[Il 7 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Ruggiero. Onorevoli colleghi, il Titolo sulla Magistratura, attualmente sottoposto alla nostra considerazione, presenta una questione che — secondo me — ha importanza e giuridica e politica. È la questione che rinviene dall'ultimo comma dell'articolo 94; cioè la questione relativa al divieto di iscrizione dei magistrati nei partiti politici.
A proposito di questa norma, bisogna far subito un rilievo di carattere tecnico, che è questo: voi ricorderete che da parte dell'Assemblea fu approvato un articolo, il quale vietava l'esistenza delle associazioni segrete. Per questa ragione è assolutamente inutile sancire altra norma la quale faccia divieto particolare ai giudici di appartenere a questo genere di associazioni. Si capisce che, essendo vietata la esistenza delle associazioni segrete, è pure vietata l'appartenenza ad esse da parte di qualsiasi cittadino, e quindi pure da parte dei magistrati. Ne consegue che l'ultima parte dell'ultimo comma dell'articolo 94 deve essere necessariamente soppressa, per coerenza alla Costituzione — o, per lo meno — a quella parte della Costituzione che si riferisce a questo argomento.
Resta la questione essenziale di carattere politico e giuridico, contenuta nella norma la quale importa, così come è nel progetto, il divieto ai magistrati di iscrizione ai partiti politici. Con tutta modestia, onorevoli colleghi, io mi dichiaro contrario al progetto e ciò per una ragione la quale, oltre che essere giuridica mi pare schiettamente politica. E la ragione è questa: questa norma, come appare chiaro, stabilisce un rapporto tra i magistrati e i partiti politici, anche se il rapporto è espresso in forma negativa.
Dobbiamo quindi considerare la norma nei rapporti dell'uno e dell'altro termine, cioè nei confronti dei partiti politici da una parte e dei magistrati dall'altra. E se così è, onorevoli colleghi, mi pare che, quando si porti la nostra considerazione su uno dei termini, cioè sui partiti politici, voi vedete bene come questa norma presupponga qualche cosa che è, secondo me, chiaramente offensiva per i partiti politici.
Che cosa presuppone infatti la norma? La norma presuppone che, se è vero che esiste una certa suscettività da parte dei magistrati ad accedere a lusinghe esterne, è pur vero però che nella norma è presupposto il fatto di una attività illegittima ed antidemocratica da parte dei partiti, cioè di una attività politica la quale tenda a deformare la coscienza del giudice.
Come vedete quindi, noi arriveremmo a consacrare nella Costituzione la possibilità che i partiti politici operino contrariamente ai principî fondamentali della libertà e della democrazia; e mi pare che in un atto solenne e fondamentale quale è la Costituzione, ciò sia non soltanto inopportuno, ma veramente e stranamente offensivo per la nostra democrazia. A nessuno può sfuggire che questa norma è una sconsacrazione aprioristica della democrazia italiana, una svalutazione immanente della nostra democrazia, un giudizio preventivo e negativo dell'opera dei partiti. La Carta costituzionale è, in ultima analisi, la definizione etica di un popolo. E non è eccessivo da parte nostra consacrare nella Costituzione questa forma aprioristica di disonestà da parte dei partiti politici italiani? Con tutta modestia, onorevoli colleghi, vi dico che io mi rifiuto di pensare aprioristicamente che il mio partito possa essere capace di fare opera contraria alla libertà e alla democrazia; e vi dico anche che ho motivo di pensare che anche altri partiti non sono davvero capaci di addivenire mai ad una simile forma di attività.
Ora, se noi stabiliamo, attraverso la Carta costituzionale, che i partiti possono compiere quest'opera, mi pare che con ciò venga meno ogni presupposto etico-morale della politica italiana. Io penso che nessun deputato dell'Assemblea Costituente possa sottoscrivere una norma di questo genere, che come prima dicevo, si risolverebbe in un grave pregiudizio per la democrazia italiana.
Ma, onorevoli colleghi, a prescindere da questa prima considerazione che, come vi dicevo, riguarda uno dei termini della questione, cioè il termine «partiti politici», la questione va riguardata anche nei confronti del secondo termine, cioè dei «magistrati».
Ora, io mi domando se è data ai costituenti la facoltà di poter escludere dalla vita politica una classe di cittadini in omaggio ad un astratto principio di lesa giustizia, che fino a questo momento non abbiamo nessun diritto di ritenere che debba necessariamente essere nell'avvenire intaccato e leso. Io so che certe funzioni importano delle limitazioni e delle privazioni di diritto. Per esempio, gli avvocati, i cancellieri, i militari, i giudici stessi sono soggetti a limitazioni di attività e privazioni di diritto. Però bisogna pur vedere, onorevoli colleghi, la natura, la portata, l'entità di queste privazioni di diritto e di queste limitazioni di attività. In tutti i casi si tratta di attività e di diritti che hanno un carattere estrinseco, accessorio, non necessario, che non sono legati all'intima personalità dell'individuo, che non comportano la lesione di diritti di natura sociale. Ma nella specie noi ci troviamo di fronte al fatto di escludere dalla vita politica tutta quanta una classe di cittadini, cioè di escluderla dall'esercizio di un diritto fondamentale e del cittadino. Non so come possa sfuggire l'importanza di questa limitazione nei confronti della classe dei magistrati italiani.
