[L'11 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Preti. Sono rimasto ieri assai meravigliato, quando l'onorevole Codacci Pisanelli, parlando — come egli ha dichiarato — a nome della Democrazia cristiana, ha nuovamente proposto di costituire il Senato sulla base della rappresentanza di categoria. Io proprio credevo che di un simile Senato non se ne sarebbe mai più parlato, dopo che la Commissione dei Settantacinque già l'aveva respinto.

Potrei comprendere questa proposta, se qui si trattasse di creare un Senato che fosse semplicemente un organo consultivo. Ma quando si sostiene, almeno in linea di diritto, la parità del Senato e della Camera dei deputati, proporre poi che il Senato venga formato sulla base della rappresentanza di categoria significa ispirarsi a un criterio assai scarsamente democratico, anzi addirittura antidemocratico.

Nella moderna democrazia non si può ammettere che una Camera, la quale sia effettivamente partecipe della sovranità, attinga la sua autorità — per via diretta o indiretta — da una fonte diversa dal suffragio popolare universale. Se da quasi 40 anni la Camera dei Pari ha perso ogni potere effettivo, è proprio perché anche nella tradizionale Inghilterra questo principio democratico si è inequivocabilmente imposto.

Vorrei che l'onorevole Codacci Pisanelli fosse qui per chiedergli come, nel caso in cui dovessimo accettare la proposta sua e del suo partito, egli ci potrebbe garantire che le categorie del suo Senato corporativo rappresentino veramente il popolo. In base a quale criterio si può stabilire, putacaso, che la categoria dei meccanici abbia trenta rappresentanti in Senato e la categoria dei tessili venti, anziché magari trenta quelli dei tessili e venti quella dei meccanici? Forse con l'anagrafe professionale degli Uffici del lavoro, che oltre a riuscire sempre approssimativa, darebbe luogo a insanabili e sostanziali divergenze di interpretazione?!

E in seno ad ogni singola categoria, in base a quali criteri assegneremmo i posti rispettivamente ai rappresentanti del capitale, della tecnica e del lavoro?

Non credo si vorrebbe giungere alla rappresentanza paritetica di fascistica memoria. D'altronde, se domani l'onorevole Di Vittorio, segretario della Confederazione generale italiana del lavoro, pretendesse che in seno ad ogni singola categoria, in relazione al numero degli aderenti, i rappresentanti dei lavoratori fossero nove su dieci, non so cosa ex adverso gli si potrebbe rispondere.

Mi sembra che, sostenendo questa tesi del Senato corporativo, si voglia prescindere per forza dai partiti, i quali costituiscono le forze vive della democrazia moderna. Ma oltre a tutto si finisce per conseguire, adottando tali criteri, una rappresentanza degli interessi costruita a casaccio, non essendo rintracciabile, come ho dimostrato, nessun criterio obiettivo per assegnare un numero o un altro di senatori alle singole categorie economiche, e per suddividere i posti di rappresentanza in seno alle categorie stesse.

Il risultato sicuro, a mio parere, sarebbe uno solo: quello di ottenere una Camera conservatrice, cioè una Camera più a destra di quella Camera dei deputati che è l'espressione diretta del suffragio universale. Ed io trovo strano che un partito, come il democristiano, faccia queste proposte; sembra quasi — il che non dovrebbe essere — che esso abbia timore del suffragio universale, dopo che, pure, il 2 giugno del 1946 ha conseguito un risultato superiore, probabilmente, alle sue stesse aspettative. Perciò fanno male — a mio avviso — i rappresentanti del partito democristiano ad insistere su tali proposte non «squisitamente» democratiche. A questo riguardo io vorrei ricordare loro che, alla seconda Costituente francese, il Rapporteur général Coste Floret, rappresentante del Movimento repubblicano popolare, dichiarò, a nome del suo partito — che è anch'esso essenzialmente cattolico — e di tutti i partiti francesi, che non si poteva concepire che la sovranità risiedesse in una Camera o in Camere che non fossero diretta espressione del suffragio universale. Se di questo suffragio i cattolici italiani mostrano di diffidare, essi vengono a dare implicitamente ragione all'onorevole Nenni, il quale appunto sostiene sui giornali e sulle piazze che essi hanno paura delle elezioni!

Questa proposta del Senato corporativo il nostro partito non può naturalmente prendere nemmanco in considerazione. Non solo: ma il Partito socialista dei lavoratori italiani neppure è disposto ad accettare, in tema di Senato, il testo del progetto, di cui verrò ora a parlare.

In seno alla Commissione dei Settantacinque, dopo molte discussioni, si è finito per accettare, per la formazione del Senato, il principio del suffragio universale; ma, essendosi rivelato nel contempo il pericolo — non so poi se sia proprio un pericolo — di fare del Senato un doppione della Camera dei deputati, dando così ragione a quei partiti che sostenevano l'inutilità del primo, allora si è fatto ricorso a correttivi. Orbene, questi correttivi non ci convincono, perché ci sembrano di un evidente sapore antidemocratico.

Comincerò dall'elettorato attivo e osserverò che ne sono esclusi, in base al Progetto, in ordine alle elezioni del Senato, i cittadini di età inferiore agli anni venticinque. Questo significa negare il pieno godimento dei diritti politici a qualche milione di cittadini, i quali hanno già compiuto il servizio militare di leva, e con ciò adempiuto anche al più gravoso dei doveri nei confronti dello Stato. Né si potrà certo loro attribuire una incompleta maturità civile e politica!

Una simile limitazione viene manifestamente a contraddire ai più elementari principî della moderna democrazia; senza contare poi che, in questa maniera, vengono avvantaggiati certi partiti a danno di altri, e in particolare di quelli che hanno un maggior seguito nella gioventù e che spesso meglio rappresentano l'avvenire della Nazione. La Repubblica non deve, a mio modo di vedere, trasformarsi in una gerontocrazia.

Quanto poi alle categorie dei cittadini eleggibili, esse non convincono assolutamente nessuno; al punto che credo sia inutile starle a discutere ad una ad una. Si tratta, oltre a tutto, anche di categorie eterogenee; sono posti, per esempio, gli uni a fianco degli altri i decorati della guerra di liberazione e i professori di università, mentre è evidente che gli uni sono presi in considerazione per meriti di carattere puramente politico — giacché potrebbero essere anche analfabeti — mentre gli altri sono presi in considerazione per meriti esclusivamente scientifici, posto che, per quanto concerne il piano politico, essi potrebbero anche risultare ex-militanti del partito fascista repubblicano...

A norma dell'articolo 56, intanto, alcuni partiti si potrebbero trovare nell'impossibilità di mandare alla Camera Alta persone che pure ne sarebbero degnissime, in quanto non rientrano in nessuna delle categorie previste. Né si può, d'altra parte, allungare l'elenco delle categorie stesse, sino a farlo diventare lungo come il testo della Costituzione!

Anche il criterio della parziale rappresentanza delle Regioni nella Camera Alta convince ben poco, perché, o lo Stato è federale, e allora è concepibile che i senatori siano i rappresentanti delle singole Regioni; o lo Stato invece è unitario — e la Repubblica italiana rimane tale — e allora mi sembra assolutamente illogico ricorrere a questa parziale rappresentanza delle Regioni. Comunque, un effetto certo dell'adozione di un tale criterio è questo: che, essendo assegnata a ciascuna la stessa rappresentanza, vengono favorite le Regioni meno popolate e più arretrate, quali, ad esempio, la Lucania o il Molise (se dovesse venire confermata la sua erezione a Regione) a danno di quelle più progredite e con popolazione maggiore, quali, ad esempio, la Lombardia ed il Veneto. Ed anche qui, naturalmente, il risultato non sarebbe che quello di favorire partiti che hanno una tendenza politica conservatrice a danno di altri partiti più di sinistra.

Posto dunque che, sul piano della coerenza democratica, si dovrebbero respingere tutti questi correttivi, si finisce necessariamente, per questa via, per cadere nel doppione esatto della Camera dei deputati. Io credo, peraltro, che abbandonando i criteri seguiti dal Progetto, si possa tentar di battere una via più democratica, senza per questo correre il pericolo di fare del Senato una mala copia della Camera che siede a Montecitorio.

Si possono prendere in esame diversi sistemi: per esempio, il sistema del suffragio universale abbinato al collegio uninominale. Se non erro, dinanzi alla Commissione dei Settantacinque, l'onorevole Einaudi, all'ultimo momento, ebbe a fare questa proposta: eleggere il Senato attraverso il collegio uninominale, senza ballottaggio. La proposta fu accolta favorevolmente dall'onorevole Togliatti, il quale osservò che in questa maniera si poteva anche andare incontro ai desideri di larghi strati del popolo italiano, i quali erano rimasti delusi nella loro aspettativa di vedere eletta la prima Camera sulla base del collegio uninominale, anche per meglio valorizzare le singole personalità. Questa proposta, che allora fu rigettata per pochi voti — forse solo perché escludeva il ballottaggio — credo che potrebbe essere ripresa ora in esame, a patto di non escludere il ballottaggio stesso. Infatti essa mi sembra più conseguentemente democratica. Si potrà obiettare che ne verrebbero avvantaggiati i due partiti più forti in Italia, il democristiano e il comunista, i quali finirebbero quasi sempre per essere i rivali in sede di ballottaggio. Ma, quando si tratta di redigere la Carta costituzionale, non si deve dare peso eccessivo a queste considerazioni contingenti: si deve cercar di guardare un po' più lontano.

Si potrebbe anche riprendere in esame il sistema della elezione indiretta attraverso i Consigli comunali, se si riesce a trovare un congegno che ci garantisca contro la prevalenza dei Consigli dei piccoli Comuni di campagna rispetto ai Consigli comunali delle città: inconveniente che caratterizzò il Senato della III Repubblica francese. Mi si dice che sia molto difficile, quasi impossibile. Comunque, perché non ristudiare la cosa?

C'è poi anche il sistema della filiazione diretta, che forse ha il difetto — per me può essere un pregio — di essere troppo crudamente sincero. È certo un sistema che accentua la supremazia dei partiti e che perciò dovrebbe incontrare le simpatie di chi crede sia nell'interesse della moderna democrazia sanzionare sempre meglio il ruolo preminente delle organizzazioni di partito — al contrario del sistema proposto dall'onorevole Einaudi che tende ad attenuare questa preponderanza — sicché è prevedibile che chi si orienta con simpatia verso l'uno debba istintivamente diffidare dell'altro.

Con il sistema in questione si chiama la Camera dei deputati — in pratica, perciò, i singoli partiti — ad eleggere il Senato. È un sistema che presenta alcuni innegabili vantaggi: prima di tutto si opera una scelta più meditata, in quanto i partiti possono ben ponderare prima di designare l'uno o l'altro dei loro aderenti al Senato; in secondo luogo si possono designare dei tecnici, i quali alle elezioni — salvo che nella lista nazionale — non la spunterebbero mai, data la mancanza di qualità vuoi oratorie vuoi demagogiche.

Vi sarebbe inoltre la possibilità di portare al Senato quelle personalità politiche che — si dice — non possono scendere, vuoi per l'età veneranda, vuoi per essere au dessus de la mêlée, nell'agone elettorale; perché io credo che domani tutti i partiti sarebbero disposti ad eleggere, magari all'unanimità, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti e altre grandi personalità della vita politica italiana. (Interruzioni). Sì, anche Benedetto Croce, si capisce! Con tale sistema infine i partiti — in armonia con i canoni di una vera democrazia parlamentare — verrebbero rappresentati al Senato suppergiù nelle stesse proporzioni che nella Camera dei deputati.

La Democrazia cristiana obietterà che per questa via verrebbe certamente sanzionata l'inferiorità di fatto del Senato rispetto, alla Camera dei deputati, perché, una volta stabilito che una Camera nomina l'altra, è evidente che, anche se la Costituzione dice diversamente, la prima Camera eserciterà, di fatto, poteri maggiori della seconda. Ma, d'altra parte, la subordinazione di fatto esisteva anche per il Senato del regno; e io sono convinto che nessuno dei deputati qui presenti osa pensare che domani, in linea di fatto, il Senato, con qualunque sistema sia per essere eletto, finisca per esercitare la stessa autorità della Camera dei deputati. Ciò non può essere e ciò non sarà, checché possa dire il testo della Costituzione.

D'altronde, o il Senato rappresenta delle forze diverse rispetto alla Camera dei deputati, e cioè, grazie a un sistema elettorale poco democratico, riesce a porsi come rappresentante di forze più conservatrici, e allora si potrà pensare ad una contrapposizione del Senato alla Camera dei deputati sul piano politico; ma quando anche la Camera cosiddetta alta è rappresentativa della volontà popolare perché, o direttamente o indirettamente, anche essa trae origine dal suffragio universale, allora la maggioranza, nel Senato, appartiene ai medesimi partiti che la posseggono nella Camera dei deputati: nel qual caso riesce assolutamente inconcepibile una opposizione fra Senato e Camera sul piano politico.

La democrazia moderna infatti non è una democrazia atomistica, poggiata sugli individui, come quella di ottant'anni fa, quando il gabinetto lo costituiva il Ministro X o il Ministro Y sulla base di amicizie personali: la democrazia moderna è essenzialmente di partito. Piaccia o non piaccia, oggi sono gli esecutivi dei partiti che tengono le fila dell'attività politica. Sono essi, perciò, che indirizzano oggi e indirizzeranno domani l'attività dei loro rappresentanti nelle due Camere. Pertanto, nel caso in cui entrambe poggino sul suffragio popolare, non essendo concepibili divergenze di ordine politico, non potranno sorgere che divergenze di carattere tecnico per il caso che i senatori studino più meditatamente, ovvero con maggiore competenza specifica, ciò che magari la Camera dei deputati abbia troppo rapidamente approvato.

In conclusione, adottando il sistema che ho ora illustrato, non si farebbe che riconoscere ufficialmente quella che è la realtà dei fatti: e cioè, che la democrazia parlamentare moderna poggia essenzialmente sul pilastro dei partiti.

[...]

Clerici. [...] Vengo, invece, onorevoli colleghi, ora alla questione del Senato; e può darsi che io dica cose che a prima vista sembrino ostiche a qualcuno; ma io chiedo alla saggezza, alla liberalità, alla democrazia di tutti di volere ascoltare le modeste osservazioni che mi accingo a farvi.

Io non condivido affatto le critiche che ha fatto testé l'onorevole Preti a un sistema di Senato eletto, almeno in parte, dalle diverse e specifiche categorie, e formato, quindi, anche, non dico, per ora, solamente, di rappresentanti di interessi. Anzi io sostengo che il Senato debba in parte costituire tale rappresentanza organica degli interessi. L'articolo 55 del progetto di Costituzione dice che i senatori sono eletti per un terzo dai membri dei Consigli regionali e per due terzi a suffragio universale e diretto, dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età. Quindi in pratica i due terzi del Senato sarebbero eletti su per giù dallo stesso corpo elettorale di quello che elegge la Camera dei deputati! Allora non valeva meglio stabilire che gli eletti si dividessero in due, seguissero l'esempio norvegese, che è tutt'altro che recente, ma anzi risale al 1804 (allorquando la Norvegia era ancora unita personalmente sotto lo stesso monarca alla Svezia), ed ha funzionato fino ad ora, e quindi presuntivamente deve essere un buon sistema. Io non sono di certo uno studioso di diritto norvegese né ho pratica di quel paese, ma da quello che ho letto in proposito è un sistema che ha funzionato benissimo. La Camera eletta nomina un quinto dei propri membri a formare il Senato, e questo siede esclusivamente per quello che è il lavoro legislativo, come seconda Camera; Camera cioè di esperti, di pratici, i quali riesaminano, uno contro quattro, il lavoro dei loro colleghi. Ma Senato e Camera siedono insieme per tutte le questioni politiche.

Presidenza del Vicepresidente Conti

Clerici. Un Senato come quello proposto dalla Commissione dei Settantacinque, mi sembra un assurdo e un doppione; così da poter dire che è perfettamente inutile costituirlo.

Io invece ritengo che un Senato abbia ragione d'essere se rappresenti diversamente dalla Camera il paese, il popolo. Io ritengo che accanto alla Camera, che rappresenta, e deve rappresentare, le idee, le opinioni, i sentimenti diversi e spesso opposti delle correnti politiche, cioè dei partiti, occorre un Senato che rappresenti gli interessi. Quali? Innanzi tutto gli interessi territoriali. Abbiamo un bel nasconderlo, ma con la istituzione delle Regioni, se non abbiamo certamente fatto uno Stato federale, abbiamo certamente fatto qualche cosa che non è sotto certi aspetti molto diverso. Lo Stato federale svizzero è da un secolo in qua divenuto sempre meno federale, e da qualche decennio sta diventando sempre più unitario; così che in fondo, a parte il nome, da esso non si differenzierà in molto quello che sarà il nostro Stato quale sta per sorgere da questa Costituzione. Analogamente potrei riferirmi alla storia dello Stato federale degli Stati Uniti d'America. Ed allora, evidentemente, nel Senato dovranno sedere dei rappresentanti specifici delle Regioni, ed io dico anche delle Province, dal momento che le province sono state mantenute, ed io dico anche delle maggiori città — da Milano a Roma, fino a Bari e Bologna ad esempio —; e tali rappresentanti saranno eletti dai diversi Consigli regionali, provinciali o comunali, col sistema proporzionale, col voto di lista, col sistema maggioritario, secondo quanto sarà possibile e sarà conveniente.

Avremo così dei rappresentanti specifici delle Regioni singole, delle Province singole, e anche delle grandi singole città, i quali verranno a dire al Parlamento ed anche alla Assemblea Nazionale quali sono gli specifici interessi di Milano, di Bologna, della Sicilia o degli Abruzzi e via dicendo. Ciò corrisponde alla logica, ciò avviene di già. L'onorevole Greppi, eletto con votazione così lusinghiera in questa Assemblea, ha subito dato le dimissioni da deputato; ciò nondimeno quante volte non viene a Roma per far presente al Governo le necessità di Milano, di cui è preclaro sindaco! Eppure siedono qui, eletti a Milano, una trentina di deputati di tutti i partiti, deputati che fanno parte del Consiglio comunale e persino della Giunta comunale di Milano. La realtà è questa: il sindaco ha una funzione di diretta rappresentanza della città e come portavoce di questa è insostituibile. Ed allora, perché non trovare una forma che dia una rappresentanza effettiva, diretta, una voce qualificata a quelli che sono gli interessi locali? A un rappresentante dei diversi Consigli amministrativi locali? Ma accanto a queste rappresentanze non si devono scartare a priori quelle che dovrebbero rappresentare quelli che non esito a chiamare «gli interessi corporativi». Perché, onorevoli colleghi, il fascismo non deve costituire un impedimento a noi per fare quello che crediamo sia bene di fare, sol perché esso lo ha fatto prima di noi. Non porteremo più, grazie a Dio, non porteranno più (perché io non ho mai sognato di portarla) una camicia nera; ma non potremo portare le mutande al posto della camicia per timore delle usanze del fascismo. È ben noto del resto che il fascismo ha accattato, ha rubato dappertutto, istituti e concetti, che non erano suoi, e nel campo economico e nel campo sindacale e nel campo politico. Ora abbiamo visto persino alcuni istituti, alcune disposizioni della repubblica di Salò rivendicate e rivelate proprio dai partiti di estrema sinistra, o dalle organizzazioni sindacali. Fra tanti mali il fascismo non conservi anche il maleficio, postumo, di impedirci, che noi si possa far bene quelle cose che esso faceva male. Come Mida trasformava in oro qualunque cosa toccasse, così il fascismo avvelenava ogni cosa a cui poneva mano. Noi dobbiamo oggi non rifare, ma fare da capo un vero autentico corporativismo. Non dobbiamo fermarci nel coraggioso compito di istituire uno Stato italiano democratico da ostacoli di carta o di cartapesta.

Ora vi è un fenomeno moderno, e questo lo dico soprattutto ai rappresentanti dell'estrema sinistra, un fenomeno tipico, il più tipico della nostra età, e queste sono le classi organizzate.

Da centocinquanta anni in qua che cosa è accaduto? Nel 1766, Turgot, ministro di Luigi XVI, abolisce le corporazioni, che però risorgono parzialmente qualche anno dopo, per poi essere abolite definitivamente nella rivoluzione francese dalla famosa legge Chapelier del marzo e del giugno 1791. Il primo Stato che le abolisce in Italia, è quello del Papa; è Pio VII nel 1801, mentre nel Piemonte durano fino al 1844. Tutta la prima metà del secolo scorso vede estendersi da Stato a Stato l'abolizione delle corporazioni; forme vecchie di un principio che però era vitale; ed infatti gli ultimi decenni del secolo scorso e il primo di questo secolo che cosa hanno portato? Il riconoscimento delle organizzazioni di classe. Si è nella seconda metà del secolo rifatto quello che nella prima si era disfatto, dopo tante discussioni, dopo tante lotte. Ed ora l'uomo organizzato è una realtà che si va attuando sempre più nella nostra epoca. Io ricorderò una pagina di Vilfredo Pareto, la quale rileva che in fin dei conti lo spirito di classe è la caratteristica dell'uomo moderno come e più che in altri secoli, che tutti agiscono nella pratica secondo lo spirito della loro classe indipendentemente dalla organizzazione di classe, che può anche non esistere, indipendentemente persino dalla coscienza di appartenenza a una data classe. Dunque, questo istinto di classe così naturale, questo fenomeno grandioso che è la moderna organizzazione delle classi, — anche di quelle che sembrano meno suscettibili ad organizzarsi (pensiamo ai magistrati che hanno fatto sciopero per tanto tempo ed hanno mandato qui al Governo ed a noi dei loro membri quali veri e propri rappresentanti di una organizzazione) — è un fenomeno che non possiamo ignorare, che non possiamo disconoscere.

Signori, è il grande fatto moderno che io vi invito a considerare ai fini di tenerne conto nella opera che stiamo compiendo.

Io comprendo la posizione dei liberali; comprendo come l'onorevole Einaudi (parlo naturalmente non del Ministro, ma del costituente) possa battersi, ultimo paladino generoso e magnifico rappresentante di una dottrina al tramonto o tramontata, almeno temporaneamente, della dottrina che riconosce solo l'individuo; e trovo logico che egli non accetti il mio punto di vista. Ma io, sinceramente, non riesco a capire le ragioni dell'onorevole Preti, e di tutti quei socialisti che con lui non riconoscono la possibilità di rappresentanze politiche alle classi, a tutte le classi; e quasi che tra queste non vi fossero, imponenti, tutte le categorie dei lavoratori, giungono a considerare, a dichiarare conservatrice e reazionaria questa mia proposta!

Signori, vi è di più a favore della tesi che sostengo: vi è un problema politico, che io pongo con crudezza; e credo che l'Assemblea debba avere il coraggio di guardarlo in faccia. Lo Stato moderno, lo Stato parlamentare, la nostra Repubblica parlamentare, hanno veramente una corrispondenza nella coscienza dei cittadini, di tutti e dei più umili cittadini? Ha essa quella considerazione che le compete e che il nostro Presidente, onorevole Terracini, nel discorso avanti l'inizio delle ferie, ha ribadito, rivendicando nobilmente, contro l'opinione diffusa, questa funzione altissima, questa nobile fatica, questa delicata procedura del Parlamento? Ebbene, abbiamo il coraggio di dirlo: tutto ciò non ha corrispondenza nella coscienza dei cittadini. O almeno la grande maggioranza non comprende, non apprezza l'opera nostra.

Noi, alle volte, siamo dei sacerdoti che comprendiamo dei riti che gli estranei non comprendono o addirittura denigrano. Questa è la realtà. Mi pare che in ciò stia un problema politico, che debba interessare tutti coloro che si preoccupano della democrazia parlamentare, anzi della democrazia senz'altro, tenera pianticella nel nostro suolo, e quelli soprattutto fra noi che hanno come bandiera e insieme come compito il repubblicanesimo storico. Tutti costoro, tutti noi democratici e repubblicani, dobbiamo preoccuparci e far sì che le nostre istituzioni abbiano il consenso del popolo; che esse gettino nella coscienza italiana salde e profonde radici. Noi dobbiamo desiderare per il nostro regime quel favore che ebbero tanti altri pur così immeritevoli.

Se i Borboni riuscivano ad avere con loro i lazzari di Napoli, perché mai la Repubblica nostra non deve riuscire ad imporsi nella coscienza popolare? Perché dobbiamo alle volte evitare a manifestare e persino considerare se non convenga sottacere (specialmente nelle carrozze ferroviarie!) la nostra qualità di deputati? come mai dobbiamo temere di essere meno graditi al pubblico perché siamo i rappresentanti della nazione? È inutile nascondercelo: la nostra funzione è considerata, persino nelle classi più colte, molto, troppo spesso, come quella o di mezzi matti o di interessati e profittatori. I grandi scienziati, i grandi professori, i grandi banchieri ed industriali dichiarano di non degnarsi di scendere a questa nostra professione. Può darsi che per molti sia l'uva della volpe esopiana: ma per molti è vero disdegno. Ora, io ricordo una frase di Montesquieu, che mi pare indichi una condizione fondamentale per quella che è la vita degli Stati: «Non vi è cosa più potente — dice in quel piccolo superbo saggio sulle fortune dell'antica Roma — di una repubblica, nella quale i cittadini osservino le leggi, non per ragione, ma per passione; come furono Roma e Sparta; poiché si unisce alla sapienza di un buon governo tutte le forze, che potrebbe avere una fazione». Ecco il problema, problema squisitamente politico: ridare allo Stato nelle coscienze dei cittadini il posto che gli compete, ristabilire i vincoli di solidarietà politica e quelli della solidarietà sociale; ridare ai cittadini una fiducia, una fede nel regime nostro, nel Governo parlamentare! Far sorgere nei cittadini la passione dello Stato! Tale sarebbe stata la ragione del successo degli eserciti della Repubblica sovietica; la difesa dello Stato sentita come una passione, come un misticismo.

Se vogliamo creare sul serio una stabile repubblica democratica, occorre che la basiamo sulla e nella coscienza del popolo italiano.

Permettetemi che citi ancora quello che ha detto Aristotele: «Perché uno Stato duri è necessario che i più siano interessati alla sua conservazione e la desiderino»; occorre cioè che sempre un maggior numero di cittadini confonda i propri cogli interessi pubblici, senta gli istituti politici come cosa propria.

Ora, abbiamo il coraggio di dirlo: tutte le sfumature della borghesia, che è un ceto così vasto, sono in Italia, rispetto alle nostre istituzioni parlamentari, in una posizione strana, tra la diffidenza sospettosa e l'indifferenza la meno commendevole. Guardate ora le classi popolari; esse pure non amano questa nostra Repubblica, questo nostro regime come esso è in concreto; altro essi amano, comunisti o socialisti o democratici cristiani, essi amano le nostre idealità come loro bandiera, loro entusiasmo, loro passione. Essi amano, perché la concepiscono, la nostra o la vostra bandiera, ma non riescono a concepire e ad amare lo Stato neppure sotto la forma di una Repubblica popolare e democratica. Né si può fare di ciò loro una colpa, ove si pensi che le classi intellettuali — i professori universitari ed i grandi professionisti — la concepiscono ancor meno.

Orbene, tutto ciò è un pericolo, un grave pericolo, perché il fascismo, il nazismo e le altre forme di Governi autoritari — sino il Governo Pétain-Laval (l'ultima e più impensata incarnazione, che sorse proprio in quella Francia dove era apparsa, tanto più dopo la guerra 1915-18, ormai consolidata definitivamente la libertà e la democrazia) — da che sono sorti, se non dalla convinzione sempre più diffusa del iato tra quello che gli scrittori francesi chiamarono pays légal rispetto al pays réel?

Hanno sempre detto costoro esagerando alcune condizioni anche anormali del fenomeno parlamentare, alcuni difetti patologici, inevitabili forse, nel Parlamento — giacché ogni istituto umano ha lati buoni e cattivi, il pro e il contro — hanno esagerato tutti i difetti, i vizi, gli episodi sciagurati e, purtroppo, bisogna riconoscerlo, sono riusciti a creare quell'opinione diffusa che sta contro i Parlamenti, o, almeno, contro i parlamentari. L'abbiamo visto in un episodio recente. Ho scorso con grande attenzione le cariche denunziate dai colleghi in seguito alla nota decisione nostra, nell'elenco pubblicato in questi giorni. Mi chiedo: valeva la pena, allora, di far tanto fracasso, di dare al Paese l'impressione di chissà quali scandali? Ciò malgrado il Paese crederà sempre che almeno metà di noi abbia chissà quali prebende e chissà quali cariche amministrative, mentre dall'elenco risulta quanti pochi di noi abbiano cariche di tal genere e quanto esse siano, comunque, per la massima parte di noi, modeste.

Vi sono professioni diffamate per abitudine: presso determinati ceti, i preti, presso tutti, gli avvocati; presso molti, i giudici, gli impiegati statali ed i medici (spesso, anche le persone colte preferiscono andare dai «medicozzi», e diffidano dei medici, e parecchi medici presentano le diagnosi e le terapeutiche in forme apparentemente nuove ed ermetiche, evidentemente per rispondere al gusto del pubblico!). Ma indubbiamente la nostra tiene il primato tra le più diffamate professioni, la nostra, che Tardieu ha creduto appunto bollare nel noto suo libro come «professione parlamentare». Contro di questa, contro il parlamentarismo e non da ieri, ma da mezzo secolo e più, vi è tutta una letteratura, tante opere da farne una biblioteca. E tra essi persone d'alto ingegno, serie, studiosi, politici: basti ricordare il Prins e il De Greef, per il Belgio, uomini politici, professori, alla Università di Bruxelles, il primo dei quali iniziò la campagna con un libro uscito nel 1887 e la condusse avanti per tanti anni; il secondo fu il paladino del referendum e della proporzionale, che riuscì a veder trionfare nel suo paese e, con maggior ardore, proprio della rappresentanza organica professionale; basti ricordare in Francia il Benoist (è del 1895 l'opera sua famosa: La crisi dello Stato moderno), il Duguit, il Duthoit, e accanto a loro tutta una scuola francese (non parlo di quella dell'estrema destra, di quella dell'Action Française, del Maurras e compagni, ma di una scuola obiettiva e scientifica); tutta una scuola di pubblicisti che in Francia, in Italia poi, e altrove, hanno sottoposto a critica spietata il sistema parlamentare. Ricordo che il Benoist, che è stato uno dei più moderati, ha un giudizio che non ritengo si possa rifiutare: «l'opinion politique n'est pas tout l'homme». E cioè l'opinione politica, sulla quale si fondano partiti e Parlamenti, è importantissima ma non esaurisce tutte le caratteristiche individuali e sociali dell'uomo. Ciascun cittadino cioè si individua non soltanto per le sue idee, le sue convinzioni, i suoi sentimenti, che lo determinano ad una svolta politica, ma ha anche altri interessi e convinzioni che non hanno adeguata rappresentanza nei partiti politici e negli uomini che egli è chiamato ad eleggere. Di qui quel singolare distacco della fiducia pubblica dal sistema parlamentare.

Ricordiamo il sintomatico fenomeno Tardieu (uomo da cui si poteva dissentire, ma a cui nessuno contesterà la buona fede e l'assoluta rispettabilità, confermata poi dal suo dignitoso rifiuto e dal suo contegno verso il Governo Pétain-Laval). Eppure Tardieu, che era uno dei principali politici del suo paese, deputato, ministro, due o tre volte Presidente del Consiglio, a un certo momento divorzia dalla vita parlamentare, si ritira a vita privata e conduce, attraverso anni di lavoro, e quasi una decina di libri, una radicale campagna contro il sistema parlamentare, definitivamente da lui condannato. Per lui esso non solo era un sistema inefficiente, ma marcio, irrimediabilmente. E con lui un altro grande parlamentare, Doumergue, non solo ex Primo Ministro, ma ex Presidente della Repubblica, che, dopo l'ultimo suo Ministero, coi libri, con la radio si fa l'accusatore spietato del sistema parlamentare, e, come Tardieu, invoca il «nuovo». E poiché l'arte ha più efficacia della scienza e della politica, ricordo ancora il grande romanzo Les morts qui parlent di Melchior De Vogüe; egli pure uomo politico, ambasciatore, deputato, e insieme letterato notevole (fu accademico di Francia, ed ebbe il merito di far conoscere, con il suo celebre saggio sul romanzo russo, la letteratura russa a tutto il mondo europeo). Quel suo bel romanzo resta una insuperata descrizione dell'ambiente e della vita parlamentari. Ma tutta l'opera, che è verso il 1905, è ispirata al più sconfortante pessimismo, alla più amara convinzione: il fallimento del regime parlamentare, e sfocia nella più terribile delle conclusioni: occorre l'uomo; un uomo che ripensi un nuovo regime. L'uomo! Mussolini, Hitler, Laval! Quel gentiluomo moderato e onesto repubblicano avrebbe inorridito a vedere quali uomini avrebbero dovuto spazzare e spazzarono via il regime parlamentare!

Eppure egli era l'interprete di uno stato d'animo diffuso ai suoi tempi. E diffuso, purtroppo, ancor oggi. Di esso non possiamo non preoccuparci, perché potrebbero sorgere nuovi terribili guai.

Ma, onorevoli colleghi, in fondo a tutte codeste accuse al parlamentarismo, trovate, tra le altre critiche, queste: il mondo parlamentare è un mondo a sé, artificiale, avulso dalla vita; e tutti i parlamentari in fondo, qualunque professione di fede politica si abbia, appartengono ad una classe ristretta, solidale fra loro, miope e sorda. Peggio! I parlamentari sono reclutati in stretti ceti, e la maggior parte delle classi, delle professioni e dei mestieri non si curano neppure di ricercare un mandato parlamentare.

Adesso è uscito un libro di un giornalista di valore — intitolato I moribondi di Montecitorio; ma esso ha un antico precedente nel famoso libro di quel singolare, sebbene disordinato ingegno, che fu il Petruccelli della Gattina, letterato, patriota e politico.

Ebbene in quel libro famoso, che è del 1861, il Petruccelli della Gattina fa la statistica dei deputati del Parlamento di Torino sotto l'aspetto della loro condizione sociale, delle loro professioni, e rileva che tra tanti deputati, non vi era neanche un operaio, non vi era neanche un contadino, neanche un impiegato privato e che i funzionari pubblici invece abbondavano. Da tale constatazione (che non doveva stupire dato il sistema elettorale estremamente ristretto basato sul censo), dalla constatazione che la grande maggioranza dei deputati appartenevano alle categorie dei professori universitari, degli avvocati, l'autore trae la conclusione che il Parlamento fosse riservato ai professionisti della politica. E da allora quante volte si è ripetuto quel rilievo. Un giornalista ha detto che nel partito, anzi nei due partiti socialisti, non vi è neanche un operaio, neanche un contadino. Non so se sia esatto; quanto al partito, al quale ho l'altissimo onore di appartenere, posso dire che vi sono due autentici contadini ed alcuni che furono operai. E noi stessi, quando andiamo in mezzo alle masse, quante volte non abbiamo sentito dirci: perché mai tra voi alla Camera non vi sono che professori ed avvocati? È diffusa questa critica, è diffuso questo stato d'animo; non possiamo disconoscerlo.

Ed allora, davanti a queste constatazioni credo che valga la pena di riesaminare se, almeno parzialmente, almeno in via di esperimento, non si possa dare al popolo nel futuro Senato la rappresentanza degli interessi, accanto alle rappresentanze locali, cioè delle Regioni, delle province e dei comuni. Risorgerebbero così antichi sistemi di elezione, ma rinnovati secondo i bisogni dei tempi nuovi, nel nuovo spirito della nostra attuale democrazia. A proposito di quei sistemi, io ricordo una frase di uno dei nostri maestri, del migliore nostro maestro, dell'illustre uomo che abbiamo ancora la fortuna di avere per collega, dopo la seduta di ieri, di Vittorio Emanuele Orlando, che pur è sempre stato nemico della rappresentanza politica degli interessi. Egli ha scritto: «Tutti gli antichi sistemi di elezione per classe e rappresentativi degli interessi muovono dal concetto, così fecondo (sono le testuali parole di Orlando), della natura organica dello Stato», cioè dalla concezione che lo Stato è e deve essere un organismo vivente con ogni organo e ogni funzione in armonia con tutti gli altri. La storia è lì a confermarci come spontaneamente i popoli hanno, in ogni tempo, fatto ricorso alle rappresentanze degli interessi. Trascuro onorevoli colleghi, e il sistema di Solone e le classi di Servio Tullio, trascuro le forme di rappresentanza del mondo antico; neppure voglio citarvi le corporazioni di arti e mestieri del Medio Evo, i paratici, le credenze della mia Milano, le glorie di tutti i nostri comuni. Consentite che vi ricordi i sistemi introdotti da noi, in un secondo tempo, a Milano ed altrove, dalla Rivoluzione francese, nelle repubbliche napoleoniche. Nel 1802 a Lione fu stabilito nella Costituzione della Repubblica Cisalpina la rappresentanza a mezzo di tre collegi, i possidenti, i dotti, i commercianti (è ad essi che allude il Foscolo col suo verso famoso «il dotto, il ricco ed il patrizio volgo»). Tale sistema fu copiato da tutti gli Stati napoleonici d'Italia e fuori Italia. Io vi ricordo appena le lodi che ha scritto Cesare Correnti, grande patriota e illustre liberale, parlamentare e Ministro dopo il 1859, su quelli che erano i convocati, cioè le rappresentanze elettive comunali (di uomini e di donne si noti!) nella Lombardia austriaca, rappresentanze basate sulle categorie sociali e professionali.

E perché non dovrei ricordare, malgrado il pericolo di qualche Don Basilio, che mi tacci di «austriacante», l'esempio austriaco delle quattro curie austriache, del sistema elettorale del 1867 durato sino al 1907, e alle quali quell'Impero aggiunse una quinta curia, quella del suffragio universale, nel 1856 (mentre in Italia Giolitti stentò ad introdurre il suffragio universale nel 1912)? Antiquato, di certo, era tuttavia un sistema elettorale che rispondeva al bisogno della rappresentanza degli interessi. Ricordo, infine, che a Weimar fu istituito costituzionalmente accanto al Parlamento del Reich un «Consiglio economico dell'Impero», pur privo di vera autorità politica, e che comprendeva una serie di minori Consigli economici particolari o locali. Persino lo Statuto albertino, e gli altri dell'800, di cui esso fu una copia pedissequa, con le sue note categorie, si era preoccupato di una certa rappresentanza di ceti e di categorie.

Tutti questi fatti hanno certamente un qualche significato storico; il ripetersi, in tempi diversi, e in forme diverse, di sistemi, anche imperfetti, di rappresentanza degli interessi dimostra un bisogno vasto e quasi universale. Un bisogno, quindi, che noi dobbiamo soddisfare, sia pure con prudenza e con ponderazione.

Tanto è vero che alla rappresentanza degli interessi si è pensato da molti illustri politici e parlamentari dell'epoca liberale nei diversi progetti di riforma del senato regio. Se si esaminano quelli che sono i precedenti della riforma del Senato in Italia, riscontriamo cioè uomini di tutte le opinioni politiche che sostengono, sotto forme diverse, questo principio; per i liberali ricordo Giorgio Arcoleo, uno dei più grandi pensatori, il Tittoni, che era un studioso notevole di problemi costituzionali, oltreché un eminente uomo politico, il Ruffini, uno degli spiriti più liberi della resistenza antifascista, Emanuele Greppi, altro studioso di problemi politici e storici di chiara fama; fra i socialisti il Della Torre, amico di Filippo Turati, e il Loria, eminente economista; così come mi viene alla mente un altro grande economista, Maffeo Pantaleoni. Non ricordo, di proposito, progetti degli uomini della mia parte.

In tutti questi progetti, che si possono consultare anche qui, in biblioteca, uomini di ogni partito hanno, in fin dei conti, creduto far ricorso al principio che io sostengo per rinnovare il Senato regio. E tra i non parlamentari, come non potrei ricordare la tesi di Sturzo, la tesi di tutta la sua vita, da giovanissimo sino all'esilio, e che egli trasfuse nel programma del Partito popolare italiano? Più suggestivi ancora gli esempi di Parlamenti esteri. Io ricordo che la Camera ed il Senato belga hanno discusso per diversi mesi su un progetto del senatore Helleputte, nel 1892; i discorsi di quell'eminente studioso e di altri parlamentari sono stati pubblicati ed illustrati in un antico volume della casa Desclée. Ne ho una copia, a me tanto cara perché è piena di postille personali di Giuseppe Toniolo; e quell'eminente Uomo, al quale tutti noi guardiamo come a caro Maestro, del sistema da me qui sostenuto fu sempre un aperto ed entusiasta sostenitore. Ricordo che nel 1896 sono state fatte proposte in Francia, in Parlamento e fuori, di rappresentanza degli interessi per quel Senato, da uomini eminenti, dal liberale Dechanel, al celebre Abbé Lemire, che fra i primi propose ai cattolici europei l'esempio della democrazia americana, al celeberrimo socialista Jaurès. Non cito altri esempi, altre autorità; ma certo è che, se tutti questi studiosi e politici hanno prospettata l'ipotesi di una possibile rappresentanza politica ed organica degli interessi, non mi pare ipotesi da potere essere trascurata o disdegnata con tanta facilità e con tanta leggerezza come ha fatto il collega Preti, che forse è un po' troppo filosofo più che giurista.

Conosco le obiezioni, antiche anche esse, numerose ed autorevoli. L'onorevole Salandra contestando, appunto, la tesi della rappresentanza degli interessi, ebbe a scrivere che la Camera degli interessi sarebbe stata la Camera degli egoismi. Ma, siamo sinceri, credete voi che tra di noi, in ogni Parlamento politico, non entrino gli egoismi? Cacciati dalla porta essi entreranno sempre dalla finestra! Ma guardate lo spettacolo quotidiano di quest'Aula: il Presidente del Consiglio, i Ministri quante volte sono costretti a lasciare il loro banco, a correre di là, perché devono ricevere le più varie rappresentanze delle più varie organizzazioni sindacali e di categoria. Dunque, ecco delle forze che hanno un valore politico, che hanno anzi maggiore importanza di noi tutti messi insieme! E perché non volete aprire le porte del Parlamento, a tali rappresentanti del popolo organizzato in sindacati e in categorie?

Non ci vedo un qualsiasi pericolo per la democrazia, per il suffragio universale. Ripeto, non si tratta che di un esperimento parziale. Si tratta di dare agli interessi una parte, modesta, in quel Senato, che a sua volta sarà meno numeroso della Camera dei Deputati, e quindi nell'Assemblea Nazionale i rappresentanti delle categorie, degli interessi, saranno numericamente trascurabili.

Che cosa importerà, in fin dei conti se forse, dico forse, la rappresentanza degli interessi potrà portare qualche nota a destra? Che cosa importerà siffatto minimo spostamento, se potremo vincere questa grande diffusa diffidenza, questa grande obiezione: non soltanto noi parlamentari, non solo una classe politica fanno le leggi e interloquiscono nei pubblici affari; ma nei pubblici consessi hanno voce, peso i diretti rappresentanti dei banchieri, degli industriali, degli operai, dei contadini, dei tecnici e dei magistrati, di tutte le classi e di tutte le categorie sociali?

Obietta l'onorevole Nobile, come si legge in un resoconto della Commissione dei Settantacinque, che la rappresentanza degli interessi, delle categorie sociali spontaneamente riescono ad avere voce e rappresentanza in qualsiasi Parlamento politico, come l'hanno in questa Camera Costituente. È vero, ma è vero solo in parte. Ed è vero solo in parte perché si tratta di rappresentanze indirette, non dirette. Siamo parecchi deputati qui avvocati del foro di Milano: Targetti, Gasparotto, Marazza, Jacini, Castelli, Meda, Vigorelli, io e forse altri. Ma è probabile, anzi certo, che se il foro di Milano dovesse eleggere dei suoi diretti rappresentanti, eleggerebbe non noi, almeno tutti noi, come, unici suoi rappresentanti.

Alle eventuali, caotiche ed occasionali rappresentanze si deve preferire una rappresentanza professionale sistematica ed organica.

Si obietta ancora che la proposta rappresentanza degli interessi ferirebbe il principio della eguaglianza dei cittadini. Ora, anche qui, guardiamo senza viltà le cose come sono, e soprattutto prescindendo dalle concezioni filosofiche (per noi cristiani l'eguaglianza politica, civile e giuridica si basa sulla eguaglianza morale, l'identica posizione di figli di Dio, e di riscattati dal sacrificio del Cristo, per voi socialisti sulla solidarietà del lavoro e dei lavoratori, per altri su ideali nazionali o civili); prescindendo, persino, dalle astrazioni giuridiche. Guardiamo alla realtà di fatto. Sotto la eguaglianza giuridica persistono le diversità di fatto. In questa Camera vi sembra che io abbia lo stesso peso di Nitti oppure di Orlando? Abbiamo qui tra i nostri colleghi parecchie coppie di sposi, che sono pari qui; ma lo sono sempre altrove? Il figlio di Orlando è deputato come suo padre, ma nell'intimità della famiglia restano pari? Dunque vi sono aspetti molteplici della realtà; come una fotografia varia secondo il punto da cui il soggetto viene fotografato. La realtà è complessa ed è difficile riprodurla, fotografarla.

Abbiamo del resto il coraggio di dire: il progetto di Costituzione viene già a stabilire nell'elezione dei senatori delle disparità. Regioni piccole come il Friuli o il Trentino manderanno senatori in numero presso a poco pari a quelli che manderà il Veneto o la Lombardia.

In Isvizzera le piccole regioni (cioè i piccoli cantoni) mandano lo stesso numero di senatori, due ciascuna, stabiliti per Berna o Zurigo, che rappresentano ciascuno un quinto o un quarto del territorio e della popolazione svizzera. E lo stesso è stabilito per Stati tanto diversi demograficamente e geograficamente degli Stati Uniti d'America. Si dirà, ma questa è la caratteristica degli Stati confederali, nei quali si viene necessariamente a violare il principio dell'eguaglianza dei cittadini per il principio dell'eguaglianza dei singoli Stati. Ma questo avverrà anche per il nostro progetto di Costituzione; e se accetteremo l'Emilia Lunense tanto cara all'ottimo collega mio ed illustre maestro, onorevole Micheli, avremo che il cittadino dell'una e dell'altra Emilia verrà a contare il doppio che se la Regione restasse unita. Quindi, già secondo il progetto attuale è violato, per l'elezione al Senato il principio rigido ed assoluto della parità fra i cittadini elettori. Se non vogliamo violarle dobbiamo essere logici come Sieyès e gli altri costituenti francesi dell'89 e volere una sola Camera, come vi è un solo popolo, un solo Paese, senza preoccuparci degli svantaggi, dei pericoli che la storia costantemente ci denuncia del sistema unicamerale, e che, da Cesare Balbo in poi, le mille volte vennero messi in evidenza.

Razionalmente ne teniamo conto; ma la storia è questa.

Ma quale è, onorevoli colleghi, la natura del regime nostro, indicata dallo stesso termine di regime rappresentativo? rappresentare politicamente un paese è cosa molto difficile, molto più difficile di quello che sia per il geografo rappresentare un Paese fisico in una mappa, in una carta.

L'immagine è del resto stata ripetuta tante volte: il Parlamento sta al Paese come la carta geografica sta al paese fisico. Ma in geografia c'è la carta geografica politica e c'è la carta geografica fisica naturale. Sono due diversi aspetti che rappresentano la stessa realtà complessa; sono due riproduzioni dello stesso soggetto. Così il parlamento politico rappresenta i partiti, i sentimenti, le opinioni, ma, è vero e già l'ho detto, essi ed esse non esauriscono completamente l'uomo. Io sono un democratico cristiano, ma sono anche un avvocato; come potrei essere un medico, ingegnere. E uomini di partiti diversi ed opposti si ricercano qui, si riuniscono naturalmente, sotto il riguardo della comune identifica professione. Così i medici, di ogni partito politico, hanno costituito il loro gruppo.

Ecco dunque che noi dobbiamo fare del Senato un'Assemblea che abbia la sua particolare essenza, che abbia una sua inconfondibile natura; che non sia un doppione della Camera dei deputati. E soltanto così avremo il grande vantaggio di cercare, per quel che sta in noi, di venire incontro a tanti malcontenti, a tanti scettici del regime parlamentare, e di rendere salda nella coscienza popolare italiana la Repubblica democratica.

[...]

Jacometti. [...] I senatori sono eletti per un terzo dai membri dei Consigli regionali e per due terzi a suffragio universale. Anche qui la libera espressione della volontà popolare viene alterata.

Ma vi è di più. Per essere elettori del Senato bisogna aver compiuto i 25 anni di età. Questa è una delle incongruenze, delle cose illogiche ed assurde, escogitate soltanto per capriccio e per poter affermare che fra le due Camere una differenza esiste. Non si capisce perché mentre la Camera dei deputati è eletta da elettori di 21 anni, gli elettori fra 21 e 25 siano scartati per il Senato. Essi sono capaci per una elezione, ma non per l'altra. La cosa ha i suoi riflessi e le sue conseguenze logiche. Si tende, attraverso questo metodo, ad avere un corpo elettorale scelto, di élite. Non è più il grande corpo elettorale comune, è un corpo selezionato. Ma, se si seleziona il corpo elettorale, la conseguenza che ne deriva è questa: che gli eletti della seconda Camera vengono ad essere messi al disopra di quelli della prima, considerati, ragionevolmente, un'élite. E questo significa svalutare la prima Camera nei confronti della seconda.

Questo concetto della svalutazione lo ritroviamo ancora, quando passiamo dagli elettori agli eleggibili. Si dice nel progetto che gli eleggibili devono essere domiciliati o nati nella Regione. Anche questo è un criterio poco logico, che porta al frazionamento del Paese. Perché un uomo, che per caso è nato a Genova e che è domiciliato momentaneamente a Napoli o a Salerno, ma che ha svolto tutta la propria attività in Piemonte, non deve poter essere senatore piemontese? Non deve poter rappresentare quella Regione nella quale ha abitato ed ha lavorato?

Poi: i candidati devono aver compiuto i 35 anni di età. Sono esclusi gli uomini dai 25 ai 35 anni. Essi sono buoni per la prima Camera, ma non per il Senato; e ancora una volta si cerca di degradare la prima Camera nei confronti alla seconda, perché si fa una selezione per la seconda.

Ma la cosa veramente assurda, e in un certo modo anche tendenziosa, sta nelle categorie degli eleggibili al Senato. Quali sono esse dunque? «Decorati al valore nella guerra di liberazione 1943-1945» e questo va bene. «Capi di formazioni regolari o partigiane». Perché «capi»? Se l'essere stato combattente della libertà è un requisito per essere eletto senatore perché scegliere i capi e non scegliere tutti coloro i quali hanno combattuto per la libertà? E la cosa si aggrava quando si legge: «Con grado non inferiore a comandante di divisione». Questo significa che la maggior parte dei combattenti di questa parte, che pure ha dato tanti uomini alle formazioni dei partigiani e dei liberatori, non potrà domani essere candidato per il Senato: pochissimi infatti hanno raggiunto il grado di comandante di divisione od un grado equiparato.

La stessa osservazione deve essere fatta per altre categorie: «Presidenti della Repubblica, Ministri, ecc.» e va bene, «Membri per quattro anni complessivi di Consigli regionali o comunali».

Lasciamo stare i Consigli regionali, che non ci sono ancora, e vediamo i Consigli comunali. Se si riflette un momento, si constata che la gran massa dei Consigli comunali conquistati dai partiti di sinistra, più di 2400, fu conquistata solo nel 1920; due anni dopo tutta questa gente fu defenestrata. In sostanza questa gente fu ai Consigli comunali soltanto per due anni ed adesso, se lo è ancora, (fra le due elezioni, vi è una frattura di più di vent'anni) lo è da poco tempo. Noi avremo questo risultato: che quasi tutti i consiglieri comunali socialisti e comunisti saranno esclusi dalla candidatura al Senato. Troviamo poi: «Professori ordinari di Università e di Istituti superiori, membri dell'Accademia dei Licei e di corpi assimilati; magistrati e funzionari dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni, ecc.; membri elettivi per quattro anni di Consigli superiori presso le amministrazioni centrali; di Consigli di ordini professionali; di Consigli di Camere di commercio, industria ed agricoltura, di Consigli direttivi nazionali, ecc.; membri per quattro anni di Consigli di amministrazione o di gestione (questi legalmente non ci sono ancora) di aziende private o cooperative con almeno cento dipendenti o soci; imprenditori individuali; proprietari conduttori; dirigenti tecnici ed amministratori di aziende di eguale importanza».

Esaminate con ponderazione tutte queste categorie; tengo a farvi osservare che è stato fatto un calcolo dal quale è risultato che vi è una differenza e una sproporzione tra partiti di destra e di sinistra di uno a dieci. Abbiamo, con la stessa massa, una quantità di possibili candidati uguale ad un decimo dei partiti di destra.

Ebbene, onorevoli colleghi, per tutte queste ragioni noi voteremo contro questo Progetto e presenteremo degli emendamenti, perché ci pare che effettivamente se dessimo vita ad un Senato del tipo progettato, noi creeremmo una Camera antidemocratica, in contraddizione completa con le nostre aspirazioni. (Applausi a sinistra).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti