di legiferare, però questa è un'Assemblea che domani sarà sottoposta ad un giudizio — e che specie di giudizio! — quello delle elezioni; un giudizio davvero universalistico, il quale ne valuterà tutta l'opera. E se è così, questa Assemblea non può essere mai confinata nella categoria delle caste.

Ma quando diciamo che vi è il pericolo che la Magistratura diventi una casta accenniamo alla possibilità che essa diventi un potere che non ammetta forme di controllo se non attraverso la propria gerarchia. Ora, una Magistratura di questo genere evidentemente deve preoccuparci e ci preoccupa. Ma, prima di questo, l'Assemblea deve preoccuparsi di dare la garanzia dell'indipendenza alla Magistratura. C'è un articolo in questo progetto di Costituzione che è di un'audacia quasi unica; è l'articolo 126, quello che dà vita ad uno strano istituto; l'istituto della Corte costituzionale. Ad esso attribuisce un potere assolutistico quando dice che la Corte costituzionale giudica della costituzionalità di tutte le leggi.

Ora, signori miei, dire che la Corte costituzionale possa giudicare della costituzionalità di tutte le leggi a me pare che significhi dire qualche cosa che non risponde e non può rispondere all'effettivo funzionamento dei poteri dello Stato, e tanto meno al funzionamento del potere giudiziario, giacché il potere giudiziario ordinario ha rapporti con l'esecutivo, ha rapporti con le amministrazioni, ha rapporti perfino con il Parlamento. Difatti facciamo l'ipotesi (una ipotesi, del resto, che è già un fatto per quello che è avvenuto con la ratifica dell'ultimo trattato di pace che importa limitazioni anche di diritti individuali di libertà), che un trattato di carattere internazionale, ratificato dalla Assemblea, sancisca determinate forme di rapporto fra privati e i privati insorgessero, lesi nel loro diritto, presso l'autorità giudiziaria ordinaria. Potrebbe la Magistratura esimersi dal portare il suo esame sulle formalità di questo trattato e vedere se esso ha avuto tutti i crismi e se è entrato nella vita internazionale con le forme che sono prescritte perché il trattato possa avere la sua vita giuridica? Evidentemente no; il potere giudiziario avrebbe questo diritto. Alla Corte Suprema di cassazione non potrà essere vietato il sindacato della costituzionalità. Ed allora esso non può essere riservato come un patrimonio esclusivo alla Corte costituzionale di nuova creazione. Necessità quindi di garantire le condizioni dell'indipendenza a questo potere giudiziario, che può entrare in contrasto anche con gli altri poteri dello Stato nell'applicazione della legge.

Contrasto e non conflitto rivoluzionario, come ipotizzava poco fa nella sua fantasia il preopinante onorevole Villabruna, pensando addirittura ad un urto con il Presidente della Repubblica quale Presidente del Consiglio Superiore. Se si verificasse una ipotesi del genere, effettivamente saremmo in piena rivoluzione. Ma questo progetto di Costituzione garantisce la indipendenza della Magistratura? A me pare di no. Ed è proprio l'articolo 97 che la vulnera. Questo articolo 97 che la vulnera non già con la creazione di un secondo vicepresidente pleonastico, ovvero col mettere il Presidente della Repubblica, che rappresenta l'unità dello Stato, a presiedere il Consiglio Superiore, ma con l'introdurvi l'elemento politico, e per giunta, in parità numerica con l'altro elemento eletto dai magistrati. Una parità numerica che inficia l'indipendenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Allora si ravvisa opportuno accogliere il voto dell'Associazione nazionale dei magistrati che propone vi sia l'elemento elettivo, ma con la prevalenza numerica di quello designato dai magistrati. Così avremmo nell'interno del Consiglio Superiore fattori che ne garantiscano la indipendenza e nel contempo evitino il pericolo della casta chiusa.

Perché è bene riflettere sul funzionamento e sui poteri di questo Consiglio Superiore della Magistratura, il quale segue tutta la vita del magistrato dall'assunzione alla promozione ed ai trasferimenti. Un organo del genere che fosse sotto l'influenza politica, sarebbe evidentemente un organo non adatto a dare una Magistratura indipendente, perché il magistrato è un uomo e non un eroe e sottoposto a questa forma di controllo, potrebbe essere tentato di ubbidire piuttosto alla voce del suo interesse personale anziché alla missione che lo Stato gli affida.

Di emendamenti ne sono stati proposti molti, e ne pigliamo atto con gradimento in quanto dimostrano che questa Assemblea non lascia passare le disposizioni del Titolo IV così, come sono, ma le sottopone al vaglio della sua critica e le modifica conformemente a quelle che ritiene siano le necessità nazionali.

Mi riservo in ogni modo di presentare per mio conto, se necessario, quegli emendamenti che valgano a far sì che il Consiglio Superiore sia un organo di tutela della Magistratura e non il preoccupatore.

Se, per quanto riflette la indipendenza del magistrato, si può trovare nella composizione del Consiglio Superiore qualcosa che non va, occorre far presente all'Assemblea che non soltanto nel suo funzionamento può trovarsi la garanzia o meno della indipendenza della Magistratura. Alla indipendenza della Magistratura sono coordinate altre questioni, non meno importanti. Noi dobbiamo attendere ad un altro dei problemi giuridici, che io dicevo doversi proporre in concretezza al giudizio dell'Assemblea. La costituzione del pubblico ministero deve avvenire in modo che esso non sia, come oggi è, organo del potere esecutivo, ma organo giudiziario, parte del corpo della Magistratura; non sia l'occhio vigile di un potere estraneo, insinuato in quello giudiziario, ma sia invece il collaboratore per l'attuazione della legge, un elemento di questo potere.

C'è un'altra questione che non va tralasciata, non questione di carattere temporaneo; bisogna avere le Cassazioni regionali o la Cassazione unica?

È augurabile che ci sia unica Cassazione. La giurisprudenza ha variato; tuttavia ha variato meno di quando c'erano le cinque Corti regionali.

C'è un problema insito allo stesso organismo della Magistratura: il problema delle autorizzazioni a procedere.

Vogliamo l'azione penale libera, ma non rare volte avviene che l'azione penale è sbarrata da un divieto. Perché il giudizio possa avere il suo corso, c'è bisogno della così detta autorizzazione; la quale, alle volte, riguarda non già questo o quel funzionario della pubblica amministrazione, che abbia potuto commettere un reato nell'esercizio delle sue funzioni, ma persino estranei che abbiano potuto prestare la loro assistenza in fatti alle volte assai gravi, diretti contro la integrità fisica dei cittadini e la loro libertà. È la testuale disposizione dell'articolo 16 del Codice di procedura penale. Questo tuttavia è il caso meno preoccupante di divieto di esercizio dell'azione penale senza autorizzazione. Ve ne sono altri forse di maggior rilievo, diretti a creare la impunità a funzionari con attività meramente politica. Daremo le necessarie specificazioni in sede di emendamento.

Da più parti sono state avanzate istanze per il miglioramento delle condizioni economiche dei magistrati, condizione prima della loro indipendenza. Non lo disconosciamo, ma ci sia lecito osservare che non è certo compito della Carta costituzionale fissare i limiti degli stipendi. Ci sia una garanzia economica, ma noi, che facciamo una Carta costituzionale, dobbiamo dettare delle norme giuridiche di carattere permanente e queste norme di carattere permanente debbono essere dirette, soprattutto, a sgombrare il terreno della giustizia da quegli impedimenti, che tuttavia ci sono, e rappresentano il triste retaggio della diffidenza della pubblica amministrazione di regimi autoritari che non consentivano che l'occhio della giustizia penetrasse nei loro organismi. Ed allora la garanzia dell'indipendenza della Magistratura non deve essere una frase così, lanciata in aria, ma qualche cosa di complesso e di assai serio. La garanzia esterna di indipendenza del potere giudiziario sta nella inamovibilità della Magistratura. Ma è bene intendere che la inamovibilità dei magistrati non è un favore personale fatto ad essi, ma è una garanzia posta nell'interesse dei giudicabili, e la inamovibilità è una massima costituzionale che non ha bisogno di essere dimostrata.

Le Costituzioni moderne hanno affermato il diritto alla inamovibilità dei giudicanti, sia pure con alcuni temperamenti.

Ma, se la Magistratura ha bisogno di garanzie giuridiche, dell'intervento a suo favore del potere costituente, diciamolo pure: la Magistratura deve trovare anche in se stessa la ragione ed il motivo della propria garanzia. In se stessa, esercitando nobilmente la sua funzione; ed intanto una delle piaghe della Magistratura è il carrierismo, che porta alle disfunzioni. Onde, se una modifica vi deve essere nell'ordinamento giudiziario, io mi augurerei che fosse la modifica che desse, come unico sistema di promozione, quello dell'anzianità e lasciasse libera soltanto la facoltà, a chi lo vuole, di poter avere la promozione attraverso il concorso per esami. Niente promozioni per il solo merito, distinto o meno che fosse. Vi sono le promozioni di categoria e di grado, le quali, affidate al potere irrefrenato del Ministro, tolgono ogni valore alla inamovibilità. Non si è fatto molto con la inamovibilità, perché il potere esecutivo, se non ha il mezzo di punire, ha quello di ricompensare. La promovibilità è tra le sue mani un mezzo di influenza tanto efficace, e conseguentemente così pericoloso quanto l'amovibilità; specialmente se si tratta di una promovibilità arbitraria. Per tal modo l'inamovibilità diventa una pura lustra. Ciò ci induce a ritenere che la promozione di grado debba avvenire per l'anzianità di servizio.

E con quest'ordine di idee modestamente esposte, giacché non ho avuto la pretesa di venire qui a tracciare la Carta definitiva del potere giudiziario, ma prospettare singoli problemi, credo di avere adempiuto al dovere che ha ciascuno di noi di dire liberamente il proprio pensiero su un titolo quale il IV, tra i più importanti della Carta costituzionale. (Applausi).

Presidenza del Vicepresidente Pecorari

Presidente Pecorari. Non essendo presenti gli onorevoli Varvaro e Fusco, iscritti a parlare, si intende che vi abbiano rinunziato.

E iscritto a parlare l'onorevole Bettiol. Ne ha facoltà.

Bettiol. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi siamo qui come dei rari nantes nel gurgite vasto di questo argomento che ci afferra tanto nei suoi momenti razionali, quanto in quelli passionali: l'argomento della Magistratura, che è poi l'argomento dell'amministrazione della giustizia che rese pietoso l'uomo verso se stesso e verso gli altri, come disse più di un secolo fa un nostro grande poeta; pietoso di quella pietas la quale è l'espressione concreta della giustizia. Ed intendiamo per giustizia la concreta applicazione della norma di legge, perché tutto il problema della Magistratura nella sua interna organizzazione, nei suoi poteri, nelle sue libertà, nella limitazione delle sue libertà, è polarizzata attorno all'applicazione singola dell'astratta norma di legge. Norma di legge che non può essere concretamente applicata così come si appiccica un francobollo alla lettera che si spedisce, secondo l'immagine di un grande penalista vivente. L'amministrazione della giustizia, e, quindi, l'applicazione delle legge è, invece, un vero e proprio dramma in quanto il processo può essere paragonato, ed è stato paragonato, ad una sacra rappresentazione, forse l'ultima delle sacre rappresentazioni che vengono ancora celebrate nel nostro secolo. Una sacra rappresentazione, quindi un dramma, che non può essere visto, impostato o risolto esclusivamente in base a criteri di logica astratta, quella logica astratta che un filosofo moderno, l'Unamuno ha considerato propria del foro e dei barbieri.

Questo problema deve essere impostato in base, anche a criteri di logica concreta, in relazione non soltanto a quelli che sono gli interessi in conflitto fra di loro, come stamani accennava il collega Dominedò, ma anche in riferimento a quelli che sono i concreti valori morali e sociali. Se il problema della giustizia deve essere risolto in termini di logica concreta, più che in termini di logica astratta, è chiaro che il problema dell'amministrazione della giustizia, volenti o nolenti è, alla radice, un problema politico.

Io so che forse scandalizzerò più di uno dei colleghi che siede sui banchi di questa Assemblea, ma la conseguenza che scaturisce da questa impostazione del problema è che il momento politico non è estraneo a quella che può essere la organizzazione e la struttura della Magistratura, cioè di quell'organo che è chiamato in concreto ad applicare la legge.

Ora, se ci possono essere dei principî i quali sembrano forse sfuggire, nella loro enunciazione astratta, alla realtà concreta della organizzazione politica, è chiaro che, da che mondo è mondo, cioè da quando gli uomini hanno incominciato a riflettere sui problemi dell'amministrazione della giustizia, sono state le fondamentali concezioni politiche a determinare anche orientamenti e strutture dell'organismo giudiziario, e, quindi, anche dell'amministrazione concreta della giustizia. In altre parole questo problema deve essere impostato e risolto nel quadro delle determinanti concezioni e della realtà politica. Questo è un dato storico al quale non si sfugge. Io so che molti colleghi, moltissimi pensatori e studiosi dell'argomento, fanno appello al principio della divisione dei poteri, ed io per primo riconosco che il principio della divisione dei poteri risponde indubbiamente ad una delle fondamentali esigenze della nostra coscienza democratica, però (e lo disse anche stamane l'onorevole Dominedò) il principio della divisione dei poteri non può costituire un dogma logico e ontologico che vive al di fuori della storia; in altre parole noi, uomini che ci occupiamo di diritto e di politica, non possiamo, di fronte all'argomento della divisione dei poteri, metterci nello stato d'animo in cui, ad esempio, si mette il monaco tibetano, di fronte alla montagna incantata, in una assoluta immobilità di fronte alle vette eterne e nevose, come uomini viventi al di fuori del flusso storico; noi dobbiamo sempre cercare di impostare e risolvere anche questo problema della divisione dei poteri in relazione alle strutture fondamentali del corpo politico democratico, nel quale noi ci muoviamo, e per il quale siamo qui operanti sul piano politico.

Ecco, quindi, il problema: per garantire una retta ed oggettiva amministrazione della giustizia, è necessario stabilire un regime costituzionale per la Magistratura, che sia tale da separare nettamente e marcatamente la Magistratura da ogni altro potere dello Stato, o non è più conveniente eliminare questa frattura, onde si arrivi, sì, alla necessaria libertà e indipendenza del magistrato, che singolarmente e concretamente è chiamato a dire ciò che è il diritto, ma nel quadro di un armonico riordinamento dei tre poteri.

Ora, di fronte a questa domanda, che affatica la nostra mente, le risposte sinora date da coloro che autorevolmente hanno parlato in argomento di fronte a questa Assemblea si possono ridurre a due. Da un lato (e ricordo gli interventi degli onorevoli Bozzi, Crispo e sotto certi aspetti, dell'onorevole Villabruna) ci sono coloro che vogliono un regime costituzionale per la Magistratura, che sia veramente autonomo e indipendente da ogni altro potere, sicché, volenti o nolenti, anche se concretamente non lo affermano, devono arrivare logicamente a quel regime di casta chiusa, di circolo chiuso, dal quale essi dicono di voler, invece, rifuggire. In realtà però la logica è tale da trascinare costoro, prima o dopo, a quella conclusione, di portarli cioè, per la Magistratura, a determinare già sul piano costituzionale un regime tabù, vale a dire una specie di torre del silenzio entro la quale i magistrati nascono, vivono e muoiono, senza essere sottoposti neanche dopo la loro morte al travaglio degli avvoltoi politici che li stanno dall'alto della torre a guatare.

Ora, è indubbio che nell'ambito di questa casta, se questa casta dovesse realmente costituirsi sul piano costituzionale, per fatale corso delle cose, per fatale forza dei principî noi verremmo ad avere una Magistratura, in cui le funzioni si tramandano, come spesso accade, da padre in figlio, con una mentalità veramente chiusa, con mentalità — scusate la parola — spesso retriva.

Ora, è chiaro che questo, forse, può essere l'ideale di un certo liberalismo conservatore, di quel liberalismo che ama più i concetti che svettano al disopra delle nuvole, di quella che è la realtà viva e palpitante della nostra vita quotidiana e della nostra storia.

Dall'altra parte ci sono coloro i quali vorrebbero, invece, mettere, anima e corpo, la Magistratura sotto le forche caudine del potere esecutivo, del potere politico, sì da arrivare ad una vera e propria politicizzazione della Magistratura e dei canoni particolari, in base ai quali il magistrato sarà chiamato ad applicare la legge in relazione al caso concreto.

Questo processo di politicizzazione della Magistratura, questa totale subordinazione della Magistratura al potere politico, è stato proprio ed è proprio dei regimi antidemocratici, e anticostituzionali, che non considerano il principio della divisione dei poteri come un principio direttivo, in relazione al quale questa questione dovrebbe essere impostata e risolta.

