[L'11 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo».]
Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l'onorevole Preti. Ne ha facoltà.
Preti. Sono rimasto ieri assai meravigliato, quando l'onorevole Codacci Pisanelli, parlando — come egli ha dichiarato — a nome della Democrazia cristiana, ha nuovamente proposto di costituire il Senato sulla base della rappresentanza di categoria. Io proprio credevo che di un simile Senato non se ne sarebbe mai più parlato, dopo che la Commissione dei Settantacinque già l'aveva respinto.
Potrei comprendere questa proposta, se qui si trattasse di creare un Senato che fosse semplicemente un organo consultivo. Ma quando si sostiene, almeno in linea di diritto, la parità del Senato e della Camera dei deputati, proporre poi che il Senato venga formato sulla base della rappresentanza di categoria significa ispirarsi a un criterio assai scarsamente democratico, anzi addirittura antidemocratico.
Nella moderna democrazia non si può ammettere che una Camera, la quale sia effettivamente partecipe della sovranità, attinga la sua autorità — per via diretta o indiretta — da una fonte diversa dal suffragio popolare universale. Se da quasi 40 anni la Camera dei Pari ha perso ogni potere effettivo, è proprio perché anche nella tradizionale Inghilterra questo principio democratico si è inequivocabilmente imposto.
Vorrei che l'onorevole Codacci Pisanelli fosse qui per chiedergli come, nel caso in cui dovessimo accettare la proposta sua e del suo partito, egli ci potrebbe garantire che le categorie del suo Senato corporativo rappresentino veramente il popolo. In base a quale criterio si può stabilire, putacaso, che la categoria dei meccanici abbia trenta rappresentanti in Senato e la categoria dei tessili venti, anziché magari trenta quelli dei tessili e venti quella dei meccanici? Forse con l'anagrafe professionale degli Uffici del lavoro, che oltre a riuscire sempre approssimativa, darebbe luogo a insanabili e sostanziali divergenze di interpretazione?!
E in seno ad ogni singola categoria, in base a quali criteri assegneremmo i posti rispettivamente ai rappresentanti del capitale, della tecnica e del lavoro?
Non credo si vorrebbe giungere alla rappresentanza paritetica di fascistica memoria. D'altronde, se domani l'onorevole Di Vittorio, segretario della Confederazione generale italiana del lavoro, pretendesse che in seno ad ogni singola categoria, in relazione al numero degli aderenti, i rappresentanti dei lavoratori fossero nove su dieci, non so cosa ex adverso gli si potrebbe rispondere.
Mi sembra che, sostenendo questa tesi del Senato corporativo, si voglia prescindere per forza dai partiti, i quali costituiscono le forze vive della democrazia moderna. Ma oltre a tutto si finisce per conseguire, adottando tali criteri, una rappresentanza degli interessi costruita a casaccio, non essendo rintracciabile, come ho dimostrato, nessun criterio obiettivo per assegnare un numero o un altro di senatori alle singole categorie economiche, e per suddividere i posti di rappresentanza in seno alle categorie stesse.
Il risultato sicuro, a mio parere, sarebbe uno solo: quello di ottenere una Camera conservatrice, cioè una Camera più a destra di quella Camera dei deputati che è l'espressione diretta del suffragio universale. Ed io trovo strano che un partito, come il democristiano, faccia queste proposte; sembra quasi — il che non dovrebbe essere — che esso abbia timore del suffragio universale, dopo che, pure, il 2 giugno del 1946 ha conseguito un risultato superiore, probabilmente, alle sue stesse aspettative. Perciò fanno male — a mio avviso — i rappresentanti del partito democristiano ad insistere su tali proposte non «squisitamente» democratiche. A questo riguardo io vorrei ricordare loro che, alla seconda Costituente francese, il Rapporteur général Coste Floret, rappresentante del Movimento repubblicano popolare, dichiarò, a nome del suo partito — che è anch'esso essenzialmente cattolico — e di tutti i partiti francesi, che non si poteva concepire che la sovranità risiedesse in una Camera o in Camere che non fossero diretta espressione del suffragio universale. Se di questo suffragio i cattolici italiani mostrano di diffidare, essi vengono a dare implicitamente ragione all'onorevole Nenni, il quale appunto sostiene sui giornali e sulle piazze che essi hanno paura delle elezioni!
Questa proposta del Senato corporativo il nostro partito non può naturalmente prendere nemmanco in considerazione. Non solo: ma il Partito socialista dei lavoratori italiani neppure è disposto ad accettare, in tema di Senato, il testo del progetto, di cui verrò ora a parlare.
In seno alla Commissione dei Settantacinque, dopo molte discussioni, si è finito per accettare, per la formazione del Senato, il principio del suffragio universale; ma, essendosi rivelato nel contempo il pericolo — non so poi se sia proprio un pericolo — di fare del Senato un doppione della Camera dei deputati, dando così ragione a quei partiti che sostenevano l'inutilità del primo, allora si è fatto ricorso a correttivi. Orbene, questi correttivi non ci convincono, perché ci sembrano di un evidente sapore antidemocratico.
Comincerò dall'elettorato attivo e osserverò che ne sono esclusi, in base al Progetto, in ordine alle elezioni del Senato, i cittadini di età inferiore agli anni venticinque. Questo significa negare il pieno godimento dei diritti politici a qualche milione di cittadini, i quali hanno già compiuto il servizio militare di leva, e con ciò adempiuto anche al più gravoso dei doveri nei confronti dello Stato. Né si potrà certo loro attribuire una incompleta maturità civile e politica!
Una simile limitazione viene manifestamente a contraddire ai più elementari principî della moderna democrazia; senza contare poi che, in questa maniera, vengono avvantaggiati certi partiti a danno di altri, e in particolare di quelli che hanno un maggior seguito nella gioventù e che spesso meglio rappresentano l'avvenire della Nazione. La Repubblica non deve, a mio modo di vedere, trasformarsi in una gerontocrazia.
Quanto poi alle categorie dei cittadini eleggibili, esse non convincono assolutamente nessuno; al punto che credo sia inutile starle a discutere ad una ad una. Si tratta, oltre a tutto, anche di categorie eterogenee; sono posti, per esempio, gli uni a fianco degli altri i decorati della guerra di liberazione e i professori di università, mentre è evidente che gli uni sono presi in considerazione per meriti di carattere puramente politico — giacché potrebbero essere anche analfabeti — mentre gli altri sono presi in considerazione per meriti esclusivamente scientifici, posto che, per quanto concerne il piano politico, essi potrebbero anche risultare ex-militanti del partito fascista repubblicano...
A norma dell'articolo 56, intanto, alcuni partiti si potrebbero trovare nell'impossibilità di mandare alla Camera Alta persone che pure ne sarebbero degnissime, in quanto non rientrano in nessuna delle categorie previste. Né si può, d'altra parte, allungare l'elenco delle categorie stesse, sino a farlo diventare lungo come il testo della Costituzione!
Anche il criterio della parziale rappresentanza delle Regioni nella Camera Alta convince ben poco, perché, o lo Stato è federale, e allora è concepibile che i senatori siano i rappresentanti delle singole Regioni; o lo Stato invece è unitario — e la Repubblica italiana rimane tale — e allora mi sembra assolutamente illogico ricorrere a questa parziale rappresentanza delle Regioni. Comunque, un effetto certo dell'adozione di un tale criterio è questo: che, essendo assegnata a ciascuna la stessa rappresentanza, vengono favorite le Regioni meno popolate e più arretrate, quali, ad esempio, la Lucania o il Molise (se dovesse venire confermata la sua erezione a Regione) a danno di quelle più progredite e con popolazione maggiore, quali, ad esempio, la Lombardia ed il Veneto. Ed anche qui, naturalmente, il risultato non sarebbe che quello di favorire partiti che hanno una tendenza politica conservatrice a danno di altri partiti più di sinistra.
Posto dunque che, sul piano della coerenza democratica, si dovrebbero respingere tutti questi correttivi, si finisce necessariamente, per questa via, per cadere nel doppione esatto della Camera dei deputati. Io credo, peraltro, che abbandonando i criteri seguiti dal Progetto, si possa tentar di battere una via più democratica, senza per questo correre il pericolo di fare del Senato una mala copia della Camera che siede a Montecitorio.
Si possono prendere in esame diversi sistemi: per esempio, il sistema del suffragio universale abbinato al collegio uninominale. Se non erro, dinanzi alla Commissione dei Settantacinque, l'onorevole Einaudi, all'ultimo momento, ebbe a fare questa proposta: eleggere il Senato attraverso il collegio uninominale, senza ballottaggio. La proposta fu accolta favorevolmente dall'onorevole Togliatti, il quale osservò che in questa maniera si poteva anche andare incontro ai desideri di larghi strati del popolo italiano, i quali erano rimasti delusi nella loro aspettativa di vedere eletta la prima Camera sulla base del collegio uninominale, anche per meglio valorizzare le singole personalità. Questa proposta, che allora fu rigettata per pochi voti — forse solo perché escludeva il ballottaggio — credo che potrebbe essere ripresa ora in esame, a patto di non escludere il ballottaggio stesso. Infatti essa mi sembra più conseguentemente democratica. Si potrà obiettare che ne verrebbero avvantaggiati i due partiti più forti in Italia, il democristiano e il comunista, i quali finirebbero quasi sempre per essere i rivali in sede di ballottaggio. Ma, quando si tratta di redigere la Carta costituzionale, non si deve dare peso eccessivo a queste considerazioni contingenti: si deve cercar di guardare un po' più lontano.
Si potrebbe anche riprendere in esame il sistema della elezione indiretta attraverso i Consigli comunali, se si riesce a trovare un congegno che ci garantisca contro la prevalenza dei Consigli dei piccoli Comuni di campagna rispetto ai Consigli comunali delle città: inconveniente che caratterizzò il Senato della III Repubblica francese. Mi si dice che sia molto difficile, quasi impossibile. Comunque, perché non ristudiare la cosa?
C'è poi anche il sistema della filiazione diretta, che forse ha il difetto — per me può essere un pregio — di essere troppo crudamente sincero. È certo un sistema che accentua la supremazia dei partiti e che perciò dovrebbe incontrare le simpatie di chi crede sia nell'interesse della moderna democrazia sanzionare sempre meglio il ruolo preminente delle organizzazioni di partito — al contrario del sistema proposto dall'onorevole Einaudi che tende ad attenuare questa preponderanza — sicché è prevedibile che chi si orienta con simpatia verso l'uno debba istintivamente diffidare dell'altro.
Con il sistema in questione si chiama la Camera dei deputati — in pratica, perciò, i singoli partiti — ad eleggere il Senato. È un sistema che presenta alcuni innegabili vantaggi: prima di tutto si opera una scelta più meditata, in quanto i partiti possono ben ponderare prima di designare l'uno o l'altro dei loro aderenti al Senato; in secondo luogo si possono designare dei tecnici, i quali alle elezioni — salvo che nella lista nazionale — non la spunterebbero mai, data la mancanza di qualità vuoi oratorie vuoi demagogiche.
Vi sarebbe inoltre la possibilità di portare al Senato quelle personalità politiche che — si dice — non possono scendere, vuoi per l'età veneranda, vuoi per essere au dessus de la mêlée, nell'agone elettorale; perché io credo che domani tutti i partiti sarebbero disposti ad eleggere, magari all'unanimità, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti e altre grandi personalità della vita politica italiana. (Interruzioni). Sì, anche Benedetto Croce, si capisce! Con tale sistema infine i partiti — in armonia con i canoni di una vera democrazia parlamentare — verrebbero rappresentati al Senato suppergiù nelle stesse proporzioni che nella Camera dei deputati.
La Democrazia cristiana obietterà che per questa via verrebbe certamente sanzionata l'inferiorità di fatto del Senato rispetto, alla Camera dei deputati, perché, una volta stabilito che una Camera nomina l'altra, è evidente che, anche se la Costituzione dice diversamente, la prima Camera eserciterà, di fatto, poteri maggiori della seconda. Ma, d'altra parte, la subordinazione di fatto esisteva anche per il Senato del regno; e io sono convinto che nessuno dei deputati qui presenti osa pensare che domani, in linea di fatto, il Senato, con qualunque sistema sia per essere eletto, finisca per esercitare la stessa autorità della Camera dei deputati. Ciò non può essere e ciò non sarà, checché possa dire il testo della Costituzione.
D'altronde, o il Senato rappresenta delle forze diverse rispetto alla Camera dei deputati, e cioè, grazie a un sistema elettorale poco democratico, riesce a porsi come rappresentante di forze più conservatrici, e allora si potrà pensare ad una contrapposizione del Senato alla Camera dei deputati sul piano politico; ma quando anche la Camera cosiddetta alta è rappresentativa della volontà popolare perché, o direttamente o indirettamente, anche essa trae origine dal suffragio universale, allora la maggioranza, nel Senato, appartiene ai medesimi partiti che la posseggono nella Camera dei deputati: nel qual caso riesce assolutamente inconcepibile una opposizione fra Senato e Camera sul piano politico.
La democrazia moderna infatti non è una democrazia atomistica, poggiata sugli individui, come quella di ottant'anni fa, quando il gabinetto lo costituiva il Ministro X o il Ministro Y sulla base di amicizie personali: la democrazia moderna è essenzialmente di partito. Piaccia o non piaccia, oggi sono gli esecutivi dei partiti che tengono le fila dell'attività politica. Sono essi, perciò, che indirizzano oggi e indirizzeranno domani l'attività dei loro rappresentanti nelle due Camere. Pertanto, nel caso in cui entrambe poggino sul suffragio popolare, non essendo concepibili divergenze di ordine politico, non potranno sorgere che divergenze di carattere tecnico per il caso che i senatori studino più meditatamente, ovvero con maggiore competenza specifica, ciò che magari la Camera dei deputati abbia troppo rapidamente approvato.
In conclusione, adottando il sistema che ho ora illustrato, non si farebbe che riconoscere ufficialmente quella che è la realtà dei fatti: e cioè, che la democrazia parlamentare moderna poggia essenzialmente sul pilastro dei partiti.
Una cosa che noi non discutiamo comunque, è la seconda Camera come tale. Una seconda Camera ci sarà, non fosse altro che per rendere omaggio alle tradizioni o, come molti dicono scherzosamente, per accontentare i così numerosi aspiranti al Senato. Sarebbe impolitico voler rimettere in discussione questo dato ormai acquisito.
L'esistenza della seconda Camera garantirà così, con assoluta certezza, quella maggiore ponderazione nella formazione delle leggi, di cui certi settori tanto si preoccupano. Ed è per questo che a mio avviso non occorreva, sempre in funzione di questa maggiore ponderazione, complicare in sovrappiù il meccanismo della formazione delle leggi.
Bisogna infatti rendersi conto che lo Stato moderno, il quale giorno per giorno allarga la sfera delle sue funzioni, specialmente nel campo economico, ha bisogno di una legislazione rapida, aderente alle contingenze quotidiane; le quali mutano continuamente in relazione al fatto che oggi il mondo procede assai più velocemente che non ai tempi della democrazia strettamente borghese.
Perciò è inutile che i nostalgici rimpiangano i tempi in cui la Camera approvava quaranta leggi all'anno, e affermino che oggi ci troviamo sul piano della degenerazione parlamentare. Egli è che il mondo va avanti e forse essi stanno troppo fermi!
Orbene, bisogna decidersi a riconoscere che l'Assemblea plenaria, nella democrazia moderna, non può fungere se non da organo di controllo politico. Del resto lo riconoscono anche gli inglesi, i quali non sono affatto entusiasti del funzionamento della Camera dei Comuni, e per bocca di molti trattatisti affermano la necessità di riformarne il regolamento, di guisa che le Commissioni si sostituiscano all'Assemblea plenaria nella normale procedura legislativa. Cinquecento uomini o più, riuniti in quest'Aula riusciranno sempre a fare pochissime leggi, perché troppi vorranno intervenire e dire la loro parola talvolta neppure autorevole e, queste leggi, finiremo anche per farle male, grazie agli emendamenti improvvisati, approvati — come capita — a tambur battente, senza una sufficiente meditazione. E se, in materia di Costituzione, possiamo stare tranquilli, contando sull'opera della Commissione di revisione che riparerà a più di un errore, non si potrà per altro contare su un analogo esame di appello per la legislazione normale.
Abbiamo visto quel che è successo nelle discussioni di quest'anno: leggi di un'importanza molto relativa, come quella «leggina» che modificava il testo unico della legge comunale e provinciale, hanno richiesto un numero iperbolico di sedute. Se è ammissibile dunque, impiegare molto tempo per discutere la Costituzione, che è la legge fondamentale della Repubblica, non è serio perdere altrettanto tempo per leggi che potrebbero essere sbrigate con modesto impiego di tempo e di energie. È triste constatare come pochi deputati stiano a discutere fiaccamente in quest'Aula, mentre i più, se non sono addirittura nel «salone dei passi perduti» a fumare e ad oziare, stanno seduti al loro scanno, intenti a scrivere lettere alla moglie o al sindaco del paese.
Orbene, dinanzi a noi si pone un'alternativa. Possiamo da un lato prendere onestamente atto di questo stato di cose; ed allora si decide senz'altro di addossare il peso della legislazione ordinaria alle Commissioni, riservando all'Assemblea semplicemente le leggi costituzionali, quelle di approvazione dei trattati, e quelle sul bilancio, le leggi insomma che implicano una discussione politica. Nel quale caso bisogna modificare la norma del regolamento che si riferisce al metodo di discussione, facendo dell'attuale procedura d'urgenza la procedura normale e viceversa. Oppure ci ostiniamo ad ignorare la realtà; ed allora, lasciando noi oggi le cose così come sono, potremo domani constatare che, di fronte all'irrimediabile lentezza del Parlamento, il quale non riuscirà nei termini dovuti a esplicare le sue funzioni, il Governo assumerà di fatto la funzione legislativa, come del resto da parecchi lustri va accadendo in Italia e nell'Europa in genere.
Ed allora, checché dica il testo della Costituzione — giacché anche lo Statuto albertino certe cose non le prevedeva! — noi continueremo a procedere avanti per via di decreti legislativi e di decreti-legge.
Tale eventuale conclusione non ci deve certo spaventare per la violazione che ne verrebbe del principio della divisione dei poteri. È, infatti, pacifico che questo vecchio principio costituzionale è ormai più che superato dal punto di vista della dottrina oltre che sul piano della prassi. Il dogma della divisione dei poteri in Europa, era fondato sul presupposto di due diverse fonti del potere sovrano, il popolo e la monarchia; è morto perciò con la monarchia costituzionale. In un sistema moderno di democrazia parlamentare, qual è quello che noi abbiamo stabilito di adottare, l'autorità dello Stato ha una unica fonte di legittimazione: il corpo elettorale. Il corpo elettorale nomina il Parlamento; e il partito o la coalizione di partiti che in esso possiede la maggioranza acquistano il diritto di formare il Governo. In pratica il partito o i partiti dominanti delegano il Governo a dirigere la maggioranza parlamentare. Esso Governo perciò, di fatto, promuove anche l'attività legislativa, esercitando pure in questa sfera una funzione preminente. Prescindiamo, infatti, dall'involucro giuridico e guardiamo come funziona il meccanismo della democrazia parlamentare moderna! Basterà allora constatare che i progetti, salvo eccezioni rarissime, sono presentati dal Governo e che essi diventano leggi perché votati da quella maggioranza di cui il Governo è il comitato direttivo. Di qui è facile trarre le conclusioni.
In pratica, pertanto, la differenza fra il procedimento legislativo ed il procedimento per decreto è una sola. Quando si ricorre al procedimento per decreto, la minoranza non è messa nella condizione di discutere e di emendare; quando si ricorre per contro alla procedura legislativa, la minoranza può discutere i progetti ed ottenere, se non altro, degli emendamenti. Ed è assurdo perciò considerare ancora come un conflitto di poteri — cioè una contrapposizione tra un potere esecutivo ed un potere legislativo che, come tali, non esistono — quella che è semplicemente una contrapposizione tra la maggioranza parlamentare, la quale è nello stesso tempo anche Governo, e la minoranza la quale, non avendo parte nel Governo, può far sentire la sua voce semplicemente in seno all'Assemblea legislativa.
Orbene, noi siamo per la procedura legislativa, non in ossequio alla teoria della divisione dei poteri — che va accettata con molte riserve anche nella sua veste moderna di teoria della divisione delle funzioni — ma, dicevo, siamo per la procedura legislativa, in quanto, come democratici, intendiamo tutelare i diritti della minoranza, la cui azione risulterebbe necessariamente menomata se il Governo procedesse normalmente per via di decreti.
Ripeto, però, che la procedura legislativa non deve risultare troppo pesante, se si vuole evitare che il Governo sia forzato, anche contro la sua volontà, a ricorrere ai decreti legge e ai decreti legislativi.
Posto però che il Governo è arbitro della maggioranza parlamentare, trovo esagerata la diffidenza del progetto di Costituzione verso i decreti-legge ed i decreti legislativi. Non dobbiamo ignorare che ciò che stabilisce per decreto, il Governo riuscirebbe sempre ad imporlo anche al Parlamento attraverso la sua maggioranza, salvo qualche eventuale emendamento.
So che in sede di Commissione si è citato spesso l'esempio di Benito Mussolini: si è detto in sostanza che Mussolini ha stabilito la dittatura a colpi di decreto-legge. Questo è assolutamente inesatto! Mussolini, fino alle elezioni del 1924 ha fatto molti decreti-legge ma, vivaddio, allora vi era una Camera la quale, se non fosse stata d'accordo con Mussolini, avrebbe potuto provocare quel voto di sfiducia che non ha mai provocato; e dopo le elezioni del 1924, le quali hanno avuto l'esito noto proprio perché quel Parlamento aveva votato quella legge elettorale che tutti conoscono, Mussolini aveva la sua maggioranza in Parlamento. La minoranza avrebbe potuto protestare, ma io credo...
Fuschini. Lei dimentica una cosa: il delitto Matteotti e le sue conseguenze.
Preti. Qui c'è un equivoco. Intendo infatti dire questo: che Mussolini dopo le elezioni del 1924 non aveva bisogno di procedere per via di decreti-legge, perché rappresentando qui l'opposizione una piccola minoranza parlamentare, egli con la sua maggioranza avrebbe potuto ottenere con l'ordinaria legislazione quello stesso che otteneva attraverso i decreti-legge. E questo anche nel caso che avesse permesso alle minoranze di esercitare qualche funzione di critica parlamentare.
Solamente questo intendevo dire.
Buffoni. Il Parlamento era una farsa.
Preti. Appunto, siamo d'accordo. Mussolini aveva qui le sue comparse.
Presidente Terracini. Onorevoli colleghi, non è problema, questo, di tanto interesse, da perdere ancora del tempo.
Priolo. Si tratta di precisazioni su di un periodo della nostra storia parlamentare.
Preti. Dato che il rapporto reale tra legge e decreti-legge è quello che io ho messo in luce, non dobbiamo aver timore di riconoscere che vi sono delle particolari situazioni nelle quali può essere necessario il ricorso sia al decreto-legge, sia ad un'ampia delega legislativa.
Per esempio, io concordo con quello che ha detto ieri l'onorevole Crispo, per quanto riguarda lo stato di guerra. Mi sembra infatti che, in caso di guerra, la delega non debba farsi caso per caso e sia opportuno, invece, ricorrere a una delega più generale per i provvedimenti resi necessari dallo stato di guerra. D'altra parte, anche la democratica Inghilterra, durante l'ultima guerra, si è attenuta suppergiù a questi criteri.
Concordo anche con le considerazioni dell'onorevole Crispo e dell'onorevole Codacci Pisanelli in merito ai decreti-legge e in particolare sulla opportunità del decreto catenaccio. Posto, comunque, che decreti-legge vi saranno sempre, checché dovesse stabilire la Costituzione, meglio è disciplinarne fin d'ora l'uso attraverso la Carta costituzionale.
Non è dunque, onorevoli colleghi, per difetto di spirito democratico, ma perché siamo realisti, che noi siamo disposti a riconoscere, entro certi limiti, al Governo la facoltà di legiferare. E a riprova del fatto che noi vogliamo una Costituzione democratica, vi dirò che una innovazione della Carta costituzionale, che incontra la piena approvazione del nostro Partito, è quella relativa al referendum popolare. Il referendum popolare è uno strumento di educazione politica e, nello stesso tempo, un antidoto contro il monopolio dei partiti; perché, se è vero, come molti sostengono, che, attraverso il Parlamento, i partiti monopolizzano la volontà popolare, quasi che essa dovesse necessariamente passare attraverso il loro canale, noi, adottando il referendum, abbiamo trovato la via per rivolgerci direttamente al corpo elettorale, passando sopra ai partiti. D'altronde, se si deve ricorrere a correttivi del suffragio universale, esplicantesi attraverso le elezioni del Parlamento, l'unico correttivo moderno e democratico è quello del referendum.
Per non appesantire però troppo la procedura legislativa bisognerà, in tema di referendum, ricorrere a qualche snellimento, come ha osservato assai propriamente nel discorso del 5 marzo l'onorevole Laconi.
Mi resta ora da fare alcune osservazioni, non dirò sul Potere esecutivo, che a mio avviso è solo un'astrazione, ma più concretamente sul Presidente della Repubblica e sul Governo.
In complesso, mi sembra che la Presidenza della Repubblica ed il Governo, come istituti, siano ben disciplinati dal progetto di Costituzione. Avverto però la tendenza a prendere in considerazione, anziché i due distinti organi costituzionali, il cosidetto potere esecutivo nella sua immaginaria unità, comprensivo, come tale, del Presidente della Repubblica e del Governo. È per questo che non si distingue, anche là dove si dovrebbe, la funzione propria dei due organi.
L'articolo 83, ad esempio, stabilisce che il Presidente della Repubblica «nomina, ai gradi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato». Orbene, è assolutamente pacifico che il Presidente della Repubblica solo formalmente è partecipe di questa funzione. Non si vede, quindi, perché, allo scopo di meglio distinguere le funzioni del Presidente della Repubblica da quelle del Governo, non si possa adottare lo stesso criterio che, se non erro, è stato adottato dalla Costituzione francese, quello cioè di riservare al Presidente della Repubblica solo la nomina degli alti funzionari.
D'altro lato nell'articolo 84 non si specifica sufficientemente se il Presidente della Repubblica, quando deve sciogliere le Camere, debba o non debba essere d'accordo con il Capo del Governo. A me pare che questo potere debba essere esclusivamente proprio del Presidente della Repubblica, alla stessa stregua della scelta del Primo Ministro. Se è questo che si vuole, precisiamolo meglio, tenendo presente che Presidente della Repubblica e Governo sono due organi costituzionali distinti.
In conclusione io credo che la democrazia parlamentare moderna, quale è la nostra, ci debba dare degli organi costituzionali con funzioni ben definite, capaci di reggere lo Stato con energia e con continuità d'azione e, d'altro lato, con competenza tecnica. Per questo bisogna tra l'altro, passar sopra alle preoccupazioni di coloro che difendono i principî legati al dogma della separazione dei poteri.
Non credo assolutamente, invece, che questo fine di una più efficace azione degli organi costituzionali, si possa raggiungere applicando correttivi al principio della sovranità popolare, quali il già menzionato senato corporativo. Il 2 giugno il popolo italiano ha saputo far ottimo uso del suffragio universale, e credo che indietro non si possa e non si debba più tornare. Il 2 giugno il popolo italiano ha conquistato il diritto di escludere dalla Costituzione futura una fonte di autorità sovrana diversa dal suffragio universale. Orbene, se si vogliono correggere, come ha detto ieri, mi pare, l'onorevole Codacci Pisanelli, gli effetti del suffragio universale per il fatto che esso darebbe luogo alle incontrastate supremazie dei partiti, non lo si deve fare andando indietro, verso il passato, ma procedendo più innanzi. Ed è quello che appunto si è fatto, come già dissi, nel progetto di Costituzione, ricorrendo al procedimento della democrazia diretta, attraverso, quel referendum popolare il quale — non lo dobbiamo dimenticare — ci ha dato la grande vittoria repubblicana del 2 giugno.
Più la democrazia diventerà diretta, più la Repubblica italiana diventerà popolare. (Applausi).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Clerici. Ne ha facoltà.
Clerici. Onorevoli colleghi, trascuro le questioni particolari che saranno oggetto anche di qualche mio emendamento, con quel metodo che ci ha suggerito ieri il nostro onorevole Presidente, invitando a trattare piuttosto in questa sede problemi di carattere generale. Mi fermerò invece su qualche questione di indole generale: sul Capo delle Stato e specialmente sulla sua nomina; sulla attività e composizione del Governo di Gabinetto; sulla formazione, origine e struttura del Senato. Infine dirò qualche cosa in aggiunta ed in parte a conferma della tesi sostenuta, mi pare, dal collega Preti, in merito alla formazione delle leggi.
Il progetto di Costituzione, onorevoli colleghi, propone, per la nomina del Capo dello Stato, l'elezione da parte dell'Assemblea formata dalle due Camere, con l'aggiunta di due rappresentanti per ciascuna Regione. Ma sarà certamente oggetto di discussione la proposta, già avanzata nelle diverse Sottocommissioni, che la nomina sia invece affidata al popolo, sia attraverso il voto diretto — tipo Costituzione di Weimar — sia attraverso il voto indiretto, di cui rimane prototipo la Costituzione degli Stati Uniti d'America, seguita dalle Costituzioni di quasi tutti gli Stati di quel continente.
Ritengo che nonostante molte ragioni stiano a favore della tesi dell'elezione popolare, sia preferibile la soluzione che è stata adottata a maggioranza dalla Commissione dei Settantacinque, ancorché non posso nascondere (la Camera lo vede da sé) che questo istituto non è in sostanza che la copia, quasi pedissequa, del disposto della Costituzione francese del 1875, riprodotto anche nell'attuale Costituzione repubblicana francese. Strano fatto, perché, come tutti sanno, la Costituzione francese del 1875 fu concepita e redatta da monarchici e con lo scopo di preparare, attraverso una Costituzione ambigua, il ritorno della monarchia, che allora non si era potuto effettuare, non già perché l'Assemblea nazionale a Bordeaux, a Versailles ed a Parigi non avesse una maggioranza monarchica e conservatrice, ma perché le frazioni monarchiche non riuscirono mai ad accordarsi per i contrasti fra i principi, fra l'ultimo rappresentante dei Borboni ed i principi della casa d'Orleans o almeno tra gli entourages dell'uno e degli altri. Una maggioranza di quasi quattro quinti monarchica, preparò allora, come è noto, quasi per disperazione una Costituzione repubblicana, vergognosa quasi di esserlo, tanto che la repubblica fu votata con un solo voto di maggioranza, e proprio per preparare il ritorno ad una monarchia di carattere costituzionale sul tipo di quella di Luigi Filippo o di quell'inglese; e tutto era predisposto perché si potesse sostituire nella Carta la parola re a quella di presidente. Eppure, strano a dirsi, quello Statuto non solo ha funzionato egregiamente per oltre mezzo secolo, ma è diventato il prototipo anche di quelli di altre nazioni; prima del 1914 fu imitato soltanto dal Portogallo; ma dopo il 1919 fu imitato da diversi Stati come la Turchia, la Grecia, e ora è imitato da noi.
È certo una Costituzione irrazionale, perché fu il frutto di un trucco; però in se stessa mi sembra efficiente se questa Costituente, come già la Commissione dei Settantacinque, resterà dell'avviso che la nuova Repubblica italiana dev'essere una Repubblica di carattere parlamentare. Perché, onorevoli colleghi, bisogna che noi stabiliamo chiaramente il baricentro di quello che sarà il nuovo Stato repubblicano italiano. Ogni regime ha il suo centro di equilibrio. Nella monarchia cosiddetta legittima, tutti sanno che un principio, quanto mai equivoco, era quello della legittimità, perché si faceva intervenire Dio, mentre in realtà si ratificava il fatto compiuto, e si gabellava per cristiana una dottrina ben diversa da quella genuina della Chiesa, circa l'origine e la natura del potere.
Nella Repubblica nostra il baricentro sarà, come avviene in tutti i regimi parlamentari, siano repubbliche o monarchie (naturalmente monarchie che abbiano, come in Inghilterra, in Belgio, in Olanda, nei paesi nordici, il carattere di repubbliche coronate) invece il Parlamento, dal quale deriva ogni potere politico; sì la sovranità è nel popolo, ma l'esercizio della sovranità è nel Parlamento.
Avendo noi ammesso questo principio come principio fondamentale, io penso, del nuovo Stato italiano, non credo che, per quanto suggestivo, l'esempio degli Stati Uniti d'America possa avere valore per noi. Perché? Perché il sistema degli Stati Uniti d'America ha un'origine storica e specifica ed ha soprattutto come postulato un popolo sostanzialmente democratico; un popolo rispetto al quale sarebbe assurda qualsiasi forma di cesarismo. Invece in Europa le elezioni popolari del Capo dello Stato hanno costantemente significato, se la storia ha un valore, un fenomeno tipico di cesarismo: la reazione e la protesta, cioè, contro le Assemblee e l'elezione di un uomo, al quale gettarsi in braccio. Non occorre che ricordi come lo stesso Cesare fu il rappresentante della più spinta democrazia di Roma, e il nemico del Senato, non meno del suo predecessore sfortunato, Catilina, del quale in gioventù egli stesso era stato un seguace. Basti pensare ai giorni nostri, all'epoca moderna: Napoleone I è stato, attraverso le sue diverse elezioni, sempre più accentratore di poteri fino a diventare imperatore della Repubblica francese, e fu inteso come il contrasto della democrazia che aveva, d'altronde, deviato, durante la rivoluzione francese, straripando nell'epoca del Terrore.
E gli storici recenti più avveduti, basta ricordare il Madelin, ci hanno dimostrato che tale dittatura era indipendente dalla persona, malgrado il genio di Napoleone; e che ad essa, si sarebbe arrivati ugualmente anche se non ci fosse stato Napoleone.
Tutto era maturo, perché i ceti e le condizioni sociali francesi chiedevano un Cesare, un imperatore, un dittatore. In sua vece la sorte sarebbe toccata ad Hoche, se non fosse morto così giovine, o a Moreau il rivale sfortunato. Ed uguale è stato poi per il molto minore nepote, Luigi Napoleone nel 1850 e nel 1852; nel 1850 quale Principe Presidente; nel 1852 quale imperatore a sua volta. Se non fosse stato lui, sarebbe stato Cadillac.
Dunque un Presidente eletto dal popolo ha sempre in se stesso, in Europa (e Weimar ce l'ha confermato), il pericolo di un cesarismo, che negli Stati Uniti d'America non sarebbe concepibile, sarebbe fuori clima. Ho letto di recente in un giornale per la penna di uno scrittore brillante queste osservazioni: che ben diversi saranno in futuro i risultati delle elezioni presidenziali da noi se di persone elette dal popolo o elette dall'Assemblea. Certamente noi, per fortuna, non abbiamo un De Gaulle, non abbiamo più un D'Annunzio, né, guardandomi in giro, vedo nessuno ora che possa assumere ruoli simili; però vi è sempre il pericolo, attraverso l'elezione popolare, del successo di una persona, e dell'abuso poi che questa persona possa fare di uno straordinario potere contro quella che è la legittima, permanente, democratica rappresentanza della Repubblica popolare.
Ricordo, poi, una acuta osservazione, che non è del Tocqueville, che fu il più grande studioso della prima metà del secolo scorso degli Stati Uniti d'America, ma di quello che è il maggior conoscitore di essi ai nostri giorni, James Bryce, una acutissima osservazione circa l'elezione del Presidente degli Stati Uniti d'America. Quei coloni, ribellatisi alla madre Patria, nient'altro ebbero in mente di fare che sostituire la carica e le funzioni del Viceré, cioè dare alle Colonie un capo con gli stessi poteri che aveva già il Viceré inglese; il quale Viceré conservava oltre Oceano, nelle colonie poteri assai maggiori di quelli che erano in quei tempi rimasti al Re stesso in patria. Perché proprio in quei decenni la monarchia a Londra era divenuta parlamentare.
Tutti sanno la curiosa storia della monarchia parlamentare inglese, cioè di quel regime di Gabinetto nel quale ogni potere sovrano è assunto di fatto da esso e dal suo Presidente. Fu un caso; è il caso che molte volte interviene nella storia: i due primi re della Casa Hannoveriana, Giorgio I e Giorgio II, si disinteressarono delle sedute di Gabinetto, non presiedettero più il Consiglio dei Ministri, non per altro, perché erano due tedeschi che non conoscevano l'inglese, e preferirono evitare quelle noie per più piacevoli occupazioni. Così fu conquistato il principio di un Governo ministeriale autonomo ed indipendente dal re. Ma nelle colonie il Viceré, invece, continuava ad avere tutta quella autorità che aveva avuto il re precedentemente in Inghilterra sino a mezzo secolo prima. E il Presidente negli Stati Uniti ebbe così un potere veramente sovrano. Ma noi non potremmo assolutamente concepire un Presidente della nostra repubblica che avesse quei straordinari poteri, che ha il Presidente degli Stati Uniti d'America.
Certo il potere del Presidente degli Stati Uniti è ben superiore al potere che aveva un Guglielmo I o un Francesco Giuseppe, quasi pari a quello di un Nicolò di Russia. È un potere enorme, che ha come presupposto uno hiatus incolmabile tra Parlamento e Governo. Il Presidente governa lui direttamente e personalmente, nomina, lui, col consenso del Senato, i suoi Ministri, ma li revoca senza il consenso del Senato; risponde non davanti al Parlamento, ma soltanto davanti al popolo, che l'ha eletto. Le Camere hanno funzioni strettamente legislative, dalle quali sono tenuti lontani e Presidente e Ministri.
Ora, tutto questo è in contrasto con quello che è il regime costituzionale parlamentare, che si vuole instaurare in Italia, e al quale si è richiamato testé il collega onorevole Preti.
In America si arriva persino a questa enormità, per noi, naturalmente: che gli elettori di primo grado, quelli che sono eletti in un primo tempo per nominare il Presidente della Confederazione, non possono essere parlamentari dei due rami del Parlamento americano, tanto è assoluta la separazione tra potere legislativo e potere esecutivo.
Allora, si pone la questione; è possibile in Italia adottare il sistema americano, che è un sistema che è la negazione della collaborazione tra Governo e Assemblee, della responsabilità ministeriale, che è il sistema di due parallele che non s'incontrano mai, del Governo col suo Presidente e i suoi Ministri da una parte e le Camere dall'altra? Ma noi vogliamo adottare invece un sistema dove il legame tra Ministri e Camere è intimo e continuo, secondo la grande tradizione occidentale europea. Ed allora potremo avere un Presidente della Repubblica che un giorno — anche se molto in futuro; ma dobbiamo legiferare anche per un lontano avvenire — potrebbe opporre al Parlamento la sua origine sovrana, derivata e consacrata dal consenso popolare; ed allora in uno di quei momenti di smarrimento, di entusiasmo, che hanno tutti i popoli, e specialmente i latini, potrebbe sorgere grave l'antagonismo del Presidente con la permanente autorità delle Camere, del Parlamento, e del Governo che del Parlamento è l'espressione e il mandatario. E allora ricordo a me stesso più che ai colleghi che hanno la bontà di ascoltarmi con tanta cortese attenzione, una disposizione del progetto di Costituzione, sulla quale noi siamo tutti d'accordo, quella dell'articolo 85:
«Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dal Primo Ministro e dai Ministri competenti, che ne assumono la responsabilità. Il Presidente della Repubblica non è responsabile per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento e per violazione della Costituzione».
La disposizione è tale e quale quella contenuta nella Costituzione di Carlo Alberto; è tale e quale quella contenuta nella Costituzione spagnola del 1806, in quella di Luigi Filippo e simili, in tutte quelle Carte cioè, che statuivano il principio formatosi nella prassi inglese e che fu espressa nel 1830 dal Thiers in Francia: «il re regna ma non governa».
Quando poc'anzi l'onorevole Preti diceva, ad esempio, che la nomina del Presidente del Consiglio è opera personale del Presidente della Repubblica, egli cadeva in un equivoco; perché, come è noto, anche quel provvedimento, in qualsiasi regime parlamentare, non è valido se non vi è un Ministro responsabile che ne assuma la paternità; se non porta cioè la firma di un Primo Ministro, sia di quello che si congeda che di quello che entra in carica. Altrimenti la nomina è nulla.
Appunto in forza di questo principio poté costituzionalmente Vittorio Emanuele III operare il passaggio da Mussolini a Badoglio; fu lo stesso Mussolini ad offrire, anzi, l'artificio per il quale, con la firma del Badoglio, egli poté prendere in quel bellissimo gioco Mussolini stesso: prima la firma del decreto di nomina del nuovo Primo Ministro era quella del Ministro uscente; Mussolini volle che fosse del subentrante e così fu giocato!
Il Capo dello Stato, re o presidente della Repubblica che sia, non ha in qualsiasi regime parlamentare alcuna responsabilità; ma appunto per ciò egli non può non ascoltare il consiglio dei Ministri responsabili, che firmano e rispondono per lui. Altrimenti si esce dalla normalità e si entra nel dispotismo, si entra nel colpo di Stato. Tutto diverso, invece, logicamente avviene per il Capo dello Stato eletto dal popolo stesso. Non sarebbe, quindi, concepibile, sarebbe anzi un assurdo, un Capo dello Stato eletto dal popolo, il quale si riducesse ad essere, non dico un fantasma, ma di certo un Capo che non può far nulla senza l'assenso, senza la firma dei suoi Ministri responsabili e che, d'altra parte, non può rifiutare il consiglio dei suoi Ministri, negare la sua firma a un decreto che essi gli sottopongono.
Se mi fosse dato di sostenere delle idee mie personali — non so con quale successo — direi che forse si poteva andare anche oltre, direi che forse si poteva anche arrivare al Governo direttoriale — Governo direttoriale al quale si arriverà forse nei decenni venturi — in cui la figura del Capo dello Stato è praticamente annullata. In fondo, il Capo dello Stato distinto dal Capo del Governo ha sempre, se vogliamo, qualche cosa del re. Dice Tito Livio che il segno dell'abolizione della monarchia in Roma fu che non vi era più nessuna autorità individuale: per ciò due furono voluti i consoli, sempre molteplice ogni magistratura.
In Isvizzera si ha l'esempio tipico del regime direttoriale, e colà il Capo dello Stato si confonde e si identifica con il Presidente del Consiglio; esso non ha alcuna prerogativa particolare, tranne forse qualche migliaio di franchi di più all'anno di stipendio, non ha alcuna residenza ufficiale, alcun apparato; sta a casa sua e paga il tram e il treno quando viaggia, come ogni altro cittadino.
Ma da qualcuno si è detto che il Governo direttoriale va bene per la Svizzera, in quanto essa non fa politica, ma fa solo amministrazione. Ebbene, io non credo che ciò sia esatto. Qui, fra noi, siamo in parecchi ad essere stati, e lungamente, in Isvizzera: fra gli altri l'amico onorevole Gasparotto che mi è qui vicino: orbene, noi tutti sappiamo che in realtà la Svizzera fa anch'essa della politica; fa della squisita e continua politica, non fosse che per quella sua abile attività per cercare di accontentare tutti o almeno non scontentare nessuno dei vicini e delle grandi potenze, specie nelle terribili traversie delle due ultime guerre.
Ora in Isvizzera si è abolito, in certo senso, l'istituto del Capo dello Stato, o, per dir più esattamente, di un Capo dello Stato distinto e diverso dal capo del Governo. Né si è mai sentito, dal 1848 ad oggi, il bisogno di un istituto considerato superato e superfluo. Ed io credo che tale sarà il regime delle future repubbliche. Questa in ogni modo è una preferenza, è una opinione mia personale; e considero il problema ancora immaturo. Quello che deve però evitarsi si è di dare un rilievo eccessivo al Presidente della Repubblica, ed evitare velleità possibili sempre di governi personali. Fu detto che se eletto dall'Assemblea, non si vedranno nella Presidenza della Repubblica spiccate personalità; ed è poco probabile che saranno eletti all'alta carica sia leaders dei vari partiti, sia uomini di eccezionale valore e di eccezionale autorità personale. Ciò avverrà di sicuro nella Repubblica italiana come accadde costantemente in quella francese.
Infatti è noto che non poterono mai accedere alla suprema magistratura francese né Leone Gambetta, né Jules Ferry, che pur furono i fondatori della Repubblica così detta laica, come abbiamo visto nei nostri giorni a Clemenceau, l'indomani della vittoria, anteposto Deschanel, uomo già finito, uomo che era già all'alba della pazzia (qualche mese dopo si sarebbe arrampicato sugli alberi dell'Eliseo, sarebbe caduto in pigiama dal treno e si sarebbe presentato così a un capo stazione arrischiando di finire al manicomio o in prigione); e poi a Briand, reduce dei successi di Locarno, anteporre Doumergue. Una Assemblea ha sempre diffidenza verso le troppo grandi personalità, e d'istinto si rivolge a personalità meno vistose, meno combattive.
È avvenuto persino così — se passiamo ad un altro sistema di elezione ben diverso, ma che ha qualche analogia con quello parlamentare — nelle elezioni dei Papi. Se leggete — ed è una lettura molto interessante — le ampie, minuziose descrizioni dei conclavi dal XV al XVIII secolo fatte da Pastor, vedrete che in quelle elezioni, che duravano talvolta molti mesi e non un giorno solo come quelle di Versailles, mai o quasi mai è scelta la spiccata personalità, ma quello che rappresenta la tendenza media. Il Cardinale Bentivoglio (che ha onorevole posto nella storia della Chiesa come in quella delle lettere italiane, che è l'autore della Storia della guerra di Fiandra, a cui assistette come Nunzio, e di quella del Concilio di Trento in contrasto con quella di Paolo Sarpi) dice nelle sue Memorie — così interessanti — che i cardinali si distinguono in tre categorie: santi, politici e — la categoria era per quei tempi non pei nostri — in mondani; e guai se il Papa viene eletto dalla terza categoria; ma guai anche se è scelto dalla prima, perché è utile che appartenga alla mediana.
Questa è la caratteristica dei regimi, di tutti i regimi nei quali una assemblea qualificata ed eletta scelga un capo; questa sarà la caratteristica del nostro Capo dello Stato: esso deve rispondere alla media dei suoi elettori. Noi vedremo nell'avvenire probabilmente qualche difficoltà; avremo, come ha avuto la Francia, qualche Presidente che dopo l'esperienza, breve o lunga del potere, dice: «Ma valeva la spesa di esser nominato Presidente?». Il quinto presidente francese, Casimiro Perier, rinunciò alla Presidenza, dopo un anno e protestando in una lettera al paese contro una situazione che faceva che il Presidente non contasse di fatto niente. Avremo dei casi come quelli di Grevy e di Millerand, ai quali — contro la Costituzione — le maggioranze hanno imposto le dimissioni, come già erano state imposte a Mac Mahon. Avremo forse anche dei casi come quello di Lebrun, fattosi eleggere una seconda volta, per fare poi, al momento della prova, una figura così meschina. Avremo questi ed altri inconvenienti. Ma tutto sommato, sarà sempre meglio di un regime con il Capo di Stato di troppa autorità. Sì signori; io ritengo un regime di un Capo dello Stato con troppa autorità un pericolo per il Paese. Così penso anche che i re troppo grandi furono un danno pei loro popoli; alla Francia giovò assai più che un Luigi XIV, che un Enrico IV, che un Francesco I, la saggezza di un Luigi XVIII. Guai ai popoli guidati dal superuomo, dall'eroe! Né mi preoccupo se il nostro Presidente della Repubblica potrà essere scherzosamente indicato come una specie di Regina Madre, che inaugura ponti ed esposizioni, e che distribuisce premi agli scolari, perché resterà sempre un uomo saggio, moderatore, anche di secondo piano rispetto al Capo del Governo. E il Governo deve essere l'emanazione, il mandatario, e come dice il principio inglese, il comitato esecutivo delle Camere, del Parlamento.
Ritengo perciò che su questo primo punto sia saggio quanto è stato proposto dalla Commissione dei Settantacinque.
E passo al Governo. Per quanto riguarda il Governo, il progetto di Costituzione all'articolo 87, fra l'altro, dispone: «Il primo Ministro e i Ministri debbono avere la fiducia del Parlamento». È dunque il sistema parlamentare che qui è stato codificato, e nulla vi è di nuovo, perché da Cesare Balbo a Facta fu il nostro sistema della monarchia parlamentare. «Entro otto giorni dalla sua formazione, — continua l'articolo — il Governo si presenta all'Assemblea Nazionale per chiederne la fiducia. La fiducia è accordata su mozione motivata, con voto nominale, ed a maggioranza assoluta dei componenti la Assemblea». Questa ultima disposizione è presa di peso dalla Costituzione turca. Questo Progetto di Costituzione è un'opera certo egregia, è stata fatta da uomini di grande valore, ma (e non si offendano tutti costoro; non si offendano fra costoro quegli amici carissimi, così vicini al mio cuore, che sedettero con tanta autorità tra i Settantacinque) è un'opera un po' troppo di professori: è, non dirò certo un centone, ma un po' troppo un florilegio, un'antologia, un insieme di disposizioni, che — telles quelles — si trovano o nella Costituzione della Turchia, o in quelle della Finlandia, dell'Estonia o in altre di paesi anche meno importanti ed autorevoli nella storia del diritto.
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Beato lei che inventa delle cose nuove!
Clerici. Non si offenda del mio rilievo, di cui credo non sia facile contestare l'esattezza. Io stavo per dire che è bene che si sia fatto così, perché ci si è tenuti ad una media, che corrisponde, io credo, a quella che è la media della nostra situazione politica e giuridica in Europa. E ci si è attenuti, soprattutto nella questione che ora ci occupa, a una procedura che è non nuova, che è stata codificata soltanto nelle più recenti Costituzioni, quella, intendo dire, delle Costituzioni del 1919 in poi; e che si legge particolarmente nelle Costituzioni del 1919 e degli anni successivi della Baviera, della Prussia, dell'Austria, dell'Estonia, della Turchia e via dicendo. La disposizione è, a mio avviso, ottima e migliore di quella della legge del 25 giugno 1944, n. 151, che ci regge, e che è la nostra Costituzione provvisoria. Sia in questa che nel Progetto di Costituzione è giustamente stabilito che il rigetto di una proposta governativa da parte dell'Assemblea non porta di per sé alle dimissioni del Governo, ma che queste sono obbligatorie solamente in seguito a votazione di una apposita mozione di sfiducia, motivata. Ma a prescindere da altre condizioni, tale mozione, ora, cioè secondo la legge 1944, n. 151, deve essere votata a maggioranza assoluta dei membri dell'Assemblea. È ben diverso quindi l'attuale sistema da quello proposto nel Progetto di Costituzione. Adesso è la mozione di sfiducia che deve avere la maggioranza assoluta dei voti. Con la nuova Costituzione, invece, è il Governo che deve presentarsi otto giorni dalla nomina all'Assemblea Nazionale, e deve ottenere la maggioranza assoluta dei componenti l'Assemblea.
La differenza è ben notevole, e lo vedremo tra pochi giorni, il 23, allorché sarà posta in discussione la mozione di sfiducia dell'onorevole Nenni; giacché sarà questa che per trionfare dovrà raccogliere la maggioranza dei Costituenti, mentre a Costituzione votata sarà il Governo futuro che dovrà preoccuparsi di raggiungere siffatte maggioranze contro anche gli assenti e gli squagliati. Tale disposizione renderà sempre più necessarie ed obbligatorie, e sarà poco male, quelle forme di coalizione, che sono più corrispondenti alla situazione politica del Paese.
Circa la figura del Governo di Gabinetto, come delineato nel Progetto di Costituzione, mi permetto di accennare all'attenzione e alla saggezza dei colleghi che mi ascoltano tanto benevolmente questi due punti che mi sembrano fondamentali. Da un lato (e coloro che hanno pratica di Governo, mi diranno forse che ho ragione) mi pare sempre più necessario per il retto funzionamento dell'amministrazione pubblica che il numero dei Ministri aumenti, se si vuole che essi possano seriamente attendere alle amministrazioni delle quali rispondono. E io non so come faranno i Ministri nella nuova situazione, quando dovranno stare per ore ed ore non solo alla Camera, ma anche al Senato. Perché oramai il lavoro amministrativo è così complicato che tutte le volte che si è voluto riunire dei Dicasteri, il risultato non è stato soddisfacente. Di recente avevamo sentito invocare la riunione dei Ministeri delle finanze e del tesoro: l'esperimento mi pare non sia stato felice, né so come un Ministro in siffatta situazione possa trovare menomamente il tempo da dedicare, anche una sola ora alla settimana, a sentire i direttori generali dei due Dicasteri riuniti. Ritengo, quindi, che dovremo arrivare in Italia rapidamente a una situazione tale quale si riscontra in Inghilterra, in Francia ed altrove, e cioè, aboliti forse i Sottosegretariati, si dovrà arrivare a stabilire tante distinte responsabilità politiche quante volte si riscontra un accentramento, un complesso di distinte e insieme complesse responsabilità amministrative. Accenno solo a qualche esempio; non mi pare ragionevole che in un Paese come il nostro non vi sia neanche un Sottosegretariato alle belle arti; dicastero che hanno tutti i paesi, anche con Ministro; né vi sia quello per l'emigrazione; né quello per la sanità, che riunisco uffici e funzioni sparse e suddivise fra tanti dicasteri; né quello per lo sport, e via dicendo. Dovremo presto o tardi per tutte queste materie creare propri dicasteri, con un Ministro responsabile.
Ma allora si avrà questo grave inconveniente: come si potrà allungare ancora quel famoso tavolo del Consiglio dei Ministri e rendere le sedute del Consiglio stesso efficienti, sollecite, ben diverse da una Assemblea, la quale come ha natura e finalità diverse, ha ben diverse caratteristiche e funzionalità?
Si dovrà, a mio avviso, arrivare definitivamente e direi costituzionalmente (e mi auguro che concreti emendamenti siano a tale proposito presentati) alla distinzione tra Ministero e Gabinetto, tra consiglio del Ministero e consiglio del Gabinetto; si dovrà cioè stabilire anche in Italia un Gabinetto, accanto, o, per dir meglio in seno al Consiglio dei Ministri come è praticato stabilmente in Inghilterra, e di quando in quando in Francia, come lo fu in Francia, e nel Belgio e in Italia durante la guerra del 1914-1918, e come fu, per la necessità dei sei partiti, in Italia dopo Salerno e sino al secondo Ministero De Gasperi. Non tutti i Ministri hanno evidentemente una ragione politica da far valere continuamente. Quelli che hanno tale funzione si riducono a quattro o cinque, e questi, evidentemente, debbono formare una entità diversa dal generico Ministero, il Gabinetto per le ordinarie e insieme più importanti questioni politiche di indole generale.
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. C'è anche l'esperimento Briand dell'altra guerra.
Clerici. Concordo con lei e mi auguro che a tale proposito l'Assemblea sia investita di emendamenti specifici, che stabiliscano questo nuovo principio costituzionale. Penseranno poi i nuovi legislatori alle necessarie applicazioni.
Vengo, invece, onorevoli colleghi, ora alla questione del Senato; e può darsi che io dica cose che a prima vista sembrino ostiche a qualcuno; ma io chiedo alla saggezza, alla liberalità, alla democrazia di tutti di volere ascoltare le modeste osservazioni che mi accingo a farvi.
Io non condivido affatto le critiche che ha fatto testé l'onorevole Preti a un sistema di Senato eletto, almeno in parte, dalle diverse e specifiche categorie, e formato, quindi, anche, non dico, per ora, solamente, di rappresentanti di interessi. Anzi io sostengo che il Senato debba in parte costituire tale rappresentanza organica degli interessi. L'articolo 55 del progetto di Costituzione dice che i senatori sono eletti per un terzo dai membri dei Consigli regionali e per due terzi a suffragio universale e diretto, dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età. Quindi in pratica i due terzi del Senato sarebbero eletti su per giù dallo stesso corpo elettorale di quello che elegge la Camera dei deputati! Allora non valeva meglio stabilire che gli eletti si dividessero in due, seguissero l'esempio norvegese, che è tutt'altro che recente, ma anzi risale al 1804 (allorquando la Norvegia era ancora unita personalmente sotto lo stesso monarca alla Svezia), ed ha funzionato fino ad ora, e quindi presuntivamente deve essere un buon sistema. Io non sono di certo uno studioso di diritto norvegese né ho pratica di quel paese, ma da quello che ho letto in proposito è un sistema che ha funzionato benissimo. La Camera eletta nomina un quinto dei propri membri a formare il Senato, e questo siede esclusivamente per quello che è il lavoro legislativo, come seconda Camera; Camera cioè di esperti, di pratici, i quali riesaminano, uno contro quattro, il lavoro dei loro colleghi. Ma Senato e Camera siedono insieme per tutte le questioni politiche.
Presidenza del Vicepresidente Conti
Clerici. Un Senato come quello proposto dalla Commissione dei Settantacinque, mi sembra un assurdo e un doppione; così da poter dire che è perfettamente inutile costituirlo.
Io invece ritengo che un Senato abbia ragione d'essere se rappresenti diversamente dalla Camera il paese, il popolo. Io ritengo che accanto alla Camera, che rappresenta, e deve rappresentare, le idee, le opinioni, i sentimenti diversi e spesso opposti delle correnti politiche, cioè dei partiti, occorre un Senato che rappresenti gli interessi. Quali? Innanzi tutto gli interessi territoriali. Abbiamo un bel nasconderlo, ma con la istituzione delle Regioni, se non abbiamo certamente fatto uno Stato federale, abbiamo certamente fatto qualche cosa che non è sotto certi aspetti molto diverso. Lo Stato federale svizzero è da un secolo in qua divenuto sempre meno federale, e da qualche decennio sta diventando sempre più unitario; così che in fondo, a parte il nome, da esso non si differenzierà in molto quello che sarà il nostro Stato quale sta per sorgere da questa Costituzione. Analogamente potrei riferirmi alla storia dello Stato federale degli Stati Uniti d'America. Ed allora, evidentemente, nel Senato dovranno sedere dei rappresentanti specifici delle Regioni, ed io dico anche delle Province, dal momento che le province sono state mantenute, ed io dico anche delle maggiori città — da Milano a Roma, fino a Bari e Bologna ad esempio —; e tali rappresentanti saranno eletti dai diversi Consigli regionali, provinciali o comunali, col sistema proporzionale, col voto di lista, col sistema maggioritario, secondo quanto sarà possibile e sarà conveniente.
Avremo così dei rappresentanti specifici delle Regioni singole, delle Province singole, e anche delle grandi singole città, i quali verranno a dire al Parlamento ed anche alla Assemblea Nazionale quali sono gli specifici interessi di Milano, di Bologna, della Sicilia o degli Abruzzi e via dicendo. Ciò corrisponde alla logica, ciò avviene di già. L'onorevole Greppi, eletto con votazione così lusinghiera in questa Assemblea, ha subito dato le dimissioni da deputato; ciò nondimeno quante volte non viene a Roma per far presente al Governo le necessità di Milano, di cui è preclaro sindaco! Eppure siedono qui, eletti a Milano, una trentina di deputati di tutti i partiti, deputati che fanno parte del Consiglio comunale e persino della Giunta comunale di Milano. La realtà è questa: il sindaco ha una funzione di diretta rappresentanza della città e come portavoce di questa è insostituibile. Ed allora, perché non trovare una forma che dia una rappresentanza effettiva, diretta, una voce qualificata a quelli che sono gli interessi locali? A un rappresentante dei diversi Consigli amministrativi locali? Ma accanto a queste rappresentanze non si devono scartare a priori quelle che dovrebbero rappresentare quelli che non esito a chiamare «gli interessi corporativi». Perché, onorevoli colleghi, il fascismo non deve costituire un impedimento a noi per fare quello che crediamo sia bene di fare, sol perché esso lo ha fatto prima di noi. Non porteremo più, grazie a Dio, non porteranno più (perché io non ho mai sognato di portarla) una camicia nera; ma non potremo portare le mutande al posto della camicia per timore delle usanze del fascismo. È ben noto del resto che il fascismo ha accattato, ha rubato dappertutto, istituti e concetti, che non erano suoi, e nel campo economico e nel campo sindacale e nel campo politico. Ora abbiamo visto persino alcuni istituti, alcune disposizioni della repubblica di Salò rivendicate e rivelate proprio dai partiti di estrema sinistra, o dalle organizzazioni sindacali. Fra tanti mali il fascismo non conservi anche il maleficio, postumo, di impedirci, che noi si possa far bene quelle cose che esso faceva male. Come Mida trasformava in oro qualunque cosa toccasse, così il fascismo avvelenava ogni cosa a cui poneva mano. Noi dobbiamo oggi non rifare, ma fare da capo un vero autentico corporativismo. Non dobbiamo fermarci nel coraggioso compito di istituire uno Stato italiano democratico da ostacoli di carta o di cartapesta.
Ora vi è un fenomeno moderno, e questo lo dico soprattutto ai rappresentanti dell'estrema sinistra, un fenomeno tipico, il più tipico della nostra età, e queste sono le classi organizzate.
Da centocinquanta anni in qua che cosa è accaduto? Nel 1766, Turgot, ministro di Luigi XVI, abolisce le corporazioni, che però risorgono parzialmente qualche anno dopo, per poi essere abolite definitivamente nella rivoluzione francese dalla famosa legge Chapelier del marzo e del giugno 1791. Il primo Stato che le abolisce in Italia, è quello del Papa; è Pio VII nel 1801, mentre nel Piemonte durano fino al 1844. Tutta la prima metà del secolo scorso vede estendersi da Stato a Stato l'abolizione delle corporazioni; forme vecchie di un principio che però era vitale; ed infatti gli ultimi decenni del secolo scorso e il primo di questo secolo che cosa hanno portato? Il riconoscimento delle organizzazioni di classe. Si è nella seconda metà del secolo rifatto quello che nella prima si era disfatto, dopo tante discussioni, dopo tante lotte. Ed ora l'uomo organizzato è una realtà che si va attuando sempre più nella nostra epoca. Io ricorderò una pagina di Vilfredo Pareto, la quale rileva che in fin dei conti lo spirito di classe è la caratteristica dell'uomo moderno come e più che in altri secoli, che tutti agiscono nella pratica secondo lo spirito della loro classe indipendentemente dalla organizzazione di classe, che può anche non esistere, indipendentemente persino dalla coscienza di appartenenza a una data classe. Dunque, questo istinto di classe così naturale, questo fenomeno grandioso che è la moderna organizzazione delle classi, — anche di quelle che sembrano meno suscettibili ad organizzarsi (pensiamo ai magistrati che hanno fatto sciopero per tanto tempo ed hanno mandato qui al Governo ed a noi dei loro membri quali veri e propri rappresentanti di una organizzazione) — è un fenomeno che non possiamo ignorare, che non possiamo disconoscere.
Signori, è il grande fatto moderno che io vi invito a considerare ai fini di tenerne conto nella opera che stiamo compiendo.
Io comprendo la posizione dei liberali; comprendo come l'onorevole Einaudi (parlo naturalmente non del Ministro, ma del costituente) possa battersi, ultimo paladino generoso e magnifico rappresentante di una dottrina al tramonto o tramontata, almeno temporaneamente, della dottrina che riconosce solo l'individuo; e trovo logico che egli non accetti il mio punto di vista. Ma io, sinceramente, non riesco a capire le ragioni dell'onorevole Preti, e di tutti quei socialisti che con lui non riconoscono la possibilità di rappresentanze politiche alle classi, a tutte le classi; e quasi che tra queste non vi fossero, imponenti, tutte le categorie dei lavoratori, giungono a considerare, a dichiarare conservatrice e reazionaria questa mia proposta!
Signori, vi è di più a favore della tesi che sostengo: vi è un problema politico, che io pongo con crudezza; e credo che l'Assemblea debba avere il coraggio di guardarlo in faccia. Lo Stato moderno, lo Stato parlamentare, la nostra Repubblica parlamentare, hanno veramente una corrispondenza nella coscienza dei cittadini, di tutti e dei più umili cittadini? Ha essa quella considerazione che le compete e che il nostro Presidente, onorevole Terracini, nel discorso avanti l'inizio delle ferie, ha ribadito, rivendicando nobilmente, contro l'opinione diffusa, questa funzione altissima, questa nobile fatica, questa delicata procedura del Parlamento? Ebbene, abbiamo il coraggio di dirlo: tutto ciò non ha corrispondenza nella coscienza dei cittadini. O almeno la grande maggioranza non comprende, non apprezza l'opera nostra.
Noi, alle volte, siamo dei sacerdoti che comprendiamo dei riti che gli estranei non comprendono o addirittura denigrano. Questa è la realtà. Mi pare che in ciò stia un problema politico, che debba interessare tutti coloro che si preoccupano della democrazia parlamentare, anzi della democrazia senz'altro, tenera pianticella nel nostro suolo, e quelli soprattutto fra noi che hanno come bandiera e insieme come compito il repubblicanesimo storico. Tutti costoro, tutti noi democratici e repubblicani, dobbiamo preoccuparci e far sì che le nostre istituzioni abbiano il consenso del popolo; che esse gettino nella coscienza italiana salde e profonde radici. Noi dobbiamo desiderare per il nostro regime quel favore che ebbero tanti altri pur così immeritevoli.
Se i Borboni riuscivano ad avere con loro i lazzari di Napoli, perché mai la Repubblica nostra non deve riuscire ad imporsi nella coscienza popolare? Perché dobbiamo alle volte evitare a manifestare e persino considerare se non convenga sottacere (specialmente nelle carrozze ferroviarie!) la nostra qualità di deputati? come mai dobbiamo temere di essere meno graditi al pubblico perché siamo i rappresentanti della nazione? È inutile nascondercelo: la nostra funzione è considerata, persino nelle classi più colte, molto, troppo spesso, come quella o di mezzi matti o di interessati e profittatori. I grandi scienziati, i grandi professori, i grandi banchieri ed industriali dichiarano di non degnarsi di scendere a questa nostra professione. Può darsi che per molti sia l'uva della volpe esopiana: ma per molti è vero disdegno. Ora, io ricordo una frase di Montesquieu, che mi pare indichi una condizione fondamentale per quella che è la vita degli Stati: «Non vi è cosa più potente — dice in quel piccolo superbo saggio sulle fortune dell'antica Roma — di una repubblica, nella quale i cittadini osservino le leggi, non per ragione, ma per passione; come furono Roma e Sparta; poiché si unisce alla sapienza di un buon governo tutte le forze, che potrebbe avere una fazione». Ecco il problema, problema squisitamente politico: ridare allo Stato nelle coscienze dei cittadini il posto che gli compete, ristabilire i vincoli di solidarietà politica e quelli della solidarietà sociale; ridare ai cittadini una fiducia, una fede nel regime nostro, nel Governo parlamentare! Far sorgere nei cittadini la passione dello Stato! Tale sarebbe stata la ragione del successo degli eserciti della Repubblica sovietica; la difesa dello Stato sentita come una passione, come un misticismo.
Se vogliamo creare sul serio una stabile repubblica democratica, occorre che la basiamo sulla e nella coscienza del popolo italiano.
Permettetemi che citi ancora quello che ha detto Aristotele: «Perché uno Stato duri è necessario che i più siano interessati alla sua conservazione e la desiderino»; occorre cioè che sempre un maggior numero di cittadini confonda i propri cogli interessi pubblici, senta gli istituti politici come cosa propria.
Ora, abbiamo il coraggio di dirlo: tutte le sfumature della borghesia, che è un ceto così vasto, sono in Italia, rispetto alle nostre istituzioni parlamentari, in una posizione strana, tra la diffidenza sospettosa e l'indifferenza la meno commendevole. Guardate ora le classi popolari; esse pure non amano questa nostra Repubblica, questo nostro regime come esso è in concreto; altro essi amano, comunisti o socialisti o democratici cristiani, essi amano le nostre idealità come loro bandiera, loro entusiasmo, loro passione. Essi amano, perché la concepiscono, la nostra o la vostra bandiera, ma non riescono a concepire e ad amare lo Stato neppure sotto la forma di una Repubblica popolare e democratica. Né si può fare di ciò loro una colpa, ove si pensi che le classi intellettuali — i professori universitari ed i grandi professionisti — la concepiscono ancor meno.
Orbene, tutto ciò è un pericolo, un grave pericolo, perché il fascismo, il nazismo e le altre forme di Governi autoritari — sino il Governo Pétain-Laval (l'ultima e più impensata incarnazione, che sorse proprio in quella Francia dove era apparsa, tanto più dopo la guerra 1915-18, ormai consolidata definitivamente la libertà e la democrazia) — da che sono sorti, se non dalla convinzione sempre più diffusa del iato tra quello che gli scrittori francesi chiamarono pays légal rispetto al pays réel?
Hanno sempre detto costoro esagerando alcune condizioni anche anormali del fenomeno parlamentare, alcuni difetti patologici, inevitabili forse, nel Parlamento — giacché ogni istituto umano ha lati buoni e cattivi, il pro e il contro — hanno esagerato tutti i difetti, i vizi, gli episodi sciagurati e, purtroppo, bisogna riconoscerlo, sono riusciti a creare quell'opinione diffusa che sta contro i Parlamenti, o, almeno, contro i parlamentari. L'abbiamo visto in un episodio recente. Ho scorso con grande attenzione le cariche denunziate dai colleghi in seguito alla nota decisione nostra, nell'elenco pubblicato in questi giorni. Mi chiedo: valeva la pena, allora, di far tanto fracasso, di dare al Paese l'impressione di chissà quali scandali? Ciò malgrado il Paese crederà sempre che almeno metà di noi abbia chissà quali prebende e chissà quali cariche amministrative, mentre dall'elenco risulta quanti pochi di noi abbiano cariche di tal genere e quanto esse siano, comunque, per la massima parte di noi, modeste.
Vi sono professioni diffamate per abitudine: presso determinati ceti, i preti, presso tutti, gli avvocati; presso molti, i giudici, gli impiegati statali ed i medici (spesso, anche le persone colte preferiscono andare dai «medicozzi», e diffidano dei medici, e parecchi medici presentano le diagnosi e le terapeutiche in forme apparentemente nuove ed ermetiche, evidentemente per rispondere al gusto del pubblico!). Ma indubbiamente la nostra tiene il primato tra le più diffamate professioni, la nostra, che Tardieu ha creduto appunto bollare nel noto suo libro come «professione parlamentare». Contro di questa, contro il parlamentarismo e non da ieri, ma da mezzo secolo e più, vi è tutta una letteratura, tante opere da farne una biblioteca. E tra essi persone d'alto ingegno, serie, studiosi, politici: basti ricordare il Prins e il De Greef, per il Belgio, uomini politici, professori, alla Università di Bruxelles, il primo dei quali iniziò la campagna con un libro uscito nel 1887 e la condusse avanti per tanti anni; il secondo fu il paladino del referendum e della proporzionale, che riuscì a veder trionfare nel suo paese e, con maggior ardore, proprio della rappresentanza organica professionale; basti ricordare in Francia il Benoist (è del 1895 l'opera sua famosa: La crisi dello Stato moderno), il Duguit, il Duthoit, e accanto a loro tutta una scuola francese (non parlo di quella dell'estrema destra, di quella dell'Action Française, del Maurras e compagni, ma di una scuola obiettiva e scientifica); tutta una scuola di pubblicisti che in Francia, in Italia poi, e altrove, hanno sottoposto a critica spietata il sistema parlamentare. Ricordo che il Benoist, che è stato uno dei più moderati, ha un giudizio che non ritengo si possa rifiutare: «l'opinion politique n'est pas tout l'homme». E cioè l'opinione politica, sulla quale si fondano partiti e Parlamenti, è importantissima ma non esaurisce tutte le caratteristiche individuali e sociali dell'uomo. Ciascun cittadino cioè si individua non soltanto per le sue idee, le sue convinzioni, i suoi sentimenti, che lo determinano ad una svolta politica, ma ha anche altri interessi e convinzioni che non hanno adeguata rappresentanza nei partiti politici e negli uomini che egli è chiamato ad eleggere. Di qui quel singolare distacco della fiducia pubblica dal sistema parlamentare.
Ricordiamo il sintomatico fenomeno Tardieu (uomo da cui si poteva dissentire, ma a cui nessuno contesterà la buona fede e l'assoluta rispettabilità, confermata poi dal suo dignitoso rifiuto e dal suo contegno verso il Governo Pétain-Laval). Eppure Tardieu, che era uno dei principali politici del suo paese, deputato, ministro, due o tre volte Presidente del Consiglio, a un certo momento divorzia dalla vita parlamentare, si ritira a vita privata e conduce, attraverso anni di lavoro, e quasi una decina di libri, una radicale campagna contro il sistema parlamentare, definitivamente da lui condannato. Per lui esso non solo era un sistema inefficiente, ma marcio, irrimediabilmente. E con lui un altro grande parlamentare, Doumergue, non solo ex Primo Ministro, ma ex Presidente della Repubblica, che, dopo l'ultimo suo Ministero, coi libri, con la radio si fa l'accusatore spietato del sistema parlamentare, e, come Tardieu, invoca il «nuovo». E poiché l'arte ha più efficacia della scienza e della politica, ricordo ancora il grande romanzo Les morts qui parlent di Melchior De Vogüe; egli pure uomo politico, ambasciatore, deputato, e insieme letterato notevole (fu accademico di Francia, ed ebbe il merito di far conoscere, con il suo celebre saggio sul romanzo russo, la letteratura russa a tutto il mondo europeo). Quel suo bel romanzo resta una insuperata descrizione dell'ambiente e della vita parlamentari. Ma tutta l'opera, che è verso il 1905, è ispirata al più sconfortante pessimismo, alla più amara convinzione: il fallimento del regime parlamentare, e sfocia nella più terribile delle conclusioni: occorre l'uomo; un uomo che ripensi un nuovo regime. L'uomo! Mussolini, Hitler, Laval! Quel gentiluomo moderato e onesto repubblicano avrebbe inorridito a vedere quali uomini avrebbero dovuto spazzare e spazzarono via il regime parlamentare!
Eppure egli era l'interprete di uno stato d'animo diffuso ai suoi tempi. E diffuso, purtroppo, ancor oggi. Di esso non possiamo non preoccuparci, perché potrebbero sorgere nuovi terribili guai.
Ma, onorevoli colleghi, in fondo a tutte codeste accuse al parlamentarismo, trovate, tra le altre critiche, queste: il mondo parlamentare è un mondo a sé, artificiale, avulso dalla vita; e tutti i parlamentari in fondo, qualunque professione di fede politica si abbia, appartengono ad una classe ristretta, solidale fra loro, miope e sorda. Peggio! I parlamentari sono reclutati in stretti ceti, e la maggior parte delle classi, delle professioni e dei mestieri non si curano neppure di ricercare un mandato parlamentare.
Adesso è uscito un libro di un giornalista di valore — intitolato I moribondi di Montecitorio; ma esso ha un antico precedente nel famoso libro di quel singolare, sebbene disordinato ingegno, che fu il Petruccelli della Gattina, letterato, patriota e politico.
Ebbene in quel libro famoso, che è del 1861, il Petruccelli della Gattina fa la statistica dei deputati del Parlamento di Torino sotto l'aspetto della loro condizione sociale, delle loro professioni, e rileva che tra tanti deputati, non vi era neanche un operaio, non vi era neanche un contadino, neanche un impiegato privato e che i funzionari pubblici invece abbondavano. Da tale constatazione (che non doveva stupire dato il sistema elettorale estremamente ristretto basato sul censo), dalla constatazione che la grande maggioranza dei deputati appartenevano alle categorie dei professori universitari, degli avvocati, l'autore trae la conclusione che il Parlamento fosse riservato ai professionisti della politica. E da allora quante volte si è ripetuto quel rilievo. Un giornalista ha detto che nel partito, anzi nei due partiti socialisti, non vi è neanche un operaio, neanche un contadino. Non so se sia esatto; quanto al partito, al quale ho l'altissimo onore di appartenere, posso dire che vi sono due autentici contadini ed alcuni che furono operai. E noi stessi, quando andiamo in mezzo alle masse, quante volte non abbiamo sentito dirci: perché mai tra voi alla Camera non vi sono che professori ed avvocati? È diffusa questa critica, è diffuso questo stato d'animo; non possiamo disconoscerlo.
Ed allora, davanti a queste constatazioni credo che valga la pena di riesaminare se, almeno parzialmente, almeno in via di esperimento, non si possa dare al popolo nel futuro Senato la rappresentanza degli interessi, accanto alle rappresentanze locali, cioè delle Regioni, delle province e dei comuni. Risorgerebbero così antichi sistemi di elezione, ma rinnovati secondo i bisogni dei tempi nuovi, nel nuovo spirito della nostra attuale democrazia. A proposito di quei sistemi, io ricordo una frase di uno dei nostri maestri, del migliore nostro maestro, dell'illustre uomo che abbiamo ancora la fortuna di avere per collega, dopo la seduta di ieri, di Vittorio Emanuele Orlando, che pur è sempre stato nemico della rappresentanza politica degli interessi. Egli ha scritto: «Tutti gli antichi sistemi di elezione per classe e rappresentativi degli interessi muovono dal concetto, così fecondo (sono le testuali parole di Orlando), della natura organica dello Stato», cioè dalla concezione che lo Stato è e deve essere un organismo vivente con ogni organo e ogni funzione in armonia con tutti gli altri. La storia è lì a confermarci come spontaneamente i popoli hanno, in ogni tempo, fatto ricorso alle rappresentanze degli interessi. Trascuro onorevoli colleghi, e il sistema di Solone e le classi di Servio Tullio, trascuro le forme di rappresentanza del mondo antico; neppure voglio citarvi le corporazioni di arti e mestieri del Medio Evo, i paratici, le credenze della mia Milano, le glorie di tutti i nostri comuni. Consentite che vi ricordi i sistemi introdotti da noi, in un secondo tempo, a Milano ed altrove, dalla Rivoluzione francese, nelle repubbliche napoleoniche. Nel 1802 a Lione fu stabilito nella Costituzione della Repubblica Cisalpina la rappresentanza a mezzo di tre collegi, i possidenti, i dotti, i commercianti (è ad essi che allude il Foscolo col suo verso famoso «il dotto, il ricco ed il patrizio volgo»). Tale sistema fu copiato da tutti gli Stati napoleonici d'Italia e fuori Italia. Io vi ricordo appena le lodi che ha scritto Cesare Correnti, grande patriota e illustre liberale, parlamentare e Ministro dopo il 1859, su quelli che erano i convocati, cioè le rappresentanze elettive comunali (di uomini e di donne si noti!) nella Lombardia austriaca, rappresentanze basate sulle categorie sociali e professionali.
E perché non dovrei ricordare, malgrado il pericolo di qualche Don Basilio, che mi tacci di «austriacante», l'esempio austriaco delle quattro curie austriache, del sistema elettorale del 1867 durato sino al 1907, e alle quali quell'Impero aggiunse una quinta curia, quella del suffragio universale, nel 1856 (mentre in Italia Giolitti stentò ad introdurre il suffragio universale nel 1912)? Antiquato, di certo, era tuttavia un sistema elettorale che rispondeva al bisogno della rappresentanza degli interessi. Ricordo, infine, che a Weimar fu istituito costituzionalmente accanto al Parlamento del Reich un «Consiglio economico dell'Impero», pur privo di vera autorità politica, e che comprendeva una serie di minori Consigli economici particolari o locali. Persino lo Statuto albertino, e gli altri dell'800, di cui esso fu una copia pedissequa, con le sue note categorie, si era preoccupato di una certa rappresentanza di ceti e di categorie.
Tutti questi fatti hanno certamente un qualche significato storico; il ripetersi, in tempi diversi, e in forme diverse, di sistemi, anche imperfetti, di rappresentanza degli interessi dimostra un bisogno vasto e quasi universale. Un bisogno, quindi, che noi dobbiamo soddisfare, sia pure con prudenza e con ponderazione.
Tanto è vero che alla rappresentanza degli interessi si è pensato da molti illustri politici e parlamentari dell'epoca liberale nei diversi progetti di riforma del senato regio. Se si esaminano quelli che sono i precedenti della riforma del Senato in Italia, riscontriamo cioè uomini di tutte le opinioni politiche che sostengono, sotto forme diverse, questo principio; per i liberali ricordo Giorgio Arcoleo, uno dei più grandi pensatori, il Tittoni, che era un studioso notevole di problemi costituzionali, oltreché un eminente uomo politico, il Ruffini, uno degli spiriti più liberi della resistenza antifascista, Emanuele Greppi, altro studioso di problemi politici e storici di chiara fama; fra i socialisti il Della Torre, amico di Filippo Turati, e il Loria, eminente economista; così come mi viene alla mente un altro grande economista, Maffeo Pantaleoni. Non ricordo, di proposito, progetti degli uomini della mia parte.
In tutti questi progetti, che si possono consultare anche qui, in biblioteca, uomini di ogni partito hanno, in fin dei conti, creduto far ricorso al principio che io sostengo per rinnovare il Senato regio. E tra i non parlamentari, come non potrei ricordare la tesi di Sturzo, la tesi di tutta la sua vita, da giovanissimo sino all'esilio, e che egli trasfuse nel programma del Partito popolare italiano? Più suggestivi ancora gli esempi di Parlamenti esteri. Io ricordo che la Camera ed il Senato belga hanno discusso per diversi mesi su un progetto del senatore Helleputte, nel 1892; i discorsi di quell'eminente studioso e di altri parlamentari sono stati pubblicati ed illustrati in un antico volume della casa Desclée. Ne ho una copia, a me tanto cara perché è piena di postille personali di Giuseppe Toniolo; e quell'eminente Uomo, al quale tutti noi guardiamo come a caro Maestro, del sistema da me qui sostenuto fu sempre un aperto ed entusiasta sostenitore. Ricordo che nel 1896 sono state fatte proposte in Francia, in Parlamento e fuori, di rappresentanza degli interessi per quel Senato, da uomini eminenti, dal liberale Dechanel, al celebre Abbé Lemire, che fra i primi propose ai cattolici europei l'esempio della democrazia americana, al celeberrimo socialista Jaurès. Non cito altri esempi, altre autorità; ma certo è che, se tutti questi studiosi e politici hanno prospettata l'ipotesi di una possibile rappresentanza politica ed organica degli interessi, non mi pare ipotesi da potere essere trascurata o disdegnata con tanta facilità e con tanta leggerezza come ha fatto il collega Preti, che forse è un po' troppo filosofo più che giurista.
Conosco le obiezioni, antiche anche esse, numerose ed autorevoli. L'onorevole Salandra contestando, appunto, la tesi della rappresentanza degli interessi, ebbe a scrivere che la Camera degli interessi sarebbe stata la Camera degli egoismi. Ma, siamo sinceri, credete voi che tra di noi, in ogni Parlamento politico, non entrino gli egoismi? Cacciati dalla porta essi entreranno sempre dalla finestra! Ma guardate lo spettacolo quotidiano di quest'Aula: il Presidente del Consiglio, i Ministri quante volte sono costretti a lasciare il loro banco, a correre di là, perché devono ricevere le più varie rappresentanze delle più varie organizzazioni sindacali e di categoria. Dunque, ecco delle forze che hanno un valore politico, che hanno anzi maggiore importanza di noi tutti messi insieme! E perché non volete aprire le porte del Parlamento, a tali rappresentanti del popolo organizzato in sindacati e in categorie?
Non ci vedo un qualsiasi pericolo per la democrazia, per il suffragio universale. Ripeto, non si tratta che di un esperimento parziale. Si tratta di dare agli interessi una parte, modesta, in quel Senato, che a sua volta sarà meno numeroso della Camera dei Deputati, e quindi nell'Assemblea Nazionale i rappresentanti delle categorie, degli interessi, saranno numericamente trascurabili.
Che cosa importerà, in fin dei conti se forse, dico forse, la rappresentanza degli interessi potrà portare qualche nota a destra? Che cosa importerà siffatto minimo spostamento, se potremo vincere questa grande diffusa diffidenza, questa grande obiezione: non soltanto noi parlamentari, non solo una classe politica fanno le leggi e interloquiscono nei pubblici affari; ma nei pubblici consessi hanno voce, peso i diretti rappresentanti dei banchieri, degli industriali, degli operai, dei contadini, dei tecnici e dei magistrati, di tutte le classi e di tutte le categorie sociali?
Obietta l'onorevole Nobile, come si legge in un resoconto della Commissione dei Settantacinque, che la rappresentanza degli interessi, delle categorie sociali spontaneamente riescono ad avere voce e rappresentanza in qualsiasi Parlamento politico, come l'hanno in questa Camera Costituente. È vero, ma è vero solo in parte. Ed è vero solo in parte perché si tratta di rappresentanze indirette, non dirette. Siamo parecchi deputati qui avvocati del foro di Milano: Targetti, Gasparotto, Marazza, Jacini, Castelli, Meda, Vigorelli, io e forse altri. Ma è probabile, anzi certo, che se il foro di Milano dovesse eleggere dei suoi diretti rappresentanti, eleggerebbe non noi, almeno tutti noi, come, unici suoi rappresentanti.
Alle eventuali, caotiche ed occasionali rappresentanze si deve preferire una rappresentanza professionale sistematica ed organica.
Si obietta ancora che la proposta rappresentanza degli interessi ferirebbe il principio della eguaglianza dei cittadini. Ora, anche qui, guardiamo senza viltà le cose come sono, e soprattutto prescindendo dalle concezioni filosofiche (per noi cristiani l'eguaglianza politica, civile e giuridica si basa sulla eguaglianza morale, l'identica posizione di figli di Dio, e di riscattati dal sacrificio del Cristo, per voi socialisti sulla solidarietà del lavoro e dei lavoratori, per altri su ideali nazionali o civili); prescindendo, persino, dalle astrazioni giuridiche. Guardiamo alla realtà di fatto. Sotto la eguaglianza giuridica persistono le diversità di fatto. In questa Camera vi sembra che io abbia lo stesso peso di Nitti oppure di Orlando? Abbiamo qui tra i nostri colleghi parecchie coppie di sposi, che sono pari qui; ma lo sono sempre altrove? Il figlio di Orlando è deputato come suo padre, ma nell'intimità della famiglia restano pari? Dunque vi sono aspetti molteplici della realtà; come una fotografia varia secondo il punto da cui il soggetto viene fotografato. La realtà è complessa ed è difficile riprodurla, fotografarla.
Abbiamo del resto il coraggio di dire: il progetto di Costituzione viene già a stabilire nell'elezione dei senatori delle disparità. Regioni piccole come il Friuli o il Trentino manderanno senatori in numero presso a poco pari a quelli che manderà il Veneto o la Lombardia.
In Isvizzera le piccole regioni (cioè i piccoli cantoni) mandano lo stesso numero di senatori, due ciascuna, stabiliti per Berna o Zurigo, che rappresentano ciascuno un quinto o un quarto del territorio e della popolazione svizzera. E lo stesso è stabilito per Stati tanto diversi demograficamente e geograficamente degli Stati Uniti d'America. Si dirà, ma questa è la caratteristica degli Stati confederali, nei quali si viene necessariamente a violare il principio dell'eguaglianza dei cittadini per il principio dell'eguaglianza dei singoli Stati. Ma questo avverrà anche per il nostro progetto di Costituzione; e se accetteremo l'Emilia Lunense tanto cara all'ottimo collega mio ed illustre maestro, onorevole Micheli, avremo che il cittadino dell'una e dell'altra Emilia verrà a contare il doppio che se la Regione restasse unita. Quindi, già secondo il progetto attuale è violato, per l'elezione al Senato il principio rigido ed assoluto della parità fra i cittadini elettori. Se non vogliamo violarle dobbiamo essere logici come Sieyès e gli altri costituenti francesi dell'89 e volere una sola Camera, come vi è un solo popolo, un solo Paese, senza preoccuparci degli svantaggi, dei pericoli che la storia costantemente ci denuncia del sistema unicamerale, e che, da Cesare Balbo in poi, le mille volte vennero messi in evidenza.
Razionalmente ne teniamo conto; ma la storia è questa.
Ma quale è, onorevoli colleghi, la natura del regime nostro, indicata dallo stesso termine di regime rappresentativo? rappresentare politicamente un paese è cosa molto difficile, molto più difficile di quello che sia per il geografo rappresentare un Paese fisico in una mappa, in una carta.
L'immagine è del resto stata ripetuta tante volte: il Parlamento sta al Paese come la carta geografica sta al paese fisico. Ma in geografia c'è la carta geografica politica e c'è la carta geografica fisica naturale. Sono due diversi aspetti che rappresentano la stessa realtà complessa; sono due riproduzioni dello stesso soggetto. Così il parlamento politico rappresenta i partiti, i sentimenti, le opinioni, ma, è vero e già l'ho detto, essi ed esse non esauriscono completamente l'uomo. Io sono un democratico cristiano, ma sono anche un avvocato; come potrei essere un medico, ingegnere. E uomini di partiti diversi ed opposti si ricercano qui, si riuniscono naturalmente, sotto il riguardo della comune identifica professione. Così i medici, di ogni partito politico, hanno costituito il loro gruppo.
Ecco dunque che noi dobbiamo fare del Senato un'Assemblea che abbia la sua particolare essenza, che abbia una sua inconfondibile natura; che non sia un doppione della Camera dei deputati. E soltanto così avremo il grande vantaggio di cercare, per quel che sta in noi, di venire incontro a tanti malcontenti, a tanti scettici del regime parlamentare, e di rendere salda nella coscienza popolare italiana la Repubblica democratica.
Passo ora brevissimamente al quarto punto. L'onorevole Preti ha fatto alcune osservazioni cui aderisco, in merito alla seconda sezione del Titolo primo della parte seconda del progetto di Costituzione, cioè in merito alla formazione delle leggi. L'articolo 69 del progetto di Costituzione, al penultimo capoverso dice: «Su richiesta del Governo o del proponente, ciascuna Camera può deliberare che l'esame di un disegno di legge sia deferito ad una Commissione composta in modo da rispettare la proporzione dei gruppi alla Camera, e che, su relazione della Commissione, si proceda alla votazione senza discutere, salve le dichiarazioni di voto». È già un notevole passo avanti, ma non sufficiente data la realtà legislativa. Aggiungerò alle osservazioni dell'onorevole Preti alcune altre, a suffragio di quanto egli ci ha detto, se ben ho capito il suo discorso: lo Stato moderno — tutti ne convengono — fa molte leggi, ne fa a centinaia, ne fa a migliaia. Ma non può fare diversamente perché è uno Stato complicato; tutto è complicato nella vita moderna. È una regola generale che si osserva in qualsiasi paese, perché ovunque è l'identico stato delle cose. Ma un'altra osservazione si impone. A qualsiasi Assemblea manca, non dirò la competenza, ma il tempo di esaminare tutte queste leggi. Abbiamo visto noi stessi qui quello che accade quando si vuole procedere a fare una legge con attenzione: abbiamo impiegato dieci o dodici giornate per la legge sulla cinematografia ed un mese per approvare la patrimoniale.
Come faranno i nostri successori avanti a centinaia e migliaia di progetti di legge da fare o da approvare in conferma dei decreti legislativi del Governo in questi due o tre anni di attività legislativa delegata? Si dice che molta parte della materia legislativa verrà scaricata sulle Assemblee delle Regioni. Ma io convengo che, ciò malgrado, il lavoro per le nuove Camere sarà sempre almeno dieci volte superiore ad ogni possibilità umana.
Richiamo poi la vostra attenzione su di un fenomeno incontestabile, che gli anziani di questa Assemblea potranno confermarci; che cioè da quasi un quarantennio in Italia, assai prima del fascismo, quindi, la funzione legislativa veniva per la massima parte scaricata dal Parlamento sul Governo. È stata questa — diranno gli storici futuri — una fatalità. Ricordo brevemente qualche fatto e qualche dato.
Nel 1915, alla vigilia della nostra entrata in guerra, il 22 del mese di maggio fu deferita al Governo una così ampia facoltà legislativa, che praticamente si può affermare aver da allora tutti i Governi legiferato senza controllo parlamentare. È questo un fatto storico, che non si potrà rimproverare ad alcuno, ma che è incontestabile e che perciò s'impone alla nostra meditazione.
Nella XXV legislatura, su 826 decreti legislativi mandati dal Governo per la convalida, ne furono convalidati dal Parlamento appena 9. Nella XXIV, che va dal 1913 al 1919, furono approvati 396 disegni di legge sui 1181 che il Governo aveva trasmesso all'Assemblea. Nella XXV, che era Camera rinnovata e popolare, con 200 deputati della sinistra e 100 deputati del partito popolare, furono approvati solo 166 progetti di legge sui 1139 presentati. Nella XXVI, che andò dal giugno al dicembre 1921, 106 su 1185. Ed il Tittoni, nel noto suo saggio pubblicato dall'editore Zanichelli, dice che se nel 1922 si pensò di riparare all'inconveniente istituendo le sedute mattutine, accanto a quelle pomeridiane, si poté però constatare allora che le sedute mattutine erano disertate e che i deputati presenti nell'Aula non superarono mai il centinaio. (Questa mattina credo che non fossimo neanche cinquanta!)
Insomma, è difficile che una Camera possa lavorare più di quello che noi lavoriamo ora. E se si guarda alla media delle leggi che si dovrà invece fare ogni anno, è chiaro che si creerà una situazione inestricabile, e che non basterebbe, per smaltire il lavoro, votare quattro, cinque, sei leggi al giorno!
Quindi, bisognerà risolvere il problema, io credo, ancora più radicalmente di quanto non abbia già fatto il progetto di Costituzione, che qui è piuttosto incerto.
Ma vi è un'altra osservazione, sempre statistica e sempre sconfortante (e mi riferisco ancora al regime prefascista); cioè che il Governo in pratica è stato sempre più incontrollato in quella che è la sua tipica responsabilità verso le Camere, cioè per quanto riguarda i bilanci consuntivi, il che vuol dire che il Parlamento ha praticamente rinunziato alla sua precipua funzione, al suo tipico dovere, abdicando al controllo finanziario. Infatti i consuntivi 1905-1906 sono stati approvati con la legge 27 giugno 1909, n. 385; quelli dal 1906 al 1911 in blocco con la legge 14 marzo 1913; quelli del 1910-11 con la legge 19 giugno 1913; quello del 1911-12 con la legge 21 dicembre 1912; e tutti in blocco quelli dal 1912 al 1918, soltanto nel 1922. Il 21 dicembre del 1921 disse alla Camera l'allora Ministro del tesoro onorevole De Nava, parlando per l'esercizio provvisorio: «Mi sia lecito constatare che colla giornata di oggi, discutendosi il bilancio del tesoro, tutti i bilanci sono pronti. E questo fatto, lasciatemelo dire, non si era verificato da parecchi anni, anche prima della guerra». E poi? Poi venne il fascismo!
Insomma, la realtà è che neanche questa loro funzione fondamentale, l'approvazione dei bilanci, le Camere, sovraccariche di lavoro politico, hanno svolto.
Ora, io mi auguro una soluzione più radicale; e spero che i colleghi i quali parleranno dopo di me e con molta maggiore autorità di me, proporranno emendamenti atti a risolvere questo problema. Già in proposito venne presentato al Senato un progetto, mi pare nel 1922, dal senatore Scialoia e dal senatore Mortara e da altri 70 Senatori, al fine di temperare, se non di vietare del tutto, l'uso dei decreti-legge. Anzi l'abuso, quell'abuso (si pensi, in sette anni dal 1907 al 1913 il Governo emanò 30 decreti-legge ed invece 2800 dal 1914 al 1921) per cui la Corte di cassazione del Regno, allora a sezioni unite, emanò una memorabile sentenza, — il 24 gennaio 1922, Mortara estensore-presidente — che dichiarava illegale un decreto-legge. E vi fu allora l'inizio coraggioso di una revisione che il fascismo poi ha stroncato.
Possiamo facilmente prevedere, dunque, da una parte una quantità enorme di progetti di legge, che dovranno essere sottoposti alle Camere future per essere approvati (e non parlo di tutti i decreti legislativi, rispetto ai quali le Camere future non potranno che arrivare a una convalida generale, così come si fece per la legislazione 1915-1919 dopo l'altra guerra); dall'altra parte la impossibilità per i nostri successori di funzionare più attivamente di quanto si fa ora da noi e si fece dai nostri predecessori. Credo perciò che noi dovremo vedere se lo spirito della democrazia parlamentare non abbia bisogno e opportunità di forme nuove. In fin dei conti, noi siamo ancora tutti presso a poco legati nelle forme a quel delicatissimo regime che è sorto tra il 1740 e il 1800 in Inghilterra, quando si andava in portantina e col guardinfante; a quello che è lo spirito del regime parlamentare di allora o tutt'al più del tempo di Luigi Filippo. Ma da allora il mondo ha camminato.
Io credo che proprio in questo capitolo della formazione delle leggi noi dovremo proporci questo problema, risolvere con nuove forme l'antico e venerato principio parlamentare.
Concludendo, non basta statuire (come statuisce il progetto di Costituzione): il Governo non potrà fare leggi. Ma le potranno fare le Camere? Se non si troverà modo di distinguere leggi da leggi, se non si potranno affrontare e risolvere i problemi cui ho accennato, noi rischieremo di avere scritto nello Statuto fondamentale norme impossibili. Se facciamo una Costituzione che sappiamo a priori che è impossibile applicare, evidentemente non facciamo opera saggia.
E allora, per la salvaguardia dello spirito della Repubblica, credo che, al di sopra delle ideologie di partito, dovremo guardare le cose concretamente, dovremo guardare alle possibilità obiettive e vedere se il progetto non possa essere notevolmente migliorato. (Vivi applausi — Molte congratulazioni).
Presidenza del Presidente Terracini
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Jacometti. Ne ha facoltà.
Jacometti. Dopo il discorso-fiume, del resto molto interessante sotto parecchi punti di vista, del collega onorevole Clerici, io cercherò, onorevole Presidente, di aderire all'invito che molte volte venne dal seggio presidenziale e di essere non soltanto breve, ma scheletrico. Cercherò anche di essere chiaro.
D'altra parte, mi interesserò di un solo punto: quello della seconda Camera.
Il partito socialista fu sempre e continua ad essere (ed io penso che lo sarà anche per l'avvenire), in linea di principio, per una Camera unica. Perché? Perché noi riteniamo che una Camera che sia espressione del suffragio universale, sia la rappresentanza diretta, integrale e genuina della volontà popolare. L'aderenza fra Paese e Camera è così perfetta, la rispondenza è rapida, integrale e sensibilissima.
Contro questa concezione, contro questo nostro modo di pensare, si levano parecchie critiche. Io le raggrupperò in tre.
La prima è questa: proprio per l'aderenza fra Paese e Camera dei rappresentanti, si dice che la Camera può prendere sovente dei dirizzoni, può dare adito a delle svolte improvvise.
Credo che sia questo un modo non giusto di pensare, anzi credo di più: che ci sia in questo concetto qualcosa di eminentemente conservatore: si vuol impedire alla volontà popolare di esprimersi direttamente, naturalmente e genuinamente.
Che cosa si vuole in realtà? Si dice: sì, rappresentanza diretta, sì, suffragio universale; però con la palla di piombo al piede, però con dei freni. La seconda Camera, da questo punto di vista, potrebbe essere definita la Camera della paura. Si teme, cioè, che la prima Camera, espressione diretta del popolo, possa fare delle riforme troppo rapide, possa cioè realizzare, attuare, con grande immediatezza, la volontà della Nazione, del popolo. Ecco perché si vuole la seconda Camera e si tenta di impedire alle forze popolari di far valere il proprio pensiero; perché si ha paura della politica delle masse, della politica popolare.
La seconda critica che si fa alla Camera unica è di natura diversa; si dice: la Camera unica può diventare una Camera dittatoriale, può sfociare in una rappresentanza di interessi di partiti, in una dittatura di gruppi politici. È una critica che io non ho mai concepito, che io non ho mai capito. Ma perché si deve temere una dittatura, quando la prima Camera è la rappresentanza vera e propria del Paese e della maggioranza del Paese? Ma che cosa significa allora democrazia in questo caso? Perché mi pare, onorevoli colleghi, che il Governo democratico non si identifichi con un calderone in cui ci sia un po' di tutto, il calderone che noi abbiamo avuto dalla liberazione in poi in Italia, in cui tutti i partiti o molti partiti siano rappresentati.
A questo punto permettetemi di aprire una parentesi, di dire che non sono in contraddizione con me stesso e col mio partito, quando affermo questo; perché se noi oggi siamo contro il Governo di colore, lo siamo perché oggi il potere legislativo non è affidato all'Assemblea, ma al Governo. Domani, quando il potere legislativo fosse ripassato alla Camera, noi saremmo per quella democrazia che riteniamo la vera e che si esprime con una maggioranza che governa e con una minoranza che critica e che controlla.
Una terza critica, che ho sentito fare da un uomo che oggi siede ai banchi del Governo, è quella che una Camera unica porta quasi inevitabilmente alla dittatura di un uomo, ed a conforto di questa tesi furono fatti i nomi del primo e del terzo Napoleone. La cosa avvenne in un contraddittorio che io sostenni alla vigilia del 2 giugno dell'anno scorso; potei allora facilmente rispondere che quando il 28 ottobre 1922 il fascismo si impadroniva del potere, non vi era una Camera unica in Italia, ma ve n'erano due di cui una di nomina regia.
Ma se per tutte queste ragioni noi siamo sempre stati per la Camera unica, comprendiamo però che nella situazione italiana di oggi, forse le simpatie, forse la volontà dei più va verso le due Camere, né noi vi siamo ostili per partito preso; ma poniamo una condizione, che cioè le due Camere siano espressione integrale, democratica, della volontà popolare. Ora, nel Progetto a noi presentato, si parla di Senato come della seconda Camera ed io vorrei esaminare rapidissimamente, nella forma e nella sostanza, la progettata istituzione. Non capisco innanzitutto, perché si sia adottato il nome di Senato. Oh! lo so che è vecchio di secoli, ma le impressioni che riceviamo sono sempre quelle più vicine a noi; e quando si dice «Senato» pensiamo sopratutto all'ultimo Senato, a quel fiacco, osceno, ultimo Senato che tanto male fece all'Italia, che si piegò al fascismo come forse nessun'altra forza d'Italia si piegò al fascismo. E non sarà certamente il giudizio della Corte di cassazione a farci mutare pensiero su questo argomento. Ma la cosa principale è la sostanza.
Ci sono due tipi di seconde Camere: quello dei paesi federali, in cui la seconda Camera rappresenta gli interessi dei singoli Stati, e non è il caso di parlarne; c'è poi il Senato che proviene dalla nomina regia. Che cosa era il Senato di nomina regia? Era un vero e proprio modo di protezione della monarchia. Quando la monarchia si trova di fronte all'incalzare delle classi popolari, essa cerca di proteggersi ed allora crea questa seconda Camera che dovrebbe fare da contrappeso ed impedire ogni vero progresso, forma cioè una trincea davanti all'istituto monarchico per impedire che possa essere travolto. Quando la corona poi passa da un uomo a una classe, dal re alla borghesia, abbiamo la stessa difesa fatta attraverso il Senato con forme diverse: con modi diversi si cerca di controbilanciare sempre la diretta volontà popolare, salvaguardando gli interessi di classe.
Comunque sia, noi siamo sul cammino della creazione di una seconda Camera. A me pare si debbano, a questo punto, tener presenti due concetti: quello della funzione della seconda Camera e quello del metodo di formazione di essa. Noi crediamo che una Camera sia tanto più operante e vitale quanto più precisa e utile ne è la funzione, crediamo che la seconda Camera debba avere una funzione distinta dalla prima, una funzione sua propria.
Ora, nel Progetto noi troviamo, salvo alcune differenze di cui parlerò subito, nella seconda Camera un doppione della prima. La seconda Camera dovrebbe fare esattamente quello che fa al prima Camera: e questo noi non lo concepiamo.
Si era parlato di un Consiglio superiore dell'economia, e noi dichiariamo che l'idea ci seduceva: un Consiglio superiore in cui tutte le forze produttive del Paese fossero rappresentate ci avrebbe trovato consenzienti. Fummo noi a lanciarne l'idea. Si trattava di vedere se questa seconda Camera avesse dovuto avere voto deliberativo o consultivo: ma insomma c'era qualche cosa di nuovo e di diverso, c'era una funzione specifica, c'era una collaborazione con la prima Camera che poteva diventare seriamente vitale.
Si poteva concepire anche una specializzazione tecnica della seconda Camera. Molte forme sarebbero state possibili, concepibili. Invece, no! Invece, si è andati a creare un doppione.
Se andiamo a vedere quale è il metodo di formazione della seconda Camera, noi — dopo aver detto e ripetuto che il principio democratico deve essere integrato e non alterato — ci troviamo di fronte a qualcosa di incongruente, direi di assurdo: il principio democratico non è mantenuto.
Intanto, la seconda Camera è eletta a base regionale. Si ha un frazionamento dello Stato. Quelle forze centrifughe, che tendono a spezzettare lo Stato repubblicano italiano, si manifestano anche qui. Ma c'è di peggio. È detto nel Progetto che ogni Regione deve avere un numero fisso di cinque senatori più un senatore per 200 mila abitanti. Qui andiamo veramente contro il principio democratico, perché c'è una disuguaglianza fondamentale tra Regione e Regione. Una Regione con un milione di abitanti verrebbe ad avere 10 senatori; una Regione con 5 milioni, invece di avere 50 senatori, verrebbe ad averne soltanto 30. Vi è una differenza che va oltre i due terzi, quasi uguale alla metà.
I senatori sono eletti per un terzo dai membri dei Consigli regionali e per due terzi a suffragio universale. Anche qui la libera espressione della volontà popolare viene alterata.
Ma vi è di più. Per essere elettori del Senato bisogna aver compiuto i 25 anni di età. Questa è una delle incongruenze, delle cose illogiche ed assurde, escogitate soltanto per capriccio e per poter affermare che fra le due Camere una differenza esiste. Non si capisce perché mentre la Camera dei deputati è eletta da elettori di 21 anni, gli elettori fra 21 e 25 siano scartati per il Senato. Essi sono capaci per una elezione, ma non per l'altra. La cosa ha i suoi riflessi e le sue conseguenze logiche. Si tende, attraverso questo metodo, ad avere un corpo elettorale scelto, di élite. Non è più il grande corpo elettorale comune, è un corpo selezionato. Ma, se si seleziona il corpo elettorale, la conseguenza che ne deriva è questa: che gli eletti della seconda Camera vengono ad essere messi al disopra di quelli della prima, considerati, ragionevolmente, un'élite. E questo significa svalutare la prima Camera nei confronti della seconda.
Questo concetto della svalutazione lo ritroviamo ancora, quando passiamo dagli elettori agli eleggibili. Si dice nel progetto che gli eleggibili devono essere domiciliati o nati nella Regione. Anche questo è un criterio poco logico, che porta al frazionamento del Paese. Perché un uomo, che per caso è nato a Genova e che è domiciliato momentaneamente a Napoli o a Salerno, ma che ha svolto tutta la propria attività in Piemonte, non deve poter essere senatore piemontese? Non deve poter rappresentare quella Regione nella quale ha abitato ed ha lavorato?
Poi: i candidati devono aver compiuto i 35 anni di età. Sono esclusi gli uomini dai 25 ai 35 anni. Essi sono buoni per la prima Camera, ma non per il Senato; e ancora una volta si cerca di degradare la prima Camera nei confronti alla seconda, perché si fa una selezione per la seconda.
Ma la cosa veramente assurda, e in un certo modo anche tendenziosa, sta nelle categorie degli eleggibili al Senato. Quali sono esse dunque? «Decorati al valore nella guerra di liberazione 1943-1945» e questo va bene. «Capi di formazioni regolari o partigiane». Perché «capi»? Se l'essere stato combattente della libertà è un requisito per essere eletto senatore perché scegliere i capi e non scegliere tutti coloro i quali hanno combattuto per la libertà? E la cosa si aggrava quando si legge: «Con grado non inferiore a comandante di divisione». Questo significa che la maggior parte dei combattenti di questa parte, che pure ha dato tanti uomini alle formazioni dei partigiani e dei liberatori, non potrà domani essere candidato per il Senato: pochissimi infatti hanno raggiunto il grado di comandante di divisione od un grado equiparato.
La stessa osservazione deve essere fatta per altre categorie: «Presidenti della Repubblica, Ministri, ecc.» e va bene, «Membri per quattro anni complessivi di Consigli regionali o comunali».
Lasciamo stare i Consigli regionali, che non ci sono ancora, e vediamo i Consigli comunali. Se si riflette un momento, si constata che la gran massa dei Consigli comunali conquistati dai partiti di sinistra, più di 2400, fu conquistata solo nel 1920; due anni dopo tutta questa gente fu defenestrata. In sostanza questa gente fu ai Consigli comunali soltanto per due anni ed adesso, se lo è ancora, (fra le due elezioni, vi è una frattura di più di vent'anni) lo è da poco tempo. Noi avremo questo risultato: che quasi tutti i consiglieri comunali socialisti e comunisti saranno esclusi dalla candidatura al Senato. Troviamo poi: «Professori ordinari di Università e di Istituti superiori, membri dell'Accademia dei Licei e di corpi assimilati; magistrati e funzionari dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni, ecc.; membri elettivi per quattro anni di Consigli superiori presso le amministrazioni centrali; di Consigli di ordini professionali; di Consigli di Camere di commercio, industria ed agricoltura, di Consigli direttivi nazionali, ecc.; membri per quattro anni di Consigli di amministrazione o di gestione (questi legalmente non ci sono ancora) di aziende private o cooperative con almeno cento dipendenti o soci; imprenditori individuali; proprietari conduttori; dirigenti tecnici ed amministratori di aziende di eguale importanza».
Esaminate con ponderazione tutte queste categorie; tengo a farvi osservare che è stato fatto un calcolo dal quale è risultato che vi è una differenza e una sproporzione tra partiti di destra e di sinistra di uno a dieci. Abbiamo, con la stessa massa, una quantità di possibili candidati uguale ad un decimo dei partiti di destra.
Ebbene, onorevoli colleghi, per tutte queste ragioni noi voteremo contro questo Progetto e presenteremo degli emendamenti, perché ci pare che effettivamente se dessimo vita ad un Senato del tipo progettato, noi creeremmo una Camera antidemocratica, in contraddizione completa con le nostre aspirazioni. (Applausi a sinistra).
A cura di Fabrizio Calzaretti