[Il 10 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Prima di iniziare la discussione, l'onorevole Bordon chiede di parlare sul processo verbale.]
Bordon. Domando la parola sul processo verbale per quanto ha detto l'altro ieri l'onorevole Nitti relativamente alla concessione dell'autonomia alla Valle d'Aosta.
Presidente Terracini. Mi permetta, onorevole Bordon: il suo nome non è stato pronunciato e, quindi, non si tratta di un caso personale.
D'altra parte, poiché lei non ha parlato nella scorsa seduta, non ha necessità di precisare meglio un pensiero che non ha espresso.
Pertanto, ritengo che non vi sia ragione per lei di prendere la parola sul processo verbale della seduta precedente. A proposito della Valle d'Aosta avrà largamente occasione di parlare, quando tratteremo della struttura del nuovo Stato repubblicano italiano.
Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.
(È approvato).
[...]
Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l'onorevole Orlando Vittorio Emanuele. Ne ha facoltà. (Segni di viva attenzione).
Orlando Vittorio Emanuele. (Segni di viva attenzione). Onorevoli colleghi, non avrei preso la parola in questa discussione per una ragione molto personale e molto caratteristica, che spiegherò subito; ma sono stato — per così dire — chiamato in causa più volte ed in maniera così affettuosa e cortese, da impormi l'obbligo, non fosse altro, di esprimere un ringraziamento sia al relatore, onorevole Ruini, che, nella sua relazione, ha voluto citare il mio nome con parole così altamente lusinghiere, sia ai vari oratori, dall'onorevole Calamandrei all'onorevole Rubilli. E più volte sono stato chiamato maestro.
Ora, intervenire in una discussione come maestro, in un'Assemblea politica e sovrana, non è cosa agevole, poiché può generare l'impressione sgradita di un atteggiamento presuntuoso. Tanto peggio poi in quanto non posso negare di esserlo; beninteso, però, senza la M maiuscola, perché la presunzione può riscontrarsi in un maestro qualificato da quella maniera di scrivere la prima lettera. Ed io non posso negare di essere stato per lunghi anni un maestro, ma semplicemente con lettera minuscola.
La mia prima prolusione di diritto costituzionale è, infatti, vecchia di 62 anni, ed anche se si devono dedurre i 10 passati al servizio del mio Paese (intendo quelli al Governo) e quelli sottrattimi poi dal fascismo, che rese incompatibile la mia presenza su di una cattedra universitaria di diritto pubblico, resta pur sempre, fatte queste sottrazioni, un periodo ben lungo per aver diritto al massimo della pensione!
Ora, il maestro, così o comunque detto, in un'Assemblea sovrana, è assolutamente fuori posto. Io ricordo che quando venni alla Camera, come Deputato di prima legislatura, durante tutta la durata di essa cercai di nascondere tale mia qualità, perché sapevo che non riusciva simpatica. Il professore, cioè il puro teorico, non è amato e bisogna dire, non di rado, con ragione in un'Assemblea che deve tener sempre i contatti con la viva realtà.
Indubbiamente, io vengo qui come un tecnico che si sovrappone al politico; ed ecco la ragione di inibizione, alla quale alludevo.
Voi lo sapete bene, è una proposizione diffusa, ripetuta, questa: che il torto delle libere forme parlamentari è di non servirsi dei tecnici. Quante volte l'avete intesa dire! Il tecnico! Pare che i Parlamenti, le Assemblee escludano gelosamente i tecnici e si cita come un fatto paradossale l'avvocato, Ministro della marina; il medico, Ministro dei lavori pubblici, e così via.
Dateci dei tecnici al Governo: ecco l'invocazione imperativa dell'uomo della strada. Ora, signori, io ho sempre pensato e penso che in queste affermazioni ci sia un contenuto di errore, o meglio ci sia questo equivoco, che non si vuol comprendere: che il tecnico della politica è l'uomo politico! Vi è una tecnica della politica, la quale appartiene ad una categoria di tecnici che sono gli uomini politici. Il vero uomo di Stato, nelle questioni tecniche che deve affrontare, deve sapere servirsi degli esperti o dei tecnici, ma deve poi tradurre le loro conoscenze in un'azione di Governo e politica, per cui occorre ben altra vocazione, ben altra intuizione e ben altra esperienza.
Una grande cultura specifica non è necessaria; qualche volta può essere perfino un sovraccarico, un peso. Io ho conosciuto, nella mia lunga vita parlamentare, persone, che erano mediocrissime in fatto di scienza di diritto costituzionale, ma che pure erano uomini politici di assoluto prim'ordine.
In obbedienza, dunque, a questa mia convinzione, appunto perché sono un tecnico in materia costituzionale, dovrei mettermi da parte e lasciare, invece, manifestarsi liberamente quella vocazione politica, che è nei miei colleghi, e non solo come individui, ma come collettività, come genio di moltitudini che sa avvertire i bisogni e le necessità del Paese, al di fuori di qualsiasi preconcetto di carattere tecnico. Il mio proposito sarebbe stato, dunque, di tacere; eppure, mio malgrado, non posso fare a meno d'intervenire nella discussione, perché — come ho detto — direttamente chiamato in causa. Il sottrarmi potrebbe apparire scontrosità ed allora, da buon maestro, entro senz'altro indugio in argomento; ed in rapporto al documento che esaminiamo, non solo esprimo approvazione, ma dò anzi lode agli autori, mentre, nel tempo stesso, faccio su di esso le più ampie riserve.
Non vi è nessuna contraddizione fra questi due giudizi.
In un certo senso, la Commissione, nel suo insieme, e nei singoli membri e nel Presidente, ha fatto un vero miracolo.
Pensate attraverso quali e quanti esami, studi, indagini, una legge ordinaria arriva ad essere approvata! Vi è un Governo che la propone, e quindi un Ministro che la redige, o, qualche volta, un direttore generale, o, qualche altra volta, un funzionario di fiducia, in ogni caso sommamente specializzato. Ne viene già così un documento animato da uno spirito unico: qualità questa di prim'ordine, perché le leggi e le costituzioni hanno anche esse il bisogno di uno spirito che le individualizzi, che dia loro unità di sistema e di pensiero. Quella legge vien poi presentata alla Camera; la Camera nomina una commissione, la commissione la studia; si distende una relazione, ha luogo una discussione; prima generale, poi sugli articoli. Dopo che è approvata, passa all'altra Camera, dove il ciclo si ripete: una nuova relazione del Governo, una nuova commissione della Camera, una nuova discussione, tutta una serie di crivelli e di vagli.
In questa circostanza, invece, per un documento, la cui importanza supera in misura incomparabile quella delle ordinarie leggi, si può dire che si sia cominciato dal nulla. Ecco, quindi, ripetersi il mio lamento espresso incidentalmente in altre occasioni, di questa assenza del Governo. Per me, il Governo dev'essere sempre onnipresente in un'Assemblea. Non ho nessuna ripugnanza ad ammettere, anzi avrei trovato perfettamente naturale che un Gabinetto, in cui sono rappresentate tutte le tendenze dei partiti dominanti, fosse perfettamente in grado di presentare esso un progetto, magari affidandolo a pochi tecnici ai quali impartire i principî regolatori. Invece, si è dovuto assistere a questo sforzo di 75 persone, che collaboravano. E che cosa esse trovavano innanzi a loro? Nulla.
Ora, dato il modo con cui l'impresa è stata affrontata, l'opera della Commissione ben può dirsi sia stata un miracolo. Io ricordo le parole, veramente opportune, del nostro Presidente, allorché, inaugurando il presente dibattito che dovrebbe essere storico, disse: «Questa non è una discussione generale». Egli traduceva, in altra forma, il mio pensiero attuale. Questa non è una discussione generale, bensì una discussione semplicemente preliminare. Noi ci troviamo qui sotto la pressione di un'urgenza, che è stata un errore: errore, che io posso confessare, tanto più sinceramente, in quanto nell'origine donde esso deriva c'è una quota di torto mio, perché la legge che prescrisse questi termini, fu approvata su mia relazione. Essa, in verità, creava un'Assemblea, che proveniva da un'elezione solenne e che, appena eletta, si trovava, per l'angustia di quei termini, quasi immediatamente innanzi ad un'altra campagna elettorale, che stava per aprirsi. Ed allora, certamente, assai meglio sarebbe valso — ripeto, mi confesso alla maniera slava, in pubblico —, esaurita la grossa questione concernente il Capo dello Stato, direi ancora più grossa nel suo valore storico che non nei suoi immediati riflessi costituzionali, assai meglio, dico, sarebbe valso mantenere una tradizione, la quale era tradizione di libertà, tradizione di equilibrio di poteri. Si doveva necessariamente procedere alla nuova Costituzione, ma non sotto l'assillo di questa urgenza. Per concludere su questo primo punto, io qui vorrei che ci fosse il sistema inglese delle tre letture e considerare la presente soltanto come una prima lettura; ma occorrerebbe poi ricominciare daccapo l'esame e poi ricominciare una terza volta.
Ad ogni modo, vi è una osservazione da fare a proposito della deficiente preparazione di quest'atto; ed è un'osservazione, che in un certo senso conforta e in un certo senso sconforta: cioè, le costituzioni le fanno assai più il costume, assai più la maniera della loro attuazione, anziché la fredda redazione degli articoli. Ciò conforta, perché vuol dire che la forma si può accomodare per via. Dissi pure che ciò sconforta; ma sconforta soprattutto coloro i quali sono animati dall'orgoglio — ed in quest'Aula spero e credo che ce ne siano pochi — dall'orgoglio d'illudersi che basti la volontà dell'uomo per compiere l'atto creativo della maniera di essere, dell'ordinamento dello Stato di un popolo. Orgogliosa illusione! Non è qui il luogo di dissertare — e se lo facesse, davvero il maestro meriterebbe di essere soffocato dai rumori — sulla questione circa il concorso di queste due forze, per cui mentre il gruppo umano nella sua evoluzione obbedisce indubbiamente a delle leggi naturali, tuttavia la volontà dell'uomo, in una scelta che si presenta come libera, vi concorre; ed in quale misura? Problemi questi, in cui l'estremo limite della scienza del diritto pubblico generale confina con la speculazione metafisica. Una cosa, però, è sicura, e non è metafisica, ma realtà, che ognuno può osservare: cioè, che i modi e le forze con cui le Costituzioni si attuano e si fanno valere, sono determinate dal costume e dalle situazioni storiche piuttosto che da elaborazioni teoretiche. Tanto ciò è vero, che di una Costituzione scritta si può fare anche a meno. Perché qui non dobbiamo confondere la Costituzione come sostanza dell'ordinamento giuridico di un popolo, con la Costituzione come documento, in cui quell'ordinamento è scritto. È della prima che non si può fare a meno, giacché non c'è gruppo umano che non abbia la sua organizzazione, e, quindi, la sua Costituzione; ma che essa sia scritta in un documento, non è necessario, e basta citare due grandissimi popoli, i quali non hanno avuto Costituzione scritta: Roma, nei tempi antichi; l'Inghilterra, nella età moderna. Il senso giuridico-politico di Roma ebbe l'intuito preciso della Costituzione come sostanza e come nome che deriva etimologicamente dall'espressione: rem publicam constituere. Ma una Costituzione, nel senso di un complesso organico di disposizioni concernenti tutto quanto l'ordinamento dello Stato, Roma non la ebbe in alcun tempo. Del resto, anche là dove costituzioni scritte ci sono state, l'evoluzione le ha a mano a mano integrate, determinate.
Si è citato lo Statuto albertino, il quale, indubbiamente, attuò una forma di Governo parlamentare; ma dove era il riscontro positivo nelle disposizioni di quello? Le voci che invocavano: «Torniamo allo Statuto», dirette contro l'istituto parlamentare, erano frequenti. E lo spirito di esse importava, dunque, che lo Statuto non ammettesse la forma parlamentare. Il che, per verità, non sarebbe del tutto esatto. Cercando bene in esso, la forma parlamentare vi si riconosce sotto forma di una responsabilità del Gabinetto, che non poteva intendersi se non verso il Parlamento. Non è che un rigo: «I Ministri sono responsabili» (articolo 67, mi par di ricordare); ma è quanto bastava, sia pure come un germe. Se mi si permette un paragone piuttosto bizzarro, sarebbe come in quelle figure di giuochi di società, in cui c'è da cercare — poniamo — un gatto attraverso o sotto le foglie di alberi, così nello Statuto la forma parlamentare poté restare celata, sebbene vi fosse; ma è nell'attuazione, nell'esecuzione di esso che si era venuta sempre più chiarendo ed affermando.
Sotto questo aspetto, dunque, possiamo confidare che, se ed in quanto delle deficienze si riscontrino nella Carta costituzionale che spetta a noi di redigere, l'esecuzione, col tempo, riesca a correggerle e ad integrarle.
Detto ciò in via veramente preliminare, veniamo ad un esame più particolare del progetto di Costituzione che c'è stato presentato. Esso è diviso in due parti fondamentali.