Ora, io credo che, tra queste due soluzioni, tra queste due strade opposte, le quali conducono a due poli opposti, si debba cercare di risolvere il problema passando attraverso una strada intermedia, cioè cercando di far sì che la Magistratura venga ad essere armonicamente inquadrata con gli altri poteri dello Stato, senza però che tali contatti armonici possano in concreto determinare, in relazione al singolo giudice, uno sviamento rispetto a quei canoni che debbono essere seguiti, perché la giustizia sia praticamente applicata.

Non quindi subordinazione assoluta della Magistratura al Ministro della giustizia e quindi all'esecutivo, ma d'altro canto nemmeno una soluzione che sganci completamente la Magistratura da quelli che sono gli altri fondamentali poteri costituzionali del nostro Stato democratico. Bisogna, cioè, cercare di arrivare ad una soluzione nell'ambito della quale la Magistratura possa, da un lato essere agganciata al potere esecutivo e, dall'altro, al potere legislativo, così come esiste, sotto molti profili, coordinazione fra il potere esecutivo e il potere legislativo.

Ora, voi sapete, onorevoli colleghi, che il progetto di Costituzione cerca di risolvere questo arduo problema mediante la costituzione del Consiglio Superiore della Magistratura, i cui membri dovrebbero essere per la metà scelti dai magistrati e per l'altra metà scelti dalle Camere, presieduto poi dal Presidente della Repubblica.

Certo, io mi rendo conto di quelle che sono le obiezioni, anche giuste e fondate, in relazione alla presenza di questa metà di componenti scelti dalle Camere. Se infatti al Consiglio Superiore vengono commessi tutti quei poteri relativi alle nomine, alle promozioni, a tutto quanto, in una parola, si riferisce alle carriere, è chiaro che coloro i quali desiderano fare carriera, potranno puntare sugli elementi politici per avere un voto di maggioranza che consenta loro di avanzare sulla accidentata scala della loro carriera.

Io riterrei pertanto opportuno non già di eliminare i membri estranei dal Consiglio della Magistratura, ma di ridurre il loro numero dalla metà ad un terzo. Quanto ai membri estranei alla Magistratura che dovrebbero esser chiamati a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura, desidero dire anche che io, ad esempio, mi guarderei bene dall'aderire ad alcuni emendamenti che ho visto proposti nel fascicoletto che li raccoglie.

Non vorrei, nella specie, aderire all'emendamento proposto dall'onorevole Villabruna, il quale propone che questi membri estranei siano tutti scelti tra i presidi delle facoltà giuridiche. Io mi guarderei bene, onorevoli colleghi, dall'aderire a una simile proposta, perché, avendo io una certa dimestichezza con l'ambiente accademico in cui sono, per così dire, incardinato, so molto bene come tra l'ambiente accademico e l'ambiente della Magistratura non abbia mai corso buon sangue.

Che cosa potrebbe allora accadere, se l'emendamento proposto dall'onorevole Villabruna venisse approvato? Accadrebbe precisamente quello che avviene quando due galli si trovano insieme nello stesso pollaio, cosicché le povere galline, fra i due galli concorrenti, non riescono a deporre le loro uova.

Con ciò credo che si potrebbero evitare i guai di un Consiglio politicizzato, e si potrebbe invece arrivare ad un'autonomia che non sia anti-storicistica, cioè ad una autonomia che non sia in contrasto con quelle che sono le fondamentali esigenze storiche del momento che noi attraversiamo. Perché ogni problema — anche questo problema, ripeto — deve essere risolto in base a quelle che sono le fondamentali esigenze del corpo politico, entro l'ambito del quale noi siamo chiamati ad operare.

Ma il problema dell'indipendenza della Magistratura è ancora un problema astratto, perché quello che conta veramente è di studiare i mezzi per rendere concreta la libertà effettiva del singolo magistrato chiamato a dire ciò che è diritto. E qui, nel progetto costituzionale, credo che questa libertà sia garantita dalle norme le quali dichiarano che i magistrati sono inamovibili, dalla norma la quale afferma che i magistrati si distinguono fra di loro, non già per diversità di gradi — è pericoloso stabilire una gerarchia tra i magistrati, perché l'espressione tipica della gerarchia è il comando che il superiore rivolge all'inferiore, e che può essere in certi determinati casi cogente, obbligatorio, anche se anti-giuridico — ma per diversità di funzioni; ed in terzo luogo dal fatto che i magistrati dipendono esclusivamente dalla legge, e che essi poi non possono far parte di partiti politici o di associazioni segrete.

Io condivido pienamente il punto di vista del progetto, il quale fa divieto ai magistrati di aderire a partiti politici. Ho sentito questa mattina le intelligenti argomentazioni del collega Ruggiero, ma non mi hanno convinto, circa la necessità di vietare ai magistrati di appartenere ai partiti politici, perché l'appartenenza ad un partito politico rappresenta pur sempre una situazione psicologica nell'anima del giudice, dalla quale egli difficilmente può prescindere e che può essere influenzata dal di fuori.

Invece per quanto riguarda l'affermazione del progetto di Costituzione, là dove è detto che i magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano e applicano secondo coscienza, io, onorevoli colleghi, credo che l'inciso «che interpretano e applicano secondo coscienza» dovrebbe essere eliminato, perché è piuttosto pericoloso, quando si ha a che fare col problema delle lacune, di fronte alle quali, inevitabilmente, il giudice si viene nella sua concreta attività spesso a trovare. È chiaro che di fronte ad una lacuna il giudice oggi non è lasciato completamente libero di giudicare secondo coscienza o secondo i dettami di un diritto ultrapositivo, come in certi determinati ordinamenti giuridici moderni, ma deve seguire già certi canoni logici, teleologici, cogenti, che sono previsti dalle disposizioni preliminari al Codice civile. Comunque, questo inciso potrebbe lasciare dei dubbi circa un eventuale sconfinamento del magistrato nel campo della libera creazione del diritto e nell'ambito di una libera applicazione di un diritto preesistente al caso concreto.

Credo che debba essere approvato quanto è stabilito nel progetto circa il divieto di determinare o di creare dei giudici speciali in materia penale. Credo però che questo termine «speciale» vada inteso come giudice straordinario, perché già un collega mi faceva osservare come, se dovessimo applicare questa norma rigorosamente, noi dovremmo anche eliminare la magistratura nei confronti dei minorenni, perché in questo caso, se anche non si tratta di una magistratura speciale al cento per cento, si tratta pur sempre di una magistratura con una funzione speciale. Invece per quanto riguarda i giudici straordinari, si deve tener conto che essi vengono creati nei momenti di passaggio da un regime politico all'altro, o quando si verifica qualcosa di nuovo nell'ambito politico preesistente, e il giudice straordinario rappresenta una violazione del principio secondo il quale nessuno può essere sottratto ai suoi giudici naturali, cioè ai giudici precostituiti.

Ogni giudice speciale, nel senso inteso dal progetto costituzionale, deve essere eliminato, perché ogni giudice speciale è un giudice politico, che nel momento concreto dell'applicazione del diritto è quindi tale da non sottrarsi all'atmosfera del corpo al quale egli appartiene.

Io non capisco, e in ciò aderisco pienamente a quanto brillantemente ha affermato il collega Villabruna, la norma prevista dal progetto, per la quale i tribunali militari non possono essere istituiti in tempo di pace.

Voglio fare riferimento all'idea fondamentale che il diritto in genere, e anche il diritto penale e processuale in particolare, sono sempre l'espressione d'una determinata istituzione, che può essere lo Stato nella sua totalità, ma che può consistere anche in altre istituzioni che si sviluppano ed operano nell'ambito dello Stato stesso.

L'idea di questa concezione istituzionale del diritto è oggi un'idea fondamentale e congenita; quindi negare la possibilità di istituire questi tribunali in tempo di pace, significa negare alla radice questa concezione istituzionale, che non è cervellotica invenzione di giuristi che vivono al disopra delle nuvole, ma espressione concreta e concreta visione della realtà sociale dalla quale il diritto si sprigiona.

Ed è chiaro che l'esercito è un'istituzione. Militaristi o antimilitaristi, non si può misconoscere che l'esercito ha una sua origine, una sua tradizione, un suo spirito, una sua disciplina, un suo senso particolare dell'onore, rispetto al quale non valgono, ad esempio, le norme proprie della legislazione penale comune. Perché in concreto il senso dell'onore nell'ambito militare deve essere più forte, più sentito di quanto non sia nella comune legislazione. Sicché il giudice comune non potrebbe comprendere in pieno la fattispecie della situazione nella quale il militare, che abbia offeso l'onore di un altro militare o che è stato offeso nel suo onore, si viene a trovare.