Vedete, onorevoli colleghi, è vero che esiste una specie di concetto che chiamerei deteriore e negativo della politica; e di questo concetto molte volte si diventa inconsciamente vittime, per cui anche gli uomini politici non danno alla politica quella rilevanza e quell'importanza che essa deve avere. E allora, penso che forse nei compilatori di questo progetto di Costituzione sia invalso questo concetto, cioè questa svalutazione della politica; se no non si poteva arrivare a consacrare una norma la quale nega un diritto così fondamentale ad una classe di cittadini. La politica non deve essere considerata come una superfetazione come una soprastruttura; non deve essere considerata, come accade spesso, qualche cosa di dilettantistico o come una fiera di ambizioni o un mercato di vanità. La politica è necessità etica per il cittadino: è un dovere e un diritto.
Ora, se noi diamo della politica questa definizione, mi pare che dovremmo essere i primi a restare perplessi di fronte a questa esclusione di tutta una classe di cittadini dalla vita politica. La vita politica, nella sua vera accezione storica, intesa come continuità di umani eventi e pensieri, è un contrasto di ideali, un urto di interessi, un'espressione di valori etici, sia pure espressione contingente, ma espressione di tutto un popolo. La politica è la storia allo stato fluido che ogni giorno passa sotto i nostri occhi; è la vicenda che interessa ed impegna la nostra gente, la nostra casa, la nostra famiglia, i nostri figli, il nostro spirito.
Se questa è la politica, onorevoli colleghi (ed è questa) mi pare che non si possa escludere il giudice dal partecipare a questa forma di attività. Insomma, non possiamo relegare una classe di cittadini ai margini della vita, in una condizione di isolamento, in una zona neutra, in una specie di vuoto pneumatico, in omaggio a questo aprioristico ed astratto principio di eventuale lesione delle regole della giustizia.
Quindi, secondo me, il comma in esame non può essere ammesso nella Costituzione.
Ma esiste un terzo motivo di esclusione, che è questo. Io penso, molto modestamente, che questa norma si risolva in una specie di divieto formale, di nessun valore pratico, destituito di ogni concreta facoltà normativa: perché il giudice può rimanere fedele o infedele alle sue funzioni, esista o non esista la norma. È impossibile che la norma possa determinare un giudice a questo o quello apprezzamento. Il giudice non è un'astrazione umana, ma è un uomo come tutti gli altri. È assurdo pensare che per effetto di questo divieto ad un certo momento il giudice diventi un essere completamente avulso dalla vita comune, destituito di ogni convincimento, insensibile agli impulsi della storia che si muove intorno a lui, isterilito nella speculazione dei principî giuridici, inteso solo alla interpretazione astratta ed all'applicazione automatica delle norme. Non mi sembra che il giudice possa vivere in questo ambiente di rarefazione metafisica. Il giudice non è la tabula rasa in cui è possibile incidere semplicemente il geroglifico non sempre decifrabile della formula di legge. Il giudice è un uomo come gli altri e, come tale, ha le sue passioni che gli vengono dal cuore, e i suoi interessi, che gli vengono dalla sua posizione di cittadino che vive nella umana società, e le sue opinioni, che gli vengono dalla sua facoltà raziocinante. E quindi, per questi motivi, penso che il giudice non possa rimanere legato, chiuso, costretto da questa norma, che secondo me si traduce poi praticamente in un divieto di carattere semplicemente formale. Infatti, a questo proposito i casi che possono verificarsi sono due: o il giudice viene sopraffatto dal suo convincimento, dal suo partito, dal suo interesse, dalla sua faziosa passione politica, da influenze esterne, e allora egli potrà determinarsi secondo modi che esulano dalla sua coscienza di galantuomo; oppure il giudice, per imprescindibile dirittura morale, riesce ad affrancarsi da ogni forma di soggezione interiore ed esteriore e seguirà allora il comandamento della giustizia e i precetti della sua coscienza.
Quindi, esista o non esista la norma, il giudice avrà sempre la possibilità di determinarsi come vuole: anzi, vi dirò questo, che forse (e non credo di esprimere un concetto peregrino, ma un concetto aderente alla realtà pratica di ogni giorno) è più pericoloso il giudice costretto ad una forma di agnosticismo formale, che il giudice il quale abbia fatto una pubblica professione di fede. Perché il primo può valersi della apparente neutralità politica per fare invalere il suo proposito infedele, mentre l'altro che ha fatto professione di fede politica mi sembra che sia legato e condizionato da quella professione di fede. Il caso del procuratore generale Pilotti, di cui si è parlato, è un esempio. Io penso che se, per esempio, il procuratore generale Pilotti fosse stato dichiaratamente iscritto al partito monarchico, molto probabilmente avrebbe avvertito un senso di peritanza, di pudore a compiere quel gesto che, come sapete, è stato commentato un po' in tutto il paese. Egli ha commesso quell'atto, quel gesto, perché era garantito e difeso dalla sua condizione di neutralità politica.
Io penso che se, per esempio, un giudice, notoriamente democristiano, debba domani giudicare un imputato comunista, io penso che questo giudice metterà forse maggiore obiettività e cura e diligenza in quel caso che in altri casi; e così viceversa, se un giudice comunista dovesse giudicare un imputato democristiano.
È sempre una remora, un freno, una specie di controllo l'iscrizione. Quando si è espressa la propria opinione, si è legati a questa opinione. Quando si resta chiusi nel sacrario della propria coscienza si diventa impenetrabile ed ermetico. È questo un criterio pratico che io penso bisognerebbe tener presente nella valutazione della norma in esame. Accennerò ora brevemente alle piccole o grandi ragioni che hanno imposto nel progetto il divieto di iscrizione. C'è, per esempio, l'argomentazione dell'onorevole Mannironi, il quale dice: «per poter inserire nella psicologia popolare la necessaria fiducia nella Magistratura, è indispensabile che vi sia in tutti il convincimento che i magistrati sono liberi da legami di qualsiasi genere».
Io mi permetto di fare osservare che in questo modo — secondo me — la questione viene spostata, la questione non viene più valutata nella sua contenenza essenziale. Qui non viene in considerazione l'obiettivo della questione, cioè i due termini della questione, ma si pone sul piano della discussione un elemento estraneo: quello della fiducia popolare, e mi pare che così la questione si ponga erroneamente. Entrando in merito, dico che la fiducia popolare — secondo me — non può essere determinata dal fatto negativo della mancata iscrizione di un magistrato ad un partito politico, bensì deve essere determinata (questa è una regola di carattere etico da cui non si può prescindere) dalla condotta irreprensibile e indefettibile del giudice. Quindi, la fiducia deve nascere non dal fatto negativo della non iscrizione, ma dal fatto positivo della condotta del giudice.
Mi pare quindi, che non si possa tenere in considerazione questo argomento dell'onorevole Mannironi, perché si pone al centro della questione un elemento estraneo ai due termini della questione, cioè ai due termini in cui la questione deve essere chiusa e delimitata: i partiti politici e i magistrati.
Vi è poi un'altra obiezione che devo fare: quando l'onorevole Mannironi dice che bisogna suscitare nella psicologia popolare la fiducia nel giudice, mi pare che egli faccia una questione di semplice apparenza. Egli dice in sostanza questo: sia il giudice fedele o infedele alla sua funzione, si mantenga egli integro o meno, l'importante è che esista la fiducia popolare. Il che — secondo me — è una maniera di aggiustare le cose, di salvare le apparenze, di risolvere la questione su un terreno estraneo alla questione, superando molto semplicisticamente i termini giuridici e politici del problema. In effetti così si elude la questione riducendola ad un'espressione estrinseca di mera apparenza.
Esiste poi, a favore del principio di non iscrizione dei magistrati in partiti politici, un'altra argomentazione. Ed è dell'onorevole Ambrosini il quale sostiene che è necessario consacrare nella Carta costituzionale il divieto di appartenenza dei magistrati ai partiti politici e che i magistrati non devono sentirsi menomati da questa norma perché essi vengono, invece, da questa norma, posti al di sopra della politica, vengono posti (dice testualmente l'onorevole Ambrosini) «come su un altare». A proposito dei giudici che stanno sull'altare, devo dichiarare che questa è una frase retorica, vieta, che ha fatto il suo tempo, a cui i giudici non vogliono accedere e di cui si può parlare solamente quando si conoscano i giudici solo per sentito dire e non si è partecipato mai alla vita dei giudici. Tant'è vero, onorevoli colleghi, che il Primo Presidente della Corte di Cassazione, interpellato a proposito di questa norma, ebbe a dire che tale norma costituisce un grande sacrificio per la Magistratura. Sono le sue parole testuali. Quindi se questi giudici non vogliono stare sull'altare, ma vogliono scendere sulla strada, per vivere la vita degli uomini non possiamo metterceli per forza noi. Insomma, vedete, i magistrati non vogliono diventare santi di cartapesta, essi sono uomini di opinioni, di passioni, di sentimenti. Insomma, il giudice, vedete, si interessa pure lui di certi problemi fondamentali, ed essenziali, e qualche volta grandi ed eterni. Per esempio: la famiglia, la patria, l'umanità. Ed io mi domando: in ultima analisi di che cosa si occupa la politica se non proprio di questi grandi ed eterni problemi che si rinnovano ogni giorno? E se così è, se la politica è questa, come facciamo a dire a giudici: «voi non c'entrate in tutto questo, voi dovete solo subire; voi dovete estraniarvi dai grandi principî politici senza poter dire mai qualche cosa che venga dal vostro cuore o dal vostro cervello?»
Per questi motivi, che mi sembrano molto aderenti a quella che è la condizione pratica ed ideale della questione, mi sembra che debba essere soppresso il principio che pone il divieto d'iscrizione dei magistrati nei partiti politici e si debba dare al magistrato la possibilità di vivere la vita di tutti. Qui bisogna tener presente un altro principio fondamentale che è questo. Si può pensare che a un certo punto si crei un contrasto fra la libertà incondizionata, che è quella di esprimere da parte di tutti il proprio pensiero, e la lesione che potrebbe verificarsi domani in seno al principio della giustizia attraverso la politicità dei giudici. Guardiamo questi contrasti, questi conflitti, queste antitesi nel loro vero contenuto. Ed allora io vi dirò questo: forse è meglio che da parte di un giudice, di dieci giudici, di cento giudici, si compiano degli atti che ledano il principio della giustizia, ma che venga affermato il grande, immutabile principio della libertà di dire e di professare le proprie idee da parte di tutti. Insomma, se vengono in conflitto questi due grandi postulati dell'umanità, che sono il principio della libertà e il principio della giustizia, e se è vero che la giustizia è un aspetto del principio della libertà, mi pare che, se si debba sacrificare qualche cosa, debba sacrificarsi il principio subordinato. Ma questo è l'aspetto estremo della questione e del contrasto. Tenete presente, soprattutto, che noi con la norma contenuta nel progetto andiamo incontro alla consacrazione nella Carta costituzionale di quella svalutazione aprioristica dei partiti politici ed alla esclusione di una parte dei cittadini dalla vita politica nazionale. Tenete presente, onorevoli colleghi, il principio consacrato nella Carta costituzionale. Abbiamo detto: «Ad ogni cittadino compete il diritto di poter esprimere liberamente la propria opinione». Questo è sancito in un articolo approvato da noi tutti, ma è l'articolo più significativo della Costituzione perché esso è a base della rinnovata democrazia italiana.
Io penso che non dovremmo fare delle postille a questo articolo. Non dovremmo fare delle limitazioni a questo principio. Il principio sia tenuto nella sua interezza. Non bisogna umiliarlo con restrizioni e limitazioni. Il principio della libertà sia quello che crediamo sia sempre stato e che sempre sarà per noi e per tutti gli italiani.
Questo principio venga tenuto e affermato al disopra di tutta la Costituzione, perché è principio fondamentale. Questo principio sia grande, sovrano, intangibile perché è il principio della libertà degli uomini. (Applausi — Congratulazioni).
[...]
Crispo. [...] mi sia consentito esprimere il mio dissenso dall'opinione or ora manifestata dall'onorevole Ruggiero, il quale ritiene che il divieto fatto al giudice di appartenere ad un partito politico costituisca evidente violazione di una delle libertà fondamentali del cittadino, e propone conseguentemente che il divieto stesso non sia mantenuto.
Le ragioni prospettate in proposito dall'onorevole Ruggiero sono innegabilmente interessanti, ma non riescono, in alcun modo, a persuadere chiunque abbia un elementare concetto della necessaria obbiettività del giudice, quale condizione dell'esercizio della sua funzione, e chiunque si renda conto della asprezza della lotta dei partiti, in un mondo completamente dominato da essi. È evidente che la norma è intesa a porre il giudice al di sopra dei partiti, ossia al di fuori di ogni passione di parte incompatibile con la funzione del giudice, nella superiorità morale d'una posizione che sia garenzia assoluta contro ogni sospetto che il giudice possa essere vincolato alla volontà o alla ideologia di una fazione, di un gruppo, o di un movimento politico qualunque.
Ogni conflitto, difatti, tra gruppi o individui di opposte tendenze, porrebbe il giudice partecipe di questo o quel partito, in una evidente difficoltà morale nel dirimere il contrasto delle ragioni e degli interessi contrapposti, difficoltà che non potrebbe non influenzare la coscienza del giudice, onde sarebbero frequenti e innumerevoli i casi di astensione, e, più spesso, quelli di ricusazione.
A cura di Fabrizio Calzaretti