[L'8 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Prima di iniziare la discussione, l'onorevole Basso parla sul processo verbale.]
Basso. Chiedo di parlare sul processo verbale.
Presidente Terracini. Ne ha facoltà.
Basso. Nel suo vivace discorso di ieri l'onorevole Lussu, riferendosi al discorso che io avevo tenuto qui il giorno precedente, ha dichiarato di approvare sostanzialmente le cose da me dette, ma che, sia lui che altri colleghi, avrebbero desiderato che in questa occasione io avessi chiarito il mio punto di vista in ordine al problema della legalità, facendo riferimento ad un discorso che avrei tenuto in un'assemblea di Partito.
Immagino che l'onorevole Lussu si sia riferito a frasi attribuitemi in un discorso tenuto a Bologna tre settimane fa e che servì come pretesto ad una speculazione della stampa reazionaria, a cominciare dall'organo degli agrari di Bologna.
Ho risposto a questa campagna di stampa con un articolo sull'Avanti, è credevo che la polemica giornalista fosse finita.
Poiché l'onorevole Lussu ha toccato questo argomento, tengo a dichiarare che le cose da me dette a Bologna non hanno nulla di comune con quello che la stampa reazionaria mi ha attribuito.
In materia di democrazia, dissi le stesse cose che ripetei qui l'altro ieri, cioè che la democrazia è qualcosa di sostanziale e non si esaurisce nel semplice e formale rispetto della legge.
Questo è il passo che ha dato luogo alla campagna reazionaria.
Per spiegare meglio, esemplificando, questo concetto, ricordai in quel discorso che nella precedente direzione del nostro Partito, prima del nostro ultimo congresso, in occasione delle agitazioni dei contadini per l'occupazione delle terre incolte, c'erano stati dei dissidi; e precisai che, mentre io e alcuni miei compagni ritenevamo che il Partito dovesse assumere un netto atteggiamento in difesa delle rivendicazioni dei contadini, l'onorevole Corsi, allora Sottosegretario di Stato per l'interno, aveva preso posizione contro questo atteggiamento, sostenendo che, in occasione delle occupazioni delle terre, si erano verificate alcune illegalità, perché a quelle occupazioni avevano partecipato persone che non ne avevano diritto.
Io dissi che ritenevo molto più notevole l'apporto positivo che veniva dato alla democrazia, dal fatto che una classe oppressa da secoli ritrovava la strada per la rivendicazione dei suoi diritti, anche se era deplorevole che in questa occasione si verificassero alcuni atti di violazione della legge da parte di persone.
Aggiunsi pure, sempre a titolo di esemplificazione, che anche la lotta agraria, sostenuta dai contadini emiliani molti anni prima, aveva provocato l'accusa di illegalità, sempre mossa dalla stampa reazionaria, ma non vi era dubbio che in quella lotta si era formato un forte spirito democratico.
Questa la sostanza del discorso da me tenuto a Bologna.
Questo coincide perfettamente con l'atteggiamento da me assunto qui l'altro ieri, quando ho ripetuto che una vera democrazia nasce dalla partecipazione effettiva delle masse alla lotta democratica e non soltanto dalla proclamazione di principî sanciti dalla legge.
[...]
Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l'onorevole Ghidini. Ne ha facoltà.
Ghidini. Onorevoli colleghi, io non ho certamente bisogno di dirvi che la mia esposizione, che toccherà solamente alcuni punti del progetto di Costituzione nelle sue linee generali, sarà sommamente modesta. Vi dico senz'altro, che non sono capace di elevarmi ad alte considerazioni di carattere filosofico. Sono meglio adatto a camminare più in basso e a considerare le cose da un punto di vista pratico. Perciò, nella mia illustrazione e nella confutazione delle critiche che vennero fatte al progetto, nonché in quelle che io stesso potrò fare, seguirò un diverso sistema, il sistema cioè della praticità.
Sono state fatte critiche varie sia per ciò che riguarda la forma letteraria, sia per ciò che attiene alla tecnica di questo progetto. In verità si tratta di cose che hanno un valore affatto secondario. Ciò che preme è la sostanza, soprattutto in una legge che ha un'importanza enorme per le conseguenze mediate ed immediate che ne potranno derivare. Ad ogni modo, anche perché, sia pure in piccola parte, essa è frutto del mio lavoro, debbo dire una parola su ciascuna di queste critiche. Quando si parla, per esempio, di una Costituzione, nella quale è evidente la «eterogeneità, come fu detto, delle favelle», io non posso che associarmi ai colleghi, i quali hanno spiegato che la diversità dello stile dipende dalla partecipazione al lavoro di molte persone che vi hanno collaborato a gruppi, separatamente l'uno dall'altro.
Per quanto invece riguarda la pretesa improprietà del linguaggio, debbo dire che la Carta costituzionale doveva essere soprattutto accessibile e comprensibile al volgo. Io, per verità, non ho mai cercato la letteratura nelle leggi, ma se anche avessi avuto, per avventura, la mania di esigere che la legge sia, sotto il profilo stilistico e letterario, una cosa perfetta, l'avrei senz'altro vinta e repressa di fronte alla necessità che la legge costituzionale sia veramente comprensibile e accessibile a tutti. Così giustifico le inesattezze di linguaggio che siano contenute nel progetto di Costituzione. Non per questo credo che esso meriti la vostra condanna.
A questo proposito ricordo che l'altro giorno, prima ancora che parlasse l'onorevole Calamandrei, un nostro eminente collega mi fece la stessa osservazione. L'onorevole Calamandrei non ha specificato quali siano le inesattezze e le imprecisioni che lamenta. Invece, questo collega mi faceva osservare come, ad esempio, in un certo articolo che ora non ho presente, si dica che il cittadino può «circolare» liberamente nel territorio nazionale.
Il collega diceva, arricciando, il suo naso letterario, che non gli andava, perché gli ricordava il «circolate» dei vigili urbani quando vogliono sciogliere un assembramento. Ed è vero. Ma io ricordavo, nel medesimo tempo un episodio al quale fui testimone: Un contadino della montagna era giunto in città e, come sempre accade, si sentiva spaesato. Egli si dirigeva tutto confuso a un ufficio postale tenendo come doveva il lato sinistro della strada. Quando arrivò ad un punto dove c'era un piccolo assembramento, un vigile urbano, invece di dire «circolate» disse «transitate», e il povero contadino, sbalordito, attraversò la strada. Ma dall'altra parte c'era l'altro vigile che gli contestò il divieto di attraversare in quel punto elevandogli la contravvenzione. Così il contadino se ne tornò alla sua casa di montagna persuaso che i regolamenti di polizia urbana sono un caos e che i vigili non ne capiscono niente.
È per questo motivo che l'accusa di imprecisione letteraria poco ci tocca. Ad ogni modo, al momento opportuno, quando si dovrà pur compiere il lavoro di revisione finale, allora si potrà migliorare il progetto anche sotto questo profilo.
Questo, per quanto attiene alla forma. Non c'è da dire di più, perché il tema è tale che non merita una trattazione più ampia.
Per quanto riguarda la distribuzione del lavoro, mi soffermo brevemente sulla prima parte: le «Disposizioni generali». Mi sono chiesto se queste disposizioni generali devono rimanere come sono e dove sono, o se invece vi si debba apportare una modificazione, trasportandole in un preambolo.
Premetto, per quanto riguarda il preambolo, che vi sono dello stesso diverse nozioni; diversi modi di concepirlo. C'è chi lo concepisce come una pura e semplice enunciazione storica, come una introduzione alle disposizioni contenute nel testo. Vi sono invece preamboli dove sono raccolte disposizioni che hanno un vero e proprio carattere normativo. È ciò che accade, ad esempio, nell'ultima Costituzione francese; infatti nel primo progetto che è stato bocciato, le enunciazioni di libertà, le dichiarazioni dei diritti civili ed economici, i rapporti sociali ed etici, ecc., erano tutti inseriti nel testo della Costituzione. Dopo invece, in quella che diventò l'effettiva Costituzione del popolo francese, di questa parte dichiarativa «diritti e doveri» si fece un preambolo. Però nel preambolo sono enunciati come veri e propri diritti.
Al contrario, secondo il pensiero dell'onorevole Calamandrei, nel preambolo vanno collocate soltanto quelle enunciazioni generali che non hanno carattere normativo, ma rappresentano piuttosto un'aspirazione, un voto, una promessa. Ora, per mio conto, se è questa la nozione di preambolo che dobbiamo accettare secondo l'autorevole insegnamento del collega, io per mio conto concludo che le «Disposizioni generali» debbono rimanere così come sono e dove sono. Io non nego che vi siano in esse delle disposizioni che non hanno carattere normativo, ma avverto che sono sempre commiste con altre che invece lo hanno.
Non voglio leggervi gli articoli; ma quando, ad esempio, si dice che l'Italia è una Repubblica democratica, che l'Italia rinuncia alla guerra e così via, trovo che tali affermazioni non hanno carattere normativo, ma di ordine generale, mentre sono commiste nello stesso articolo ad altre che hanno carattere normativo e, come tali, devono entrare nelle disposizioni generali, o fondamentali che dir si voglia.
Solo un articolo, o almeno una parte di esso deve uscire dalle Disposizioni generali. Mi riferisco all'articolo 5, intorno al quale si è già ampiamente discusso. È un punto, onorevoli colleghi, che senza dubbio ci dovrà occupare intensamente.
Io non intendo entrare nel merito della disposizione; non la critico; e non commento affatto le disposizioni del Concordato con la Santa Sede che l'articolo 5 richiama. Mi limito ad alcune osservazioni di carattere generale che attengono alla sistematica ed alla tecnica legislativa.
L'articolo 5, al capoverso, dice che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi e che qualsiasi modificazione dei Patti bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale. Orbene; io penso che questa disposizione non abbia diritto di cittadinanza in seno alle Disposizioni generali. Secondo me, non può farne parte, perché è una disposizione specifica, e richiama un gruppo di disposizioni specifiche. Sono disposizioni specifiche quelle che esauriscono in sé stesse il loro oggetto. La disposizione dell'articolo 5 non ha carattere generale normativo; in altre parole, non è di quelle che sono come le matrici, o come un tronco dal quale si irradia un'ampia ramificazione legislativa. Sono disposizioni di carattere specifico che, ripeto, esauriscono in se stesse il loro oggetto. Come tali non possono essere incluse nelle «Disposizioni generali».
E neppure sono collocabili in un preambolo tale, secondo la definizione che abbiamo acquisito, perché hanno un evidente, chiaro, preciso, risoluto carattere normativo ed hanno una precisa rilevanza giuridica: sono comandi, sono ordini; non sono enunciazioni di carattere programmatico, non sono voti, non sono aspirazioni, ma affermazioni categoriche alle quali si deve adeguare o la condotta dei cittadini oppure la legge. Quindi, ecco perché non possono stare nel preambolo, come non possono stare nelle «Disposizioni generali» o fondamentali.
Ma io penso che non possano essere incluse neppure nel testo della Costituzione. Il loro posto sarebbe piuttosto nella parte dichiarativa dei diritti e più specialmente nel capitolo che parla dei rapporti «etico-sociali», ma non possono stare nel testo per una ragione di tecnica legislativa. Non voglio ripetere ciò che altri hanno detto. Mi limito a dire che nel Concordato con la Santa Sede vi sono articoli incompatibili col testo della nostra Costituzione. Ad esempio gli articoli 14, 16, 27, 48, ecc.
L'articolo 5 del Concordato, prescrive che «i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio o in un impiego nei quali siano a contatto immediato col pubblico». Ricordo che una delle accuse principali mosse al progetto è di essere il frutto di un compromesso. Orbene, secondo il mio modo di vedere, il compromesso può essere un bene o un male, tanto un vizio, come una virtù. Quando ad esempio, per addivenire ad una pattuizione le parti transigono e quando si voglia addivenire, come nel caso, alla formazione di un articolo di legge fra parti che hanno orientamenti politici diversi ed anche opposti, se queste parti rinunciano alle estreme conseguenze delle loro ideologie per trovare un punto di contatto, per costituire una piattaforma comune, in questo caso il compromesso è utile, il compromesso è un bene, non vi è eterogeneità di concetti nella disposizione che ne risulta, ma piuttosto una perfetta omogeneità. Per quanto siamo distanti gli uni dagli altri, seduti all'estrema destra o all'estrema sinistra, per quanto le nostre divergenze siano profonde, di dottrina e di metodo, c'è sempre anche un fondo comune ed è su questo fondo comune, che talora ci possiamo incontrare, se sia necessario formare una legge che possa servire alla ricostruzione del nostro infelice Paese. Avremo così fatto un'opera di bene, non un'opera di male. (Applausi).
Il compromesso invece è indubbiamente un vizio, quando si risolve in un baratto.
Quando una delle parti esige una dichiarazione che risponda al suo programma, consentendo in compenso all'altra una disposizione inspirata al programma opposto, allora il compromesso è un male, perché le due soluzioni sono informate a due ideologie contrastanti ed avverse. Avviene bensì fra le due parti un accordo, ma le due disposizioni, così consentite, si accampano l'una contro l'altra in atteggiamento di ostilità e di guerra. In questo caso il compromesso non è più un bene, perché inficia di contraddizione insanabile il testo.
Ora, io dico che questo vizio si è verificato in pieno a proposito dell'articolo 5 delle «Disposizioni generali». L'articolo 5 rappresenta una netta vittoria della democrazia cristiana. Lo ha detto chiaramente l'onorevole Tupini svelando, secondo me, un vizio essenziale della Costituzione.
Questa netta vittoria, rappresentata dall'articolo 5, è in contrasto con gli articoli dianzi citati. Nel medesimo testo — i Patti Lateranensi sono richiamati come se fossero trascritti — non può essere lasciata una contraddizione così flagrante. Bisognerà quindi ricorrere ad un intervento chirurgico, per togliere o l'una parte o l'altra, a seconda che la vittoria porterà le sue bandiere nel vostro campo o nel nostro; a meno che la Saggezza — dicono i maligni che sia una divinità che non soggiorni sovente nei consessi politici — non consigli (in questi mesi che ci avanzano prima dell'approvazione del progetto) modificazioni, non soltanto per sostituire alla firma d'un ministro usurpatore, che ha sottoscritto in nome di un re decaduto, la firma dei legittimi rappresentanti della Repubblica italiana, ma anche per cambiare profondamente quelle statuizioni che sono in contrasto con i principî unanimemente accolti dalla coscienza civile di tutti i popoli. (Applausi a sinistra).
E, sempre dando uno sguardo panoramico alla Costituzione, vado all'altro estremo del testo; cioè alle «Disposizioni finali e transitorie». Anzitutto, io direi soltanto «transitorie». Perché finali? Perché stanno alla fine?
Dunque, direi solo «transitorie» in quanto risolvono situazioni che non hanno carattere di immanenza, e servono ad attuare il passaggio da una legge all'altra.
In verità quasi tutte queste disposizioni obbediscono a tale concetto. Tutt'al più si potrebbe togliere da questa parte il primo comma dell'articolo I: «È proibita la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» e l'articolo IV sul non riconoscimento dei titoli nobiliari, come, quelli che hanno carattere di temporaneità per collocarli — se resteranno — nel titolo «Dei diritti e dei doveri».
Ed ora brevemente sulla seconda parte del testo: «L'ordinamento politico dello Stato».
Scorrendo rapidamente il testo, ho notato che il principio dominante, al quale si sono ispirate, prima la seconda Sottocommissione, e dopo la Commissione Plenaria, è stato di trovare una linea di mezzo che potesse mettere d'accordo esigenze in contrasto tra loro. Ricordo in proposito, fra le più significative, la disposizione che regola il voto di sfiducia al Governo. È un articolo che tenta di conciliare le esigenze del regime parlamentare colla necessità di una maggiore stabilità del Governo. Si è così combinata una procedura, in verità piuttosto complicata, forse troppo, ma che io non critico, anzi elogio, pel fine che si propone. Vedremo, al controllo della pratica, se la disposizione risulterà troppo pesante.
A questo medesimo fine sono ispirate anche le disposizioni che riflettono l'ordinamento giudiziario, colle quali si vuol conseguire lo scopo, da tanto tempo auspicato, di assicurare l'indipendenza piena della Magistratura, e nel contempo d'impedire che la stessa diventi una casta chiusa, insensibile alle esigenze sociali; estraniata, direi, dalla vita.
Devo a questo punto avvertire che l'indipendenza della Magistratura non si consegue soltanto con un congegno legislativo più o meno abile, più o meno complicato. La Magistratura potrà conseguire la sua piena indipendenza solo se il trattamento economico del quale soffre sia radicalmente mutato. Non vi è forse categoria di funzionari che sia così maltrattata, pure adempiendo al più alto ufficio. I vecchi magistrati sono legati inesorabilmente alla loro catena, ma i giovani, i più intelligenti e i più colti, abbandonano oggi la Magistratura per seguire altre carriere ed altre professioni più lucrose, sebbene molto meno elevate per dignità e prestigio.
È forse in un solo caso che si è decampato da questa finalità: ed è a proposito delle due Camere, per le quali si è adottato il concetto estremista della parità assoluta. Non è questo il momento di discutere se il principio sia saggio oppure no; mi basta osservare che, portato agli estremi, ha condotto praticamente ad una vera e propria carenza legislativa. Infatti, leggendo l'articolo 70, si trova che, verificandosi il caso che una Camera non si pronunzi su un disegno di legge approvato dall'altra o lo rigetti, qualora il conflitto fra le due Camere permanga, il Presidente della Repubblica ha bensì facoltà di indire un referendum; ma siccome non si può mettere ad ogni momento in subbuglio il corpo elettorale, accadrà che molte leggi, oggetto del contrasto, cadranno nel vuoto. Si verificherà cioè una vera e propria carenza legislativa. Inconveniente al quale non si può rimediare che in due modi; o chiamando l'Assemblea nazionale a risolvere il conflitto, oppure dando la prevalenza alla Camera dei Deputati come quella che ripete il mandato direttamente dal corpo elettorale. Vengo ora alla parte che maggiormente interessa: quella dei «Diritti e dei doveri». Sono disposizioni di altissimo valore etico, sociale e politico e come tali devono essere incluse nel testo della legge e non contenute in un preambolo. L'obiezione che alle enunciazioni di questi principî si fanno seguire delle determinazioni che logicamente dovrebbero trovare il loro collocamento piuttosto nei Codici e in leggi speciali, ha un fondamento di serietà. Ma la linea che abbiamo seguito ha pure una giustificazione.
È vero in linea di logica l'affermazione che, ad esempio, le disposizioni relative all'arresto hanno un sapore processuale che ripugna al concetto di legge costituzionale. Però debbo dire che non basta la logica. Essa non è sufficiente a guidare ed a governare gli uomini: se dovessimo seguire soltanto i precetti della logica fino agli estremi, correremmo i più gravi pericoli. È la ragione che li deve guidare! Fra i motivi che possono giustificare queste specificazioni vi è una considerazione di carattere storico che non ricorre per gli altri Paesi. Questi diritti civili e questi diritti politici, sono stati compressi, calpestati, annullati per un lungo ventennio; e quindi, c'era un bisogno quasi fisico, istintivo, di richiamarli, di riaffermarli, di gridarli ad altissima voce. Questi diritti si presentano a noi oggi in un aspetto del tutto speciale e singolare. Forse, se avessimo fatto la Costituzione 25 o 26 anni fa, non vi avremmo incluse queste determinazioni. Ma oggi è diverso, le cose vecchie arrugginite quando siano tratte improvvisamente dal buio alla gloria del sole, acquistano la lucentezza delle cose nuove.
Rilevo inoltre che parecchie di queste disposizioni sono state criticate come se fossero soltanto dei voti, delle aspirazioni a finalità impossibili. Io dubito perfino di aver ben compreso, perché, se è vero che si è fatto riferimento agli articoli 26 e 28 che garantiscono la salute, l'igiene, l'accesso agli studi superiori, ecc., devo dire che si tratta di provvidenze già in atto e non quindi di semplici speranze o addirittura di «sermoni».
In merito poi ai «Rapporti etico-sociali», avverto che subito ci imbattiamo in una enunciazione che l'onorevole Rubilli ha definito «scialba». Non sono d'accordo con lui. Non è scialba; è pericolosa. L'onorevole Ruini che ci è stato guida tanto preziosa, ricorda indubbiamente che in sede di Commissione di coordinamento io ho combattuto questa enunciazione.
Perché si è voluto dire che «la famiglia è una società naturale»? Una definizione eguale non si pone nei confronti dello Stato. Lo scopo è chiaro, ed è quello di trarne una quantità di conseguenze che si riflettono sull'istituto della scuola, sul matrimonio, sul trattamento giuridico dei figli illegittimi e così via.
Con questa frase si afferma una priorità della famiglia nei confronti dello Stato; una priorità che diviene prevalenza e può in questo modo creare un'atmosfera di rivalità tra la famiglia e lo Stato.
Per quanto invece si riferisce ai rapporti politici, non ho niente da dire, perché sono principî e diritti consacrati da una lunga tradizione e dal consenso di tutti i popoli civili. È notevole soltanto la disposizione (attualissima oggi che si è celebrata la giornata della donna) che pone sul terreno di piena parità l'uomo e la donna, così nel campo economico, come in quello giuridico, politico e civile.
Ma la parte che forse maggiormente interessa è quella dei «Rapporti economici». Io ho per essi una tenerezza speciale, perché ho partecipato assiduamente alla loro formazione ed è, quindi, naturale che li difenda. Dirò di più: non riesco a vedere nessuno di quei difetti che i colleghi, nelle passate sedute, hanno creduto di porre in evidenza.
Premetto che, salvo alcune disposizioni votate a maggioranza, per molte vi è stato accordo fra i Commissari della terza, pure essendovi rappresentati tutti gli orientamenti politici di tutti i settori dell'Assemblea. Tutti i colleghi hanno fatto valere energicamente la propria opinione. Nessuno ha mai ripiegato la propria bandiera. Ad onta di questo, ci siamo trovati d'accordo anzitutto nella decisione di collocare queste disposizioni non già in un preambolo, ma nel testo, perché altrimenti toglieremmo al testo ciò che ha di più attuale, di più moderno, di più atteso dal popolo e di più caratteristico. Ciò che in sostanza gli conferisce una fisionomia particolare, è anche l'adempimento di un patto, al quale non ci dobbiamo e non ci possiamo assolutamente sottrarre, poiché l'abbiamo assunto davanti al corpo elettorale.
Questo è il primo punto d'accordo. Vi fu anche consenso pieno nell'assegnare al lavoro una dignità preminente su tutti gli altri coefficienti della vita nazionale.
Il lavoro è indubbiamente alla base dell'organizzazione, civile, politica e sociale del Paese e il testo lo afferma anche prima di scendere ai «Rapporti economici-sociali». Lo afferma nel primo articolo del Progetto di Costituzione: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Appunto in applicazione a di questo principio noi abbiamo affermato il diritto al lavoro. Abbiamo affermato questo diritto e contemporaneamente il dovere del lavoro, non come un dovere personale, ma come un dovere soprattutto sociale, perché è in virtù del lavoro di tutti che la società può vivere e prosperare.
Ma a questo dovere corrisponde il diritto del lavoro. Intanto io adempio a questo dovere in quanto abbia effettivamente il diritto di lavorare; diritto e dovere, in questo caso, sono termini correlativi, uno si lega indissolubilmente all'altro.
Ma a questo punto è nato il dissenso, anche in seno alla Sottocommissione, sebbene la grande maggioranza abbia deciso nel senso di affermare il diritto al lavoro. È nato da una concezione diversa su ciò che deve formare il testo e ciò che deve formare il preambolo, partendo dalla distinzione fra diritti e aspirazioni.
Non voglio tediare l'Assemblea ritornando sopra quanto è stato già detto. Io, per mio conto, sono di questa opinione: che ci troviamo effettivamente di fronte a dei diritti.
L'obiezione che si muove sotto il profilo giuridico è questa, sostanzialmente: si tratta di una pretesa che non può avere immediato soddisfacimento, che non può essere classificata tra le esigenze e i bisogni esigibili da parte dei cittadini, e se non è esigibile, non è nemmeno azionabile e, quindi, sfugge alla nozione del «diritto». Per conto nostro, la nozione del diritto è diversa. Siamo in materia di diritto pubblico, dove penso che il rigore sia minore che nel diritto privato. In verità vi sono dei diritti, tali senza contestazione, che almeno in certi periodi della vita nazionale, nostra e anche degli altri Paesi, non sono garantiti. Per esempio il diritto alla vita, alla inviolabilità del domicilio, il diritto alla integrità personale, al patrimonio, ecc., sono indiscutibilmente diritti e nessuno li contesta. Sono diritti consacrati nelle leggi e sono muniti di sanzione. Sono, quindi, indubbiamente dei diritti, eppure vi sono dei periodi nei quali essi non sono completamente, totalmente, interamente, ma solo parzialmente e scarsamente attuati. È storia di ieri la insufficienza delle forze dello Stato per impedire l'aggressione al diritto alla vita, all'integrità personale, alla difesa del patrimonio; diritti che sono tali anche verso lo Stato, perché lo Stato ha tra i suoi fini di tutelare la vita, gli averi, ecc., dei suoi consociati.
Ma una ragione anche più grave mi persuade che l'argomentazione contraria è soltanto capziosa, di una verità apparente, non reale. È lo stesso onorevole Calamandrei che ci ha aperto la strada. In una seduta delle nostre adunanze plenarie, egli aveva sostenuto che nel testo si devono collocare solo diritti completi e sanzionati; ma in una riunione successiva — forse cedendo alle lusinghe dell'onorevole Togliatti, come disse — parmi che si sia ricreduto, se è suo, come risulta, un ordine del giorno nel quale dopo di avere ribadito il concetto suesposto aggiunge, derogando dal principio: «Riconosco che, come speciale categoria dei diritti, trovi posto fra gli articoli della Costituzione l'enunciazione di quelle essenziali esigenze individuali e collettive, nel campo economico e sociale, che, se anche non raggiungono oggi la maturità dei diritti perfetti e attuali, si prestano per la loro concretezza, a diventare veri diritti sanzionati con leggi, impegnando in tal senso il legislatore futuro».
Ora io mi domando: quale altra esigenza, quale altro bisogno è maggiormente sentito dalla coscienza universale ed ha assunto una maggiore concretezza, di questo diritto al lavoro che oggi si vuol degradare passandolo al preambolo? Per conto mio, ritengo che se anche non fosse esatto ciò che penso e fossi vittima di un'allucinazione intellettuale deformatrice della verità, anche in questo caso, la tesi che professo rimane pur sempre la più giusta; non potendosi negare la esigibilità del diritto al lavoro, almeno sotto il profilo negativo.
La Costituzione è affidata all'avvenire. Non si può negare in modo assoluto che un giorno le forze regressive possano avere la prevalenza. Noi abbiamo il dovere di immaginare anche il peggio, anzi le leggi son fatte in previsione del peggio, perché se le cose dovessero sempre andare nel migliore dei modi, sarebbe perfettamente inutile che ci fossero dei codici e si formassero delle leggi. Ora, fate l'ipotesi che la nostra rappresentanza fosse completamente eliminata e sedessero in questa Camera solo rappresentanti della Nazione aventi un orientamento politico regressivo, e volessero formare una legge la quale contrastasse questi diritti al lavoro, li limitasse, o li annullasse. La Corte costituzionale dovrebbe dichiarare l'incostituzionalità di questa legge.
Sotto il profilo, almeno negativo, mi pare indubbio trattarsi di un diritto azionabile.
Non solo, e tutto concedendo, se anche fosse vero, secondo la tesi estrema avversaria, che il diritto al lavoro non è attuabile nella sua forma principale, resterebbe però sempre alla base di diritti sussidiari, di diritti sostitutivi, i quali sono di immediata attuabilità. Voglio parlare dei diritti alla retribuzione adeguata del lavoro, al riposo retribuito, alla assistenza sociale, alla previdenza e alla organizzazione sindacale, che difende i diritti del lavoro attraverso lo sciopero, la formazione dei contratti collettivi e la partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende. Il diritto al lavoro, non è una trovata originale della Commissione dei 75, ma è una realtà obiettiva, una realtà del diritto, una realtà della coscienza universale. Buona parte delle Costituzioni degli altri Paesi hanno affermato il diritto al lavoro.
E finalmente, richiamo i colleghi a un argomento tratto dalla lettera della disposizione. È l'articolo 31. È bene leggerlo attentamente. Gli uomini di legge hanno fra le mani una bilancia per pesare le parole, una bilancia la quale ha una sensibilità che è ancora maggiore della famosa bilancia dell'orafo. L'articolo 31 dice che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Non dice nemmeno «assicura», nemmeno «garantisce». La parola «riconosce» è stata il frutto di una lunga ed elaborata discussione svoltasi dinanzi alla Commissione. In altri testi si dice «riconosce od assicura». Invece, ripeto, il nostro articolo 31 dice: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Badate a quest'ultima parte dell'articolo, colla quale si volle significare che l'obbligo dello Stato è di promuovere le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro. Io credo che le censure che furono mosse siano più che altro il frutto di uno spirito accanitamente critico e anche di un certo pessimismo, perché se è vero che la legge costituzionale non è destinata soltanto a registrare le conquiste del passato, ma anche a segnare l'indirizzo per l'avvenire, è pessimistica la critica al «diritto del lavoro», fondata sulla pretesa impossibilità di assicurare in un domani più o meno prossimo il lavoro a tutti gli uomini di buona volontà.
Onorevoli colleghi, non dico altro per quanto riguarda il diritto al lavoro e passo ad esaminare il tema dei «Rapporti economici» Parlandone, sia pure genericamente devo dire che le critiche fatte...
Presidente Terracini. Onorevole Ghidini, vi era l'intesa che la trattazione generica sui nuovi istituti della Repubblica sarebbe stata fatta quando si fosse aperta la discussione sui titoli correlativi.
Ghidini. È verissimo. Certo è difficile, discutendo, vedere i confini precisi che meglio scorge nella sua serenità il nostro Presidente. Ma stia certo che non scendo a particolari. Intendo solo enunciare concetti di ordine generale. Se mi dovessi indugiare, dovrei rilevare che non v'è accordo nei nostri critici: gli onorevoli Calamandrei, Rubilli e Capua, il quale ultimo ha affermato, per esempio, che si tratta di un progetto social-comunista, e si è domandato come mai essendo i socialcomunisti minoranza nel Paese e nell'Assemblea abbiamo potuto ottenere di fare un progetto social-comunista. Rispondo che se egli avrà la pazienza di ascoltare i concetti generali ai quali si informa questa parte del testo, lo persuaderò che egli parte da un presupposto errato. L'onorevole Capua vede comunisti dovunque, anche dove non vi sono; ed è così dominato da questa preoccupazione che manifesta il proposito, prima di prendere il passaporto per l'Estero e dopo, addirittura di intraprendere un viaggio molto più... compromettente... per l'al di là, allo scopo di annunziare ai nostri morti che «La... Patria è vile».
Dirò ai colleghi che ci muovono l'accusa di compromesso che esso suppone l'incontro o lo scontro di opposte ideologie. Se così fosse, penso che discuteremmo ancora. Siamo invece partiti dalla constatazione della realtà economica obiettiva, attuale. Abbiamo constatato che certe forme appartengono al passato, ma sono vive e vitali. Abbiamo del pari constatato che ci sono forme in via di germinazione e in via di sviluppo, ed abbiamo considerato infine che ci sono forme e istituti che non sono ancora esistenti nella realtà della vita economica del Paese, ma che sono invece vivi e presenti nella coscienza comune, come spiriti erranti, ansiosi di trovare un organismo, un corpo entro il quale potere affermare il loro diritto alla vita.
Sotto questo profilo, adunque, considerando cioè le cose obiettivamente, noi abbiamo: 1°) Per quanto riguarda la prima categoria, quella degli istituti già esistenti che appartengono al passato, ma che sono ancora vitali (parlo dell'iniziativa privata, della cooperazione, ecc.), ne abbiamo dichiarato il riconoscimento, imprimendo però in essi i segni di una maggiore socialità. In tanto questi istituti valgono, in quanto non soltanto giovano a coloro che esercitano l'iniziativa privata, ma in quanto questa iniziativa sia svolta anche a vantaggio della collettività. La novità sta appunto in questo: di avere condizionato il riconoscimento e la tutela di questi diritti e istituti da parte dello Stato, alla loro «funzione sociale».
2°) Per quanto riguarda invece gli istituti, e le forme che sono attualmente in fase di germinazione e di sviluppo, la Costituzione intende dare agli stessi un più ampio respiro e un maggiore campo di applicazione. Mi riferisco alla espropriazione per interesse generale; all'assunzione di imprese da parte dello Stato, della Regione, di associazioni di produttori e di utenti; alla loro coordinazione con piani di produzione e di distribuzione; al controllo del credito, ecc.
3°) Per quanto, infine, riguarda quegli altri istituti, che ho chiamato spiriti erranti (le grandi riforme strutturali: agraria, industriale, bancaria) non sono dichiarati nella Carta costituzionale, ma essa ne pone però i presupposti, affinché il legislatore di domani possa avere il vanto e la gloria di attuare il grande sogno della Giustizia Sociale.
Si fanno altre obiezioni che ho raccolte dalla voce dell'onorevole Rubilli e di altri.
Si sostiene che i rapporti economici e sociali non hanno diritto di cittadinanza in una Carta costituzionale, dovendo questa limitarsi a fissare la struttura dello Stato, a configurarne gli organi definendone i limiti; a dichiarare i doveri e i diritti che ha il cittadino verso lo Stato; e basta. Lo Stato non dovrebbe intervenire nei rapporti sociali, ma rimanere neutrale ed agnostico. Ma questa nozione della funzione dello Stato, che rimonta allo Statuto Albertino, è da considerare ormai superata non solo da noi, ma anche da altri militanti nel campo liberale.
Qualche settimana fa ho ascoltato due conferenze nelle quali insigni studiosi di scienze sociali hanno bensì combattuto i principî da noi sanciti in materia di rapporti economici e sociali, ma con argomenti completamente diversi. Anche per essi lo Stato non può rimanere indifferente; anch'essi hanno riconosciuto che lo Statuto non deve essere — come scrisse in un giornale di Roma un professore di diritto costituzionale — una specie di Codice penale dello Stato.
Lucifero. C'è una differenza, onorevole Ghidini, fra il nostro pensiero ed il pensiero che piace di attribuirci.
Ghidini. Lo so e l'ho detto che la vostra concezione dello Stato è completamente diversa. In quelle due conferenze indette da «Rinascita liberale», è stato riconosciuto che il Partito socialista in Italia ha grandemente contribuito alla elevazione della classe lavoratrice e al progresso civile del Popolo. Vi do atto di questo leale riconoscimento. La censura fu un'altra. Si diceva, ad esempio, che l'assicurazione del diritto al lavoro suppone la pianificazione totale dell'investimento e della produzione.
Non la credo esatta. Anche una pianificazione parziale può bastare, come può bastare una seria politica di spesa e di lavori pubblici.
L'altra eccezione che fu sollevata è che con le disposizioni relative al lavoro, alle espropriazioni, ai limiti di estensione della proprietà, ecc., si rilascia una cambiale in bianco ai social-comunisti. Non è vero.
Sotto un certo aspetto la Costituzione è una cambiale in bianco, perché non vengono determinati i modi attraverso i quali saranno attuate le riforme. Ma questo, secondo me, non è un vizio, ma un pregio, è una virtù del testo, dovendosi rispettare non soltanto la nostra volontà, ma anche, democraticamente, la volontà del legislatore futuro. Il popolo è sovrano oggi, ma è sovrano anche domani, e quindi, non possiamo imbrigliare oggi per il domani la sua volontà.
Ciò che mi preme di dire soprattutto è che, se è cambiale in bianco, lo è non solo per quanto riguarda i limiti e le condizioni di certi istituti attuabili nell'avvenire; ma è in bianco anche pel nome del prenditore. Sono tutti creditori di questa cambiale, non soltanto i social-comunisti.
È appunto questo che imprime al testo un carattere di libertà, di profonda, di vera, di duratura democrazia; è questa la ragione per la quale io penso che questa Costituzione possa acquistare l'ambìto vanto della longevità. Tutto quello, in sostanza che si dovrà fare, le trasformazioni che noi con tutta l'anima nostra auspichiamo come conquiste di una civiltà superiore sono rimesse alla Legge: le espropriazioni, i limiti della proprietà, i vincoli, le assunzioni di imprese, tutto è rimesso alla Legge.
In altre parole, l'ordine nuovo, quell'ordine nuovo che si è andato maturando faticosamente nella coscienza del popolo italiano nel ventennio del suo crudele martirio, si attuerà battendo la strada ampia, diritta e solatia del diritto e della Legge. Non concessioni pelose di governi paternalisti, non imposizioni violente di partiti, ma la libera e sovrana volontà popolare, protesa verso l'ideale altissimo della giustizia sociale, foggerà il nuovo destino della nostra Italia repubblicana. (Vivi applausi — Molte congratulazioni).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Nitti. Ne ha facoltà.
Nitti. Dopo le grandi guerre, cambiare le Costituzioni è nei tempi nostri destino dei popoli vinti. I vincitori non le cambiano. Con Costituzioni di natura estremamente diversa, i tre grandi vincitori, l'Inghilterra, l'America e la Russia, non hanno trovato nulla da cambiare: sono i vinti che sono costretti da necessità a mutare i loro ordinamenti.
La guerra del 1914-18 fu regicida: morirono tutti i sovrani di tutte le grandi monarchie d'Europa: i popoli soccombenti, Germania, Russia, Austria-Ungheria, Turchia i quali occupavano quasi i quattro quinti dell'Europa continentale, videro cadere tutta la loro potenza, tutti i loro sovrani e tutte le forme politiche del passato.
La guerra attuale, dopo che gli ultimi due sovrani dei due Governi di media potenza, l'Italia e la Spagna, sono stati liquidati, non ha affrontato altre monarchie. È andata più in là: è diventata rivoluzionaria nelle forme economiche e sociali. La guerra ha preso un aspetto ormai ancor più terribile: non si limita più ad alcune distruzioni politiche. Questo aspetto ben divinava Marx, quando parlava degli asini dei congressi della pace e Proudhon, quando faceva l'apologia della guerra. Aveva ben compreso che la guerra, nei popoli moderni, è la grande sovvertitrice, è il grande fatto rivoluzionario. Se avessimo avuto un'Europa pacifica, probabilmente non avremmo avuto i grandi sovvertimenti che si sono verificati nell'ordine economico, nell'ordine sociale e nell'ordine politico.
I vinti hanno dovuto quindi per necessità seguire la generale tendenza che si è manifestata. Ora noi ci troviamo di fronte alla necessità di una nuova Costituzione nel momento peggiore, quando tutto da noi ha perduto il senso di equilibrio e le passioni più eccitate e gli interessi più opposti si agitano. Si son volute avere troppe illusioni e, soprattutto, ne abbiamo date; si è creduto che la guerra non dovesse finire per noi così tragicamente. Si son dette tante cose che non si sono verificate e la guerra, che l'Italia ha avuto il torto di dichiarare, è stata ed è terribile nelle sue conseguenze. Essa non ha avuto, quando è finita per la nostra partecipazione agli avvenimenti decisivi, il risultato che si attendeva. Nel linguaggio corrente della stampa, per amabile eufemismo, si parlava sempre degli «Alleati», quasi che noi fossimo nella unione dei vincitori, alleati fra loro ma non con noi. Si è data a torto la convinzione ai nostri concittadini che il cambiamento della forma politica avrebbe anche determinato un cambiamento nella situazione. Si è detto che la caduta della monarchia avrebbe non solo reso benevole le democrazie, ma che avrebbe cambiato il loro indirizzo a nostro riguardo. Nulla è invece cambiato. Noi scontiamo ancora le amare conseguenze della guerra, e per molti anni le risentiremo; ed è illusione credere o far credere che molto sarà mutato per il contegno amichevole di Stati che sono stati neutrali nella guerra.
Noi dobbiamo metterci coraggiosamente di fronte alla realtà. Troppo si è esagerato nella via degli errori. Quando si è detto nella propaganda (e si è detto per troppo tempo) che bastava mutare la nostra forma istituzionale per mutare la situazione, si è detto cosa falsa. Troppo si è detto che la Costituente avrebbe dato pane e lavoro al popolo. Non basta il cambiamento delle forme politiche. Sappiamo ora quale sia la situazione; e ora non possiamo assicurare né il pane né il lavoro in un momento in cui le ansie crescono sulla situazione economica di cui il popolo non sa nulla e non ancora ha la sensazione della vera realtà. Io avrò l'onore, nel seguito della discussione, quando si tratterà dei titoli e degli articoli in cui assumiamo impegni indefiniti per l'avvenire, di parlare come potrò, e nella misura in cui le mie forze lo consentiranno, un linguaggio di sincerità, senza retorica, e di illustrare quale è la situazione presente.
E parleremo di questi argomenti senza illusione e senza retorica.
Il più profondo poeta moderno della Francia, Paul Valery, ha detto che la politica deve essere trattata come una formula algebrica, deve essere considerata freddamente senza alcuna emozione; altrimenti si divaga sempre nel campo dell'irreale. Noi vogliamo dire tutta la verità. Mai Costituzione fu preparata in condizioni più difficili delle nostre, mai Costituzione di popoli moderni è stata fatta in condizioni così gravi, quando la crisi degli animi è profonda, quando la mancanza delle risorse fondamentali è grande, quando — umiliazione assai più grave — non possiamo vivere senza la benevolenza e l'aiuto dei vincitori.
Questa, la triste situazione che non bisogna dissimularsi. Noi non abbiamo, io non ho preoccupazione della rivoluzione, ma della discrasia. Tutti gli organi dello Stato si dissolvono; la situazione in ogni parte del Paese non è serena; i partiti stessi non solo si combattono fra di loro, ma oserei dire che si combattono all'interno, tanto l'aria è inquieta. È una conseguenza della guerra, conseguenza di tanti anni di tirannia, conseguenza di tutta la tragica situazione per cui non vi è nel Paese quella serenità spirituale che è necessaria per un'opera di costruzione come la formazione di un nuovo ordine, che deve esser reso possibile da una nuova Costituzione e più ancora dalla sua applicazione.
Io non voglio e non posso e non debbo fare alcuna critica ai settantacinque od ottanta colleghi che hanno preparato la Costituzione. Devo però dire che sono dolente di non essere stato tra loro.
Io credevo che l'onorevole Orlando ed io, se non altro per l'età e per l'esperienza, avremmo dovuto esserci, ma ci relegarono in quella Commissione dei trattati internazionali, in cui veramente non si sapeva che fare, perché ci convocavano quando le cose erano già avvenute e non si poteva utilmente né esprimere una idea, né fare alcuno sforzo di costruzione. Forse non sarebbe stata troppa concessione a questi due vecchi, quella di metterci, se si voleva, nella Commissione della Costituzione. Ma è parso forse fare troppo onore a noi. Io mi sono adattato volentieri a non essere tra i numerosi Soloni, ma mi riservo il diritto (che non mi potete negare) quando si tratteranno gli argomenti più gravi della Costituzione, di intervenire nella discussione.
Io suppongo benissimo che i nostri colleghi della Commissione dei settantacinque od ottanta non solo hanno fatto assai bene il loro dovere, ma che avevano intenzione di fare ancora di più, se non fossero stati fermati dalla stessa durata dei lavori. Infatti essi rimasero riuniti per tutto il tempo assegnato dalla esistenza della Costituente.
Non dissimulo nemmeno la loro difficoltà. Uomini di partito, essi agivano sotto la pressione e la passione che veniva dai vari partiti a cui appartenevano.
Non mi dissimulo l'imbarazzo in cui forse si sono trovati. Vi erano fra di loro persone esperte e colte, vi erano però anche persone, sia pure in minoranza, che per la prima volta udivano parlare di lavori legislativi, ed hanno dovuto fare uno sforzo ammirevole per mettersi al corrente delle loro grandi difficoltà.
Non solo, ma non avevano forse nemmeno la esatta conoscenza di ciò che è una Costituzione, ed allora hanno fatto ciò che hanno potuto. Inoltre, per loro uso o a loro vantaggio, vi è stata una massa enorme di pubblicazioni, una massa tale come non ne ho mai viste, una vera valanga di pubblicazioni per poterli addottrinare, ciò che è stato fatto con ammirabile diligenza. Non so se hanno avuto il tempo di legger tutto; essi hanno preso la loro funzione così seriamente che, per la prima volta, ho visto ciò che non avevo mai visto: quelli che si considerano dai giuristi atti interni e preparatori (interna corporis) sono stati pubblicati giorno per giorno. Ogni giorno si riunivano e non solo si facevano i verbali, ma se ne riassumevano tutti i discorsi; si riunivano con grande diligenza e si stampavano, ed anche adesso, che la Costituzione si direbbe fatta, continuano ad uscire i resoconti delle discussioni interne che vi furono nelle varie sezioni della Commissione dei settantacinque. Questa cosa che si è creduta importante, non ha un grande interesse né per il presente né per l'avvenire. Ogni discussione, su ogni argomento, veniva fatta forse senza preparazione sufficiente. Perciò questa enorme valanga di carte non sarà certo la curiosità dell'avvenire. Probabilmente parecchi (è questa una delle nostre malattie) hanno creduto di parlare non solo per illuminarsi scambievolmente, ma per gli elettori e ciò importava molto. Qui anche nell'aula si parla soprattutto per gli elettori.
In ogni discussione io ho guardato con curiosità che si prospettavano differenti visioni dell'avvenire. Ogni argomento che implicava interessi di masse o di ceti sociali, era considerato nei diversi punti di vista ed illustrato (ciò è naturale ed è legittimo) secondo i propri elettori o quelli che si spera saranno i propri elettori.
Vi era spesso evidente, ma non dichiarata, un'altra preoccupazione: la storia. Non pochi si prospettavano, di fronte alla storia: che cosa la storia dirà di noi?
Signori, la storia di noi non dirà niente. (Ilarità). Questi avvenimenti interni dell'Assemblea non mutano nulla, non interessano la storia, non hanno niente di drammatico niente che preoccupi gli studiosi e nemmeno il pubblico. La storia non se ne interesserà. E così, da tante discussioni senza grandezza, è venuta fuori una Costituzione di cui mi permetterete di dire che, per quanto interessante, non si presenta come le Tavole della legge di Mosè, né come le 12 tavole dei Romani, che avevano carattere di eternità nell'idea dei loro autori, ed erano scolpite nel bronzo.
Queste nostre discussioni sono forse come le tavole della legge di Mosè, ma stampate su carta di giornali e non su tavole di bronzo. Quanto possono durare?
E poi, non pochi han veduto nella Costituzione un'occasione di introdurre e far adottare le aspirazioni e gl'interessi e le tendenze del proprio partito. Voi vedete nettamente nelle discussioni della Commissione come nella Costituente ci sia quel compromesso che è tra le due grandi correnti di sinistra e di destra; voi scorgete anche facilmente un compromesso continuo. È interessante vedere come le stesse cose sono considerate da una parte e dall'altra, secondo quelle che sono o si prevede saranno le esigenze dei partiti.
Stalin ha fatto una osservazione giusta, quando ha detto che bisogna ben distinguere tra un programma ed una Costituzione; una Costituzione è il consolidamento di ciò che già si è fatto, il programma non è che l'aspirazione di cose che si vogliono fare.
Ora, si è troppo confuso qui, per scambievole tolleranza, l'aspirazione delle cose da fare, cioè il programma, con la Costituzione, cioè con il consolidamento di una cosa già fatta. La Commissione, dunque, ha divagato spesso fra le cose più opposte tra un lontano avvicinamento con una dialettica materialista ed un continuo e reale avvicinamento a una politica cattolica ed alle leggi che sono fondamentali della nostra società conservatrice, ma anche i democristiani han parlato spesso per le masse assenti lo stesso linguaggio dei loro avversari.
In generale, le Costituzioni fatte in questo modo o in forma affine non hanno la probabilità di eternarsi. Nessuna di queste Costituzioni fatte nei nostri tempi, dopo l'ultima guerra, è durata; tutte sono cadute l'una dopo l'altra.
Che cosa avverrà della nostra Costituzione? È sperabile che noi possiamo fare una Costituzione saggia che potrebbe, se sarà logica, temperata e serena, durare almeno quegli anni che ci permetteranno di andare verso il nostro consolidamento.
Io non mi preoccupo di questa Costituzione che dobbiamo fare per il lontano avvenire. Mi preoccupo per il presente e per il prossimo avvenire. L'indirizzo che noi daremo, agirà sulla nostra situazione attuale e nella prossima e agirà in forma che noi stessi non sospettiamo. Quando noi avremo messo nella Costituzione nuovi oneri, saremo costretti a rispettarli, e se non potremo rispettarli, perderemo, da parte nostra, ogni rispettabilità. Ciò che si promette e si annunzia deve essere mantenuto.
Vi è qualche cosa che gli antichi filosofi e i vecchi pensatori idealisti chiamavano la visione de optimo statu, la tendenza di andare verso quello Stato che si crede migliore non solo, ma definitivo. È tendenza degli uomini, perché non andranno mai verso una Costituzione definitiva della società, e sarebbe sventura se vi andassero. Noi non sappiamo l'avvenire, ma possiamo prevedere soltanto il prossimo domani. Ora il prossimo domani ci preoccupa molto, in quanto riguarda noi stessi e i nostri figliuoli.
Non cerchiamo formule astruse, non creiamoci illusioni, né sogni di avvenire.
Solone... (si può citare senza far ridere?) Per il pubblico, Solone è un dotto e severo personaggio leggendario; era viceversa un uomo brillante, un artista ed un poeta, un filosofo e un uomo politico. Quando fece la Costituzione di Atene, richiestogli se avesse fatto la migliore Costituzione, rispose: «No, ma la più pratica, la più conveniente». Io faccio l'augurio che la Costituzione che ci è stata preparata, divenendo la Costituzione che faremo, sia la più pratica e la più conveniente. Sappiamo che siamo fra quelle nazioni che hanno il privilegio di illudersi facilmente. In materia di Costituzione nessuno si è illuso mai e ha mutato così spesso strada, come i Paesi latini. I grandi Paesi latini, Francia, Spagna e, spero, non l'Italia, hanno avuto in materia di Costituzione le più deplorevoli mutabilità. La Francia ha cambiato, nello spazio di meno di 150 anni, 13 volte la sua Costituzione, la Spagna ancora di più. Io spero che l'Italia rompa con questo triste privilegio delle nazioni latine di fare in continuazione cambiamenti delle loro Costituzioni, come delle loro leggi. Nulla nuoce come la instabilità, non solo delle leggi.
Uno scrittore americano, il Bliss, racconta che, andando in Francia al tempo di Napoleone III, entrò da un libraio, e domandò: Avete un esemplare della Costituzione? Il libraio rispose sorridendo: No, signore, noi non vendiamo pubblicazioni periodiche! (Si ride). Io mi auguro e spero che noi non apriremo la serie delle pubblicazioni periodiche, ma che faremo una Costituzione saggia, equilibrata, e veramente applicabile. È per questo che non deve essere basata su speranze o visioni di avvenire e che non si deve confondere la Costituzione con i programmi dei partiti. Così solo si può trovare il modo di fare, come direbbe Solone, una Costituzione «convenevole», cioè adatta al nostro Paese.
In poco tempo la Francia, dopo la rivoluzione del 1789, ha cominciato, dal 1791 fino alla Costituzione dei 1875 col cambiare leggi costituzionali in permanenza. Soltanto la Costituzione del 1875, che è una Costituzione repubblicana fatta da monarchici ed in fondo una Costituzione conservatrice, è la sola che sia durata tanti anni, cioè dal 1875 ad ora.
I Paesi che hanno più cambiato la loro Costituzione, dunque, sono proprio i Paesi, non dirò della nostra razza, ma della nostra civiltà. Uno dei più grandi spropositi degli ignoranti è di parlare sempre di razze latine che non sono esistite e non esistono. Questa parola «razza» non ha nel caso nostro nessun significato. Noi e la Francia siamo due Paesi di civiltà latina, ma non di razza latina, e siamo i due Paesi di Europa che hanno più diversità di razze e, forse, da questo dipende anche la varietà del nostro genio nazionale.
Noi dobbiamo orientarci e dirigerci secondo le esigenze della nostra situazione e secondo le aspirazioni delle forze che abbiamo. Ora, nella Costituzione che ci è presentata io ho visto molte cose interessanti, ma per molte di esse mi è venuto il dubbio della loro utilità e per molte, più ancora, mi è venuto il dubbio della loro applicabilità.
Non voglio fare alcuna allusione poco riguardosa all'amico Ruini dicendogli che vi sono nello schema di Costituzione troppe cose che egli ha dovuto accettare e che non sono possibili nella realtà, né utili. Io mi auguro che egli possa fare opera di coordinazione, non solo, ma di semplificazione e di chiarificazione, ciò che Dante dice di Giustiniano, «che trasse dalle leggi il troppo e il vano». Io credo che da questo schema bisognerebbe proprio togliere il troppo e il vano, e che l'amico Ruini, quando saremo alla coordinazione, egli stesso possa aiutarci in questo lavoro.
Occorre rendersi conto che la Costituzione proposta contiene quasi il prolungamento della situazione attuale, di quel compromesso che è tra la parte socialista e comunista, e la parte democristiana. Nel non toccare alcuni argomenti, nel sorvolare su altri e soprattutto nell'ignorarne ancora altri, finiremo pure per doverci decidere. In questo schema di Costituzione vi sono molte cose utili, ve ne sono altre inutili, ve ne sono altre vane (come direbbe Dante), e ve ne sono infine altre dannose. In realtà, osservando la Costituzione, si trova che vi è una non dichiarata tendenza a prolungare la situazione di questa Assemblea, in cui c'è un Governo formato da parti opposte, che certamente è stato effetto di necessità, ma che deve contemperare le tendenze più opposte; si trovano insieme nel fondo il catechismo e la dialettica marxistica. Per necessità di convivenza, non si dicono tante cose e non si va mai a fondo di tante questioni.
Se voi guardate la Costituzione, notate una tendenza per cui tutto fa capo al Governo, ed il Governo è interamente l'Assemblea, perché il Governo non è formato che dall'Assemblea. Tutto passa attraverso il Governo e quindi attraverso l'Assemblea. Il Governo non è che la risultante dei tre partiti dell'Assemblea ed in una forma tale che non ha diretta manifestazione, ma solo i capi dei partiti di massa ne sono gli arbitri.
Osservando gli articoli ad uno ad uno (non entrerò nel dettaglio, ma lo farò quando parlerò dei titoli e degli articoli), io mostrerò che tutto deriva dall'Assemblea. Si dice nel testo della Costituzione che tutto deriva dal popolo. Supponendo che l'Assemblea sia il popolo (ma l'Assemblea non è tutto il popolo), tutto, è vero, passa traverso l'Assemblea, ma in realtà tutto è determinato dall'azione dei capi dei grandi partiti. Nel progetto della Costituzione si dice che tutto deriva dal popolo. Il popolo, si afferma, sono i lavoratori. Noi tutti siamo lavoratori, ma il progetto è indeterminato e non dice nulla di preciso. Nelle leggi inglesi, voi troverete sempre la definizione dei termini adoperati: «Lavoratore è colui, ecc.», e qui si definisce chi si intende per lavoratore.
L'Assemblea, secondo il testo dello schema proposto, è eletta dal popolo; la sovranità deriva dal popolo; ma, in realtà, poi, tutto è fatto dall'Assemblea e del popolo non si parla più. L'Assemblea nomina il Presidente della Repubblica, l'Assemblea nomina quella Corte Costituzionale che io, in verità, non ho capito cosa voglia essere e prego qualcuno di spiegarmelo, e di dirmi a che cosa serva, e chi e perché l'ha inventata. L'Assemblea dispone in fondo anche della Magistratura; l'Assemblea decide di tutto, senza che vi sia alcuna altra forma di intervento fuori e senza che il popolo c'entri per nulla.
L'Assemblea, nel momento attuale, in realtà è composta soltanto di due partiti. Erano prima sei partiti, poi, per diminuzione, si è andati a tre e mezzo. Ora, si è a due di fatto, perché gli altri sono fuori, e questa forma di Assemblea fa sì che nulla si possa fare al di fuori di questi partiti o gruppi di partiti. Voi sapete come anche le nostre discussioni siano superflue, quando i capi di questi movimenti hanno deciso quale deve essere la decisione. In realtà, nulla si muta, nulla si può mutare.
In Italia, uno dei mali più grandi e più diffusi è l'ottimismo. Noi non vogliamo vedere mai la verità come è e siamo disposti sempre ad una visione ottimistica.
Proprio ora si propongono doveri nuovi, che determinano non solo responsabilità enormi, ma spese enormi, superiori alle forze economiche dell'Italia e a cui si dovrà mancare dopo avere assunto impegni. Si promette tutto ciò che non si può mantenere, e, con ostentata leggerezza, si assumono impegni che si sa fin da ora non saranno mantenuti. Ma agli effetti del pubblico e degli elettori pare vantaggioso promettere. E poi?
Quando esamineremo gli articoli, vi farò vedere quali impegni andiamo a contrarre e quali viceversa sono le nostre possibili risorse, le risorse utilizzabili di questo povero grande Paese, cui la natura ha dato, dal punto di vista della ricchezza naturale, così poco; e che deve vivere sovrattutto del suo sforzo e della sua tenace energia di lavoro. E quante istituzioni inutili e costose si propongono e anche tali che nessuno aveva mai sognato!
Non senza meraviglia, come ho detto, ho trovato la proposta della creazione d'una Corte costituzionale. In passato, non mi risulta che ci sia stata mai la preoccupazione della istituzione d'una Corte costituzionale. Come è nato questo fungo?
Dove esiste una Corte costituzionale, come quella che è stata ideata per l'Italia? Si confonde forse con la Corte suprema degli Stati Uniti d'America, con il Tribunale di Lipsia, col Tribunale svizzero di Losanna? E che cosa hanno di comune queste modeste e semplici e normali istituzioni con la strana creazione che si vuole adottare?
Una Corte suprema come quella di cui si parla in questa Costituzione io non l'ho veduta mai, in nessuno dei paesi in cui ho vissuto, in cui ho viaggiato.
Quando ero in America, visitai la Corte suprema con l'amico Guglielmo Marconi, che mi era legatissimo, che mi accompagnava ovunque andavo. (La nostra amicizia così intima finì solo quando egli divenne fascista). Ebbi l'onore di essere invitato dal Presidente della Corte suprema White, che tenne a farmi assistere a una seduta.
Una grande semplicità nelle forme (in Italia, quando si parla di Corte Suprema, si suppone certo un palazzo più grande del Palazzo di giustizia, qualcosa di solenne, con numero enorme di personaggi e soprattutto di funzionari): lì non c'erano che sette giudici e vestivano tutti molto modestamente (in abito da mattino; tutti avevano aspetto sereno ed erano sotto la presidenza del vecchio, White, che dirigeva col martello di legno la discussione.
Di che cosa si occupava quella Corte?
Gli Stati Uniti d'America costituiscono un Paese più grande di tutta l'Europa, tranne la Russia; qualcuno dei 48 Stati, come il Texas, è molto più grande dell'Italia ed anche della Francia e della Spagna, mentre l'Italia rappresenta solo i tre quinti del territorio degli altri due paesi latini.
Tutti i più grandi affari venivano davanti alla Corte suprema; non solo quelli che riguardavano la natura delle leggi, per stabilire se queste violassero la Costituzione, ma tutte le grandi questioni fra i 48 Stati (questioni di acque, di territorio ecc.).
La Corte suprema americana ha una funzione d'importanza senza pari. E da noi che farebbe questa caricatura di Corte costituzionale?
Si deve occupare delle piccole controversie, se non mi sbaglio, per quelle forme locali, le regioni, che sono state ideate e che mi hanno sbalordito per la loro strana e dannosa natura. Queste forme, che dovrebbero sostituire l'ordinamento attuale, si suppone pur da ora che se esistessero sarebbero numerosissime.
Si pensa dunque di sostituire alle attuali prefetture un nuovo ordinamento regionale che abbia carattere elettivo e natura del tutto diversa dall'ordinamento attuale. Queste nuove forme politiche e amministrative della regione possono venire in conflitto fra esse o con lo Stato. In fondo, quale sarebbe l'occupazione abituale di questa Corte Suprema, di cui nessuno sente il bisogno, che non esiste in nessun paese, e di cui nessuno sa le possibilità di esistenza e di sviluppo?
Io dunque vedo in questa nuova istituzione che entra tra le cose vane, non fra le cose dannose, non fra le cose dissolventi, io vedo un danno, e una inutile illusione. Non è la Corte suprema che minaccia il disastro come la creazione delle regioni; non mi spaventa, ma ne vedo la inutilità e la grande spesa; l'equivoco e anche la goffaggine.
Una cosa che mi spaventa e che non devo tacere è, devo dirlo, tutto il titolo quinto della legge che riguarda il fatto nuovo, che non è stato mai finora visto né preveduto: quello delle regioni.
Su questo argomento non dirò ora che poche parole soltanto, ma spero di discuterne a fondo, quando si discuterà a parte. Spero di poter esaminare parola per parola la parte che riguarda le cosiddette autonomie regionali, a cui si voglion dare funzioni per cui scomparirebbe tutto quello che rappresenta il passato, e le regioni sarebbero il centro di tutta la vita locale italiana. Io ne ho paura; credo che esse sarebbero il dissolvimento di tutta la vita italiana.
Le regioni quali sono? Come costituite? Quali sono le loro origini? Chi ne ha trovata la ragione di esistenza? Quando ho letto l'elenco di quelle che dovrebbero essere le regioni, ho visto che per spiegarle si sono invocati tutti gli avvenimenti del passato, i Romani, i Sanniti, i Goti, i Normanni e siamo arrivati persino ai Dauni e alle fantasie più inverosimili. Si vuole inventare persino la regione Emiliana Lunense, che sarebbe piuttosto una cosa lunatica. (Si ride).
Micheli. Lunense, da Luni.
Nitti. Sì, lo so. Ma lei aveva mai sentito parlare nella sua giovane vita di una regione Lunense?
Micheli. Abbiamo sempre avuto questa aspirazione, giovani e vecchi della mia regione.
Nitti. Io lodo le aspirazioni. Sono utili a tutte le visioni, a tutti i sogni. Ma è proprio il momento di avere delle aspirazioni di questo genere? (Si ride).
Micheli. Noi le abbiamo anche in questo momento.
Nitti. Credo che perfino la regione Daunia sorta nell'Italia meridionale abbia più fondamento che la regione Lunense.
Io ho fatto una raccolta. Mi hanno spedito una gran mole di documenti per le regioni istituende. La regione pareva dovesse essere una cosa enorme e adesso vi ci andiamo riducendo a poco a poco. Prima le grandi regioni, poi le province che diventano regioni, poi avremo addirittura anche un solo circondario che vorrà diventare regione. Vi sono anche non delle province, ma delle zone di provincia che vogliono trasformarsi in regione.
Io vi preparerò un piccolo studio sulla spesa che porta questo cattivo scherzo delle regioni che può dissolvere la vita italiana. Io prevedo come l'unità d'Italia, che ha sofferto tante insidie, dovrebbe dissolversi ancora. Signori, l'Italia non sarà, l'Italia non vivrà, se non sarà unita. Voglio dire all'onorevole Togliatti che gli son grato di avere osato dire che l'Italia deve rimanere unita. Egli è comunista, ma dal punto di vista nazionale ha compreso che non bisogna lanciarsi in un'avventura di cui non possiamo, immaginare la gravità. (Applausi).
Piccioni. È tutto il contrario, semplicemente.
Nitti. In Italia dunque, si è avuta la cattiva idea di dividere il territorio nazionale per regione; la Francia l'ebbe, per un momento, ai tempi di Pétain e di Laval. Non furono i rivoluzionari a pensarci, furono i reazionari. Ma siccome lo spirito pubblico si opponeva, benché per la sua storia la Francia avesse più motivi di noi per avere delle regioni, vi dovette rinunziare. I Tedeschi occupando il territorio francese aiutavano il movimento per la costituzione della regione. La Francia fu contraria e mostrò il suo malcontento e allora Pétain si dovette limitare ad istituire dei prefetti regionali, riunendo due o tre province, che conservavano ciascuna la loro Prefettura e il loro prefetto, ma sotto un prefetto regionale: una cosa dunque completamente fatua e inutile.
Delle istituende regioni dobbiamo misurare non solo il danno politico, ma anche il danno economico, perché sarebbero una superstruttura che aumenterebbe enormemente le spese attuali. Su questo argomento, non debbo improvvisare fugacemente, ma ne discuterò largamente e serenamente, perché da questo dipende gran parte della situazione interna. Noi dobbiamo dunque, in questa materia, essere estremamente prudenti. La Francia ha avuto la sapienza di non mutare nulla per quanto riguarda il suo territorio e non ha ammesso su ciò nessuna discussione nella sua Assemblea Costituente. La Francia si è tenuta unita pur nelle sue difficoltà attuali, pur nel Governo dei tre partiti, come il nostro. Essa ha tenuto soprattutto alla sua integrità territoriale. Ora, noi abbiamo già troppo umiliato la nostra struttura territoriale. E non sono stati gli estremisti, ma siamo stati noi stessi dei partiti moderati, quando, con quella funesta separazione della valle d'Aosta, abbiamo dato il primo segno del disfacimento nazionale. Terribile umiliazione voluta da noi stessi: l'onorevole Saragat deve ricordarlo, non era da principio che un prete intrigante e poligamo che ai tempi dell'occupazione militare francese aveva cercato, per servizio ai francesi, di separare la Val d'Aosta. E di là è nata questa delittuosa separazione, perché quando si è data alla Val d'Aosta l'autonomia, come volete che si neghi alla Sicilia, alla Sardegna o ad altre zone italiane messe alla estremità del Continente? È stata aperta la triste serie degli errori, l'era delle regioni più pazzesche e della disintegrazione.
Ma la Francia, che aveva ben più ragioni di dare delle autonomie, non le ha volute; la Francia ha non solo la Corsica — che pure è di lingua italiana e completamente separata dal continente, e che come isola vive della sua vita — alla quale non ha pensato un momento solo di dare l'autonomia; ma ha anche il Paese dei Baschi, grosso territorio, grossa zona, ricca agricola e industriale, in cui si parla una lingua ignota in Europa, la lingua dei Baschi, di origine ignota anche ai filologi. Questo paese dei Baschi ha dato molti tra i più, grandi personaggi francesi e i più grandi capi militari, tra cui il Maresciallo Foch. Persino Barrère, che per tanti anni a Roma si è occupato (anche troppo) di politica italiana, era un Basco. Ebbene, se un paese poteva avere, secondo questi concetti, l'autonomia, era il paese dei Baschi. La Francia, per non rompere la sua unione, profonda unione unitaria, non l'ha voluto. E nessun partito francese l'ha chiesta. State sicuri che se noi stessi che facciamo politica non avessimo creato questo movimento, basato sull'equivoco e sull'errore, nessuno si sarebbe affrettato a chiedere autonomie. Noi discuteremo pacatamente di queste autonomie, perché riguardano la vita stessa dell'Italia.
Ma, signori, la Francia (di cui so tutti gli errori, tra cui quelli commessi verso di noi) ha un senso politico che spesso a noi manca. Io amo molto la Francia, benché spesso abbia combattuto il suo nazionalismo. Oltre metà della mia famiglia è francese per le vicende dolorose dell'esilio; io ho i miei amici più intimi — o molti di essi — in Francia. Ero stato in Francia trentacinque volte prima di andarvi per venti anni, in esilio. Io amo la Francia come il mio Paese; ma la Francia si è regolata molto male verso di noi ed ha rovinato il nostro confine occidentale dal punto di vista politico della difesa nazionale ancora più che dall'altra parte sia stato rovinato dalla violenza dei nemici il confine orientale. La Francia ha la colpa di aver seguito alcuni movimenti che non doveva, nel suo stesso interesse, seguire; è la Francia che ha tutto l'interesse ad essere unita con l'Italia. L'Italia che è un povero paese (non è che tre quinti del territorio della Francia, e assai meno della metà del territorio agrario), l'Italia che è povera, l'Italia che ha fatto la sua industria con uno sforzo tenace, l'Italia nella sua modestia, nella sua povertà è paese meraviglioso che ha creato l'industria senza i due diamanti neri della produzione: il ferro e il carbone. L'Italia ha creato la sua vita economica senza risorse. La Francia ha tutto, è il paese di Europa naturalmente più ricco, molto più della stessa Inghilterra, molto più della Germania, che all'infuori del carbone, delle ricchezze minerarie, è ben lontana dall'avere quanto ha la Francia.
La Francia ha interesse di fare l'unione con l'Italia, ed è soltanto da questo paese nostro che può ricevere, nella sua decadenza demografica, quei quattro o cinque milioni di uomini che sono necessari alla sua ricostruzione. Gl'italiani però non debbono andare in Francia come poveri emigranti, soggetti a tutti gli arbitrî di ogni piccolo funzionario di polizia, ma debbono andare come ospiti desiderati, e debbono poter diventare in breve tempo cittadini francesi, nell'interesse stesso dell'Italia e della Francia. Non ospiti provvisori e considerati con diffidenza, ma cittadini francesi.
Ora, la Francia ha dei grandi torti verso di noi e noi abbiamo dei grandi torti verso di essa. Questa generale confessione dei torti è necessaria per la vera unione. Comunque, la Francia ha dato in questi ultimi tempi saggio di moderazione e speriamo dia prova di grande comprensione.
L'Italia ha perduto la guerra, ma la verità è che l'ha perduta anche la Francia, e soltanto per l'abilità politica dei suoi Capi, per l'energia di alcuni suoi uomini e per la volontà popolare, la Francia ha preso l'atteggiamento di paese vincitore, ma la Francia è stata vinta come noi e più di noi.
Non esiste in Europa nessun paese che abbia avuto come la Francia un così enorme numero di prigionieri in proporzioni senza precedenti. Non è stata una disfatta, ma uno sciopero militare, dovuto non a mancanza di spirito guerriero, ma ad un complesso di cause di ordine sociale e politico.
La Francia ne ha avuto un crudo dolore, perché essa è il più grande paese guerriero dell'Europa e con le più grandi tradizioni e ha dovuto subire una disfatta tale che nessuno poteva prevedere.
La Francia è paese dei più strani contrasti, che passa da un eccesso ad un altro, che prima ha inventato i Templari e poi li ha uccisi, che prima è stata la figliuola diletta della Chiesa, e poi si è messa contro la Chiesa.
La Francia è stata sempre inquieta e mutevole, e da questo deriva anche la sua azione spesso contraddittoria, ma sempre tale da agire con il suo esempio sugli altri paesi.
La Francia in questo momento, ci ha dato un insegnamento grande. Ha evitato, nel fare la nuova Costituzione (che non è del tutto felice, ma che rappresenta uno sforzo ammirevole), o almeno ha cercato di evitare le questioni più difficili e che avrebbero troppo a lungo divisi gli animi. Le sue divisioni interne, sono aspre soprattutto nel campo economico. Cattolici, socialisti, comunisti sono profondamente divisi e quindi, volendo coabitare nel governo, sono inefficienti. Ma evitano per quanto è possibile tutti i contrasti fuori del campo economico. Noi pretendiamo discutere e regolare anche le cose più pericolose e di difficile definizione. Quali saranno i rapporti nostri non solo nell'ordine sociale ed economico, ma anche nell'ordine religioso? Quali saranno i nostri atteggiamenti nella vita sociale?
In materia difficile la Francia ha trovato formule concilianti nella sua Costituzione.
La Francia, dopo le vicende del processo Dreyfus, è stata in lotta per molti anni con la Chiesa. Questa figliuola diletta della Chiesa, la Francia, sempre ribelle nei suoi atteggiamenti, ha avuto un lungo periodo di battaglie, in cui vi è stata la separazione della Chiesa dallo Stato. La separazione non ha rovinata, come si credeva, la Chiesa; le ha dato maggiore dignità e prestigio. Il clero francese è forse ora il clero più intelligente e più colto d'Europa. Io andavo a Parigi spesso nelle librerie cattoliche per vedere le loro pubblicazioni, non solo di ordine religioso, ma di ordine economico, giuridico, storico, ed avevo modo di constatare l'intelligenza e la dottrina di quel clero che, nel suo complesso, ha una più grande combattività di quello degli altri paesi. Ora, in Francia una cosa mi ha sorpreso in questi avvenimenti, ed è come sono state risolute nella Costituzione questioni spinose e che parevano insolubili. La Chiesa è in una completa separazione dallo Stato. Il clero ha dovuto finora vivere delle sue risorse, la Chiesa e i luoghi di culto e le istituzioni locali e religiose sono stati mantenuti dai fedeli.
La Francia ha il divorzio e la sua legislazione è impregnata di spirito laico. Dopo le elezioni i cattolici sono arrivati in gran numero alla Camera francese; tutti si aspettavano che cosa avrebbero fatto; se avessero voluto modificare la situazione e in quale misura avrebbero, con abili compromessi, potuto modificarla. Ma, di fronte alle cose che più turbano la Chiesa, come il divorzio, il clero non riceve aiuti dallo Stato. Ora, dunque, tutti si attendevano che cosa avrebbero fatto i cattolici. Ebbene, la Francia ha risolto le cose nella forma più semplice. L'articolo primo della nuova Costituzione francese in poche parole riassume la situazione.
Questo è il foglio che fu dato a tutti gli elettori per votare per il referendum: l'articolo primo dice così:
«La France est une République indivisible, laïque, démocratique et sociale» Dunque, il clero francese, con un senso di saggezza, riservandosi di risolvere le questioni più spinose del tempo, di risolverle con prudenza ed efficacia, per via di legge, ha riconosciuto in questo documento che la Francia è una repubblica indivisibile; dunque niente spezzettamento del territorio. La Francia non vuole le autonomie locali che possono dividere il territorio francese. Dunque, la Francia è non solo indivisibile, ma laica e democratica, e sociale.
Ebbene, signori, con questo rigo soltanto i Francesi hanno definito una situazione difficile e l'han risoluta con abilità e prudenza. I cattolici hanno dato prova di saggezza ed hanno osato non volere nella Costituzione cose che non si potevano eliminare senza mettere in pericolo la pace sociale.
Che sarà in avvenire? Nessuno di noi sa; nessuno di noi può prevedere l'avvenire. La Francia deve risolvere il problema angosciante della sua popolazione: presenta il fenomeno terribile ed unico in Europa fra i grandi paesi, di una popolazione in cui le nascite diminuiscono e le morti aumentano. La Francia, che ha problemi difficili da risolvere, ha cercato di non complicarli ulteriormente. Ha avuto saggezza e l'hanno avuta soprattutto i cattolici.
E noi, cosa faremo? Potremo noi sorpassare questa ondata di malessere? Quando vedo gli impegni che assumiamo (vi leggerò le cifre della situazione, non oggi, ma quando parleremo su ognuno di questi punti) sono preso da tristezza. Vi citerò queste cifre senza alcun riguardo per le impressioni che potranno produrre. E perché dobbiamo aggiungere minacce di pericoli e danni come le cosiddette autonomie locali? I Francesi non le han forse respinte senza esitare? Una sola cosa devo aggiungere ed è che queste autonomie locali io le considero come la peggiore minaccia, nell'ora presente. Dannose a tutti, sarebbero disastrose per l'Italia meridionale. Io ho l'impressione che, dividendosi le regioni, la situazione non solo non migliorerà, ma peggiorerà rapidamente. Il giorno in cui l'Italia fosse divisa, l'Italia meridionale sprofonderebbe ancora più in basso.
Una voce a destra. Nessuno la vuole dividere!
Nitti. Quando io pubblicai circa quarantacinque anni or sono la mia opera Nord e Sud che divise, allora, l'animo degli italiani, non avevo uno scopo di divisione, ma uno scopo di ricostruzione, affermavo solennemente, e con passione di fede, che bisogna sempre a ogni costo rimanere uniti.
È venuto poco tempo fa dall'America l'onorevole La Guardia, mio vecchio amico da venticinque anni, uomo di solido buon senso, non un dottrinario, ma persona di larghissime conoscenze, pratiche e di solida competenza. In questo stesso palazzo, da uomo onesto, ci ha dato degli avvertimenti di cui dovremmo tener conto. Nessuno più di lui poteva meglio darli. La Guardia per le sue grandi attitudini e, cosa anche più ammirabile, per la sua grandissima onestà, è stato il sindaco di New York più volte rieletto e che ha più lungamente durato. New York è la più grande città del mondo. Essa sola ha due volte più abitanti e assai più che due volte di tutta la Sicilia. Ha bilancio superiore di molto a quello di tutta l'Italia e i poteri del sindaco sono immensi. La Guardia, che è figlio di padre italiano e meridionale, può bene comprenderci e ha tutta l'autorità per darci consiglio, come ci ha dato aiuto.
Il primo avvertimento che La Guardia ci ha dato è stato questo: signori, rimanete uniti, non cercate nemmeno con troppa fiducia i vostri compratori all'estero; prima di cercarli all'estero, cercateli nell'Italia stessa. Voi siete il vostro migliore mercato. Non vi illudete che le situazioni attuali create dalla guerra dureranno. Noi non compreremo più, dopo qualche tempo, molti vostri prodotti, nemmeno forse gli agrumi, nemmeno le cose che voi credete più facili da esportare. La situazione cambierà.
Persino gli agrumi, egli ha detto, noi li produrremo in abbondanza da noi, non abbiamo bisogno dei vostri.
Io vedo che in Sicilia (mi perdoneranno i miei amici siciliani di dire tutta la verità) vi è in alcuni, fortunatamente non in molti, l'illusione che l'isola distaccandosi economicamente starebbe meglio.
No, signori; starebbe assai peggio. La Sicilia sarebbe sterminata.
Io ho fatto un conto che non ho difficoltà di esporvi oggi solo in modo sommario: Ma continueremo a fare su questa via in un esame accurato e sereno. Voi sapete qual è la situazione della Sicilia?. Si crede in Sicilia e nei paesi del Sud, che le regioni meridionali diano molto allo Stato, e ne ricevano poco. Lo Stato spenderebbe per loro meno di quanto riceve. Non è vero. Ciò era vero quando io scrissi 45 anni fa Nord e Sud. Ora la situazione è mutata. Se esaminate la situazione attuale, voi avrete la strana sorpresa di vedere che ormai in Sicilia lo Stato italiano, negli ultimi 6 mesi dell'anno scorso, luglio-dicembre, ha incassato 4.800 milioni ed ha speso 8 miliardi; che in Calabria ha incassato 1.240 milioni ed ha speso 2.162 milioni; che in Campania ha incassato 7.200 milioni ed ha speso 11.650 milioni; che in Toscana ha incassato 6.800 milioni ed ha speso 8.255 milioni.
Una voce al centro. Ci dia i dati dell'Alta Italia, quelli della Lombardia.
Presidente Terracini. A dei numeri si contrappongono dei numeri, non delle parole. Prosegua, onorevole Nitti.
Nitti. Ora, vi volevo dire soltanto che laddove più si grida, le cose che si dicono non sono vere, perché il rapporto che io feci 45 anni fa, ora è mutato. I paesi meridionali e la Sicilia hanno diritto ad una grande considerazione. Ma questa deve essere nota di realtà. L'Italia meridionale ha funzionato per molto tempo come una colonia di consumo, ha reso possibile e pagato con il suo sacrificio il protezionismo industriale che ha creato e reso vitale e solida l'industria nell'Italia del Nord.
Non per sua colpa il Mezzogiorno non ha potuto svilupparsi allo stesso modo. Ora invece la realtà è che noi non potremo fare la nostra trasformazione se non resteremo uniti. Quando si dice che i paesi meridionali, essendo produttori di merci che non costituiscono materia di concorrenza estera, staranno molto meglio allorché potranno vivere isolatamente, si dice cosa non vera. Io vi do una sola cifra che vi dice la situazione attuale. Nel bollettino del Banco di Sicilia avrete letto facilmente una cifra che è impressionante: nei primi nove mesi del 1946 le esportazioni dalla Sicilia in valore sono state verso l'estero di quattro miliardi e verso l'Italia di 16 miliardi e mezzo. Noi siamo il nostro mercato migliore e più grande.
Ora dunque noi dobbiamo essere uniti in tutto, e soprattutto nelle ore difficili. La Guardia ha detto: «Voi dovete essere prima di tutto vostri compratori». (Io vi parlo della Sicilia, ma altrove le cose sono anche più gravi. Quando vi parlo della Sicilia vi dico una cosa che posso estendere alle altre regioni). Noi dobbiamo basarci sulla realtà. La Sicilia, come l'Italia meridionale tutta, non può distaccarsi, e l'Italia del Nord non può distaccarsi da noi senza a sua volta decadere e perire.
Piccioni. Ma questo è un problema inesistente; perché nessuno pensa di distaccarle. (Commenti). È un problema immaginario.
Nitti. Io so che cosa significa autonomia e so che cosa significa separazione. Ma le autonomie come sono state concepite non solo portano al disordine interno, alla dissipazione, al rovesciamento di ogni ordine finanziario, ma a volte portano necessariamente alla divisione politica e, o prima o dopo, al separatismo. (Vivi applausi).
Piccioni. Dimostreremo il contrario.
Conti. Questa è la sua opinione. Vi sono altre opinioni autorevoli. (Commenti).
Nitti. Queste Cose si discutono tecnicamente e con serenità di spirito. (Vivi applausi).
Signori, io avrei ancora troppe cose da dire. Se qualcuno troppo irrequieto dubita, io potrò dirgli come disse frate Tommaso Campanella al suo inquisitore: «Io ho consumato più olio della mia lampada a studiare che tu ne hai consumato di vino»!
Io ho il diritto di parlare perché quello che dico è il risultato di lunghi studi e di sincera passione. Io ho una fede che sovrasta ogni altra passione: l'Italia. Signori, noi siamo tutti in pericolo, non vi illudete. Vi esporrò le cifre della situazione attuale. Noi abbiamo il torto di non voler vedere la realtà, che è preoccupante non a lunga distanza ma anche a brevissima: situazione industriale, situazione finanziaria, situazione economica, tutto è incerto e traballa. Noi produciamo già a costi troppo elevati. Che cosa sarà domani? Al risveglio di molte industrie, e soprattutto di alcune categorie di industrie, vediamo le nuvole che si addensano sull'avvenire. Dobbiamo affrontare con serietà e coraggio i problemi essenziali della nostra esistenza.
Altre volte ho detto in quest'aula che noi di ogni parte politica e di ogni ceto sociale siamo legati allo stesso destino, noi e i nostri avversari. Ci salveremo tutti, o periremo tutti. Ma per salvarci occorre una fede comune. Questa fede non può essere che l'Italia. Troppo la fazione è prevalsa, troppo prevale lo spirito di parte. A noi, divisi da ideali, e da interessi opposti, ma uniti dal pericolo comune, occorre riunire nello sforzo comune tutte le nostre energie.
Non voglio parlare un linguaggio che possa sembrare di vanità, né posso darmi il lusso di esporre alcuna idea di costruzione per l'avvenire. Questa discussione, nel mio concetto, dev'essere fatta, se non ora, appena sarà possibile, deve essere profondamente realista, ma avere di mira il grande ideale della resurrezione del Paese. Le forme politiche costituzionali che adotteremo dovranno essere non quelle che possano dissolvere, ma quelle che possano concorrere all'unione nazionale ed al rinnovamento della vita economica.
Permettete ora che aggiunga soltanto che tutto ciò che ho detto è poca cosa, ma che tutto ciò che vi dirò — e spero assai più efficace — è il frutto di una convinzione maturata da tanti anni di osservazioni e di studio, in cui non ho avuto presente che l'avvenire del mio Paese e non ho pensato mai, come non penso mai, a me. Io so come si possa giungere alla concezione di una resurrezione dell'Italia, anche attraverso il sacrificio ed il dolore, e spero che la mia opera non sarà vana, in questo momento di preoccupazione e di ansia. Non posso chiudere le mie parole che auspicando un'Italia che risorga, in un sacrificio comune ed in una volontà tenace di resurrezione. (Applausi vivissimi — Congratulazioni).
(La seduta, sospesa alle 18,15, è ripresa alle 18,49).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Damiani. Ne ha facoltà.
Damiani. Confesso che sento un certo imbarazzo a prendere la parola dopo l'onorevole Nitti. Il suo discorso, così alto per dottrina e fede, è una grande luce, e dopo questa luce è logico che si debba vedere dell'ombra.
Ma dal nuovo spirito democratico che anima l'Italia trarrò il conforto necessario per compiere il mio dovere. Noi abbiamo una grande guida che è la voce della nostra coscienza, la quale voce non è certo opera nostra. È un mistero che cosa essa sia, è un mistero che cosa sia il nostro pensiero, e che cosa sia il nostro spirito. Sono questi, problemi che hanno affannato tutte le menti da secoli e secoli e ancora nessuno è riuscito a definirli. Ma, in ogni modo, il pensiero, è una realtà, come è una realtà la voce della coscienza, e possiamo credere — e chi crede in Dio sente che così è — che questa voce della coscienza è anche, o forse è solo, la voce di Dio, in quanto che essa ci fa sentire il giusto, e l'ingiusto, il bene e il male, ci fa sentire ciò che dobbiamo e non dobbiamo fare, ci fa provare piacere quando facciamo un'opera buona e dolore quando abbiamo compiuto un atto non degno di noi.
Noi, rappresentanti del popolo, abbiamo oggi un sacrosanto dovere: quello di operare e lavorare intensamente perché il popolo possa ottenere quella Carta fondamentale da cui l'Italia, e forse anche il mondo, aspettano il trionfo della vera democrazia; di quella democrazia che è libero orientamento delle coscienze, che è tutela delle libertà fondamentali di pensiero, di parola, di associazione e di religione, che instilla nell'animo un senso di fraternità universale, di carità verso i bisognosi, di pietà anche verso i colpevoli.
Ed oggi noi ci troviamo di fronte a questo grande fenomeno storico del trionfo del principio della democrazia; e sentiamo così forte questo principio che esso pervade la nostra anima, e illumina la strada che dobbiamo percorrere, dopo l'oscuro e lunghissimo periodo di soffocamento subìto.
Oggi si respira aria pura.
Ebbene, quest'aria pura, che la democrazia ha fatto nascere, bisogna che si mantenga tale.
Il problema nostro è di rafforzare la democrazia, di evitare qualsiasi coercizione per il futuro, di fare maturare nel popolo il senso democratico ed il senso della libertà.
Ora, il progetto di Costituzione, che noi esaminiamo, è un progetto complesso ed è frutto d'un lavoro appassionato e fervido.
Quando si parla da questo posto, non si parla solo agli onorevoli colleghi, ma anche a tutto il popolo italiano, e quindi si possono dire cose che potrebbero essere considerate superflue dai colleghi, ma non lo sono per il popolo.
Il popolo non sa; il popolo ha visto questa Assemblea chiusa per tanto tempo; sapeva che c'era una Commissione dei 75, che lavorava alacremente, ma non vedeva nulla; soltanto un accenno ogni tanto sui giornali.
Oggi sa che questo progetto viene qui analizzato punto per punto e che qui si lavora e si critica secondo la propria coscienza per fare il bene del popolo, perché questo è il nostro principale scopo.
L'onorevole Nitti ha detto che i vinti devono sempre rivedere le proprie Costituzioni, le devono cambiare, mentre i vincitori non cambiano nulla e godono il frutto della loro vittoria. Ebbene, io dico che era necessario un cambiamento ed è bene che questo cambiamento sia avvenuto, nonostante la grande disgrazia che ci ha colpiti, nonostante l'alto prezzo che l'Italia ha dovuto pagare.
Purtroppo niente si conquista senza sacrificio, senza lotta, senza dolori, lutti, sciagure, sangue di martiri. I martiri della libertà sono sempre esistiti e noi ne abbiamo avuti tanti, e il loro ricordo ci commuove, e deve sempre essere nel nostro cuore.
L'onorevole Calamandrei disse che l'opera nostra è poca cosa di fronte ai loro sacrifici.
Adempiamola, quest'opera, con illimitato spirito di dedizione. Questo progetto, come è logico — e bisogna dirlo francamente al popolo — non può essere un'opera perfetta, perché nessun uomo e nessun raggruppamento di uomini, anche i più dotti, può riuscire a fare una cosa perfetta, purtroppo. È uno dei tanti progetti che era possibile fare; inquantochè la vita, sia singola che collettiva, se la vogliamo definire con linguaggio matematico, è una funzione complessa di infinite variabili. Quindi, quanti sono gli elementi che mutano, che variano, che interferiscono, che si avvicendano, che convergono, che si allontanano dal centro di determinate questioni, dal nucleo della macchina che noi vogliamo costruire! E allora, considerati tutti gli elementi che hanno concorso a determinare questo fatto, l'opera deve risentire necessariamente di qualche disarmonia, di qualche stonatura. Occorre però sempre tendere a possedere la visione panoramica del tutto, in ogni lavoro, e cercare di percepire i rapporti esistenti fra le parti e il tutto e fra le parti tra loro.
Dobbiamo tener presente che i problemi di costruzione sono problemi di armonia, di economia e di logica. Bisogna costruire con la minore spesa possibile, con il minor numero di elementi costosi. E il costruire è anche un problema di bellezza, perché il bello nasce appunto dalla felice armonia degli elementi componenti un tutto.
Questo hanno cercato di fare i settantacinque che hanno lavorato con passione e con la preoccupazione costante di fare una costruzione solida. Ciò è appunto il fatto pregevole e positivo che deve essere messo in evidenza perché il popolo lo sappia. Enormi sono state le difficoltà che dovevano essere superate ed enormi quelle che dovranno esserlo ancora; inquantochè noi vogliamo regolare la vita del nostro paese non per dieci o venti anni, ma per un lunghissimo periodo; non diciamo per sempre. E allora è un problema veramente formidabile questo di stabilire le linee direttive generali che debbono costituire non solo la struttura dell'edificio nazionale, ma anche la funzionalità, proiettata nel futuro, degli elementi strutturali. Noi vogliamo creare un dinamismo statale che dia al popolo tutte le maggiori soddisfazioni possibili, e perciò una Costituzione in cui esso possa vedersi riflesso, rivelato, interpretato e tutelato.
Cittadino e Stato: ecco i grandi termini del problema. Il cittadino deve avere la certezza di poter esercitare dei reali diritti. Donde la necessità di determinare quali siano i diritti e i doveri fondamentali del cittadino, e quindi quali debbono essere le caratteristiche dello Stato perché quei diritti e doveri possano essere esercitati secondo determinate norme di giustizia, di libertà e di concordia.
Sono problemi fondamentali e formidabili. Ora, questa visione panoramica delle ragioni determinanti il lavoro porta alla seguente considerazione: quali erano le forze che lavoravano per la determinazione di questo progetto? Erano i rappresentanti dei partiti di massa, cioè quelli aventi il maggior peso nella vita politica. Quindi si può dire che questo progetto è la media ponderata dei partiti. Così doveva essere, né poteva essere diversamente.
Quindi ecco che questi articoli, che dovremo perfezionare, sono in fondo medie ponderate. Per fare queste medie ponderate si è commesso, naturalmente, qualche errore. L'Assemblea deve eliminarli; ognuno porterà il proprio contributo, secondo le proprie attitudini, capacità, ed esperienza. Ma principalmente si deve lavorare con fede, con passione, con animo sereno. Ognuno deve dire, senza alcun timore, quel che urge nella sua coscienza. La verità che si vuole esprimere può essere spiacevole per alcuni, può essere indifferente per altri, ma non ci si deve preoccupare di criticare questo progetto per far piacere a Tizio o dispiacere a Caio. Si deve giudicare spassionatamente, secondo il proprio animo, e quello che si dirà si ripercuoterà nel Paese, creerà dei centri di risonanza e chiamerà il popolo a partecipare al lavoro di perfezionamento.
Ora, esaminando i primi articoli del progetto, incontriamo subito un articolo di una importanza enorme e fondamentale, che caratterizza veramente la nuova epoca storica che si è iniziata. È un articolo che fa onore alla Costituzione italiana, al popolo italiano, e alla Commissione dei 75, che ha dimostrato una grande sensibilità politica, storica e morale. Con detto articolo il popolo italiano dimostra d'essere all'avanguardia dei popoli che lavorano per l'organizzazione di una pace internazionale. L'articolo 4 che afferma: «L'Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista», dice un cosa veramente solenne. La guerra, questa follia, questo crimine che sempre ha perseguitato nei secoli l'umanità, perché l'umanità è stata sempre lontana, ed è ancora lontana, da quella forma di civiltà che sia veramente degna dello spirito umano, noi vogliamo eliminarla per sempre, e quindi rinunziamo a questi mezzi di conquista, perché riconosciamo che tutti i contrasti, che qualsiasi contrasto, per quanto grave, per quanta aspro, può sempre essere risolto col ragionamento, poiché il ragionamento — dobbiamo riconoscerlo — rappresenta l'arma più poderosa dell'uomo.
Noi rinunziamo alla guerra; non vogliamo più sentirne parlare. Vogliamo lavorare pacificamente; non vogliamo più la violenza. E quest'odio alla violenza, questo odio alla guerra sarà appunto l'orientamento nuovo del popolo. Ci può essere il pugno nell'occhio; ma il pugno nell'occhio non fa onore a chi lo dà; e chi lo riceve potrà difendersi: allora è legittima la sua difesa. Però dobbiamo sostenere sempre la negazione dell'atto di violenza, bisogna sentire la ripugnanza più acuta per l'atto di violenza. E questo è il compito della nostra scuola: educare gli uomini alla concordia, facendo nascere e fiorire nel loro animo l'odio per qualsiasi forma di sopraffazione. Nelle scuole militari tedesche vi era prima di ogni altra cosa la cultura militare e s'insegnava che bisognava trovare tutti i mezzi per distruggere il nemico, per conquistare sempre nuovi territori. Ma lasciamo stare queste scemenze, che sono veramente indegne di un nuovo mondo civile.
Educhiamo nella scuola i giovani con l'amore per la vera cultura, per la scienza, per l'arte, per la tecnica del lavoro.
All'articolo 4 si dice anche che «l'Italia consente, a condizione di reciprocità e di uguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli».
Potrà effettuarsi subito questa organizzazione? Non si vedono i lineamenti, nel momento presente, di questa determinazione, come fatto immediato, ma si può essere certi che questa organizzazione internazionale avverrà, perché è logica, perché è nella logica delle cose, perché è nella evoluzione naturale degli eventi, perché o il mondo si organizza in modo da essere retto da un Governo mondiale o il mondo andrà incontro alla distruzione, in quanto, se ci sarà una nuova guerra mondiale, questa si farà con le terribili armi che purtroppo la scienza ha creato in questi ultimi tempi e che non ammettono difesa alcuna.
Noi dunque questa luminosa aspirazione l'abbiamo accolta, l'abbiamo interpretata, e l'abbiamo sintetizzata in un articolo e posta qui nella Costituzione come una gemma preziosa di questa legge fondamentale. È il fatto potenziale della nuova storia; Iddio voglia che presto diventi un fatto attuale.
L'articolo 5 tratta della materia religiosa, materia difficile a trattarsi, perché rappresenta un problema veramente complesso. Questo articolo 5 viene poi seguito dall'articolo 14 e questi articoli debbono ispirarsi ad un grande principio, che è quello della libertà di religione.
Ebbene, noi, credenti o non credenti, dobbiamo dire quello che sentiamo e quello che è logico che si senta. Secondo me, è giusto che in questo progetto non si debba parlare dei Patti Lateranensi, perché questi rappresentano un accordo fra lo Stato italiano e lo Stato del Vaticano, ed in ogni Costituzione mi pare che non siano stati mai inseriti accordi internazionali. Lo Stato italiano e lo Stato del Vaticano sono due Stati, che si accorderanno, ma in un rapporto che deve essere esterno alla Costituzione, che non deve influire sulla stessa. Quindi io non voglio criticare — me ne guarderei bene — il problema a fondo; mi limito, al riguardo, a questo solo rilievo, e dico, con tutta franchezza, la mia opinione, come è mio dovere di rappresentante del popolo. Devo parlare non per fare piacere a qualcuno, ma per dire semplicemente quello che penso. Quindi, libertà di religione, sostengo; quindi, rivediamo il problema, in modo che la libertà di religione possa finalmente affermarsi.
Questa libertà fa parte delle grandi libertà, di quelle quattro libertà basilari della Carta atlantica che sorse in un momento tragico della vita del mondo. La storia stessa, in convulsione, suggerì questa Carta e queste quattro libertà furono promesse al mondo: libertà di religione, libertà di parola, libertà dal timore, libertà dal bisogno.
L'articolo 4 rappresenta, realizza, si conforma al principio della libertà dal timore e l'articolo 5 deve conformarsi alla libertà di religione.
Gli articoli 13 e 16 io li scorro rapidamente per dire quello che rilevo in un primo momento...
Presidente Terracini. Onorevole Damiani, sarebbe forse più opportuno se questo esame particolare degli articoli lei lo facesse quando lo faremo tutti insieme.
Damiani. Tutti gli oratori che mi hanno preceduto hanno fatto delle osservazioni sui vari articoli. Mi permetto, quindi, di fare anch'io alcune osservazioni perché, in una discussione generale, in una trattazione panoramica, noi dobbiamo dire le nostre prime impressioni. Quindi, sono semplicemente impressioni. Correrò più rapidamente degli altri e cercherò di arrivare presto alla fine: esaminerò rapidamente pochissimi articoli.
Gli articoli 13 e 16 riguardano la libertà di associazione e la libertà di stampa. Benissimo. Mi permetto semplicemente di dire che la libertà di stampa deve essere poi seguita da una legislazione ordinaria, la quale inquadri questa libertà in modo tale da far diventare la stampa la funzione più importante, o, per lo meno, una delle preminenti della vita civile della società.
La stampa esercita una funzione importantissima: essa educa il popolo, dà idee al popolo, crea stati d'animo, sentimenti, opinioni e quindi deve essere retta da persone probe e incorrotte, che abbiano un alto senso di responsabilità, un alto senso del dovere e non si azzardino con la massima leggerezza a calunniare, per distruggere con la calunnia la personalità di cittadini onesti. La dignità della persona umana esige questa grande tutela, e un grande senso di responsabilità negli uomini preposti all'esercizio di questa nobile attività della stampa.
Quindi, la legislazione ordinaria deve far sì che la stampa, pane quotidiano dello spirito del popolo, nutrisca lo spirito, ma non lo avveleni.
L'articolo 20, relativo alla non retroattività della legge, afferma un principio che costituisce un altro pregio di questo progetto, che dobbiamo rilevare e far presente al popolo, in quanto che, purtroppo, nel ventennio passato molti hanno sofferto per la violazione di detto principio.
Articolo 21: «L'imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva».
È importantissimo anche questo; però io sarei del parere di togliere la qualifica di imputato; essa non dovrebbe essere usata se non dopo accertata la responsabilità. Basta una querela per essere registrato come imputato.
Una voce a destra. Come si dovrebbe chiamare allora, reo? In tutti i trattati viene chiamato imputato.
Damiani. La parola imputato menoma la dignità della persona e non si deve ammettere nessuna menomazione, al riguardo, finché non è accertata la colpa.
Presidente Terracini. Onorevole Damiani, non raccolga le interruzioni.
Damiani. Io esprimo la mia opinione. Proseguo.
«Non è ammessa la pena di morte». Questa è una affermazione nobilissima, che esprime l'altezza della nostra civiltà.
La vita è sacra e nessuno può avere il diritto di spegnerla: nemmeno lo Stato. Anzi lo Stato, affermando il rispetto incondizionato di essa, indurrà tutti a rispettarla maggiormente e ad onorarla.
L'onorevole Calamandrei ha parlato degli articoli relativi all'assistenza sanitaria, scolastica e sociale, ed ha esclamato: «Quante promesse fa questo Stato, che poi non è in condizione di poterle mantenere! Quindi è bene non farle».
No, è bene farle, perché se lo Stato non è in condizione di mantenerle ora, le manterrà in futuro. L'attuale periodo di carenza dovrà finire; passerà il rachitismo e verrà la floridezza. Per questo lottiamo. Se dovessimo pensare a vivere sempre in uno stato di disagio, la disperazione paralizzerebbe tutte le nostre energie.
Quindi lo Stato può basarsi anche su norme che pensa di applicare in avvenire.
E poi vi sarà la grande economia delle spese militari; sono miliardi che vanno al popolo e vanno per l'assistenza. Non si faranno più cannoni e bombe e nemmeno quelle atomiche e si utilizzerà questo denaro per le provvidenze necessarie. Con una corazzata che si risparmia, quanti derelitti possono essere sollevati dalla miseria! E se tutti quei miliardi che si sono buttati per conquiste varie, si fossero spesi per l'assistenza sociale e per l'agricoltura, l'Italia sarebbe un giardino. (Applausi).
Quanti comuni sono ancora senza luce, senza acqua e senza strade e con un servizio postale ridottissimo: è veramente doloroso, oltre che vergognoso.
Presidente Terracini. Onorevole Damiani, la prego di stare all'argomento.
Damiani. Mi sembra di starvi. Metto in rilievo i pregi del progetto.
«La Repubblica, è detto nell'articolo 30 provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro».
Va benissimo, il lavoro deve essere tutelato certamente. Articolo 31: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività ed una funzione, che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».
Questi due articoli vorrei metterli in confronto con l'articolo 36, che dice: «Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero».
Ora, sempre per quella franchezza che ogni deputato deve avere, io dico la mia opinione: l'articolo 30 stabilisce la tutela del lavoro, quindi lo Stato tutela i lavoratori. L'articolo 36 dice che tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero e quindi di tutelare, da se stessi, il proprio diritto. Ed allora se da una parte lo Stato dice al lavoratore: «io tutelo i tuoi diritti»; e d'altra parte gli dice: «nel caso che non riuscissi a tutelarli, sciopera e provvedi tu»; mi pare che lo Stato si contraddica o presupponga e confessi la sua debolezza. Quindi il diritto di sciopero non lo metterei come diritto fondamentale, ma lo tratterei nella legislazione ordinaria. È questa una parte che va riesaminata con cura.
Bisogna poi definire un po' anche la posizione di chi vive di rendita. Chi vive di rendita non esercita una attività non esercita nemmeno una funzione, a meno che non si voglia intenderlo come amministratore dei propri beni. Però bisognerà pure pronunciarsi su queste precisazioni, per evitare definizioni generiche che possano generare gravi incertezze.
Articoli 53 e 57. Il primo dice: «La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale e diretto in ragione di un deputato per 80.000 abitanti o per frazione superiore a 40.000». L'articolo 57 dice: «Il numero dei membri da eleggere per ciascuna Camera è stabilito con legge in base all'ultimo censimento generale della popolazione».
Sono articoli che vanno benissimo; però io mi permetterei, e ne chiedo il permesso al signor Presidente, di fare una piccola osservazione fuori tema. Le Camere saranno elette in base al censimento del 1936. Dal 1936 al 1947 sono passati 11 anni, fra cui cinque anni di convulsioni sociali: anagrafi sconvolte dai bombardamenti, dagli abusi e dai falsi, esodi di popolazioni, lavori disordinati. Ciò ha gravemente perturbato tutto. Quindi quali sono i dati che ci serviranno per le elezioni di queste Camere? Saranno dati decrepiti, e noi formeremo due Camere nuove coi dati del 1936. Mi pare che si potrebbe fare questa spesa importantissima e fondamentalissima, la quale permetterebbe di rimettere a sesto le anagrafi, di eliminare tutti gli abusi e i falsi, specialmente nel campo del tesseramento annonario, ecc., e di formare le Camere future su basi corrispondenti alla realtà di oggi e non alla realtà del 1936, che non è più una realtà, ma un sogno angoscioso.
L'onorevole Presidente del Consiglio disse, nella seduta del 25 febbraio, dopo aver letto il mio «ordine del giorno» sulla necessità di un nuovo censimento: «Accetto l'ordine del giorno dell'onorevole Damiani, perché ne riconosco l'importanza, ma devo fare i conti con il Ministro del tesoro».
Ebbene, l'onorevole Ministro del tesoro faccia questi conti e faccia fare questo censimento, che è indispensabile.
Articolo 75: «Spetta all'Assemblea deliberare la mobilitazione generale e l'entrata in guerra». Va bene che decisioni così importanti siano prese dall'Assemblea Nazionale. Questo è un altro fatto di alto significato, che mette in maggior rilievo il grave crimine commesso nel 1940, quando l'intero popolo italiano fu trascinato alla rovina per decisione di un solo uomo. No, decisioni così importanti devono essere prese dai rappresentanti del popolo, e se ci saranno due Camere, da tutte e due le Camere. Però mi permetto fare osservare che mentre l'articolo 4 dice che l'Italia rinuncia alla guerra, qui si parla invece indiscriminatamente di guerra. Bisogna specificare che intendiamo parlare soltanto di guerra difensiva.
Pertanto, mi permetto proporre una locuzione di questo genere:
«Nel caso di aggressione nemica, spetta all'Assemblea Nazionale di proclamare la mobilitazione generale e l'entrata in guerra».
Noi non aggrediremo mai nessuno, ma se lo saremo ci difenderemo.
L'articolo 79 dice: «Il Presidente della Repubblica è eletto dall'Assemblea Nazionale, con la partecipazione dei Presidenti dei Consigli regionali e di un Consigliere designato da ciascuno dei Consigli stessi a maggioranza assoluta». Siccome posso esprimere la mia opinione, io dico che l'elezione del Presidente sia fatta dal popolo.
L'articolo 94 stabilisce che «i magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete». Ebbene, bisognerebbe aggiungere che non devono ricoprire posti di responsabilità ministeriale, cioè non devono diventare né capi di Gabinetto, né segretari di Ministri, né tanto meno far parte di istituti finanziari, economici, o di imprese private, ecc.
L'articolo 97 dichiara che «la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente». Io non desidero questa autonomia della Magistratura, perché gli uomini sono sempre portati a peccare di orgoglio, di superbia, di egoismo e di ambizione e quindi sono portati a fare i despoti quando lo possono fare. Occorre invece una remora, occorre un controllo. Questa norma, se dovesse rimanere così, sarebbe dannosa per lo Stato. Mi auguro, perciò, che sia ragionevolmente corretta.
Autonomie regionali. Quanto si è detto su questo problema! L'onorevole Zuccarini, ieri, fece una apologia infuocata, fervida, effervescente, delle autonomie regionali, e l'onorevole Nitti oggi ha fatto la contro apologia ovvero una serrata requisitoria al riguardo. Tra i due, chi ha ragione? Io penso che una riforma di tanta importanza debba essere ben ponderata e che non si possa agire ad impressione: si deve agire a calcolo. L'impressione raramente collima col calcolo, l'empirismo non è scienza esatta. L'unità nazionale non ha ancora cento anni di vita e questa benedetta unità nazionale, che è costata tanti sacrifici e tanti martiri, la dobbiamo difendere contro gli eventuali pericoli.
Si tratta di ragionare obiettivamente: un decentramento amministrativo moderato va bene; ma un decentramento legislativo io non lo vedo. E poi, pensiamo anche alla passionalità degli italiani, che tutti i giorni danno prova di non esser guariti dalla piaga del campanilismo. (Commenti — Interruzioni).
Non sarà un peccato grave pensare come l'onorevole Nitti. Un'altra osservazione e ho finito.
Nell'articolo 131, che è l'ultimo, si dice che: «La forma repubblicana è definitiva per l'Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale». Mi pare che questo sia pleonastico; se noi lavoriamo per una repubblica, lavoriamo per una repubblica stabile, non provvisoria. Dicendo che la forma repubblicana è definitiva sembra che si voglia manifestare la preoccupazione che essa possa essere fugace. Noi non dobbiamo vedere questo pericolo. La Repubblica è nata e deve vivere e vivrà per sempre. Questo lo sentiamo e non dobbiamo perciò mettere indubbio che possa avere una vita effimera. Essendo quindi ciò pleonastico, non lo dobbiamo dire. Se per esempio un Tizio è morto, noi non diciamo che è morto definitivamente, perché non c'è niente di più definitivo della morte. (Interruzione dell'onorevole Bellavista).
D'altra parte, da un punto di vista filosofico, nessuna costruzione umana può essere considerata definitiva in senso assoluto. Noi possiamo anche pensare che Iddio che ha creato l'universo, non voglia mantenerlo per tutta l'eternità e potrà un giorno riprecipitarlo nel nulla per creare un nuovo universo. (Commenti).
Non possiamo quindi fare ipoteche sul futuro.
E adesso concludo. Il tempo per rivedere e perfezionare questo progetto è molto breve, ma l'impegno assunto da questa Assemblea sarà assolto con alto senso di responsabilità. «Dio e popolo», ecco le grandi luci che indussero Mazzini a primo artefice del Risorgimento e che devono indurre noi a servire il popolo nelle sue più alte aspirazioni.
«Noi tutti sulla terra — disse Mazzini — non siamo che una missione incarnata. Adempiamola, come se non esistessero che Dio e la nostra coscienza». (Applausi — Congratulazioni).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Benedettini. Ne ha facoltà.
Benedettini. Onorevoli colleghi, le critiche mosse finora dai liberali ai socialcomunisti, dai monarchici ai repubblicani, dai qualunquisti ai democristiani al progetto di Costituzione, sono, a mio avviso, così giuste ed opportune che mi dispensano dal rilevare ciò che da essi fu rilevato.
Si può affermare che le critiche mosse finora dall'Assemblea sono tali da far sentire la necessità non di correggere alcuni articoli, ma di rifare di sana pianta il progetto di Costituzione. (Commenti).
Il difetto di questa Costituzione è organico e direi costituzionale: essa volendo regolare tutto, non regola niente. Volendo essere il frutto dell'opinione di molti, non rappresenta e non interpreta nessuna opinione, e ciò, indubbiamente, perché risente del clima nel quale è stata concepita e formulata.
Riservandomi di prendere la parola allorquando si discuteranno i singoli articoli, mi limito oggi a sottolineare alcuni difetti essenziali di questo documento.
Innanzi tutto, sia nella prima parte riguardante i diritti e i doveri dei cittadini, e particolarmente nel titolo primo relativo ai rapporti civili, il progetto di Costituzione rimanda e subordina ad apposite leggi l'esercizio dei vari diritti.
Si accenni alla libertà personale o alla libertà e segretezza di corrispondenza, si tratti della condizione giuridica dello straniero o della libertà di circolare e soggiornare in qualsiasi parte del territorio italiano, ci si riferisca al diritto di associarsi liberamente, o alla libertà di pensiero e di parola, si parli dei dipendenti dello Stato o dei casi di ineleggibilità o incompatibilità con l'ufficio di Senatore o di Deputato, in questo progetto di Costituzione si ricorre sempre alla frase: «salvo i casi previsti dalla legge».
Ebbene, onorevoli colleghi, che cosa comporta questa frase che si ritrova ogni qual volta si cerchi di definire le libertà dei cittadini? Comporta, al riguardo, l'inutilità della Costituzione stessa; in quanto le libertà da essa stabilite, dipendono, in effetti, non da essa, ma dalle leggi. Ne consegue che quale che sia la Costituzione che noi approviamo, se essa contiene questa clausola, per la quale in effetti tutto è stabilito dalla legge, in sostanza le libertà saranno quelle che vorranno dare i legislatori di domani e non quelle che la Costituzione ritiene di stabilire.
Non so se io abbia reso il mio pensiero con la dovuta chiarezza. Vengo ad un esempio.
La Costituzione precisa che la libertà personale è inviolabile, tranne i casi e i modi previsti dalla legge: ciò significa che se al Governo e nelle Camere vi sono membri con velleità dittatoriali che vogliano annullare totalmente quella libertà, essi non avranno bisogno di violare la Costituzione, in quanto sarà sufficiente che emanino delle apposite leggi.
E allora che valore ha la Costituzione? Devo pertanto ricordare che lo Statuto Albertino contemplava, anch'esso, dei casi ne' quali — come nel progetto di Costituzione che andiamo esaminando — i particolari venivano precisati dalle leggi; ma dichiarava altresì che lo Statuto non entrava in vigore se non dopo l'approvazione e l'emanazione di quelle leggi che avevano formato un tutto unico con lo Statuto.
Noi dobbiamo evitare che la nuova Costituzione apra le porte ai più impensabili arbitrî. È necessario pertanto, specie per ciò che concerne i diritti e le libertà dei cittadini, che le leggi cui la Costituzione si riferisce, siano discusse, approvate da questa Assemblea unitamente alla Costituzione stessa.
Passo ora ad esaminare il secondo difetto organico del progetto di Costituzione. Esso risente eccessivamente del clima fazioso nel quale viviamo; risente in ogni sua parte del prepotere dei partiti di massa che, per la cieca disciplina di partito che li anima, portano a sacrificare la libertà e la dignità della persona umana al predominio della massa.
Questo è il motivo per il quale si riscontrano, in questo progetto di Costituzione, stridenti contraddizioni, come quella, ad esempio, dell'articolo 13, che, mentre sancisce il diritto per tutti di riunirsi pacificamente e senz'armi, subito dopo questo diritto contrasta ed annulla, sentenziando che le autorità possono vietare quelle riunioni per motivi di sicurezza e incolumità pubblica. Ne deriva che la libertà non esiste, o per lo meno esiste quella che fa comodo al potere esecutivo.
Infatti, è proprio facendo appello a questi motivi di sicurezza e di incolumità pubblica che il Ministro Scelba ha giustificato il suo arbitrio a proposito della circolare telegrafica.
È per questo spirito fazioso che la Costituzione, mentre all'articolo 45 precisa che «non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto, se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale», poi limita questo diritto per responsabilità fasciste, e lo stesso dicasi per l'articolo 56 relativo al diritto di eleggibilità.
Ora, onorevoli colleghi, quando una Costituzione risente così fortemente del clima fazioso in cui nacque, essa non può durare a lungo, poiché l'esperienza e la storia insegnano che, mutato quel clima, come per amor di patria noi ci auguriamo che presto muti, il popolo sente subito il bisogno di darsi un'altra Costituzione. Quanto affermo è comprovato dalla storia della Francia che, dal 1789 ad oggi, cioè in circa 150 anni, si è data ben 16 Costituzioni; cioè, in media, una ogni 9 anni.
Un rilievo di massima io non posso tacere a proposito dell'ordinamento delle due Camere. La nuova Camera dei Senatori, in ultima analisi, nella sua composizione, non sarà diversa dal vecchio Senato, anche per le sue specifiche attribuzioni. Ora io non riesco a spiegarmi come e perché, mentre questa Costituzione risente in sommo grado dell'influsso dei partiti di sinistra per ciò che riguarda le affermazioni astratte dei diritti dei lavoratori, poi, quando si passi alle affermazioni concrete, questi influssi sembrano svanire, anzi svaniscono del tutto. Perché non si è dato vita ad una seconda Camera integralmente sindacale, alla quale i legittimi e diretti rappresentanti delle diverse categorie lavoratrici avrebbero potuto appartenere con pieno diritto? Onorevoli colleghi, se noi abbiamo veramente a cuore le sorti e l'emancipazione dei lavoratori, se vogliamo che essi non rappresentino una massa amorfa, ma delle personalità distinte, se auspichiamo che essi diventino parte viva, attiva, dirigente nella vita della Nazione e dello Stato, noi — rappresentanti del popolo — dobbiamo dare ad essi possibilità di esprimersi direttamente, secondo le esigenze delle categorie cui appartengono, in una Camera, in un'Assemblea che sia il frutto di rappresentanze di categorie sindacali.
Né ci si dica che oggi i lavoratori sono già uniti in sindacati, in federazioni e, infine, in una Confederazione generale del lavoro, giacché questa, come l'onorevole Di Vittorio m'insegna, può, sì, difendere i diritti degli iscritti, ma, in fondo, l'arma più potente di cui dispone per la sua difesa è il diritto di sciopero, vale a dire un'attività negativa. Ma questa è l'ora, questo è il tempo in cui le masse lavoratrici, e dunque quel popolo che noi chiamiamo sovrano, deve assurgere a protagonista della storia. Ebbene, per apprestargli questo viatico, per spianargli la strada, per fare che esso si emancipi a fatti e non a parole, dobbiamo riconoscergli il diritto di esprimersi in un'Assemblea legislativa formata da autentici lavoratori manuali, oltre che da lavoratori dell'intelletto. Perciò io mi auguro che quest'Assemblea, nel riprendere l'esame particolare del progetto di Costituzione voglia tener presente questa mia osservazione e questa mia raccomandazione.
Questo io sostengo in quanto, come hanno rilevato alcuni colleghi dell'estrema sinistra, la nostra Costituzione deve esser tale da apprestare le giuste rivendicazioni, le opportune conquiste e l'attesa giustizia sociale che l'avvenire potrà dare al lavoro italiano.
Ora, concludendo, io penso che questa Costituzione debba esser tale da affrontare il domani, dev'esser tale da corrispondere alle reali esigenze del popolo italiano. Io, monarchico, che mi batto per il ritorno legale della monarchia, desidero e mi auguro che questa Assemblea possa elaborare una Costituzione viva, proiettata verso il domani, e rispondente alle necessità reali e ideali dell'Italia e degli italiani: una Costituzione che, sebbene redatta da una maggioranza repubblicana, possa nella sua sostanza restare agli italiani anche nell'eventuale ritorno della monarchia. (Rumori — Commenti).
E ciò non sembri assurdo, se è vero, come è vero, che qui noi tutti, monarchici o repubblicani, abbiamo a cuore, innanzi tutto, l'Italia.
Ma proprio perché questa Costituzione noi prepariamo, nell'interesse dell'Italia, e degli italiani, io ritengo che un tale documento, che decederà per anni l'assetto politico e sociale del nostro popolo, non potrà essere promulgato, se non quando sia dal popolo approvato.
Questa Costituente è nata per dare agli italiani una nuova Costituzione, ma è chiaro che ciascuno di noi fu delegato per redigerla, discuterla e presentarla ad essi per riceverne la sanzione sovrana.
Ciò significa che io mi associo agli altri colleghi che, come me, hanno sentito e sentono la necessità di richiamare il popolo alle urne per il referendum costituzionale.
Proprio perché il popolo è sovrano, l'articolo 131 del progetto di Costituzione, sanzionando che «la forma repubblicana è definitiva per l'Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale», non fa che violare la sovranità del popolo stesso.
L'onorevole Pacciardi ritiene che la Repubblica è ormai permanente e definitiva per gli italiani; ma evidentemente in tutta la sua vita l'onorevole Pacciardi non è riuscito ad apprendere ed a convincersi che non vi è nulla di definitivo e di permanente nella storia dei popoli. Massime per ciò che concerne le forme istituzionali.
Ma, a parte queste opinioni personali, è certo che nessun Governo e nessuna Assemblea può arrogarsi il diritto di ipotecare l'avvenire, e quindi di impedire l'espressione della libera volontà del popolo.
Una voce a sinistra. Ma si è già espressa.
Benedettini. Se il popolo italiano per dei secoli vorrà mantenere un regime repubblicano... «così sia». Ma se questo popolo fra breve tempo vorrà il ritorno della monarchia, nessuna Assemblea e nessuna Costituzione potranno impedirlo. (Commenti).
Ritengo pertanto che l'articolo 131 possa essere così emendato:
«La forma istituzionale dello Stato è subordinata alla volontà della nazione liberamente e democraticamente espressa».
Nessun membro della Costituente veramente democratico e rispettoso della volontà popolare può trovar nulla da opporre a questo emendamento che quella volontà rispetta ed afferma.
Non è la difesa della causa monarchica che io così sostengo, ma i principî democratici, e la libertà di tutti gli italiani. (Applausi a destra).
A cura di Fabrizio Calzaretti