Qui si tratta di concetti incarnati e immedesimati nella concreta istituzione dalla quale si sprigionano, ed è per tutelare questi valori sociali di questa istituzione ed emettere una sentenza che non urti con le fondamentali esigenze dell'istituzione stessa, che è opportuno conservare questi tribunali militari anche nel periodo di pace, e non soltanto nel periodo di guerra o in occasione di guerra.

E veniamo brevemente alla giuria.

Già da più parti qui si è parlato contro la giuria, e poche voci finora si sono levate a favore della giuria.

Una pregiudiziale: questo problema potrebbe essere anche un problema, anzi dovrebbe essere, un problema di codice, cioè di legge particolare, non un problema costituzionale. Un problema da demandarsi ad una legge sull'ordinamento giudiziario, da demandarsi alla futura struttura del codice di procedura penale, senza risolverlo sul piano costituzionale. Che se lo si vuole risolvere sul piano costituzionale, allora sia concesso a tutti, come è stato concesso, e sia concesso anche a me di dissentire da quella che può essere la soluzione data dall'articolo 96.

Si è voluta vedere una correlazione assoluta fra democrazia e giuria. Ma io ricordo quanto, ad esempio, ieri ebbe a dire al Congresso dei giuristi di Firenze l'illustre collega Leone: che il problema della giuria non è un problema politico, che possa essere impostato in termini politici. È soprattutto e soltanto un problema di competenza, non già un problema nel quale si voglia vedere, costi quel che costi, il riflesso di una determinata concezione politica democratica o antidemocratica.

Non è già, quindi, in base al criterio dell'estrazione a sorte, ma in base all'idea della selezione per capacità tecnica, che questo problema deve essere risolto.

E se il problema deve essere risolto in base al criterio della capacità tecnica — quindi in base all'idea della selezione — è chiaro che l'istituto della giuria, così come è nello spirito di questa Costituzione, deve essere eliminato. Ma deve essere eliminato proprio per ragioni attinenti alla tecnica concreta di giudizio, perché distinguere, nel campo del diritto, nella fattispecie, l'aspetto puramente naturalistico da quella che è la qualificazione giuridica, è un assurdo.

Ed io mi richiamo a quanto insegna il maestro insigne di diritto Calamandrei, quando dice, in una sua opera, che già la determinazione concreta della fattispecie, del fatto, importa tutta una serie di giudizi, che possono essere espressi soltanto dal magistrato, in base a quelle che sono le regole di esperienza che il magistrato si è acquisite attraverso la sua più o meno lunga carriera.

Vediamo il più banale esempio di delitto di omicidio: è una cosa semplice dire sì o no. Ma, quando si tratta di stabilire se fra una determinata azione imputata ad un soggetto e l'evento di morte esiste o non esiste un rapporto di causalità, sorge un problema tremendo, che non può essere risolto facendo appello al sentimento, facendo appello alla commozione, facendo appello a quello che può essere — diciamo così — l'impeto dei giurati, tutti protesi o per assolvere o per condannare.

Questo è un problema che deve essere impostato in termini ben precisi e spesso difficili, perché le soluzioni sono diverse nel caso concreto, a seconda che si accetti la teoria della «conditio sine qua non», o la teoria della causalità adeguata.

Sono problemi di estrema difficoltà, che affaticano anche la mente di coloro che dedicano tutta la vita allo studio dei massimi problemi di diritto penale! Ora è assurdo volere rimettere questi problemi, così difficili anche sul terreno del puro fatto, a quella che può essere la sensibilità, spesso scarsa, della giuria scelta a caso o estratta a sorte da determinate urne, con la sola garanzia che ha superato l'esame di abilitazione elementare.

Quindi, questo problema è un problema tecnico che deve essere risolto senza alcuna preoccupazione di carattere politico.

C'è un altro problema da tener presente, al quale ha accennato per primo il collega Villabruna; e mi ha quasi preso la parola di bocca: il problema delle donne nella amministrazione della giustizia.

San Paolo diceva: «Tacciano le donne nella Chiesa». Se San Paolo fosse vivo direbbe: «Facciano silenzio le donne anche nei tribunali», cioè non siano chiamate le donne ad esplicare questa funzione, la quale può arrivare (per fortuna noi abbiamo eliminato in parte questo pericolo) a pronunziare una sentenza di morte. Ed è assurdo, doloroso, inconcepibile che una donna, chiamata da Dio e dalla natura a dare vita, sia chiamata anche a dare, in casi tristi, la morte. D'altro canto, il problema della donna nell'amministrazione della giustizia deve essere risolto anche in base a quelle che sono le caratteristiche ontologiche di essere uomo o donna. Perché il problema dell'amministrazione della giustizia è un problema razionale, è un problema logico, che deve essere impostato e risolto in termini di forte emotività, non già di quella commozione puramente superficiale che è propria del genere femminile, di quella commozione puramente superficiale di cui sono spesso dotati gli ingegni di giurati chiamati dai solchi o dalle officine a esprimere il loro parere in relazione a un caso concreto. Quindi, a mio avviso, le donne non dovrebbero essere chiamate ad esplicare la funzione giurisdizionale: tutte le volte in cui si affaccia questo problema, più che la nostra ragione, il nostro sentimento unitario si deve ribellare a vedere le donne con la toga amministrare la giustizia.

Da ultimo due parole e poi ho finito.

Il progetto di Costituzione elenca tutta una serie di norme sulla giurisdizione. Ma io credo che tutte queste norme sulla giurisdizione sono norme che dovrebbero trovare collocazione nel Codice di procedura penale o in una legge dell'ordinamento giudiziario, perché, ad esempio, l'articolo 101 ricopia, quasi integralmente, una norma contenuta nel Codice di procedura penale.

Vorrei dire una cosa circa l'esclusione del rimedio dell'appello per quanto riguarda le sentenze della Corte di Assise. Questo è un problema tremendo, un problema che deve essere, un giorno o l'altro, risolto, facendo in modo che il doppio grado di giurisdizione, per quanto riguarda il fatto e il diritto, sia riservato anche alle sentenze pronunciate dalla Corte di Assise, che sono poi le sentenze che riguardano i reati più gravi, proprio quei reati nei confronti dei quali è indispensabile, necessario che siano osservate tutte le garanzie giurisdizionali per salvaguardare la libertà dell'imputato e la libertà e tutela degli innocenti. Caratteristica fondamentale, infatti, di tutte queste norme sulla Magistratura, di tutto questo affanno proprio del costituente per creare una struttura della Magistratura che sia tale da funzionare egregiamente, in concreto, è tutta polarizzata verso la necessità della difesa dei diritti fondamentali di libertà del cittadino e quindi per la difesa di quella che è l'innocenza dell'imputato. La nostra concezione democratica deve portare a indirizzare tutte queste norme a far sì che la giustizia e la libertà abbiano a trionfare, in modo — e qui chiudo — che la presunzione di colpevolezza, la quale purtroppo affiora da troppe disposizioni ancora vigenti, abbia veramente a tramutarsi, secondo quanto già noi abbiamo stabilito nelle prime norme della Costituzione, in una presunzione di innocenza. Tutte queste disposizioni riguardanti la Magistratura siano come un corollario del principio già stabilito, perché la libertà individuale, e quindi la giustizia democratica, abbiano sempre a trionfare nell'ambito del nostro ordinamento giuridico e del nostro ordinamento politico. (Applausi Congratulazioni).

Presidente Pecorari. È iscritto a parlare l'onorevole Carboni Angelo. Ne ha facoltà.

Carboni Angelo. Nella elevata discussione di queste due ultime sedute, gli argomenti principali che il progetto di Costituzione propone al nostro esame — l'indipendenza della Magistratura e la unicità della giurisdizione — sono stati trattati così a fondo, che forse a chi prende la parola in questo momento riuscirà difficile non cadere in qualche ripetizione. Se questo avverrà, ve ne chiedo scusa preventivamente.

Il problema dell'indipendenza dei magistrati è, secondo me, più che un problema costituzionale e legislativo, un problema di costume individuale e collettivo.

Le solenni proclamazioni di principio, come quella che i magistrati dipendono soltanto dalla legge, saranno manifestazioni teoriche, platoniche, se ad esse non corrisponderà, dal lato dei magistrati, la coscienza che la propria indipendenza è un dovere prima che un diritto, e, dal lato dei cittadini, il senso del rispetto rigorosamente dovuto a quella indipendenza in qualunque occasione. Generalmente i magistrati italiani (ed io credo di poterlo dire con cognizione di causa, perché nella mia vita non ho fatto altro che l'avvocato ed ormai ho una esperienza di parecchi e parecchi lustri) generalmente, dicevo, i magistrati italiani sono degni della maggiore considerazione e del maggiore rispetto. Essi adempiono alla loro funzione, specialmente nei gradi più modesti, con un senso di onestà e di dedizione al dovere e con uno spirito di sacrificio veramente encomiabili. Vi sono casi eroici di magistrati, che sopportano austeramente le ristrettezze più angustianti, mentre sono chiamati a decidere cause nelle quali sono in gioco interessi patrimoniali enormi e nelle quali non manca l'occasione della corruzione. Però anche il magistrato, essendo uomo, è esposto alle tentazioni del bisogno, della carriera, dell'ambizione. Sono queste le cause di pericolose deviazioni, contro le quali deve essere apprestato un buon ordinamento giudiziario, capace di rafforzare nei magistrati la coscienza che quella del giudicare è una missione superiore alle passioni umane e d'infondere nei cittadini quella fiducia nella giustizia, che è condizione essenziale per il rispetto dell'indipendenza della Magistratura.

La Costituzione deve limitarsi a porre le linee direttive, i principî basilari, per la realizzazione dell'indipendenza della Magistratura: indipendenza costituzionale e funzionale.

A questo fine sono intese le disposizioni del progetto di Costituzione, delle quali esaminerò le principali, sottolineando quelle che a me sembrano opportune, criticando quelle che mi paiono inopportune, suggerendo modestamente alcune modificazioni.

Incomincio con l'approvare nel modo più assoluto il principio della apoliticità del magistrato, fissato nel progetto di Costituzione con il divieto di appartenenza ai partiti politici. Quando si dice divieto di appartenenza ai partiti, non si stabilisce che il magistrato non debba avere idee politiche e non debba interessarsi di problemi politici (questa sarebbe una norma innaturale); si dice soltanto che il magistrato non deve partecipare attivamente alla vita dei partiti. E questa a me pare un'ottima norma, la quale varrà a sottrarre il magistrato al pericolo delle interferenze dei partiti, con enorme vantaggio per l'imparzialità della funzione giudiziaria.

Il divieto d'iscrizione ai partiti politici costituisce la reazione al malcostume del periodo precedente, quando non soltanto l'appartenenza al partito nazionale fascista era diventata condizione per poter adire ai concorsi della Magistratura, ma quando alcuni magistrati non avevano ritegno di tenere udienza vestendo sotto la toga la divisa fascista ed eccitando negli imputati l'ostentazione dei distintivi di appartenenza allo stesso partito, quasi per sollecitare una solidarietà disonesta. Giusta reazione e misura saggiamente prudenziale, seppur si possa ritenere che in regime democratico sarebbe naturalmente impossibile il riprodursi di una degenerazione verificatasi soltanto nell'ambiente aberrante del totalitarismo fascista. E mi piace ricordare che la grande maggioranza dei magistrati italiani ha accettato favorevolmente la proposta del divieto di appartenenza ai partiti politici, con la consapevolezza che esso, mentre non li estranierà dalla vita pubblica, alla quale saranno chiamati a partecipare per altra via, li porrà al riparo anche dal semplice sospetto di parzialità, che è dannoso al decoro della funzione giudiziaria, quanto la parzialità stessa.

Il divieto servirà anche ad eliminare una frequente occasione di distrazione dei magistrati dall'esercizio delle proprie mansioni. Altri ha già detto che il magistrato deve fare soltanto il magistrato: deve cioè fare soltanto istruttorie, requisitorie, sentenze. Cessi la corsa agl'incarichi, ai comandi, cessino le applicazioni fuori del ruolo della Magistratura. Come è proposto in diversi emendamenti, vedrei volentieri allargato il divieto all'accettazione di cariche ed uffici pubblici e d'incarichi presso Commissioni od organi di carattere politico.

Un'altra condizione essenziale per l'imparzialità e l'indipendenza della Magistratura è quella di un trattamento economico adeguato alla elevatezza della funzione.

Non ripeterò cose a tutti note circa la condizione economica della nostra Magistratura. Qualcuno in quest'Aula, mi pare l'onorevole Villabruna, nell'ottimo discorso odierno, molti fuori di quest'Aula, hanno proposto una autonomia finanziaria, la quale dovrebbe arrivare sino alla costituzione di una cassa di raccolti di tasse sugli atti giudiziari.

Io non sono di questa opinione, perché: o l'autonomia finanziaria è veramente tale, ed allora mi pare che si dovrebbe concedere alla Magistratura il diritto di imporre essa le tasse, per raccogliere i fondi necessari ai suoi bisogni; e questo sarebbe un assurdo; oppure si fa soltanto quello che ho letto o che ho ascoltato, cioè si accorda alla Magistratura di distribuire fra i propri aderenti i fondi messi a sua disposizione, nei limiti di bilancio, dagli altri poteri dello Stato, ed allora non c'è più l'autonomia finanziaria. D'altra parte, la cassa, nella quale dovrebbero confluire le tasse su determinati atti giudiziari, costituirebbe una maggiore complicazione del nostro sistema tributario, già tanto complicato, e perciò pregiudizievole per l'amministrazione e per i contribuenti.

Preferisco pertanto che ci si limiti ad affermare e proclamare nettamente il principio della necessità di un trattamento economico adeguato alle esigenze; alla dignità, all'altissima funzione della Magistratura, e sottoscrivo e mi dispongo a dare voto favorevole all'emendamento presentato dall'onorevole Mastino: «Lo Stato garantisce l'indipendenza economica dei magistrati e dei funzionari dell'ordine giudiziario».

Dopo le tante garanzie introdotte in questa Costituzione, a proposito di altri problemi, ritengo che quella proposta dall'onorevole Mastino, anche se non disponiamo sin da ora dei mezzi adeguati per adempierla, sia saggia, opportuna, doverosa; e possa servire a dare ai magistrati e a coloro, che si dispongono a partecipare ai futuri concorsi, un senso di tranquillità per il loro avvenire. Però, il problema dell'indipendenza poggia più che sulla apoliticità, più che sul trattamento economico, sul prestigio dei magistrati: bisogna preoccuparsi di dare al magistrato una posizione morale adeguata alla sua funzione. A questo scopo, secondo me, serve sopratutto un buon sistema di reclutamento: occorre selezionare gli aspiranti, in modo da fare della Magistratura un corpo sceltissimo che si imponga al rispetto per le sue doti intellettuali e morali. Quindi approvo pienamente che sia messa da parte la proposta dell'elettività dei magistrati. In un paese come l'Italia, nelle attuali condizioni politiche, l'elezione dei magistrati non sarebbe un sistema encomiabile. Ed approvo anche la norma dell'articolo 98, nel quale si stabilisce, costituzionalmente, cioè impegnativamente per il legislatore futuro, l'obbligo del sistema del concorso con tirocinio. Qualcuno mi pare abbia pensato persino all'opportunità di stabilire per i concorrenti alla Magistratura il requisito di un precedente esercizio della professione forense per un certo numero di anni. Non credo che questo sarebbe opportuno, perché probabilmente, dopo un prolungato periodo di esercizio professionale, coloro che si fossero affermati, non adirebbero al concorso per la Magistratura, ed allora si diffonderebbe l'opinione che soltanto i falliti della professione forense si dedicherebbero alla carriera del magistrato.