L'una riguarda la proclamazione dei principî, le definizioni, tutta quella che sarebbe la parte introduttiva dell'ordinamento; l'altra riguarda il vero e proprio ordinamento, cioè precisamente la Costruzione. Nella discussione avvenuta sinora in questa Assemblea, la tendenza degli oratori, in generale, è stata quella di riferirsi più alla prima parte che alla seconda. Io penso che per provvedere degnamente alle future sorti del Paese, sia quest'ultima che di gran lunga prevalga. Ad ogni modo, anche per ragioni di contrasto e per evitare di ripeter troppo cose già dette, io rovescerò l'ordine sistematico del progetto; e comincio dall'ordinamento.
Qual è l'ordinamento costituzionale, che lo Stato d'Italia, la Repubblica d'Italia, assumerebbe, se questa Costituzione fosse approvata? Come giustificheremmo la sua maniera di essa? In quale casella teoretica sarebbe assegnata per quelle forme di Governo, il cui elenco fu iniziato da Aristotele più di duemila anni fa?
A questa domanda risponde la stessa Commissione, la quale, fra le deliberazioni approvate, che contengono dichiarazioni di principio, di tendenza, di indirizzo, registra la seguente: «La seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del Governo presidenziale, né quello del Governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronunzia per l'adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi tuttavia con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».
Dunque, non mi pare ci sia dubbio: la forma prescelta è quella di una Repubblica parlamentare. Non si può supporre che si sia, con questo qualificativo di «parlamentare», voluto alludere al fatto che ci sono due Assemblee rappresentative che insieme fanno le leggi: qui la contrapposizione è evidente, da un lato, alla Repubblica presidenziale, che ha pure un suo parlamento in quel senso generico, e, d'altro lato, alla Repubblica direttoriale, che ha il suo Parlamento anch'essa. E poi si accenna all'eccesso di parlamentarismo, che si vuole evitare. Insomma, è la forma parlamentare in senso proprio, che la Commissione ha inteso di stabilire: di stabilire e di correggere. Correggere che cosa? I difetti del sistema, relativi alla mancanza di stabilità nell'azione del Governo ed alle degenerazioni rimproverate sempre al sistema stesso.
E, per verità, la mancanza di stabilità si riferisce immediatamente al potere esecutivo. Le degenerazioni del parlamentarismo di cui tanto si è parlato, sappiamo che sono nel senso di una invadenza, diciamo, dell'elemento parlamentare, come Assemblee e come Deputati, sempre in danno del potere esecutivo. Dunque, si tratterebbe di una forma parlamentare, dove, però, sia rafforzata l'autorità del Governo. Così mi pare che vada interpretata quella enunciazione programmatica.
Ora, signori, o il tecnicismo che mi avete attribuito fallisce in pieno, o è giusto questo che devo dirvi, cioè che l'ordinamento che sorgerebbe da questa Costituzione, così come è scritta, non sarebbe una forma parlamentare. Quindi, l'intento non sarebbe raggiunto; meno che mai, poi, sarebbe rafforzato il potere esecutivo. Non è un governo parlamentare, è un'altra cosa. Vedremo che cosa può essere; ma, certo, è un'altra cosa.
Dovrei qui dare la definizione di Governo parlamentare. Vi assicuro che ciò mi mortifica, poiché sembrerebbe davvero ch'io mi dessi l'aria di un maestro, tanto più che una tale definizione è assai delicata, perché il Governo parlamentare è così collegato con la realtà della sua attuazione, che il voler estrarre un'espressione teoretica di esso, è veramente difficile.
Ma, ad ogni modo, quale ne è il carattere essenziale? Scusate, se fo un salto indietro, e mi riporto a quanto dicevo or ora. Poco può la volontà riflessa, consapevole, studiosa su quello che è lo sviluppo spontaneo delle istituzioni in rapporto alle necessità dei gradi di civiltà, che si traversano. Ne volete una prova? Una prova tangibile, materiale? Vi sono forme di Governo, che si sono sviluppate presso un popolo determinato, e che presso altri popoli, che pure sono di razza e di civiltà affini, sono state arrestate da forze comprimenti ed opprimenti. Ebbene, quando poi la ragione di quella oppressione viene a mancare, trovate che questi popoli assumono immediatamente la forma che avrebbero raggiunta, se lo sviluppo fosse avvenuto in maniera normale: è la simmetria dell'evoluzione di uno stesso istituto per le stesse cause presso popoli diversi.
Un caso curioso, ad esempio, è quello delle leggi decemvirali romane; le quali apparivano così simili alle greche, e propriamente alle ateniesi, che, in un periodo successivo, i Romani, per spiegarsi questa identità, che si giustifica — come ho accennato — con l'evoluzione simmetrica, inventarono la leggenda della missione mandata da Roma ad Atene per studiare. Voi pensate se, in quell'epoca, potesse accadere una cosa simile: una missione di studio all'estero!
Ora, qualche cosa di simile è avvenuto per il sistema parlamentare. Esso si svolge in Inghilterra, dove trova condizioni propizie alla sua formazione. Non si sviluppa negli Stati del continente, che sono sotto la compressione delle monarchie assolute; ma, quando finalmente questi ostacoli si rimuovono, voi vedete la Francia adottare l'istituto parlamentare, e non soltanto nella forma della monarchia di luglio del 1830, ma nella forma repubblicana del 1848, ma nella forma repubblicana, del 1875. In Italia, ciò avvenne nel 1860: quel livello si raggiunse, dunque, spontaneamente: quindi, quella forma già l'abbiamo vissuta.
Io poi! Tutta la mia vita è stata in funzione di parlamentarità. Ora, dunque, qual è l'essenza del sistema parlamentare, del sistema parlamentare, che si può anche disvolere e che forse ha chiuso il suo ciclo? Badate: io non intendo qui sopravvalutarlo; è probabile che io muoia con esso; può darsi, anzi, che esso sia già finito, prima. Ma, ad ogni modo, io vi dico che il sistema, che voi volete instaurare, in Italia, non è un sistema parlamentare. Perché? Quali sono i caratteri dell'istituto parlamentare? Intanto, la famosa divisione di poteri. Lasciamo stare il potere giudiziario, per semplificare; giacché temo davvero, di annoiarvi troppo.
Voci. No! No!
Orlando Vittorio Emanuele. Lasciamo stare, dunque, il potere giudiziario, che qualcheduno vorrebbe fondere con l'esecutivo in un senso ampio. Abbiamo così i due poteri: legislativo ed esecutivo. Il sistema parlamentare li tiene distinti e li deve tener distinti come funzioni; ma non li assegna in maniera esclusiva ad organi sovrani contrastanti. Ed ognuno di questi partecipa ad ognuno di quelli. Come? Qui sta l'essenza del problema.
Io non so perché, nel progetto, l'espressione «potere legislativo» non venga mai usata; si dice appena, in un articolo, «funzione legislativa», ma di sfuggita. Il potere esecutivo ora è il Capo dello Stato, ora il Governo; sfugge l'unità della funzione.
Infatti, queste attività, queste funzioni dell'ordine legislativo e dell'ordine esecutivo, distinte nella loro portata e nel loro contenuto, sono affidate ad organi sovrani. Sovrani vuol dire liberi da ogni gerarchia tra loro, equivalentisi, interferenti; ognuno partecipa dell'altro in maniera da determinare una collaborazione e da impedire la sopraffazione. È tutto un giuoco di equilibrio.
Ora, vediamo quale riscontro abbiano questi elementi propri — diciamo — della forma parlamentare nella Costituzione, che ci è proposta. Abbiamo il Titolo I, in cui è detto che «il Parlamento si compone della Camera dei Deputati e della Camera dei Senatori». Nella forma veramente originaria dell'istituto parlamentare, quale ci viene dall'Inghilterra, il Parlamento comprende anche il Capo dello Stato: «Il Re in parlamento». Debbo riconoscere che le costituzioni repubblicane non ripetono il principio inglese; ma, io non capisco questo sforzo, comune, del resto, in genere, alle repubbliche di altri Stati, nel senso di deprimere l'esecutivo repubblicano, di indebolire, di limitare i poteri del Capo dello Stato, di diffidarne, insomma. Invece, io riconosco perfettamente naturale — e ciò si collega con quell'ossequio, che si deve alla rappresentazione esteriore della sovranità — che il Capo dello Stato sia dichiarato parte del Parlamento. Qui voi l'espellete; ma è espulso nella forma, perché non lo si può eliminare ed ignorare, come vedremo, del tutto. Difatti, rientra, ma rientra dalla finestra; rientra male. Perché? Così, dunque, la tendenza di questa Costituzione sarebbe di escludere il Capo dello Stato dall'attività legislativa, il che è contro l'essenza dell'istituto parlamentare, che — come ho detto — è: «compartecipazione». Qualche cosa, nondimeno, vi resta; ma sempre circondata da questo sospetto, ma sempre dominata da questa tendenza ad imporre limiti.
L'iniziativa delle leggi viene riconosciuta al Governo; quindi, esso viene così a far parte del potere legislativo, perché per necessità non se ne può fare a meno, malgrado tutte le prevenzioni: perché è impossibile escludere il Governo, che ha l'immediato contatto con i bisogni del Paese, dal momento solenne della formazione della legge. Esso ha, dunque, l'iniziativa; ma è una iniziativa che è svalutata per il fatto stesso di essere in comune con una quantità di altre fonti. Invece, in passato, sembrava che dovesse averne quasi il monopolio; e, difatti, l'iniziativa parlamentare, per quanto ammessa, era accompagnata da quella formalità della «presa in considerazione», che costituiva una condizione assai severa cui era subordinata l'esercizio della iniziativa da parte dei singoli Deputati. La percentuale delle leggi d'iniziativa parlamentare era assolutamente minima; l'iniziativa restava sempre nelle mani del Governo. Qui, al contrario, abbiamo l'articolo 68, che dice: «L'iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti cui sia conferita da legge costituzionale». Quindi, senza limiti di sorta. Io poi non capisco bene il punto relativo a questi enti od organi concorrenti nell'esercizio dell'iniziativa legislativa, almeno come una categoria. Sarà ignoranza mia...
Poi, al secondo comma dello stesso articolo, è detto: «il popolo ha sempre l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un disegno redatto in articoli».
Così, dunque, l'iniziativa dell'attività legislativa compete al Governo e a tutti i membri di tutt'e due le Camere; e saranno un migliaio di persone, e forse anche più. Si aggiunge l'iniziativa di tutti i cittadini, purché siano raccolte cinquantamila firme. Ora, che cosa sono cinquantamila firme? Qual è la persona che si rispetta qua dentro, che non sia sicura di trovarne cinquantamila che corrispondono a meno di due quozienti? Anzi, il quoziente del Collegio nazionale superò da solo quella cifra. E poi i partiti organizzati; basta che essi chiedano centocinquanta firme ad ogni collegio! Anche una idea bizzarra potrà arrivare ad impegnare le due Camere in una discussione legislativa: abbiamo, infatti, l'articolo 69 che dice: «Ogni disegno di legge deve essere previamente esaminato da una Commissione di ciascuna Camera ecc.». Vedete voi da qui questo povero Parlamento futuro, assillato da una quantità di iniziative, che gli piovono da tutte le parti. Il Governo, poveretto, è tollerato anch'esso, mentre ogni Deputato proporrà le sue leggi, e così ogni gruppo di cinquantamila elettori. Voi capite!
Francamente, mi pare che sia questa una indiretta svalutazione dell'iniziativa parlamentare. In questo senso, voi indebolite il Governo, in quanto gli date, sì, una competenza che è di ordine superiore; ma la diffondete poi con tanta larghezza da ridurre a ben poco il contenuto di autorità che ne sarebbe il presupposto.
E quali sono i rapporti del Governo con questo Parlamento? Perché, badate, questo delicatissimo, vitale rapporto fra organi dell'esecuzione ed organi della legislazione, questa compenetrazione reciproca, questo vivere insieme, collaborando e controllandosi, ha la sua espressione esterna, personificata, vivente. In che? Nel Gabinetto: il Gabinetto è il bilanciere di questo orologio, di questo cronometro, che è il sistema parlamentare, perché il Gabinetto, da un lato, è potere esecutivo, deriva dal Capo dello Stato, lo rappresenta, e d'altro lato, è Parlamento, ne fa parte, lo dirige, lo controlla, lo guida.
Ora, questo Gabinetto (qui è chiamato Governo), questi Ministri, quali rapporti hanno col Parlamento? Vediamo la formulazione dell'ultimo comma dell'articolo 61:
«I membri del Governo — intanto, qui non appare l'unità del Gabinetto, perché si parla di membri, considerati ad uno ad uno, — anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto e, se richiesti, obbligo di assistere alle sedute». Questa espressione fa quasi presumere che possano esservi tirati per i capelli. «Debbono essere intesi ogni volta che lo richiedono». Dov'è più quella collaborazione intima, continua, fra il Gabinetto, rappresentante dell'esecutivo, ed il legislativo? Sembra che ognuno se ne vada per la propria via e che debbano essere messi insieme quasi per effetto di un comando.
Il Capo dello Stato poi non ha la sanzione. La Repubblica francese del 1875 gli dava, almeno, il veto sospensivo: qui il Capo dello Stato non è chiamato che per promulgare le leggi approvate dalle due Camere.
Non si dica che sono scarsi i precedenti, in cui un Capo dello Stato, avente il diritto di sanzione, l'abbia negata. Ciò derivava appunto dalla intimità e continuità dei rapporti fra il Gabinetto e le Camere; ma a parte ciò, dico la verità, il fatto del Capo dello Stato, che promulga una legge ch'egli ha sanzionato, ben s'inquadra nell'alta nobiltà della sua funzione: sanziona e promulga. Ma questo Presidente di Repubblica, senz'aver preso alcuna parte all'approvazione della legge, è chiamato, quasi per sentirsi dire: «Per conto nostro, ordina», giacché la promulgazione è il momento dell'ordine. Io non intendo giudicare se ciò sia un bene o un male: affermo solo che non trovo che sia questo un Governo parlamentare. E dire che s'intenderebbe rafforzare l'esecutivo!
Consideriamo ora alquanto il Parlamento. A proposito del Parlamento, si presenta un caso veramente tipico di quel compromesso, di quel sistema di compromessi, che dicono abbia presieduto alla determinazione di molta parte della Costituzione; ma questo è il più caratteristico. Intendiamoci, non c'è niente di male, perché si vive di compromessi; ma quello cui sto per accennare, è sommamente interessante, perché è evidente che nella Commissione si verificò l'urto — quell'urto, che nella vicina Francia arrivò a contrasti così drammatici e diede luogo ad una rinnovazione dell'atto costituzionale — fra chi voleva una Camera unica e chi ne voleva due, unicameralismo e bicameralismo. Or su questa questione, veramente fondamentale, qui fra noi, si venne, come ho detto, ad un compromesso, cioè si creò una terza specie, di cui può dirsi che «non è nero ancora e il bianco muore». Io non so tra chi si svolsero le trattative; ma so che uno dei due rimase ingannato, e rimase ingannato appunto colui che sosteneva il bicameralismo, e fu messo nel sacco da chi voleva una sola Camera. Perché? Perché accanto alle due Camere, si creò un tertium genus, cioè l'Assemblea nazionale costituita dalle due Camere.
Ma prima di trattare dell'Assemblea Nazionale, occorre dire qualche parola a proposito della formazione della seconda Camera. L'obiezione più grave, che si muove dai sostenitori dell'unica Camera ai sostenitori delle due Camere, è questa: ch'essa non è che una duplicazione, un doppione, un bis in idem; perciò, dunque, l'importante problema della Costituzione rispetto alla seconda Camera è quello d'istituirla in maniera da riuscire diversa dalla prima. Quanto più sarà diversa, tanto più efficace sarà il freno contro la temuta onnipotenza dell'altra.
Ora, le maniere di farla diversa sono molteplici. Non mi ci soffermo, perché sarebbe questo uno di quegli esami particolari, che il nostro Presidente così opportunamente ci ha invitati a non fare. Non mi soffermo su questo punto; ma è fuori di ogni contestazione che diversa debba esserne la costituzione, poiché se dovesse essere la stessa che quella della prima Camera, sarebbe allora inutile farne due. Ora, qui abbiamo questa seconda Camera eletta, per due terzi, da un corpo elettorale che è presso che lo stesso di quello della prima. Non ha importanza la differenza dell'età, che gli elettori abbiano superato o no i 25 anni. E nemmeno do soverchia importanza ai requisiti per la eleggibilità, a proposito dei quali osservo che fra le categorie degli eleggibili sono compresi i Presidenti della Repubblica e subito dopo i consiglieri comunali di ogni comune anche minuscolo! (Ilarità).
Fin qui non credo che le differenze siano rilevanti. Si aggiunge poi che l'elezione è fatta per due terzi a suffragio universale e diretto e per l'altro terzo dai Consigli regionali. Questa è l'unica innovazione; ma non è una differenza tale da determinare una efficiente differenza qualitativa. Dico la verità, che, in queste condizioni, io che sono un bicameralista convinto, quasi quasi... farei anche a meno di questa seconda Camera, dato il modo col quale essa è costituita. Giacché, come dicemmo e com'è noto, il bicameralismo a questo deve servire: a stabilire, cioè, quel sistema di equilibrio delicatissimo con la prima Camera per impedire che una Camera sola si attribuisca un potere senza limiti e senza contrappesi. Ed una delle cause del fallimento della Costituzione repubblicana francese del 1848, che finì male con Napoleone III, fu appunto perché quella Costituzione non aveva istituito che una Camera sola. Abbiamo proprio l'esempio pratico dell'errore, nella forma più manifesta e patente!
Io dico sempre ai Francesi, che ci rimproverano il nostro fascismo: Voi avete avuto il secondo Impero, ed il secondo Impero fu fascismo. È stato il fascismo francese, e — curiosa coincidenza! — vi si può perfino osservare la corrispondenza del periodo di 21 anni: dal 1851 al 1871. È un caso che impressiona e deve far pensare seriamente a molti dei lati del raffronto, anche per nostro insegnamento. Ma chiudiamo la parentesi.
Dunque, abbiamo due Camere che si rassomigliano, e di più c'è l'Assemblea Nazionale. Nel compromesso che fu fatto, quelli della doppia Camera ebbero la peggio, perché si creò questa Assemblea Nazionale dalla fusione delle due Camere, alla quale si è dato questo po' po' di poteri, cui ora accennerò. Curioso: sarà un caso, anche se qualche maligno possa affermare che sia del pudore; ma sarà, certo, un caso; non c'è un articolo che enumeri tutte le attribuzioni della Assemblea Nazionale. Io ho dovuto cercarle, mettendo insieme faticosamente tutti gli articoli che vi si riferiscono. Ebbene, questa è la Camera che detiene veramente il potere, che ha le chiavi della cassaforte. Vedete infatti quali funzioni essa esercita: elegge il Capo dello Stato e lo supplisce per mezzo di un presidente, preso alternativamente da quelli delle due Camere. È stabilito che la Assemblea Nazionale si dà un proprio regolamento per tutte le funzioni che deve compiere, il che è giusto; ma, nel tempo stesso, attesta la permanenza e l'importanza dell'istituto. Quindi, avremo un ufficio di Presidenza permanente. È la vera unica Camera, dunque, che elegge, come dicevo, il Capo dello Stato e lo supplisce; è un caso in cui la scelta importa una certa subordinazione. Inoltre, decide: la mobilitazione e l'entrata in guerra, l'amnistia e l'indulto (questo argomento potevano forse lasciarlo alle Camere); poi mette in istato di accusa il Presidente della Repubblica e, forse, anche i Ministri.
Diciamo di passaggio che questo punto non è chiaro. Secondo me, credo che si voglia fare riferimento all'Assemblea Nazionale, perché nell'articolo 90 è detto: «Il Primo Ministro ed i Ministri possono essere messi in stato di accusa dalle due Camere». Ora, che cosa vuol qui significare: «le due Camere?». Con due deliberazioni distinte e separate? Questi Ministri dovrebbero perciò passare attraverso due stadi di giudizio; e non potrebbe allora verificarsi che una Camera li accusi e l'altra Camera li esalti? Quale potrà essere la soluzione giuridica fra due atti formalmente contraddittori? Evidentemente, quando si dice due Camere, si deve voler significare che esse agiscono insieme. Poi sono inviati innanzi alla Corte costituzionale. Per fortuna, io non tornerò più a fare il Ministro; ma vi dico la verità che in tal caso mi sentirei molto indifeso.
Il Ministro ha bisogno di un giudice politico, se il suo reato è ministeriale. Che cos'è questa Corte composta per metà di magistrati, che saranno uomini insospettabili, colti ed esperti giuristi, ma appunto per ciò di una pericolosa incompetenza per giudicare politicamente un reato ministeriale? Io non so quanti reati abbia commessi; e non soltanto durante la guerra, quando dovevo rilasciare passaporti falsi e giunsi allora perfino ad organizzare il furto di una cassaforte! (Ilarità); ma anche prima. Ne serbo tuttora il ricordo. Allorché ero Ministro dell'istruzione, mi piombò addosso, un giorno, il sovrintendente alle arti e ai monumenti napoletani per informarmi che l'Arco Angioino, il famoso arco, prodigio di arte e di bellezza, stava per crollare per lesioni dovute alla gloriosa vetustà.
«Ebbene, puntellatelo! Mi pare che il provvedimento sia semplice!». Mi risponde: «Ci vogliono 10.000 lire, e non le abbiamo». Chiamo il ragioniere capo, il quale mi conferma: «Non le abbiamo; il capitolo non ha disponibile quella somma di 10.000 lire». Allora, mi precipito dal Ministro del tesoro — era un personaggio illustre, degno di ogni rispetto — e gli dico: «Sta per crollare l'Arco Angioino ed ho bisogno di 10.000 lire». «Tu non pensi che alla tua gloria» fu la risposta «ed io debbo pensare alla conversione della rendita». Riuscii a trovare le 10.000 lire fuori il capitolo del bilancio. Commisi un reato? È probabile, ma vi domando: «Mi avreste condannato, se fossi stato mandato dinanzi a voi?».
Torniamo alla nostra Assemblea Nazionale. Essa mette in istato d'accusa il Presidente della Repubblica; dà un voto al nuovo Gabinetto, in una maniera formale che è più di nomina che di fiducia, come vedremo fra poco a proposito della totale esautorazione che si è fatta del Capo dello Stato. Questa esautorazione, per ora, possiamo non avvertirla, perché abbiamo un Capo qualificato da quell'antipatica aggiunta di «provvisorio», ma che di questa provvisorietà si giova in quanto sa e può continuare la tradizione di Capo di Stato in un regime veramente parlamentare, e perché personalmente uomo insigne, che ha la virtù dell'esperienza e dell'ingegno e che impone l'alta autorità e l'avvincente fascino della sua persona. Dicevamo che l'Assemblea Nazionale dà il voto al nuovo Gabinetto in maniera formale, ed in maniera formale gli esprime la sua sfiducia: cioè, parliamoci chiaro, è essa che lo nomina; è essa che lo manda via. Sono delicate distinzioni, ma sta in esse tutta l'essenza dell'istituto.
Nella genuina forma di Governo parlamentare, il Capo dello Stato, dopo la crisi che si determina, cerca di rendersi conto della situazione, d'interpretarla, di trovare la soluzione più idonea (donde la ben nota espressione di «consultazione») ed alla fine prende una decisione sotto la sua responsabilità, per quanto coperta dal nuovo Presidente del Consiglio. Comincia, allora, una nuova fase di attività politica.
Ma, col presente progetto di Costituzione, la cosa va ben altrimenti: qui è l'Assemblea che, pochi giorni dopo nominato il nuovo Ministero, lo collauda con la sua approvazione e gli conferisce autorità. Ed è parimenti l'Assemblea che decide della sfiducia nel Ministero; e, a questo riguardo, si prevede un procedimento piuttosto singolare, giacché non importa se un Ministero sia in minoranza in una delle due Camere: esso non si dimette. Se anche questo sia un modo di assicurare la stabilità del Governo, lo creda pure chi vuole: quanto a me, lo ritengo, invece, come il mezzo più sicuro di deprimerlo e mortificarlo: soprattutto, questi mezzi meccanici ripugnano al sistema parlamentare. Ricordo un grande uomo di Stato e un grande parlamentare, una bella figura democratica: Gladstone, il quale si dimise, perché alle elezioni generali la sua maggioranza, che era di 100 voti, era caduta a 50; bastò quello perché si dimettesse. Qui, al contrario, possono esservi dei Ministeri, i quali, nonostante i ripetuti voti di sfiducia di una delle due Camere, continuano a governare fino a quando non intervenga l'Assemblea Nazionale a notificare loro formalmente che è l'ora di andarsene!
E finalmente poi è essa che nomina i membri della Corte costituzionale — di questa famosa Corte parleremo in seguito —, nonché la metà dei membri del Consiglio della Magistratura. Ora, ditemi: un organo, che assomma tutti questi poteri, è o non è il vero fulcro, il centro dell'esercizio della sovranità nella struttura costituzionale?
E il Capo dello Stato? Ma, il Capo dello Stato ha veramente la figura di un fainéant, di un fannullone, in questa prossima Costituzione. L'articolo 83 proclama, è vero, che il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale, onore, funzione, certamente altissima, ma puramente simbolica e, quindi, come azione, soltanto decorativa. Ora, l'autorità bisogna sentirla prima per poi rispettarla; ma rispettarla, senza sentirla efficiente come azione e come potenza, è cosa di una estrema difficoltà, specie presso le masse popolari.
Vediamo ora rapidamente quali ne siano le funzioni. Dice l'articolo 83: «Promulga le leggi (e di ciò abbiamo già parlato); emana i decreti legislativi e i regolamenti: attribuzioni e competenza importanti, ma che appartengono ad un ordine inferiore e subordinato come fonti del diritto; nomina ai gradi indicati dalla legge i funzionari dello Stato: attribuzione di amministrazione ordinaria, senza nessuna possibilità di libertà nella scelta. È bene che sia così; ma è così. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici; ratifica i trattati internazionali, previa, quando sia richiesta, l'autorizzazione delle Camere. Or, io non comprendo bene la portata di una ratifica come prerogativa per sé stante del Capo dello Stato; ma resto nel dubbio di essere io stesso in errore, se considero che nella Commissione era compreso qualche maestro autentico di diritto internazionale. La ratifica, come a me appare, avviene in un secondo momento, di cui anche il primo appartiene d'altronde al Capo dello Stato: la ratifica, per diritto internazionale, è la conclusione del negoziato che si inizia appunto da un plenipotenziario, che riceve le credenziali dal Capo dello Stato. La necessità di un'approvazione della Camera deriva da limiti imposti dal diritto pubblico interno; ma, nei rapporti con l'estero, la rappresentanza spetta, di regola, al Capo dello Stato. Vi sono eccezioni; ma in casi per l'appunto eccezionali.
Ha il comando delle forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa; dichiara la guerra deliberata dall'Assemblea Nazionale. Questa sì che è un'attribuzione essenziale e vitale. Il fascismo creò giuridicamente la dittatura e preparò il colpo di Stato (e mi duole che il decreto porti la controfirma di Armando Diaz e di Thaon de Bevel; ma io avvertii subito la rovinosa gravità che entro lo Stato vi potessero essere forze armate che non dipendevano dal Capo di esso: questa fu la distruzione dell'ordinamento costituzionale esistente). Io non vedo oggidì alcun «brave général», alcun Boulanger, che possa aspirare alla Presidenza della Repubblica; però, badate bene, questo potere è tanto più pericoloso in quanto il futuro Capo di Stato, come potere effettivo, non ha altro che questo! La tentazione di abusarne sarebbe forte!
Presiede il Consiglio della Magistratura. Avrei qui qualche dubbio da esprimere sulla compatibilità delle due funzioni; ma questo è un punto particolare e posso non soffermarmi.
Può concedere grazia e commutare le pene, e con questo torna a partecipare al potere legislativo. Nell'articolo 85 giustamente si afferma che nessun atto del Presidente della Repubblica è valido, se non è controfirmato dal primo Ministro o dai Ministri competenti, che ne assumono la responsabilità. Dunque, qui il principio della irresponsabilità del Capo dello Stato è mantenuto, dal momento che di tutti questi atti nessuno dipende da una sua attività personale: tutto è sotto controfirma del Presidente o dei Ministri. Principio, senza dubbio, essenziale per la forma di Governo parlamentare; ma bisogna che concorra quest'altra condizione non meno essenziale: che il Gabinetto ripeta la sua autorità dal Capo dello Stato, pur dovendo, di regola, avere la fiducia del Parlamento. Ed è questa condizione che manca.
Si dichiara, dunque, che non è responsabile, tranne che per atto di alto tradimento o per violazione della Costituzione; in tale caso, può essere messo in stato di accusa dall'Assemblea Nazionale.
Non vedo che sia prevista espressamente la inviolabilità; o se si intenda compresa nella irresponsabilità. Si prevede l'ipotesi di un'azione penale, però solo in quanto dipendente da alto tradimento; ma restano i reati comuni. Senza offesa verso chi è rivestito di così alta autorità, si può supporre che un Presidente di Repubblica voglia guidare di persona l'automobile, e che metta sotto qualcuno. Questo non è un reato costituzionale: come sarà regolato? Potrebbe essere emesso contro di lui un mandato di cattura? Un giudice istruttore potrebbe disporre della persona del Capo dello Stato? Potrebbe darsi che un bello spirito — e ce ne sono — citi, in un giudizio civile, il Presidente della Repubblica, affermando di esser creditore, poniamo, di una cifra X, e gli deferisca l'interrogatorio, il giuramento. Vedete allora il Capo dello Stato andarsene al Palazzo di giustizia ed aspettare nell'anticamera d'un giudice, per essere ricevuto e sottoposto ad un esame, che può non essere rispettoso? Queste sono questioni che si pongono.
Concludendo: un Capo dello Stato, esautorato; un'Assemblea, sostanzialmente unica — come vi ho dimostrato — la quale detiene effettivamente tutti i poteri, dispone di tutte le leve. Dunque, totalitarismo di Assemblea, e cioè, quello precisamente che deve fare impressione su coloro che si preoccupano dell'Assemblea unica.
Ma le Assemblee agiscono sempre attraverso un individuo. Orbene, sapete chi io vedo quale vero detentore dell'autorità, secondo questa Costituzione? La figura del Primo Ministro. Perché è il Primo Ministro che ha tutti i poteri; quelli del Capo dello Stato; perché è lui che ne risponde; è lui che effettivamente comanda; e, come Ministro dell'interno, ha immediatamente a sua disposizione delle forze armate, quelle di polizia. Mediatamente, attraverso un comandante di Stato Maggiore, quella dell'esercito. E poiché ha la maggioranza nell'Assemblea, in quella Assemblea, in cui si concentra tutta la sovranità della legge, l'espressione suprema della volontà dello Stato, è veramente nel Primo Ministro che finisce col concentrarsi tutta l'autorità effettiva. Il resto è nominale.
Secondo me, se io dovessi qualificare questa Costituzione, direi che è una Costituzione totalitaria per l'Assemblea; ma l'autorità dell'Assemblea è trasferita necessariamente in un Capo, il quale Capo, se è capo d'un partito, che ha la maggioranza nell'Assemblea, è proprio un dittatore, potrà fare quello che vuole. Questa situazione è, però, difficile a presentarsi; mentre più probabile è che l'attuale sistema di una coalizione di partiti continui. Si governa attraverso accordi personali fra i capi dei partiti formanti la maggioranza. Il sistema attuale. Ed allora come lo si qualifica? È un Governo direttoriale; che suppone una pluralità di capi non fusi nell'unità direttiva, che deve esser propria dell'unità dello Stato. Più particolarmente insomma, la situazione attuale si può qualificare un triumvirato. Parlando francamente, senza vani eufemismi e con quella bonarietà, che è una delle belle caratteristiche nostre italiane, io vorrei prospettarvi una ipotesi, che non è inspirata da alcun senso di malignità, poiché io non voglio male a nessuno. Supponiamo, dunque, che si mettano d'accordo De Gasperi, Togliatti e Nenni; in tal caso, essi sono padroni di fare quello che vogliono. (Si ride).
Non è facile, ma può essere.
Di triumvirati la storia ne conosce tre. C'è quello del Consolato di Napoleone I; e lì non ci fu questione, perché egli, da padrone, assunse tutti i poteri e lasciò agli altri i pennacchi e le divise. Ma qui finora, fra i nostri tre, non c'è nessuno che abbia guadagnato la battaglia di Marengo (Si ride), e quindi, da questo lato, non c'è da temere.
Ma ci sono i due triumvirati romani, che si succedettero. Ora, meno una, quelle sei persone finirono male (Si ride); però, finì male anche la democrazia, e questo ci deve stare più a cuore.
Del primo triumvirato, composto di Cesare, Pompeo e Crasso, non solo Pompeo, ma anche Crasso, che era il finanziatore, morì ammazzato. (Si ride). E quindi si generò la dittatura. Il dittatore, che si chiamava Giulio Cesare, finì, come sapete, ucciso sotto la statua di Pompeo, che — secondo una tradizione — orna la sala del Consiglio presieduto dall'onorevole Ruini. (Si ride).
Quanto al secondo triumvirato, il terzo componente si chiamava Lepido e si ritirò: egli non morì di morte violenta, ma insomma non se ne parlò più. E quanto ad Antonio e ad Ottaviano, voi sapete che finirono in urto e venne fuori, finalmente, il Cesare: il Cesare dell'Impero, e fu la fine della Repubblica, la fine della democrazia romana.
Io non so fra i nostri tre chi potrebbe aspirare ad esser dittatore. Sotto l'aspetto della medaglia, non andrebbe bene Nenni, perché è un brachicefalo (Si ride); mentre gli altri due sono dolicocefali. Ma De Gasperi ha un certo prognatismo, che non giova a un profilo di medaglia. L'unico che avrebbe una linea da medaglia, sarebbe Togliatti. (Si ride).
Ad ogni modo, non voglio, dilungarmi sul pericolo di una dittatura. E vengo alla Corte costituzionale. È inutile farsi delle illusioni. L'autorità ad un istituto non viene da una definizione, da un conferimento astratto di poteri: deve avere radice nella istituzione stessa, o per la forza politica che rappresenta o per la tradizione che si è venuta formando. Or, tali condizioni mancano totalmente in questa futura Corte, che avrà la formidabile competenza di giudicare della validità delle leggi, con questo po' po' di proclamazioni di principî generali che fate e che rappresentano un pericolo anche maggiore per il fatto che la Costituzione è rigida. Quindi, allorché verranno le leggi, con tutto il loro sistema di disposizioni particolari, e si troveranno di fronte ad un principio generale proclamato dalla Costituzione, potrà sempre esserci una parte, che andrà dinanzi alla Corte costituzionale per sostenere che è stato violato questo o quel principio.
Or questa Corte sarà per metà formata da magistrati. Io ho per i magistrati il più grande rispetto, la più grande ammirazione; ho vissuto e vivo la loro vita. Or bene, la mia lunga esperienza giudiziaria me li fa apparire circondati di un'aureola. Brave, egregie persone, che si incontrano per le vie, tanto semplici, che sembrano modeste se non umili; ma quando han rivestita la toga, si elevano ad una dignità augusta, quando si tratta del loro ufficio: essere adeguato presidio per la difesa di quello che è l'onore, la famiglia, il patrimonio di noi tutti. Mancherei però di sincerità, se non aggiungessi che le stesse garanzie io non riscontro, quando i magistrati sono di fronte alla Sovranità dello Stato. E non già per un sentimento che li diminuisca. Io ho conosciuto magistrati di una perfezione assoluta nell'esercizio delle loro funzioni; ma, quando era in gioco lo Stato, avevano un istintivo movimento reverenziale che turbava il perfetto equilibrio del valutare la ragione ed il torto. E tutti i colleghi avvocati sanno come non mancano casi in cui la Cassazione abbia mutato addirittura giurisprudenza, tutte le volte che loro apparisse in gioco un grave interesse pubblico. Per ciò stesso, io non sarei eccessivamente severo nel giudicare casi di questo genere, come quando, ad esempio, un Ministro del tesoro venga a dire: Se non mutate la vostra giurisprudenza della ripetibilità di ciò che si dà ob turpem causam, tutte le banche falliscono. Così dopo l'altra guerra, allorché ci fu tutta quella speculazione sul marco; onde se le Banche avessero dovuto restituire le differenze, secondo la precedente giurisprudenza dello stesso Supremo Collegio, sarebbero fallite. Voi vedete che non è maldicenza o irriverenza il ritenere che si tratta di un ordine il quale, per la natura stessa dell'ufficio che riveste, ha una sensibilità, che in generale è per esso un pregio, in quanto lo tiene lontano dalla politica, ma non lo rende atto per questo nuovo ufficio in cui il diritto non si disgiunge dalla politica. E che dire poi delle altre categorie, che integrano l'altra metà? Io, per esempio, sarei eleggibile, ma sento che sarei un pessimo giudice.
Domando scusa, se non posso soffermarmi e vengo rapidamente all'altra parte. Quanto a questa che è la prima parte del progetto, sono stati pronunziati dei discorsi che, dal mio punto di vista, giudico definitivi, anche se per altri aspetti possano essere discutibili: e cioè, il discorso dell'onorevole Calamandrei e quello dell'onorevole Rubilli. E innanzi tutto: perché tante definizioni? A proposito di quanto dicevo in principio, un certo miglioramento si è ottenuto in confronto delle prime edizioni. In esse c'era, per esempio, la seguente scoperta: che ogni uomo è soggetto di diritto! Il che val quanto dire che un uomo non è una cosa. Però, anche qui, in questa lezione riveduta e purgata, frequenti sono le definizioni. Ebbene, omnis definitio periculosa, dicevano i Romani, che se ne intendevano. Badate poi che non è a delle definizioni che si presta obbedienza, perché quando sbagliano, sbagliano e non c'è potenza di Sovrano che possa renderle obbligatorie. Allorché Napoleone, ch'era un genio, ma ch'era pure ignorante di diritto, intese dai giuristi la definizione della donazione, chiese con maraviglia: La donazione, un contratto? Ma niente affatto; non c'è che il solo donante che si obbliga; mettete: «un atto». E quelli obbedirono: «la donazione è un atto». Eppure, malgrado la imposizione napoleonica, tutti i giuristi hanno sempre detto, da tutti è stato sempre riconosciuto che essa è un contratto. Non c'è rimedio, non si può — neanche da un legislatore — mutare la sostanza di una cosa.
Or, di definizioni, in questo progetto, ce n'è una quantità, ce ne sono tante. Non perdo tempo, e cito un esempio: «La famiglia è una società naturale». Ma che vuol dire? (Si ride). Perché naturale? Intanto, non sarà la famiglia una società sin dal principio; perché in due non si fa una società nel senso di gruppo sociale. Ma perché — ripeto — naturale? Volete dire, perché originaria? Beh!, ma in questo senso, tutto è naturale. Diceva una dama, in una graziosa commedia francese di parecchi decenni fa, ad un tale che osservava: «Il tale è un figlio naturale» — «Ma tutti i figli sono naturali!» (Ilarità). Naturale, adunque, originaria, forse perché deriva dall'unione sessuale? Che se si vuole, con questo, tornare alla definizione romana di quel diritto che, natura omnibus animalibus docuit, si commette un errore, perché fra gli animali non vi è matrimonio e non vi è famiglia: il matrimonio, la famiglia sono istituzioni squisitamente, esclusivamente umane. Non c'è nulla di animale in queste forme sociali di vita. E ad ogni modo, se volete dire che è un'istituzione originaria — come si dice nelle scuole — cioè, che ha una ragione in se stessa, allora una grande città — Roma, per esempio — che è? È, forse, artificiale? è stata essa creata dalla legge comunale e provinciale? E le stesse regioni; in certi casi, l'appartenenza a taluna di esse — quella sicilianità, per cui io mi sento più profondamente italiano — ebbene, non è una espansione di quell'attaccamento naturale alla propria terra, al proprio sangue? Ma, per ciò, appunto, mi domando: «Che cosa può valere, in un testo legislativo, una definizione di questo genere?».
E passiamo a quest'altra definizione — qui mi avvicino ad una zona infiammabile: — «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Badate, questa definizione io l'accoglierei; però, non come deputato che fa una Costituzione, bensì come un cultore di diritto. Se con essa si vuol dire che ogni ordinamento giuridico, in quanto si costituisce, è per se stesso indipendente e sovrano, io vi dico di sì; ma la portata di tale riconoscimento è ben più ampia e generale. Dovunque c'è una forma di gruppo sociale, che arriva a darsi un ordinamento, ivi c'è una indipendenza, e, in un certo senso, una sovranità. Si può arrivare sino alle associazioni a delinquere: una banda di briganti si sente indipendente, sovrana — e come! — ed ha il suo diritto penale, ed ha il suo ministro del tesoro. Da un punto di vista, diciamo, di studio, di speculazioni teoriche, io mi accosto effettivamente a questa teoria. Ma perché metterla nella Costituzione, dando luogo ad equivoci, ad interpretazioni, che potrebbero essere false ed erronee per chi non si è, direi, specializzato in questo genere di studi? Si può essere una persona coltissima, eppure ignorare o non capire una qualche cosa. Io non ho mai capito la dottrina di Einstein, per quanto l'abbia studiata. E così via.
Dalle definizioni passando ora alle dichiarazioni di principio, enunciate nel progetto, io, a questo proposito, mi differenzio alquanto dai preopinanti, e me ne differenzio in questo senso: che la proclamazione di principî, che siano di guida alla legislazione dello Stato, di principî, che in certo senso si possono concepire superiori a noi, che precedono la nostra stessa Costituzione, che questa proclamazione si faccia, io lo credo utile ed opportuno. Quando siano messi in pericolo quelli che ironicamente eran chiamati i grandi principî, quando sia avversata l'osservanza di essi come affermazione dei diritti della personalità umana, si può e si deve proclamare che la Costituzione è offesa nelle sue parti più vitali. Si tratta di qualche cosa che è superiore a noi stessi, come Assemblea Costituente. Noi andremmo al di fuori della nostra competenza se solennemente non li affermassimo.
Tuttavia, anche di queste dichiarazioni io userei con maggiore parsimonia; dico la verità, mi atterrei alla proclamazione dei diritti veramente tradizionali — quelli di libertà, di eguaglianza, di fraternità.
E sotto questo aspetto, voto toto corde tutta quella parte nuova di proclamazione di diritti, che riguarda l'uomo non come individuo, ma l'uomo come membro di questa società, la quale non è vero, secondo la dottrina di Rousseau, secondo le paradossali sue pretese, che sia stata malefica. Anzitutto, benefica o malefica ch'essa sia, è una legge della evoluzione sociale, a cui non ci si sottrae; ma non è vero che sia stata malefica: contrariamente alle fantastiche costruzioni del «Contratto Sociale» l'uomo, allo stato di natura, era un bruto e tale sarebbe rimasto. L'uomo è assurto agli alti gradi della sua personalità attraverso la convivenza sociale; ma questa convivenza sociale — bisogna riconoscerlo — ha pure creato i mali sociali: dalla malattia alla disoccupazione del lavoratore; e così via via, l'indigenza, la miseria, lo stesso vizio, lo stesso delitto, sono mali sociali.
Che fra le proclamazioni dei diritti della personalità umana si aggiunga anche quella del dovere della società di provvedere a questi mali, che essa stessa determina e causa, io lo credo opportuno e utile. È una integrazione dei principî di libertà e di eguaglianza con quello della fraternità. (Vivi, generali applausi).
E così, precipitando, vengo alle ultime cose, che mi proponevo di dire. Qui il tecnico finisce, se Dio vuole. Qui sono l'uomo politico, e desidero trattare o meglio accennare a due argomenti; il primo di essi è la inclusione dei Patti lateranensi nella Costituzione.
Badate, io tengo a dichiarare e ad affermare — anche se ciò debba essermi rimproverato, come mi è stato da taluno rimproverato — che sono stato io l'autore o, dico meglio, colui che consentì al patto centrale dell'accordo e della pacificazione. Questo ormai è storico: quella che è la base degli Accordi lateranensi era stata definitivamente conclusa con me. Il mio non fu un tentativo, come tanti ne registra la storia: effettivamente a Parigi, nel giugno 1919, tra la fine di maggio e i primi di giugno, quegli accordi poteron dirsi conclusi.
Quando terminò il mio colloquio, che si collegava con altri colloqui, con Monsignor Cerretti — che diventò poi cardinale — mandato a Parigi da Benedetto XV con credenziali autografe di Gasparri messe a mia disposizione, alla fine del colloquio, scambiammo così il pensiero conclusivo. Egli mi chiese: «Siamo dunque d'accordo?». Io dissi: «Sì, assolutamente». «Allora, possiamo pubblicarlo?». «No. No, per una ragione, che non tocca l'accordo in se stesso, il quale per me è definitivo, bensì il tempo; fo una questione di quando, non di se». Desidero insistere su questo ricordo, perché è un tratto, che è proprio di tutta la generazione cui appartengo: allora non si subordinava tutto alla gloria. In quel momento potevo passare alla storia come colui che aveva raggiunto la pace, data la pace religiosa al suo Paese, e tuttavia dissi: non ancora, giacché avvertivo che non era sicura una condizione essenziale. Ancora non sapevo come finissero le cose a Parigi — o, meglio, già una situazione preoccupante si delineava — sebbene fosse tuttora in corso il compromesso Tardieu, quel compromesso, che io avevo accettato e che Wilson aveva accettato, e per il quale mi aveva abbracciato: quel compromesso, che ci dava su per giù quello che ci diede poi il Trattato di Rapallo, qualche cosa di più o qualche cosa di meno, ma c'era compenso fra quel più e quel meno.
E con tutta franchezza esposi il pensier mio a Monsignor Cerretti: «Vediamo come finiscono le cose qui, a Parigi. Se qui va bene, se posso tornare in Italia con una pace che il Paese accetta, ed accettabile è il compromesso Tardieu (io me ne ero assicurato in anticipazione), allora sarà un momento di euforia, di contento, la guerra vinta, la pace conclusa ed allora, questo provvedimento posso farlo approvare dal Parlamento (perché avevamo il Parlamento con cui fare i conti (Si ride): i dittatori vanno per le spicce). Ma, in caso contrario, no; perché, in caso contrario, se qui la pace non è conclusa, si avrà il Paese in agitazione (fui profeta, ma non era difficile), la irrequietudine dei partiti accentuata, inasprita, determinerà uno stato di stanchezza, di esasperazione, di rivolta. E volete che, in questo stato degli animi, noi presentiamo un progetto di tale gravità con un capo di Governo di un diminuito prestigio (come prevedevo, e come poi fu e come doveva essere)? In una tale situazione, chi vorrà combattere Orlando, combatterà il vostro progetto. Aspettate: non vi chiedo che un tempo breve». A proposito del famoso memoriale Cerretti, che fu poi stampato per iniziativa del Vaticano, il curioso è che Mussolini accennò a lungo, nel discorso che fece allora alla Camera, a quel mio accordo; ma non io gli avevo dato gli elementi; io non lo avevo detto mai a nessuno. Noi Siciliani non amiamo di parlare delle cose da noi fatte o dette: c'è, se volete, un certo fondo della cosiddetta omertà. E, difatti, non mi vedete mai interloquire, non pubblico memorie, ed avrei tante cose da dire anche contro certe accuse stolte, false, che mi sono state rivolte. Dunque, allora Mussolini le cose che disse non le seppe da me, perché non lo rividi mai dal 1925; da allora non l'ho incontrato mai più. Ci teneva, però, naturalmente la Santa Sede a far valere questa azione del rappresentante dello Stato precedente, legittimo.
Dopo tutta questa piuttosto diffusa premessa, potete ben figurarvi come io non abbia alcuna riserva da opporre circa il riferimento fatto dal progetto di Costituzione ai Patti lateranensi: quindi, qui il mio dubbio non è politico, è tecnico, perché l'includere qui una rinunzia al diritto sovrano di denunziare un trattato, mi sembra che costituisca un limite della sovranità. Questo, ripeto, è il punto di vista tecnico. Ma vi è il punto di vista politico, che in me prevale.
Ho letto in un giornale che avrei voluto portare; ma l'ho perduto, perché — disgraziatamente sono disordinatissimo — se avessi conservato tutto, avrei un bell'archivio — ho letto, dicevo, una intervista dell'onorevole Togliatti. Recentissima. E l'onorevole Togliatti, parlando in via generale diceva: «Noi, come partito comunista, deprechiamo di aprire un periodo che interrompa o turbi la pace religiosa». Non so se quella intervista fosse esatta; essa, inoltre, aggiungeva: «Noi non assumeremo questa responsabilità, non lo desideriamo, non lo vogliamo».
Ora io, francamente, non posso aspirare alla possibilità audace di trovarmi più a sinistra dell'onorevole Togliatti! (Si ride). E quindi, non vorrei, anzi spero, invoco che non mi trovi di fronte alla necessità di dover sacrificare il mio tecnicismo ad una esigenza politica superiore. Mi auguro perciò che, nell'interesse delle cose, il quale deve stare molto al di sopra degli interessi dei partiti, si trovi quella formula che possa dirimere il dubbio tecnico e consentire una votazione d'accordo.
Il secondo argomento, sul quale debbo pur dire una parola da un punto di vista squisitamente politico, è quello concernente la questione delle regioni, cui alluse ieri il mio amico Nitti nel suo ammirevole discorso.
Anche qui io ho un ricordo. La esperienza ha fatto sorgere in me un dubbio: cioè, se i nostri antenati, nel momento della formazione dello Stato d'Italia, bene avessero fatto a non preferire la forma federale. Certo è che le forme federali han resistito meglio alla tormenta rivoluzionaria di questo periodo ultra-rivoluzionario. Federale è lo Stato americano, federale è la Repubblica sovietica, federale è la piccola eppur così grande Svizzera...
Una voce. La Germania.
Orlando Vittorio Emanuele. Ci venivo da me! (Si ride). La Germania! Ma la Germania fu solo formalmente uno Stato federale. Esso era nato col predominio della Prussia: un predominio, il quale cominciava con essere, per così dire, numerico e finiva con essere una sopraffazione politica. Era un falso Stato federale ed è naturale che quella forma fosse caduta; ma sì fatta caduta non fu certo a vantaggio della Germania, perché l'hitlerismo aggravò il kaiserismo.
Dunque, io non so se, in origine, non sarebbe stato preferibile mantenere il vincolo federale e costituire il nuovo Stato con questa forma. Ma il non averlo fatto allora crea ora una difficoltà, per se stessa insuperabile: come ricostruiamo queste regioni? In rapporto all'appartenenza ai pre-Stati, ci sarebbe stato allora un nesso, che oggi non c'è più. Ecco la difficoltà maggiore che oggi avverto da ciò; la conseguenza di dover usare molta cautela. Ma questo non vale per le isole, poiché le isole, per la loro configurazione geografica, per la mentalità speciale dell'isolano, trovano in natura l'origine della loro aspirazione all'autonomia.
C'è un legame tutto proprio che unisce coloro che sono nati sopra uno scoglio. Quindi, l'esperimento siciliano potrebbe costituire, direi, una maniera, un banco di prova. A proposito poi dei rapporti passati come presagio di quelli futuri, io non vorrei rispondere a quelle indicazioni di cifre fatte dal mio amico Nitti. Io, quando parlo in Sicilia, dico sempre ai miei conterranei che hanno torto o, almeno, che non sono abbastanza sereni nel valutare certe disparità di trattamento; ma quando parlo fuori della Sicilia, li difendo di fronte a quelli che dicono che abbiamo torto nei nostri lamenti.
Diciamo pure che certi conti sarebbe meglio non fare: la sola esistenza di un conto tra fratelli mortifica ed umilia. Il problema — poiché un problema c'è — va, secondo me, portato su altro campo, su un campo squisitamente politico; ma l'argomento è troppo grave e complesso per potervi qui neanche accennare. Mi ha, dunque, un po' mortificato Ciccio Nitti quando mi ha fatto sapere che noi Siciliani graviamo passivamente sul bilancio d'Italia e che, dopo tutto, la nostra esportazione all'estero, in rapporto all'esportazione interna, entro l'Italia, non è poi così importante come si afferma che sia. Or bene, a parte la considerazione che il confronto fra le due esportazioni non ha solo differenze di quantità ma di qualità, io dirò, intanto, che all'esportazione manca, quasi interamente per ora, quello che era il nostro mercato principale (la Germania, l'Europa centrale) e mancano (ma già cominciano ad arrivare) le rimesse degli emigranti, che hanno avuto una così grande parte nella storia dell'equilibrio della nostra valuta.
E quanto alla superiorità del passivo — io non sono un esperto, sono soltanto un uomo della strada, in materia finanziaria — ma proprio nel periodo cui si riferiva Nitti, trovo queste due cifre significative, nei cinque mesi dal luglio al novembre 1946: imposte dirette, 12 miliardi — la vecchia imposta classica, l'imposta propria della sovranità, su cui tanto si è scritto, come affermazione del dominio eminente dello Stato su tutte le cose — 12 soli miliardi in confronto ai 20 miliardi del monopolio (come vedete, tutto si trasforma); tassa ed imposte sugli affari, 41 miliardi, di cui 30 miliardi soltanto di tasse di entrata! Da ciò, la conseguenza: che il passivo rilevato, per cui la Sicilia graverebbe sul bilancio generale, non deriverebbe da eccesso di spese, ma da deficienza di incassi. Sottile differenza, che indica la nostra povertà di fronte alla ricchezza dell'Italia del Nord, dovuta ad un'organizzazione industriale, in cui si affermano le altissime qualità di quei nostri fratelli del Nord, cui auguro di tutto cuore le maggiori fortune: industrie, però, che, in fondo, sono state industrie protette, e la cui protezione rappresenta, per la nostra economia, un considerevole aggravio senza corrispettivo.
Ma, dimentichiamo tutto ciò, perché, del resto, dalle allusioni fatte da Nitti quest'altra prova veniva pur fuori: che la Sicilia non può fare a meno dell'Italia e l'Italia non può fare a meno della Sicilia. Ed è precisamente ciò che io dissi al popolo di Palermo nel luglio del 1944, cioè appena tornato in libertà dalla mia reclusione ecclesiastica, da quella mia volontaria reclusione; e fu popolo acclamante, pur in quel momento in cui la paurosa catastrofe maggiormente pareva scuotesse la nostra unità di Stato. Ora mi piace di aggiungere qui che, in quest'ultima lotta elettorale, io ho girato tutta la Sicilia, ho parlato a masse imponenti e veramente mi pareva di risalire ai tempi dell'antica Ellade, alla democrazia diretta, nel contatto immediato fra l'uomo politico ed il suo popolo, che in quel momento sentivo mio così come io mi sentivo viva parte di esso. Da diecine è diecine di migliaia di persone a Messina, come a Catania, come a Siracusa, come a Noto, come a Caltanissetta, come a Girgenti, come a Palermo, insomma dovunque io fui, un solo grido proruppe, ed era grido fervente di devozione e d'amore, il grido di: «Viva l'Italia!». (Vivissimi, generali applausi — Moltissime congratulazioni).
(La seduta, sospesa alle 18.10, è ripresa alle 18.30).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Nenni. Ne ha facoltà.
Nenni. Onorevoli colleghi, l'Assemblea troverà naturale che le mie prime parole siano per ringraziare l'onorevole Ruini e l'onorevole professore Calamandrei, per l'apprezzamento che essi hanno dato dei lavori delle Commissioni del Ministero per la Costituente, che hanno preparato il materiale di studio che l'Assemblea e le Commissioni hanno utilizzato nel corso dei loro lavori.
Desidero ricordare all'Assemblea i nomi dei presidenti delle tre principali Commissioni, perché penso che gli studi che essi hanno compiuto, così come hanno avuto una grande importanza per formare le opinioni nel corso di questa discussione, così avranno un'importanza eguale, e forse anche maggiore, nel prossimo avvenire, quando l'opinione pubblica, attratta dall'importanza delle nostre presenti discussioni, si interesserà ai fondamentali problemi costituzionali del Paese.
La Commissione economica è stata presieduta dal professor Giovanni De Maria, ed ha raccolto in 14 volumi i risultati dei suoi studi è delle sue relazioni. Non soltanto oggi, ma anche nell'avvenire, chiunque voglia studiare ed apprezzare la situazione economica del nostro Paese dovrà riferirsi ai lavori di questa Commissione.
La Commissione per la riorganizzazione dello Stato, presieduta dal professor Forti, ha chiuso i suoi lavori con tre volumi di relazioni delle quali il professor Calamandrei ha detto quale sia il grande valore scientifico.
La Commissione dei problemi del lavoro, presieduta dal collega professor Pesenti, ha raccolto, a sua volta, in quattro volumi i materiali di studio e di indagine da essa promosse sulla situazione ed i rapporti di lavoro.
Infine desidero di ricordare che una pubblicazione del Ministero della Costituente, il Bollettino di informazioni e di documentazione, diretto dal dottor Terenzio Marfori, ha certamente molto contribuito ad attirare l'attenzione degli studiosi, dei tecnici e degli uomini politici sui problemi costituzionali. Così pure credo sia doveroso rendere omaggio all'iniziativa di un editore privato, l'editore Sansoni, che, in accordo col Ministero della Costituente, ha promosso due collezioni: quella giuridica che si compone di 44 volumi e quella storica che si compone di 20 volumi, che hanno messo a disposizione di tutti gli studiosi un materiale prezioso di studio.
All'insieme di questo lavoro ha presieduto il giovane professore Massimo S. Giannini. Sono sicuro di essere l'interprete di tutta l'Assemblea rendendo a questi studiosi l'omaggio che essi meritano per avere contribuito col loro lavoro ed i loro studi a mettere tutta l'Assemblea in condizione di discutere i problemi costituzionali, ed a mettere il Paese in condizioni di apprezzare i risultati delle nostre deliberazioni.
Questo detto, io intraprenderò l'esame del progetto di Costituzione, ponendomi dal punto di vista di quello che vorrei chiamare lo spirito del 2 giugno. Cercherò, cioè, di determinare in quale misura il progetto di Costituzione corrisponda alla volontà, alle speranze, ai desideri di quei 12 milioni di elettori repubblicani, che nel referendum del 2 giugno hanno col loro voto instaurato il regime repubblicano.
Credo di non forzare l'interpretazione dello spirito del 2 giugno, dicendo che lo possiamo riassumere in quattro principî generali: gli elettori repubblicani il 2 giugno volevano uno Stato unitario, volevano uno Stato democratico, volevano uno Stato laico e volevano uno Stato sociale. In questo modo essi traevano le conseguenze logiche e naturali delle lotte, che si sono svolte già nel lungo periodo della dominazione fascista e poi, in una forma molto più positiva e concreta, fra il luglio del 1943, l'aprile del 1945 ed il giugno del 1946.
Una grande volontà unitaria ha animato tutti i combattenti della libertà: i reparti della marina, dell'aviazione, del corpo volontari della libertà, che, sulla base della cobelligeranza, hanno partecipato a fianco degli alleati alla guerra contro il tedesco; la resistenza all'interno fino dai suoi primi episodi, che si sono prodotti nelle fabbriche con gli scioperi della primavera del 1943, e poi le formazioni partigiane. Il significato profondo di questa lotta è stato il desiderio e la volontà di salvaguardare l'unità e l'indipendenza del Paese, sia nei confronti dello straniero, sia nei confronti di movimenti interni, che avevano profondamente preoccupato l'avanguardia democratica, e che andavano dal separatismo approvato nella Val d'Aosta a quello della Sicilia.
L'unità e l'indipendenza del Paese è stato l'obiettivo primo e in un certo senso, principale di tutto il movimento di liberazione. Che poi questo movimento, dalle giornate napoletane dell'ottobre 1943 fino alle giornate milanesi dell'aprile 1945, avesse come obiettivo la conquista di una democrazia repubblicana, ciò non ha bisogno di essere dimostrato.
L'esigenza che la democrazia in Italia fosse repubblicana non scaturiva soltanto dal fatto che dal 28 ottobre 1922 l'istituto monarchico si era costantemente compromesso con la dittatura fascista, che l'istituto monarchico portava, alla stessa stregua del fascismo, la responsabilità della guerra dichiarata il 10 giugno 1940, ma aveva origini più lontane. Il dissidio fra monarchia e democrazia non è nato il 28 ottobre 1922, ma esiste dal 1821, dal 1831, dal 1848, ed è uno dei dati permanenti della storia politica del nostro Paese.
In questo senso abbiamo sempre pensato che la democrazia non poteva nascere in Italia che come democrazia repubblicana.
Che ci fosse infine un'aspirazione laica nel sentimento e nella volontà dei dodici milioni di elettori repubblicani del 2 giugno, io lo deduco dalla convinzione profonda che, il fondamento della pace religiosa è nella laicità dello Stato e nella laicità della scuola. Di ciò abbiamo avuto la prova negli anni più difficili per la vita politica e sociale del nostro Paese, quelli che per l'appunto vanno dal 1943 al 1945, e che non hanno visto affiorare nessun dissidio di carattere religioso.
Il movimento garibaldino era stato anticlericale; il movimento partigiano è stato laico, sulla base del rispetto dei cattolici e dei miscredenti, della libertà di pensiero e della libertà di coscienza.
Infine, che la volontà degli elettori repubblicani del 2 giugno fosse di dar vita ad uno stato sociale è nella prevalenza dei lavoratori sulla massa degli elettori repubblicani.
Il primo risorgimento era stato opera di una borghesia colta, intelligente, eroica, capace d'interpretare gli interessi collettivi della nazione italiana; quello che è stato chiamato il secondo risorgimento è stato l'opera della classe lavoratrice e dell'avanguardia della classe lavoratrice che è la classe operaia, che ha dimostrato, proprio in quella occasione, di avere ereditato le antiche virtù della borghesia, elevandosi ad interprete degli interessi di tutta la nazione. (Applausi a sinistra). Ecco che cosa significa per noi porre il lavoro come elemento dirigente della vita politica e sociale di un Paese; significa onorare nel lavoro l'elemento primo e decisivo di ogni valore etico e politico.
Ora, onorevoli colleghi, io vorrei ricercare in quale misura il progetto di Costituzione, che stiamo esaminando, corrisponda ai quattro principî che credo possono essere considerati come il fondamento dello spirito del 2 giugno.
Esaminiamo la Costituzione dal punto di vista dello stato unitario. L'articolo 106 del progetto afferma che la Repubblica italiana è una e indivisibile, che essa promuove le autonomie locali ed attua un ampio decentramento amministrativo. Questo articolo è certamente in perfetta armonia con quello che ho chiamato lo spirito del 2 giugno. Non direi però la stessa cosa di quella specie di federalismo regionale, balzato fuori dalle improvvisate deliberazioni della Commissione che ha studiato l'attuazione del principio del decentramento amministrativo. Altri, prima di me, hanno ravvisato in questo federalismo regionale un elemento pericoloso per l'unità dello Stato, per l'unità della nazione. Certo, si può discutere, come ha fatto l'onorevole Orlando alcuni istanti fa, quale sia stato il valore del federalismo nel Risorgimento. In questo caso bisogna però tener conto che, nel Risorgimento, ci sono state due concezioni, federalista e regionalista, che non sono mai andate d'accordo tra di loro. C'è stata una concezione federalista e regionalista moderata, la quale era in fondo una forma di resistenza all'unità nazionale, diciamo la verità, di sabotaggio dell'unità nazionale; c'è stato il federalismo di Cattaneo e di Ferrari che, giudicato dal punto di vista dei principî, rappresenta non già un elemento regressivo, ma un elemento, progressivo nei confronti dell'unitarismo di Mazzini. Però, storicamente, aveva ragione Mazzini e l'Italia non poteva sorgere che come è sorta, cioè come stato unitario. Lo dimostrano le immense difficoltà che l'Italia ha incontrato dopo il 1860 ed anche dopo il 1870 per attuare lo stato unitario, giunto a maturazione soltanto attraverso le prove dure che la nostra generazione ha attraversato dal 1915 al 1918. Ciò dimostra che, quando si discute un problema di questa natura, non ci si può porre dal punto di vista di un principio astratto, ma bisogna considerare i principî in rapporto alla realtà politica e sociale. Per cui, citare gli Stati Uniti nei confronti dell'Italia, è come se citassimo la luna nei confronti della terra; delle entità che fra di loro non hanno una comune misura di confronto.
Per me è evidente che, come l'Italia non poteva formarsi se non attraverso lo Stato uno e indivisibile, così oggi sarebbe un errore politico e un errore economico voler attuare le autonomie locali e amministrative sotto forma di federalismo regionale. Sarebbe un errore politico, perché l'Italia è un Paese a formazione sociale, troppo diversa, perché una differenziazione legislativa nel campo regionale non metta la Regione in concorrenza con lo Stato. Non ci sarebbe nessuna difficoltà a ordinare l'Italia sulla base del federalismo regionale, se le condizioni della Calabria fossero identiche a quelle della Lombardia (Commenti al centro), se la Campania si trovasse allo stesso piano di sviluppo economico, e quindi di sviluppo politico, della Liguria o del Piemonte. Ma, in una Nazione dove all'antagonismo sociale fra poveri e ricchi si unisce il dislivello fra le regioni settentrionali e quelle meridionali, un simile esperimento non può essere tentato prima di aver operato una vasta riforma sociale. Si rischia in caso contrario di mettere in pericolo l'unità della Nazione. (Vivi applausi).
Il federalismo regionale è anche un errore economico. Non è serio dire alle popolazioni del Mezzogiorno che attraverso un sistema regionalista esse potranno meglio salvaguardare i loro interessi economici di quanto non lo abbiano fatto nel passato con lo Stato unitario. Le regioni meridionali hanno il diritto di contare sull'assistenza di quelle settentrionali, ciò, che è possibile soltanto sulla base di una legislazione unitaria.
Signori, è mia profonda convinzione che, se la Sicilia, la Sardegna o altre regioni meridionali sono economicamente in ritardo, non è per un eccesso di centralismo, ma perché il loro legame col restante del Paese non è abbastanza intenso. La soluzione del problema meridionale non la si trova nella separazione ma in una più intima fusione del Nord col Sud, in una politica di solidarietà delle regioni più ricche verso le più povere.
Per queste ragioni non posso che associarmi agli oratori che hanno messo in guardia l'Assemblea contro i rischi delle improvvisazioni. Il problema di oggi è quello delle autonomie locali e delle autonomie amministrative regionali. Stiamo al tema e aspettiamo di avere creato le condizioni economiche e sociali che ci consentiranno di fare un ulteriore passo innanzi. Quando il Governo discusse lo Statuto siciliano, io dissi, con una frase che fu commentata in vario modo, che non mi piacevano le diete italiane. Mi pare infatti che da una esperienza di diete il Paese non trarrebbe alcun elemento di progresso.
Ed eccomi, onorevoli colleghi, al secondo punto del mio discorso. In che misura il progetto di Costituzione si accorda con l'esigenza di dare al Paese uno Stato democratico?
Non c'è dubbio che il progetto è conforme, nelle sue linee generali, allo spirito democratico del 2 giugno.
L'articolo 1, affermando che la sovranità emana dal popolo, rende alla democrazia un riconoscimento definitivo.
L'articolo 4, statuendo che l'Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli, e consente le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli, si ispira al principio democratico della soluzione di ogni conflitto fra i popoli senza il ricorso alle armi e alla guerra.
Gli articoli 6 e 7, che contemplano le garanzie dei diritti, essenziali agli individui ed alle formazioni sociali, sono della più schietta e positiva origine democratica.
L'articolo 50, laddove si dice: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza alla oppressione è diritto e dovere del cittadino» è di natura schiettamente democratica, in quanto tende a dare all'insieme del popolo la coscienza che l'obbedienza alle autorità costituite ha il suo limite nel rispetto da parte delle stesse autorità della legalità, per cui quando un Governo si pone fuori della legge, l'insurrezione è un diritto e un dovere del popolo.
Di ispirazione democratica è poi il riconoscimento dei diritti del lavoro. Con ciò la nostra Costituzione fa un deciso passo avanti nei confronti delle Costituzioni ispirate ai principî dell'800, che consideravano sacra e inviolabile la libertà dei cittadini, ma negavano agli operai, come tali, il diritto di associarsi nella difesa dei loro interessi economici.
Non credo, però, che si possa considerare come conseguentemente democratico l'ordinamento, della Repubblica, quale è previsto nel progetto in discussione. Si potrebbe dire che il vizio segreto di questa Costituzione è il medesimo che si ritrova ad ogni tappa della nostra storia, dal Risorgimento in poi: sfiducia nel popolo, paura del popolo e, qualche volta, terrore del popolo; necessità di frapporre fra l'espressione della volontà popolare e l'esecuzione della stessa volontà popolare quanto più ostacoli, quanto più diaframmi possibili. Si è detto molto autorevolmente in questa Assemblea che funzione di una Costituzione è difendere i diritti della minoranza.
Riconosco che una Costituzione, la quale non garantisse i diritti della minoranza, sarebbe una cattiva Costituzione; ma aggiungo che sarebbe una pessima Costituzione quella che non consentisse alla maggioranza di attuare il programma in base al quale essa è stata mandata al Parlamento, e che i diritti della minoranza non possono andare fino al punto da rendere impossibile l'esecuzione del programma della maggioranza.
Ora, signori, l'ordinamento della Repubblica, così come è previsto in questo progetto, sotto molti aspetti rappresenta una minaccia per la funzione legislativa e sembra abbia obbedito alla preoccupazione di bloccare qualsiasi legge.
Si è introdotto il concetto delle due Camere, correggendolo poi con l'Assemblea Nazionale, della quale l'onorevole Orlando ha fatto la critica, benché, a mio avviso, essa sia il correttivo che rende accettabile per noi le due Camere, in quanto comporta il ritorno all'unicameralismo, quando si tratti di decisioni di somma importanza.
In questo campo sarei tentato di essere dell'opinione dell'onorevole Rubilli: se il Senato vi deve essere, sia il Senato. Nella nostra storia, nella storia dei parlamenti del secolo scorso, il Senato ha un suo significato inequivocabile. O è, come da noi, il Senato di nomina regia, destinato per definizione a frenare, sabotare, rendere impossibile l'attività legislativa di una Camera che si collochi a sinistra; oppure è, come in Francia, la Camera del censo, che interviene per limitare l'iniziativa della Camera del suffragio universale. Nell'un caso e nell'altro siamo di fronte ad una precauzione dei ceti o delle classi conservatrici nei confronti dei ceti e delle classi progressive. Così come è delineata nel progetto in discussione, la seconda Camera non è il Senato di nomina regia o di nomina governativa, non è la Camera del censo. È, quindi, un puro e semplice intralcio al lavoro legislativo, un espediente procedurale per imbrogliare la prima Camera. Se in questo punto il progetto dovesse essere approvato quale è, dato il correttivo dell'Assemblea nazionale, noi non solleveremo obiezioni fondamentali, tali da indurci a respingere l'insieme della Costituzione. Sembra però evidente che si è compiuto un errore tecnico, dando vita ad un organismo fittizio ed inutile. Meglio sarebbe stato considerare più attentamente il problema del Consiglio economico, anzi dei Consigli economici, ai quali il progetto accenna senza definirne la funzione, chiamandoli a collaborare con la Camera alla formulazione delle leggi di interesse economico e sociale, che sono poi tutte le leggi.
Evidente è anche, onorevoli colleghi, che ci si propone un vero e proprio abuso del diritto di referendum. Già l'onorevole Orlando e l'onorevole Nitti hanno sottolineato l'assurdità di poter mettere in mora una legge, in base alla richiesta di referendum formulata da appena 50.000 elettori ed elettrici.
Né spenderò altre parole dopo quelle che sono state dette, per mettere alla berlina la Corte costituzionale. Sulla costituzionalità delle leggi non può deliberare che l'Assemblea nazionale, il Parlamento, non potendo accettarsi altro controllo che quello del popolo. La progettata Corte potrà essere formata degli uomini i più illustri, i più ferrati in materia di diritto costituzionale, ma per non essere essi gli eletti del popolo, non hanno diritto di giudicare gli atti del Parlamento.
Ritengo inoltre che si sia andati oltre nell'attribuzione dei diritti accordati al Presidente della Repubblica, nel che mi stacco dal pensiero espresso poco fa dall'onorevole Orlando. Io credo che nella vita moderna di uno Stato Repubblicano la figura del Presidente potrebbe essere eliminata senza nessun inconveniente. In ogni caso c'è fra i poteri riconosciuti al Presidente quello dello scioglimento delle Camere, ed esso può determinare tali abusi e tali conflitti, come in Francia nei primi venticinque anni di esistenza della Terza Repubblica, per cui sarà prudente esaminare molto attentamente la questione e vedere se il diritto di scioglimento delle Camere non debba essere circondato da garanzie maggiori di quelle contemplate nel progetto.
Affronto ora, signori, il terzo argomento del mio discorso: in che misura il progetto di Costituzione si accorda con lo spirito laico che ha animato la lotta di liberazione del Paese, la lotta contro il fascismo prima, la lotta contro i tedeschi poi. Qui è giocoforza riconoscere che l'articolo 5 è in aperta violazione con questo spirito laico.
Signori, io vorrei premettere a questa parte del mio discorso una dichiarazione di carattere preliminare. Vorrei dire ai colleghi della Democrazia cristiana che noi siamo interessati certamente quanto loro, e probabilmente più di loro, a che la pace religiosa non sia turbata. Quando si desidera, come noi desideriamo, mettere all'ordine del giorno della Nazione la riforma agraria e la riforma industriale, non si vanno a cercare farfalle sotto l'Arco di Tito, non si vanno a resuscitare i vecchi fantasmi dell'anticlericalismo. Forse potrebbero essere interessati a un tale diversivo dei borghesi di formazione voltairiana, i quali volessero porre una pietra sepolcrale sulle più urgenti questioni sociali.
Noi no. Noi non abbiamo a ciò nessun interesse, né soggettivo, né obiettivo, perché, ripeto, quando si vuole affrontare e risolvere una questione sociale di importanza capitale come la riforma agraria, non si va nelle campagne ad aizzare i contadini contro i preti, né si dà ai preti l'occasione di difendere gli interessi degli agrari, aizzando i contadini contro gli anticlericali. A questo proposito mi permetto di ricordare ciò che dissi al Congresso socialista di Firenze: «Nessuno di noi pensa di rimettere in discussione il Trattato del Laterano, né di promuovere la denuncia unilaterale del Concordato».
Signori, la più piccola delle riforme agrarie mi interessa, e ci interessa, più della revisione del Concordato, anche se questa ci apparisse utile.
Non vogliamo, quindi, promuovere una lotta di carattere religioso e di mettere in pericolo quella che l'onorevole Tupini ha chiamato la pace religiosa.
Sennonché, signori, questa iniziativa l'avete presa voi, la state prendendo voi. È la Democrazia cristiana che chiede di introdurre nella Costituzione del Paese, con una specie di sotterfugio, i Patti Lateranensi. Siete voi, quindi, che ci obbligate a discutere la natura di questi patti, ciò che hanno significato nella storia del nostro Paese, la portata che avrebbe la loro inserzione nella Costituzione. Ora, come dico che non abbiamo l'intenzione di sollevare la questione dei Patti Lateranensi, così aggiungo che non possiamo accettare che, in aperta violazione con lo spirito laico, i Patti Lateranensi siano inseriti nella Costituzione. Se sarà necessario, discuteremo a fondo la questione, quando verrà in discussione l'articolo 5.
Penso che da parte democristiana, più ancora che da parte liberale, si commetterebbe un errore di valutazione storica e politica se si venisse meno ai due principî fondamentali del Risorgimento che hanno tanto concorso alla pace religiosa. Signori, la pace religiosa non si è fatta con gli accordi del Laterano; la pace religiosa esisteva in Italia da molto tempo; la pace religiosa si può dire che esisteva fino dal 1905, quando la Chiesa rinunciò al «non expedit», e quando, via via, si formarono i partiti cattolici che si posero sul piano del riconoscimento dello Stato. La pace religiosa è stata opera della vecchia borghesia liberale, da Cavour a Giolitti, e poggia su due principî ancora interamente validi: il principio di libertà applicato ai rapporti fra la Chiesa e lo Stato, ed invocato da Cavour nel suo discorso del 27 marzo 1861, ed il principio dell'agnosticismo del Governo costituzionale in tutti i problemi dello spirito e, specialmente, nel problema della fede.
Queste sono state le premesse della pace religiosa nel nostro Paese. Capisco che, in regime di dittatura fascista, Mussolini da una parte e la Chiesa dall'altra abbiano sentito il bisogno del Trattato e del Concordato. Ne hanno avuto bisogno proprio per le condizioni create dalla dittatura mussoliniana. Mussolini aveva bisogno del Trattato del Laterano e del Concordato per fare della Chiesa il suo «instrumentum regni», ne aveva bisogno perché, non essendo né cattolico né cristiano, intendeva però servirsi della Chiesa ai fini della sua dittatura, e sbandierare la Conciliazione come la prova del suo accordo col Vaticano.
Anche la Chiesa, in regime di dittatura, può aver sentito il bisogno di cautelarsi col Trattato del Laterano e col Concordato. Si viveva un'epoca in cui si poteva temere che Mussolini o un qualsiasi Farinacci si alzassero una mattina di cattiva voglia meditando non si sa quali attentati contro il Vaticano e contro la Chiesa. Si viveva un'epoca nella quale i cattolici avendo perduto, come la collettività dei cittadini, i diritti politici, non avevano nessun mezzo per difendere la loro Chiesa e il prestigio della loro religione. Che, in una situazione di questo genere, la Chiesa abbia pensato di tutelarsi col Concordato, è comprensibile. Ma oggi, credete davvero, onorevoli colleghi, che per assicurare il prestigio della religione e del Vaticano sia necessario che il Sommo Pontefice sia sovrano sui 44 ettari di territorio che costituiscono lo Stato del Vaticano? O non si è avuta invece durante la guerra la dimostrazione di come avesse ragione Cavour, allorché, nel discorso del 1861, metteva in guardia il Vaticano contro la tentazione del potere temporale che serve a qualche cosa se poggia su una forza militare e non serve a niente se il sovrano deve chiedere l'aiuto straniero per poter resistere ad un attentato organizzato contro la sua sovranità? E, onorevoli colleghi di parte democratico-cristiana, credete davvero che la tutela dei valori cristiani, che costituiscono la ragione stessa della vostra vita, voi l'ottenete attraverso il Concordato? In verità è attraverso la vostra azione di Partito politico, è con le vostre associazioni culturali e religiose che, nell'ambito della Costituzione democratica, voi avete la possibilità di difendere la dignità della Chiesa e della religione.
Una voce al centro. E la scuola? (Commenti).
Nenni. Parlerò anche della scuola. Prima vorrei evocare quella che io ritengo una parola definitiva sulla questione della pacificazione e della conciliazione, la parola che, da uno di questi banchi, fu detta da Giovanni Bovio nella seduta del 10 giugno 1887. Eccola: «Che significherebbe dunque una legge di conciliazione? Se a far sapere ai cattolici che il Papa può liberamente pontificare nella sfera della religione dominante, non occorre legge; se a far sapere ai liberali che non darete mai un palmo di territorio nazionale, e questi vi risponderanno: «e neppure una linea dell'anima nazionale». Se infine a riaffermare e a riscaldare il sentimento cattolico, nessuna legge crea, riafferma e risuscita la religione, anzi tanto le religioni perdono di sacro, quanto acquistano di ufficiale e di politico».
Se fossi un cattolico, farei mia la tesi di Giovanni Bovio. (Commenti).
Signori, qualcuno mi ha chiesto: «E la scuola?» Da una concezione laica dello Stato deriva necessariamente una concezione laica della scuola. Anche nella scuola il laicismo è la condizione della pace religiosa, politica, sociale. Direi, anzi, che sovrattutto nella scuola il laicismo garantisce la Nazione contro ogni lotta di carattere religioso.
Noi non crediamo che la questione della scuola si debba risolvere nella Costituzione. La risolveremo, quando dovremo dare uno statuto definitivo alla scuola italiana. E saremo saggi se allora ci ricorderemo che le scuole confessionali — parlo al plurale ma in Italia si potrebbe usare il singolare — dividono, mentre la scuola laica unisce, in quanto rispetta tutte le idee e tutte le credenze.
Alla scuola noi non domandiamo di essere socialista o marxista. Il socialismo ed il marxismo lo insegniamo coi mezzi molto modesti che sono a nostra disposizione. Il cattolicesimo insegnatelo voi, colleghi cattolici, coi mezzi immensi che sono a vostra disposizione. E lasciate la scuola dello Stato al di sopra d'ogni confessione e d'ogni partito. (Applausi a sinistra).
Io ho la coscienza, onorevoli colleghi, di tenere in questo momento un linguaggio utile a tutto il Paese; lascio ai cattolici di giudicare se utile anche a loro. Ad ogni modo, non si potrà far ricadere in nessuna guisa su di noi la responsabilità d'un dibattito o di una lotta, che si aprissero su questa questione. Per la Democrazia cristiana non è necessario che i Trattati del Laterano trovino la loro consacrazione nella Costituzione. Rinunziando a questo proposito, il centro compirà un atto di lealtà e di pacificazione verso l'insieme del popolo.
Ed eccomi, signori, al quarto ed ultimo punto: in che misura questo progetto di Costituzione è in armonia con l'aspirazione verso lo Stato sociale, verso lo Stato dei lavoratori.
Dice il progetto che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro. Avremmo preferito si dicesse che la Repubblica italiana è una Repubblica democratica di lavoratori. Con ciò la nuova Costituzione sarebbe in completa e perfetta armonia non soltanto con la realtà sociale del nostro Paese, ma con la realtà sociale di tutta l'Europa e di tutto il mondo. Poiché, signori, ormai all'astratto «cittadino» si sostituisce da per tutto il concreto «lavoratore», coi suoi diritti, la sua funzione, la sua missione di civiltà.
Il concetto della solidarietà diventa concreto soltanto nella misura in cui si crea una società di lavoratori, una società che elimini nei rapporti sociali il vizio fondamentale della società borghese, un mostruoso egoismo di classe complicato da una mostruosa ipocrisia.
Sotto questo aspetto la formula della nostra Costituzione è in arretrato, non soltanto sulla realtà sociale italiana, ma sulla realtà sociale europea e mondiale. Nella definizione che essa dà della proprietà ha il merito di superare il vecchio principio della dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, che considerava la proprietà inviolabile e sacra. È stato, credo, l'onorevole Tupini che ha ripetuto in quest'Aula essere funzione di un Partito progressivo assicurare l'accesso di tutti alla proprietà. Fu questa l'idea generosa dei borghesi che fecero la rivoluzione del 1789, ma è un'idea che nel corso degli ultimi 150 anni si è avverata irrealizzabile. Ragione per cui non si tratta tanto di assicurare il libero accesso di tutti alla proprietà, quanto di sottoporre la proprietà alla legge comune attraverso il collettivismo.
Signori, se confrontiamo i termini del progetto in discussione coi testi delle Costituzioni di altri Paesi, siamo costretti a constatare che siamo in arretrato.
Siamo in arretrato sulla vecchia Costituzione di Weimar, della quale il relatore nota giustamente che aveva tendenze socializzanti; lo siamo sulla Costituzione repubblicana della Spagna del 1931. E naturalmente siamo in enorme ritardo in confronto della Costituzione sovietica (Commenti), dove l'idea del lavoro che assume la direzione della società è diventata un elemento positivo e concreto. Siamo in ritardo anche su costituzioni contemporanee alla nostra. Siamo in ritardo, per esempio, sulla Costituzione jugoslava (Commenti) che in questa materia ha affermato principî i quali in un avvenire più o meno lontano saranno adottati dalla società italiana. (Applausi a sinistra — Commenti).
Siamo in ritardo anche sulla Costituzione francese, che è ancora una costituzione di tipo borghese e che, nell'articolo che contempla il diritto di proprietà, si è servita di una formulazione che mi augurerei di vedere introdotta nella Costituzione italiana. «Ogni bene, dice la Costituzione francese, ogni impresa il cui sfruttamento ha o acquista i caratteri di un servizio pubblico nazionale o di un monopolio di fatto deve — deve, dice la Costituzione francese — divenire proprietà della collettività». Noi dobbiamo servirci di una formula analoga, perché se ancora non è venuta l'ora di porre il problema generale della proprietà socializzata, certo è venuta l'ora di nazionalizzare e socializzare la proprietà, ogni qualvolta essa assume i caratteri di un servizio pubblico o di un monopolio di fatto.
Se no, signori, voi vi illuderete di tenere nelle vostre mani il potere legislativo; si illuderà il Governo di esercitare il potere esecutivo al Viminale; ma in realtà potere legislativo e potere esecutivo saranno nelle mani di una dozzina di consigli d'amministrazione, più forti dell'Assemblea Costituente e più forti del Governo.
Noi socialisti, pensiamo che lo sforzo di creazione di uno Stato democratico risulterebbe falsato alla base se, alle programmazioni, ai diritti teorici non si associasse la concreta volontà di procedere alla trasformazione degli attuali rapporti di classe e di proprietà. In ciò risiede la garanzia effettiva della democrazia, più che nel testo della Costituzione, più che nelle leggi. E qui mi urto all'obiezione che è, io credo, la più grave che sia stata fatta alla Costituzione: l'obiezione del giornalaio fiorentino di cui ci ha parlato il nostro amico onorevole Calamandrei. Voi ricordate, il giornalaio che annunciava a gran voce una grande vittoria militare e, sottovoce, soggiungeva: «Ma non è vero niente». Veniva il dubbio all'onorevole Calamandrei che, quando i contadini e gli operai avranno sotto gli occhi il testo della legge e leggeranno gli articoli concernenti i diritti del lavoro e del lavoratore, non commentino sottovoce o a voce alta: «Ma non è vero niente».
Ebbene, caro professor Calamandrei, noi siamo meno pessimisti di lei, perché mentre da un lato sappiamo che il nostro Paese non è ancora arrivato a quel grado di sviluppo politico e sociale nel quale una Costituzione non è più un programma per l'avvenire, ma la codificazione di uno stato di fatto, mentre sappiamo questo, sappiamo però anche che ci sono forze in Italia, ci sono partiti i quali hanno la funzione storica, politica e sociale di far sì che quello che è scritto nella Costituzione divenga realtà. Con ciò ho implicitamente risposto all'amico Lussu, il quale, pur avendo una dimestichezza per lo meno eguale alla mia coi testi classici del socialismo, mi ha chiesto cosa significa la formula «dal Governo al potere», uscita dalla deliberazione di un recente congresso. Vuol dire quello che sta scritto in tutti i testi socialisti, dalla prima Carta programmatica del congresso di Genova del 1892 fino all'ultima del nostro congresso di Roma; vuol dire che la classe lavoratrice, in quanto tale, vuole conquistare il potere, per fare in modo che i principî di giustizia sociale, che sono ancora parecchio astratti, divengano assolutamente concreti. «Dal Governo al potere» vuol dire convogliare la maggioranza delle elettrici e degli elettori in una battaglia che mandi al Parlamento, nel prossimo autunno una maggioranza decisa a far sì che ognuna delle affermazioni teoriche contenute nella nuova Costituzione divenga positiva e concreta. (Interruzioni — Commenti).
Crispo. E se non bastassero i mezzi legali?
Nenni. Signor interruttore, dal 1848 fino ad oggi i mezzi non legali sono stati adoperati contro di noi. (Applausi a sinistra). Noi non abbiamo lasciato, e non lasceremo pesare nessun dubbio sul carattere legale della rivendicazione del potere, non per noi persone singole, neppure per i nostri singoli Partiti, ma per le classi lavoratrici.
Signori, ho esposto, spero con sufficiente chiarezza, le ragioni per cui questa parte della Costituzione, per noi fondamentale, ci dà per certi aspetti soddisfazione e ci causa per altri aspetti motivi di apprensione. In fondo, come per tante altre cose, dipenderà da chi avrà il mestolo in mano, dipenderà dalla volontà che il Paese esprimerà attraverso le elezioni.
La nostra funzione in tutto questo è molto meno oscura, drammatica, tenebrosa di quello che non appaia a chi non ha nessuna nozione del marxismo; questa funzione la definì Carlo Marx quando, all'incirca or sono settant'anni, scrisse che «la classe operaia non ha nessun ideale da realizzare, ma ha soltanto da liberare le forze della nuova società che maturano nella vecchia società borghese in dissoluzione». Così il mondo ha camminato; dal feudalesimo è nato il capitalismo moderno, (e la borghesia dovette servirsi del forcipe perché il neonato venisse alla luce); dalla società capitalista nascerà la società socialista (e speriamo che non ci sia bisogno di nessun forcipe).
Sono così arrivato alla fine dell'esame, in parte critico, del progetto di Carta costituzionale. Noi socialisti faremo tutto il possibile per migliorare il testo che ci è sottoposto, ma dichiarando che in esso ravvisiamo un elemento di progresso che ci consente di passare ad una fase più avanzata della lotta politica e sociale.
Siamo logicamente contrari al secondo referendum, di cui ha parlato il collega onorevole Lucifero, e che è una cosa inutile, e un perditempo destinato a prolungare il dibattito sulla indistruttibile realtà della Repubblica (Applausi a sinistra). Noi abbiamo fretta, onorevoli colleghi...
Una voce a destra. L'onorevole Togliatti ha detto che non ha premura.
Nenni. ... abbiamo fretta che la Costituzione sia votata, abbiamo fretta che si indicano le nuove elezioni, abbiamo fretta che si dia al Paese il modo di esprimere una maggioranza capace di rendere concreti e positivi i principî della nuova Costituzione.
Una voce a destra. Lasciate al popolo questa possibilità.
Nenni. Il popolo ha già parlato. Se mai, onorevole Presidente della Costituente, vedrà lei se non sia opportuno, quando la Costituzione sia votata e ove sia, come spero, degna del 2 giugno e del movimento di liberazione, vedrà lei, signor Presidente, se non convenga fare quello che la Convenzione fece a Parigi il 10 agosto 1793, allorché chiamò tutto il popolo a celebrare la nuova Costituzione. Parigi vide allora sfilare i suoi borghesi, i suoi operai, i suoi sanculotti nelle vie della Capitale, e li vide prestare giuramento alla nuova Costituzione con un atto che non fu una caricatura di sovranità, giacché quegli stessi uomini, qualche mese dopo irrompevano attraverso l'Europa, in guerra contro i nemici della libertà e i sostenitori della tirannia, sottoscrivendo col loro sangue il patto giurato con la libertà. Allora il Presidente della Convenzione francese poté dire che il 10 agosto 1793 non rassomigliava a nessun altro giorno, era il più bel giorno da quando il sole splendeva nella immensità dello spazio.
C'era forse un po' di esagerazione, giacché la Francia ha avuto bisogno, dopo di allora, di altre 15 Costituzioni nel corso di 150 anni.
Ma voi della destra che sorridete, già vi siete dimenticati che quello fu il giorno della massima vostra gloria, il giorno in cui la borghesia fu l'interprete delle aspirazioni di tutta l'umanità.
Noi aspiriamo a fare del giorno in cui la nuova Costituzione sarà promulgata, uno dei più bei giorni della storia d'Italia, il giorno in cui le classi lavoratrici prendano definitivamente nelle loro mani la fiaccola della libertà abbandonata dalla borghesia assurgendo ad antesignane e artefici di una nuova civiltà! (Vivissimi applausi — Molte congratulazioni).
A cura di Fabrizio Calzaretti