Penso, invece, che la necessità del tirocinio sia stata opportunamente affermata nella Costituzione. Anzi, vorrei che fosse un lungo tirocinio retribuito, che si esplicasse presso tutte le autorità giudiziarie, dalle più modeste alle più elevate, perché presso le varie autorità giudiziarie il giovane magistrato acquisisse conoscenza e del diritto e del funzionamento degli organi giudiziari; e vorrei che alle funzioni giudiziarie egli fosse destinato soltanto dopo che attraverso il tirocinio si fosse accertata e confermata la sua attitudine alla funzione giudiziaria. Il concorso iniziale può servire per l'accertamento della preparazione culturale; il tirocinio servirà a vagliare il possesso delle doti morali ed intellettuali ed a dare l'indispensabile preparazione tecnica. Vorrei anche che i giovani magistrati, anziché essere destinati in primo momento alle funzioni pretorie, per poi passare ai collegi, fossero chiamati a disimpegnare le loro mansioni da principio presso gli organi collegiali, sotto il controllo e la guida dei più anziani, e solo dopo l'acquisizione di quella competenza, che si può acquistare soltanto col prolungato esercizio della funzione, fossero destinati a reggere le preture, dove si troveranno, soli con la propria coscienza, con la propria intelligenza, con la propria cultura a dover risolvere gravi problemi giudiziari, amministrativi e di umanità, che trascendono quelle che sono le conoscenze comuni degli uomini.

Non mi sento invece di sottoscrivere alla facoltà, che è prevista nel progetto, di nomina di magistrati onorari. Il magistrato onorario — e noi ne abbiamo fatto l'esperienza — è per solito un uomo, il quale dedica malvolentieri alle funzioni giudiziarie il poco tempo disponibile da altre occupazioni, considera spesso la funzione onoraria di giudice come una sinecura, se non, come avviene spesso per i giovani, come un apprendistato in corpore vili per l'esercizio della professione forense.

Comunque, certamente eccessiva è la proposta che si possa procedere alla nomina di magistrati onorari non soltanto per i posti di conciliatore e di vice-pretore, come è accaduto sinora, ma genericamente per tutte le funzioni attribuite dalla legge a giudici singoli. Sarebbe così possibile la nomina di giudici istruttori onorari.

Il problema del reclutamento dei magistrati ha aperto la via ad una discussione molto delicata, durante la quale due oratori in questo pomeriggio si sono dichiarati nettamente contrari alla proposta della Commissione, cioè all'ammissione delle donne nella Magistratura. Il progetto di Costituzione propone che possano essere nominate anche le donne, nei casi previsti dall'ordinamento giudiziario. Analogamente il disegno di legge per la riforma della Corte d'assise, già esaminato dalla prima Commissione permanente per l'esame dei disegni di legge e che dovrà essere discusso in Assemblea, propone che le donne possano far parte della giuria. In seno alla Commissione legislativa i pareri furono contrastanti e tali saranno anche in questa Assemblea, sebbene finora si siano udite soltanto voci contrarie, come quelle degli onorevoli Villabruna e Bettiol, che mi hanno preceduto immediatamente nella discussione. Per l'esclusione della donna dalla Magistratura, si è osservato che generalmente difettano nelle donne, per temperamento e per tendenza, quelle specifiche doti di esteriore autorevolezza e di interiore equilibrio, che sono indispensabili per l'esercizio della funzione giudiziaria, e che difficilmente si trovano anche negli uomini. Io non so fino a qual punto questa osservazione esprima una realtà o sia invece l'effetto di un pregiudizio misoneistico.

Certo, la donna è psicologicamente ed intellettualmente diversa dall'uomo; certo, secondo la tradizione e secondo la concezione che la grande maggioranza di noi ha della donna, che vorremmo vedere conservata alla più alta funzione della maternità, essa non sembra molto idonea a quella del giudicare, come non si è dimostrata molto idonea nell'esercizio della professione forense. Ma non credo che si possa in questa materia procedere per affermazioni astratte, generalizzatrici. V'è tutto un progresso nella cultura, nelle attitudini, nelle disposizioni della donna. V'è stato l'ingresso vivace della donna nelle varie branche del lavoro manuale ed intellettuale, per cui non ci possiamo arrestare ad una considerazione che può essere anche superata dalla realtà. Peraltro il problema della ammissione della donna nella Magistratura si può ritenere implicitamente risolto da altre norme, già approvate, della Costituzione; di fronte alle quali si potrebbe anche considerare superflua una esplicita dichiarazione, come quella proposta dalla Commissione nel primo comma dell'articolo 98, salvo che la ragione di essa non si debba rintracciare nell'inciso terminale: «nei casi previsti dall'ordinamento giudiziario ecc.», e cioè nell'intendimento di limitare per le donne l'accesso alla Magistratura, che, in mancanza di una espressa limitazione, si sarebbe dovuto considerare consentito in condizioni di perfetta parità con gli uomini. Ricordo l'articolo 3 della Costituzione, nel quale abbiamo fissato che i cittadini, senza distinzione di sesso, hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, e che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale dell'Italia». Basterebbero queste disposizioni per aprire alla donna la via alla Magistratura. Ma v'è di più, perché nell'articolo 33 si assicura alla donna lavoratrice la parità di diritti con l'uomo lavoratore, e nell'articolo 48 si stabilisce che «tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive ed agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza». Con quest'ultima disposizione si è riconosciuta alle donne la possibilità di accedere alla più alta carica, di Presidente della Repubblica, che, secondo l'articolo 97 del progetto, comporta, ope legis, la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Quindi la proposta di ammettere le donne alla Magistratura non rappresenta che un corollario del principio dell'uguaglianza e della parità di diritti con l'uomo, tanto recisamente proclamato e ribadito.

E se questo è, se noi abbiamo fissato quelle norme costituzionali con l'intento d'impegnare il legislatore futuro, non potremo violarle noi stessi escludendo le donne dalla funzione giudiziaria. Perciò, mentre non credo che si possa negare a priori ed indiscriminatamente la capacità della donna — capacità, peraltro, da accertare caso per caso attraverso il rigore del concorso e del tirocinio, come per tutti gli altri aspiranti alla Magistratura — ritengo che non ci possiamo sottrarre, senza una troppo palese contraddizione, alle conseguenze di quanto già abbiamo deliberato. Voglio aggiungere, però, che preferisco la formula della Commissione, contenente la riserva dei casi previsti dall'ordinamento giudiziario, all'emendamento proposto dalle onorevoli e gentili colleghe Mattei Teresa e Rossi Maria Maddalena, le quali vorrebbero che si dicesse che le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della Magistratura. La riserva proposta dalla Commissione è opportuna, perché darà modo di adeguare l'ammissione delle donne alle esigenze dei diversi organi giudiziari ed ai risultati concreti dell'ardita innovazione.

Passo ad un altro problema, connesso con il tema dell'ammissione nella Magistratura, cioè al tema della carriera dei magistrati.

L'amico e collega Bozzi disse opportunamente ieri che bisogna sburocratizzare la magistratura; e a questo scopo corrispondono nel progetto costituzionale alcune norme che, secondo me, sono incondizionatamente da approvare. Cioè la norma che affida le assegnazioni ed i trasferimenti di sede e di funzioni, i provvedimenti disciplinari e in genere il governo della magistratura al Consiglio superiore; quella che sancisce l'inamovibilità dei magistrati, e il divieto di dispensa e retrocessione, se non con deliberazione del Consiglio superiore; e quella, infine, particolarmente sensibile, che stabilisce che i magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non per diversità di gradi.

Si è già sottolineata l'importanza di questa innovazione, che serve a svincolare la carriera dei magistrati non soltanto dalla soggezione al potere esterno del Ministro, ma anche dalla graduazione gerarchica, che è essa stessa ragione di parzialità e di insufficiente indipendenza, comportando non tanto l'ossequio dovuto naturalmente a chi ha la funzione direttiva dell'ufficio, ma anche l'adattamento della coscienza dell'inferiore alla volontà del superiore in grado nel momento della decisione in camera di consiglio, nel quale la coscienza dei decidenti dovrebbe potersi esternare in modo completamente libero ed indipendente. Tuttavia anche la diversità di funzioni comporta il concetto di promozioni, e pur di queste si parla nel progetto, affidandone il compito al Consiglio superiore della Magistratura. Ma le promozioni subordinate ad un accertamento periodico di merito attraverso concorsi per titoli o per esame aprono l'adito al pericolo di favoritismi e di transazioni di coscienza e tengono i funzionari in uno stato di ansietà e di reciproca gelosia. Onde io vorrei sottoporre all'esame della Commissione una mia idea: se cioè non convenga stabilire che le promozioni a funzioni più elevate debbano avvenire in base al solo criterio dell'anzianità, coordinato con un procedimento di eliminazione degl'incapaci e degl'indegni.

Una volta entrati in carriera, una volta ottenuto il riconoscimento della propria idoneità attraverso il concorso per l'ammissione in Magistratura e della propria attitudine attraverso il tirocinio, i magistrati non dovrebbero essere sottoposti ad esami o concorsi per l'ulteriore corso della carriera, salvo per accedere alla Corte di cassazione, per far parte della quale occorrono competenze specifiche ed attitudini particolari ed alla quale dovrebbero essere chiamati soltanto magistrati di valore eccezionale.

Accenno di sfuggita a un altro punto del progetto, che pure merita di essere considerato in rapporto all'indipendenza funzionale della Magistratura. Intendo riferirmi all'articolo 100, nel quale è detto che l'autorità giudiziaria può disporre direttamente dell'opera della polizia giudiziaria. Questa disposizione lascia il tempo che trova, in quanto non presenta nulla di nuovo rispetto alla situazione attuale, e mi sembra conveniente modificarla nel senso che sia messo a disposizione della Magistratura un proprio corpo di polizia, perché la Magistratura abbia il mezzo di far eseguire sempre, in ogni occasione, i propri ordini.

Sinora ho parlato dell'indipendenza funzionale dei magistrati. Permettetemi ora, onorevoli colleghi, di esporre brevemente il mio pensiero su quello che è il punto cruciale della discussione apertasi qui dentro e fuori di qui, cioè sull'indipendenza costituzionale, ovvero sull'autonomia della funzione giudiziaria.

L'articolo 97 del progetto affronta la questione centrale circa il modo di realizzare costituzionalmente tale autonomia, accogliendo il criterio di attribuire a un Consiglio superiore autonomo il governo della Magistratura e riducendo le funzioni del Ministro della giustizia al compito di pubblico ministero nei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati.

Questi hanno accolto favorevolmente la proposta del trasferimento dei poteri dal Ministro della giustizia al Consiglio superiore della Magistratura. Invece dalla grande maggioranza di essi — e qui dentro se ne sono avute ripercussioni autorevoli — si sono sollevate obiezioni vivacissime contro il modo di composizione del Consiglio superiore; e si è detto che soltanto un Consiglio formato esclusivamente o, quanto meno, prevalentemente di magistrati, può garantire istituzionalmente l'indipendenza della funzione giudiziaria. Ma quest'idea poggia sull'equivoco di confondere l'autonomia della funzione con quella dell'ordine che la esercita. L'istanza di indipendenza della funzione giudiziaria dalle altre funzioni dello Stato postula l'esigenza di abolire ogni vincolismo gerarchico della Magistratura dai poteri legislativo ed esecutivo, ma non postula necessariamente l'autogoverno di chi esercita la funzione giudiziaria. In altre parole, per realizzare l'indipendenza costituzionale della funzione giudiziaria, occorre che il governo dell'Ordine sia pienamente autonomo rispetto alle funzioni legislativa ed esecutiva, ma non pure che esso sia lasciato integralmente all'Ordine giudiziario. Onde, per stabilire se la creazione del Consiglio superiore, come proposto nel progetto, soddisfa all'esigenza dell'autonomia costituzionale della funzione giudiziaria, basta indagare se esso, nella sua composizione, sia un organo autonomo di governo, indipendente e dal potere legislativo e da quello esecutivo. La risposta non può non essere affermativa; perché la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura, mentre serve ad assicurare la necessaria armonizzazione di quello giudiziario con gli altri poteri dello Stato, non importa subordinazione o dipendenza verso questi ultimi.

La presidenza affidata al Presidente della Repubblica, mentre conferirà maggiore dignità al Consiglio superiore, simboleggerà nel seno del Consiglio stesso l'armonia del potere giudiziario con gli altri poteri dello Stato e costituirà, di per sé, una garanzia d'indipendenza.

Si è osservato che l'immissione nel Consiglio superiore di membri eletti dall'Assemblea Nazionale, e per giunta in numero pari ai rappresentanti dei magistrati, contiene il pericolo di subordinazione della Magistratura agli interessi dei partiti, e finirà col sopprimere l'indipendenza della Magistratura stessa. Ma si è dimenticato che l'Assemblea Nazionale sarà l'espressione sintetica della vita politica del Paese; che nell'Assemblea Nazionale saranno rappresentati pressoché tutti i partiti proporzionalmente alle loro forze e che la composizione dell'Assemblea si rifletterà nell'elezione dei componenti del Consiglio superiore, i quali risulteranno appartenenti alle diverse correnti politiche. Si è trascurato di considerare che a comporre il Consiglio superiore, per il fatto stesso che l'elezione spetterà alla massima Assemblea dello Stato, saranno chiamati cittadini eminenti e capaci di disimpegnare la funzione con piena indipendenza di giudizio: cittadini che in seno al Consiglio non si sentiranno rappresentanti dei partiti, ma supremi regolatori dell'Ordine giudiziario. Anche la durata della carica, superiore a quella dell'Assemblea Nazionale, costituirà elemento d'indipendenza.

Al contrario, un Consiglio superiore formato soltanto di rappresentanti dei magistrati imprimerebbe all'Ordine giudiziario il carattere di una casta chiusa, strutturalmente in antitesi con le altre forze dello Stato, e potrebbe favorire la formazione di clientele nell'interno della Magistratura e dare occasione a favoritismi incontrollati.

Quindi la soluzione proposta dalla Commissione a me pare la più adeguata per assicurare l'indipendenza della Magistratura senza il pericolo di turbare quell'armonizzazione tra le fondamentali funzioni statali, che è condizione indispensabile di una democrazia costituzionale.

Forse un correttivo si potrebbe introdurre nella proposta della Commissione, nel senso di non lasciare all'Assemblea Nazionale una facoltà indiscriminata di scelta dei componenti del Consiglio superiore e di determinare invece, costituzionalmente, le categorie degli eligendi, a simiglianza di quanto è previsto all'articolo 127 del progetto per la Corte costituzionale.

E se si teme che la funzione di pubblico ministero affidata al Ministro della giustizia nei procedimenti disciplinari a carico di magistrati possa tramutare il Ministro stesso da promotore di giustizia in giudice, si trasferisca tale funzione al Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione.

Esaurito il tema dell'indipendenza della Magistratura, tratterò, con la maggiore brevità possibile, data l'ora tarda e la necessità di non abusare della cortesia dei colleghi, della unicità della giurisdizione. È pacifico che il frazionamento della funzione giurisdizionale in una molteplicità di organi disparati ed eterogenei contribuisce ad accrescere la crisi della certezza del diritto e che una buona giustizia deve essere concentrata nei giudici ordinari. Onde, a rigore, dovrebbe essere sancita l'unicità della giurisdizione non soltanto in materia civile e penale, ma anche in quella amministrativa. Ma, se al rigore del principio si ritiene di dover fare eccezione, conservando le funzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per determinate controversie che hanno bisogno di una particolare specializzazione del giudice, non si può certo consentire alla sopravvivenza delle disparate e numerose giurisdizioni speciali, che si son venute creando durante il fascismo e dopo il fascismo, per circostanze contingenti, per fini politici o peggio per lo scopo, sia pure dissimulato con vari pretesti, di togliere le garanzie inerenti alla giurisdizione ordinaria. Sotto questo profilo il progetto di Costituzione è gravemente manchevole.

È vero che l'articolo 7 delle disposizioni transitorie prevede la revisione entro cinque anni degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti. Però l'articolo 95 consente l'istituzione di giudici speciali con legge approvata dalla maggioranza assoluta delle due Camere, per modo che si va incontro al pericolo dell'istituzione di nuovi giudici speciali. Occorre sopprimere questa facoltà, il che non significa divieto di giovarsi della partecipazione di esperti, in concorso con i magistrati ordinari, per la decisione delle controversie che richiedono una competenza tecnica specializzata, perché a tanto provvede il terzo comma del detto articolo 95, disponendo che «presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate con la partecipazione anche di cittadini esperti, secondo le norme sull'ordinamento giudiziario».

Al principio dell'unità della giurisdizione non contraddice la proposta, contenuta nell'articolo 96, di far partecipare direttamente il popolo all'amministrazione della giustizia mediante l'istituto della giuria nei processi di Corte d'assise, perché le Corti d'assise sono organi di giurisdizione ordinaria e tali rimangono anche con la partecipazione diretta di elementi popolari.

Sotto altro riflesso il tema della giuria è interessante e, di fatto, ha interessato molto la discussione di questi ultimi due giorni; ed io intendo occuparmene solo perché la mia opinione in proposito non coincide con quella espressa dai colleghi che mi hanno preceduto.

Dall'appassionata critica dell'onorevole Turco all'ultimo discorso dell'onorevole Bettiol, attraverso l'altro discorso dell'onorevole Villabruna, ho ascoltato una serrata critica dell'istituto della giuria; e se realmente la giuria presentasse soltanto i difetti posti in luce dai colleghi e non avesse, per contro, alcun pregio, non mi resterebbe che sottoscrivere all'ostracismo tanto autorevolmente sostenuto.

Ma bisogna riconoscere che vi sono buone ragioni pro e contro la giuria.

Io che, in seno alla prima Commissione legislativa e nel Comitato dei redattori sulla riforma delle Corti di assise, sostenni la tesi opposta a quella dell'amico Turco, non ho difficoltà ad ammettere che l'incompetenza dei giurati, il verdetto monosillabico, la mancanza di motivazione, l'impossibilità dell'appello sono certamente inconvenienti molto gravi e che devono fare riflettere molto prima di adottare una decisione.

D'altro canto, io — che pur sento preferenza nelle condizioni attuali per l'istituto della giuria — non sottoscriverei all'affermazione di coloro che vedono nella giuria una garanzia insopprimibile di libertà democratica. Convengo, invece, con l'onorevole Bettiol, il quale diceva poco fa che una cosa è la giustizia ed una cosa diversa è la politica; e riconosco pure che si può organizzare una giustizia democratica pur senza la giuria.

La democraticità della giustizia si acquisisce con l'investitura democratica dei giudici, con le garanzie di libertà e di indipendenza, con la formazione di un Ordine giudiziario che sia veramente libero, che ubbidisca solamente alla legge, che non sia mancipio di tendenze politiche, che non sia strumento della maggioranza ai danni della minoranza.

Però, in contrario, a me sembra prevalente la considerazione che nei più gravi delitti, in quei delitti che più offendono la sensibilità popolare, e specialmente nei delitti passionali ed in quelli politici (per i quali ultimi penso che la giuria sia una necessità), il giudice popolare porta nel processo una nota più schiettamente viva ed umana, che è espressione di giustizia, se la giustizia penale deve tendere alla reintegrazione dell'ordine sociale offeso.

Il magistrato togato, attraverso l'abitudine costante e quotidiana dell'applicazione della legge scritta, talvolta diventa schiavo del formalismo giuridico, che in qualche caso si risolve in una ingiustizia sostanziale. Per contro i giurati — bisogna pure riconoscerlo — hanno impresso sovente un impulso rinnovatore e adeguatore della legge alla mutata coscienza giuridica del popolo. Le frequenti assoluzioni di mariti imputati di uxoricidi commessi per sorpresa in flagrante adulterio, che sotto un punto di vista formale furono qualificate scandalose violazioni della legge, in sostanza non rappresentavano altro che la ribellione del sentimento popolare ad irrogare una pena ritenuta eccessiva, la manifestazione di un contrasto tra la legge scritta e la coscienza giuridica del popolo, vale a dire la condanna dell'ingiustizia della norma codificata. E quella ribellione contribuì alla riforma dell'articolo 587 del Codice penale che nel testo attuale prevede la figura attenuata dell'omicidio per causa d'onore. Basterebbero queste osservazioni per consigliare maggiore ponderatezza prima di respingere l'istituto della giuria. Peraltro io ritengo che una approfondita disamina non occorra in questo momento, perché, pur convinto che nella contingenza attuale sia da introdurre la giuria nei giudizi di Corte d'assise e che essa rappresenti un progresso di fronte all'ibridismo di un corpo giudicante misto, qual è quello in vigore, penso che stabilire se vi debba o non vi debba essere la giuria non è materia costituzionale. Onde io finisco col proporre la soppressione della disposizione imperativa dell'articolo 96 ed una formulazione facoltativa che compendi l'articolo 96 ed il terzo comma dell'articolo 95 nei seguenti termini: «Presso gli organi giudiziari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate anche con la partecipazione, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, di cittadini esperti e di elementi popolari».

In questa maniera si eviteranno l'errore ed il danno di una situazione invariabile su una questione, che in sostanza è di diritto processuale e sulla quale conviene lasciare libertà di deliberazione al legislatore, perché possa risolverla in un senso o nell'altro secondo le mutevoli contingenze del tempo.

Brevissime parole sul problema della Cassazione unica, egregiamente difesa iersera dall'amico Bozzi, contrastata oggi dall'onorevole Villabruna con un ordine del giorno a firma di numerosi colleghi antiregionalisti, convertiti per l'occasione ad un regionalismo integrale.

I presentatori dell'ordine del giorno, tutti piemontesi, invocano il ripristino delle Cassazioni regionali, a cominciare beninteso da quella di Torino, anzitutto perché — essi dicono — il decentramento deve attuarsi anche nel campo dell'amministrazione della giustizia. Essi invocano, cioè, l'applicazione del decentramento in un settore col quale non ha nulla che vedere e nel quale anzi ci si deve ispirare al principio opposto, perché la funzione della Corte di cassazione, suprema regolatrice del diritto, è essenzialmente unitaria.

L'unificazione della Cassazione in materia civile — deliberata dal Governo fascista nel 1923, a somiglianza della preesistente unicità in materia penale — non fu un provvedimento di carattere politico determinato dall'indirizzo accentratore del fascismo, ma l'attuazione di un criterio sostenuto dai maggiori esponenti della scienza giuridica, della magistratura e del foro. Le Cassazioni regionali, retaggio degli antichi staterelli, portavano al frazionamento ed alla contraddittorietà della giurisprudenza con grave pregiudizio per la certezza del diritto. La Cassazione unica, in conformità di quanto praticato negli altri maggiori paesi di Europa, ha realizzato indubbiamente un progresso, pervenendo alla unificazione della giurisprudenza, ma evitando il pericolo della cristallizzazione o della immobilizzazione di essa. L'esperienza di quasi un venticinquennio dimostra che la Cassazione unica ha favorito l'interpretazione uniforme della legge, anche nelle questioni più controverse, attraverso un processo di elaborazione mediante decisioni diverse, che, mentre sono inevitabili data l'opinabilità della materia, concorrono alla determinazione della communis opinio, ed ha eliminato il grave inconveniente di una contemporanea interpretazione contrastante da parte delle varie Cassazioni regionali. Perciò può dirsi assicurata l'esigenza di una interpretazione unitaria non sottratta alla possibilità di una ragionevole revisione.

Non mi attarderò a controbattere i singoli argomenti esposti dall'onorevole Villabruna, rilevando soltanto come l'affermazione che il ripristino delle Cassazioni regionali risponderebbe ad un criterio democratico di avvicinamento della giustizia al popolo, attraverso l'economia della spesa, è inconsistente, perché la sola economia realizzabile con la ricostituzione, per esempio, della Cassazione di Torino, sarebbe quella nel costo del viaggio del difensore per recarsi dalla sua normale residenza a Torino anziché a Roma. Voglio notare, invece, che lo stesso ordine del giorno della deputazione piemontese confessa l'esigenza di un organo unico, supremo regolatore per tutto il territorio della Repubblica, quando dichiara che al coordinamento e, se del caso, alla unificazione della giurisprudenza ben saranno in grado di provvedere, come vi provvedevano prima del 1923, le Sezioni Unite. Queste dovrebbero, dunque, provvedere alla eliminazione dei contrasti tra le varie Cassazioni regionali. Ma il rimedio delle Sezioni Unite, mentre non eliminerebbe il contrasto, che di per sé rappresenterebbe un regresso, presupporrebbe la ribellione del giudice di rinvio alla decisione della Corte di cassazione regionale ed il successivo ricorso alle Sezioni Unite. E per far ciò occorrerebbe eliminare dal Codice di procedura civile la norma che il giudice di rinvio è vincolato dal principio fissato dalla Corte di cassazione e ripristinare la possibilità della ribellione e del conseguente ricorso alle Sezioni Unite. Non intendo esaminare se tutto questo sia conforme all'economia ed alla serietà della funzione giudiziaria. Aggiungerò invece che il rimedio delle Sezioni Unite sarebbe frustrato tutte le volte che il giudice di rinvio si uniformasse alla decisione della Cassazione regionale. In tali casi si avrebbe questa situazione paradossale, che una stessa norma di diritto sarebbe interpretata ed applicata diversamente nelle varie regioni d'Italia.

Concludo con l'augurio che le nostre deliberazioni su quest'ultima parte della Costituzione costruiscano le fondamenta di un ordinamento giudiziario rispondente alla suprema esigenza della tutela dei diritti e delle libertà del cittadino. (Applausi Congratulazioni).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti