[Il 3 giugno 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quinto della Parte seconda del progetto di Costituzione: «Le Regioni e i Comuni».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Colitto. [...] Sesta osservazione. La Regione ci viene indicata anche, finalmente, come ente dotato di «autonomia finanziaria».
Autonomia finanziaria? Si domanda l'insigne onorevole Ruini. E subito aggiunge che «non è agevole a congegnarsi». Cinque parole, Signori, e non proprio di colore oscuro.
Ora per me basterebbero queste cinque parole a fare fermare tutti sulla soglia del regionalismo, pieni di dubbi e di perplessità.
A questo proposito giova rileggere l'articolo 113. L'articolo 113 è redatto così: «Alle Regioni sono assegnati tributi propri e quote di tributi erariali». Ma in che modo saranno assegnate queste quote di tributi erariali?
Ambrosini. Mediante une legge costituzionale, alla quale il progetto rinvia.
Colitto. È esatto. Ma l'articolo 113 determina così «il modo». Dispone: «in modo che le Regioni meno provviste di mezzi possano provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni essenziali».
Ah no, signori!
Le regioni vogliono non soltanto vivere, non soltanto vegetare, ma progredire.
Con questa norma le Regioni povere resteranno eternamente povere e quelle che sono state in passato neglette, o si considerano neglette, resteranno in eterno abbandonate e neglette. Ah no! Le zone neglette e povere protestano e si ribellano. Niente Regioni! Ma come? In un momento nel quale si stanno rivedendo valori e posizioni, invece di restare ed affermarci più che mai al centro della vita nazionale, con tutta la forza del nostro diritto, per ottenere alfine dallo Stato quanto è necessario per risollevarci, noi tranquillamente ci ritiriamo, per così dire, sotto la tenda? Nel momento in cui noi poniamo allo Stato il nostro problema di vita, quando è giunto il momento in cui sembra che lo Stato voglia impegnarsi a fondo a vantaggio nostro, vogliamo allora noi tirarci in disparte? Questa è follia! E ci dovremmo tirare in disparte non solo per non avere nulla, ma unicamente per prepararci a subire nuovi oneri finanziari? Perché questa è la sola cosa certa, signori, che, con la costituzione delle Regioni aumenteranno gli oneri finanziari non fosse altro che per provvedere ai nuovi organi e servizi regionali. Non so quanti milioni si sono spesi solo per impiantare il parlamento siciliano. Chi pagherà allegramente questi milioni?
[...]
De Vita. [...] Già nel 1866 il Busacca e, successivamente, l'Errera, il Maestri ed il Conigliani rilevavano come, da una parte, lo Stato riversasse sui comuni quanto più era possibile delle sue spese e, dall'altra, togliesse quanto più era possibile delle loro entrate. È stata una esperienza veramente disastrosa. Da questa esperienza della finanza locale dipendente dalla finanza statale appare evidente la necessità di creare un ordinamento tributario regionale per una migliore perequazione del carico tributario, e per una maggiore efficienza tecnica del sistema stesso.
In base al principio per cui l'imposta deve seguire l'economia, ciò che sovrattutto si richiede ad un sistema tributario, che del sistema finanziario costituisce la parte più importante, è un grado massimo di elasticità, ben difficile da ottenersi col sistema unitario accentratore.
È evidente la necessità di tenere debito conto delle condizioni non solo economiche delle singole Regioni, ma anche delle tradizioni, dei costumi, delle caratteristiche delle popolazioni.
Soltanto in questo modo si potrebbe cambiare l'attitudine del contribuente nei confronti dell'imposizione, si potrebbe trasformare l'imposta, da onere prelevato colla forza, in contributo volonterosamente dato dal cittadino, accessibile al sentimento di solidarietà collettiva.
Malagugini. È un po' difficile.
De Vita. Questa può sembrare un'affermazione teorica. Ma io vi do un esempio.
Per dare un'idea del come la legislazione svizzera tiene conto non solo delle particolari condizioni economiche, ma anche delle caratteristiche e dei costumi delle popolazioni, vi dirò che l'imposta personale, che è applicata in quasi tutti i cantoni della Svizzera, varia da cantone a cantone e dal semplice testatico, applicato a tutti i cittadini senza distinzione di sesso e di nazionalità, va ad una speciale forma di imposizione sui cittadini di sesso maschile, cosiddetti attivi, cioè che fruiscono del diritto elettorale. Ma anche l'aliquota varia da cantone a cantone. In alcuni cantoni è molto forte, come nel cantone di Waadt, dove supera i mille franchi a testa. L'imposta sul patrimonio, la quale era applicata nella quasi totalità dei cantoni ed ancora costituisce la base fondamentale del sistema tributario di alcuni cantoni, è stata in numerosi cantoni sostituita dalla imposta sul reddito. Ma vi sono cantoni, come quello del Schwytz, onorevoli colleghi, dove non è stato finora possibile introdurre l'imposta sul reddito, perché la popolazione è contraria a questa forma di imposizione. Questa è vera democrazia, questa è vera libertà.
L'ordinamento della Svizzera è questo. Non mi dicano che la Svizzera non è un paese democratico; non mi dicano che in Svizzera la vita non si svolge secondo i principî della democrazia e della libertà.
L'imposta sul reddito varia da cantone a cantone e non soltanto per l'aliquota, ma anche per i criteri di progressività, di detrazione e di accertamento del reddito imponibile. Tali esempi dimostrano sino all'evidenza come in materia di imposizione l'uniformità di trattamento non soltanto non è una necessità inderogabile, ma è piuttosto l'espressione di un tradizionalismo eccessivamente egualitario ed accentratore; e come, d'altra parte, il criterio regionale risponde ai principî della logica, della pratica efficienza e del successo.
Ritengo pertanto che bisogna andare oltre il progetto della Commissione. Ritengo che da un punto di vista veramente razionale non ci può essere che una finanza regionale; soltanto così potranno essere soddisfatte le ragioni della equità e della giustizia.
[...]
Abozzi. [...] L'onorevole Zotta ha detto che le Regioni povere debbono potenziare le loro attività — cito le precise parole — stimolando le possibilità autoctone, così da pervenire ad un equilibrio economico. Parole nobilissime, come tutte quelle che pronuncia l'onorevole Zotta, ma parole che non tengono conto della realtà. Se l'onorevole Zotta varcasse il nostro inquieto Tirreno e toccasse la dolente isola sarda, si convincerebbe in un'ora che, nonostante i potenziamenti, nonostante lo stimolo delle possibilità autoctone, cento ettari di terreno delle nostre plaghe desolate varranno sempre meno di un solo ettaro di terreno della Val Padana e le nostre povere, le nostre misere industrie, sono a distanza stellare dalle industrie del Nord.
L'autonomia è una tal cosa che tende a fare da sé e per sé. Io non so se non debbano sorgere gravi competizioni fra Regione e Regione per la spartizione di quei fondi, non troppo precisati, di cui parla l'articolo 113 del progetto di Costituzione.
Dicendo queste cose, credete, io non voglio fare del vieto campanilismo, voglio anzi oppormi a quelle conseguenze di troppa cruda rivalità che fatalmente nascerebbero in Sardegna dal sistema regionalistico. Ma voglio subito aggiungere che se «campanilismo» significa la rivendicazione di diritti oppressi, e di particolarismi non riconosciuti, ebbene, ho il coraggio di dire che sono campanilista.
E considerando la portata finanziaria della riforma, come può considerarla l'uomo che paga le imposte e non si occupa di politica, io dico che il lusso del parlamentino, dei deputati, dei ministri o consiglieri di governo, dei ministeri, dei Presidenti delle Regioni, graverà forte sul bilancio dell'ente Regione e sarà dalla Regione pagato caro. E poiché la Regione in un certo senso è un'astrazione, ma non sono invece astratti quelli che si chiamano volgarmente contribuenti, questo lusso graverà sul contribuente. Su quei contribuenti che sono chiamati oggi ad un enorme sforzo, a sacrifici che fanno volentieri per la ricostruzione della Patria, ma che non sono affatto disposti a finanziare le spese voluttuarie della Regione. Un tempo il popolo pagante aveva uno strano nome: lo si chiamava «Pantalone»; ma col sistema finanziario della Regione, che è questo: la Regione arriva fino a dove arriva, dove non può arrivare, arriva lo Stato e paga, si è creato un nuovo «Pantalone», e questo Pantalone è lo Stato. Strana autonomia questa — scriveva or non è molto uno studioso sardo di parte liberale — che vive alla mercé della elargizione dello Stato!
[...]
Bubbio. [...] Ancora su d'un punto, se non abuso della pazienza dell'Assemblea, vorrei soffermarmi: quello della finanza della Regione.
Quale potestà finanziaria deve essere riconosciuta al nuovo ente? quali i rapporti con la finanza statale? quali i rapporti con la finanza degli altri enti locali?
Quesiti complessi e gravi, che hanno formato oggetto di discussione talora profonda in seno alla Commissione ed anche all'Assemblea, se pure è doveroso dire che il punto è stato trattato piuttosto in sottordine, di fronte alla apparente maggiore gravità dei problemi sulla creazione della Regione, sulle sue funzioni e sui controlli.
In tesi generale è ovvio rilevare che tutti i fautori della Regione hanno affermato la necessità della autonomia finanziaria; e ciò come premessa logica all'autonomia regionale e come indeclinabile esigenza per il suo funzionamento; diversamente essa rimarrebbe abbandonata alla discrezionalità del potere centrale; il che equivarrebbe a negazione della sostanza dell'autonomia. L'esperimento non sortirebbe buon fine, non potendosi tutto limitare ad un decentramento amministrativo in rapporto al territorio, ma dovendosi pervenire al riconoscimento delle funzioni proprie delle Regioni. Esse debbono quindi avere un bilancio proprio, che non può essere un capitolo di quello dello Stato.
Se i quesiti sono complessi e gravi, può di contro parere eccessiva la critica affiorata circa la mancanza di idee chiare e definitive in proposito, quasi che si dovesse fin d'ora dare la elencazione dei tributi applicabili!
È evidente che prima bisognerà fissare le funzioni e preparare i mezzi in conseguenza; sarà questione di gradualità, in rapporto alle progredienti necessità ed in rapporto alle risultanze dell'esperimento. Anche qui bisognerà scendere in progresso di tempo dal semplice al complesso, come è di ogni cosa importante e grande che crescit eundo. Ciò corrisponde del resto alla logica delle cose, per cui prima almeno teoricamente si costituisce, anzi esiste, l'ente, ed in successione logica si organizzano i mezzi per la vita dell'ente stesso.
Tuttavia, se ciò è utile osservare in via pregiudiziale, è pure sempre necessario che già nella Costituzione siano affermati almeno i principî generali regolanti la materia.
È ovvio che in materia finanziaria non esiste una soluzione unica, ma che praticamente si ha un coacervo di sistemi e di mezzi, frutto di esperienza talora secolare e risultato spesso di concetti teorici commisti a criteri empirici; e spesso anzi vi affiora anche l'espediente, che pur non dovrebbe mai fare buona prova.
Sovviene anche la considerazione che la materia finanziaria, per il moltiplicarsi delle funzioni pubbliche e dell'estendersi delle fonti di reddito, è destinata a complicarsi ogni giorno di più, fino a quando in periodo di minore pressione risulterà possibile abbattere con la scure questa selva selvaggia ed aspra e forte, e ritornare alla concezione basilare della finanza tributaria che tutta si compendia nella verità apodittica che ciascuno deve contribuire in proporzione al proprio reddito comunque formato.
Qualcuno ha proposto di limitarsi all'affermazione dell'autonomia finanziaria della Regione, rimandando tutto il resto alla riforma generale tributaria dello Stato; soluzione invero semplicistica, che è anche troppo comoda, in quanto non tiene presente, fra l'altro, che la Regione nell'auspicata sollecita sua costituzione avrà subito bisogno di mezzi propri e che la riforma generale predetta si può prevedere tutt'altro che prossima, in rapporto alle gravissime esigenze attuali della pubblica finanza ed alla interdipendenza dei diversi tributi.
Intanto, è senz'altro da scartare che il finanziamento della Regione possa essere fatto con i contributi dei comuni, come nel regno di Napoli esisteva, a quanto afferma l'onorevole Einaudi; e ciò sia per la ragione sostanziale che i comuni piegano ormai sotto il fondo dei crescenti oneri e richiedono essi stessi l'integrazione dei propri bilanci da parte dello Stato, sia per la ragione morale della gara cui si abbandonerebbero i comuni per provare la loro insufficienza finanziaria.
Del pari è da escludere il sistema opposto, ugualmente semplicistico, per cui si propone che sotto forma di contributo annuo lo Stato debba fornire alla Regione i mezzi necessari alle sue esigenze; e ciò per le stesse ragioni dianzi accennate, sia perché lo Stato non potrebbe mai sottostare ad un onere così grave, sia sopratutto perché non è concepibile una gara tra le Regioni nel riparto dei fondi, gara in cui prevarrebbero quelle che hanno maggiore influenza politica ed anche quelle che, per maggiore grado di progresso, in concreto avrebbero forse maggiori esigenze.
La soluzione ideale, più adesiva al concetto base dell'autonomia finanziaria, sarebbe l'istituzione di un'imposta speciale regionale. Questa soluzione fu peraltro subito abbandonata dalla primitiva Commissione anteriore a quella dei settantacinque per la pratica impossibilità di congegnare un nuovo tributo, che da una parte avesse a fornire un gettito imponente e dall'altra non interferisse con i tributi già esistenti.
L'onorevole Einaudi, che prima che per ogni altro titolo debbo venerare come mio maestro del glorioso ateneo torinese, pur riconoscendo la genialità del fisco italiano, che non ha tralasciato espediente per le sue finalità, ha scritto che non è possibile immaginare un sistema che sia proprio alla Regione, dappoiché Stato, Regione, province e comuni colpiscono sempre la medesima materia imponibile (e cioè il reddito del contribuente) e si deve aver riguardo non ai singoli tributi, ma al loro insieme, in una visione globale e generale, se non si vuole inaridire la fonte e portare all'estremo gli inconvenienti della supertassazione e della generalizzazione della frode e della evasione fiscale.
Per brevità, tralasciando altre osservazioni, che logiche sorgono dalla lettura degli atti preparatori, non vi è chi non veda come il sistema ideato dalla Commissione e fissato nell'articolo 113 del progetto di Costituzione corrisponda alle necessità logiche e pratiche del problema.
Tale articolo parte dalla chiara formulazione del riconoscimento dell'autonomia finanziaria delle Regioni, nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali che la coordinano con la finanza dello Stato e dei comuni; e fatta tale premessa, di ovvia logicità attesa la unicità teorica della fonte del tributo e della interdipendenza dei sistemi dai diversi enti attuati, stabilisce che alle Regioni sono assegnati tributi propri e quote di tributi erariali.
Viene così ad essere attuato un sistema che può chiamarsi misto e che potrà anche essere praticamente attuato sotto forma di compartecipazione a tributi già esistenti locali o statali; il che non contrasta evidentemente al principio dell'autonomia finanziaria, che implica solo la esistenza della potestà fiscale indipendentemente dalle forme in cui essa è esplicata.
Come si è detto, una prima fonte di entrate dovrà essere data dall'assegnazione di tributi propri, che dovrebbero praticamente costituire la parte più importante. La prima commissione di studi, mentre non proponeva la istituzione di alcuna imposta speciale, concepiva un sistema di addizionali alle imposte già esistenti in conformità con quello seguito per la provincia; ed in più in caso di necessità proponeva un'addizionale all'imposta sulle entrate, ritenendo con ciò possibile l'attuazione di un livellamento tra gli enti più poveri e quelli più ricchi; ed ove neppure con questa fosse possibile il pareggio, la Regione avrebbe potuto essere autorizzata ad istituire speciali diritti sui generi di larga produzione locale, esclusi quelli oggetto di monopolio dello Stato.
Riteniamo in via generale che il primo mezzo possa essere costituito dalle addizionali alle imposte reali terreni e fabbricati, la cui subbietta materia ha stretta relazione territoriale alla circoscrizione territoriale; e ciò come avviamento a quella già ventilata riforma generale per cui le imposte reali dovranno in toto essere deferite agli enti locali, che dovrebbero ripartirsele.
Ma poiché le solite addizionali per intanto non basteranno, bisognerà scegliere tra l'imposta sulle industrie commerci e professioni (sostitutiva anche per i comuni dell'addizionale ai redditi di ricchezza mobile), o la partecipazione alle imposte sui redditi che si formano nel territorio, sotto forma di sopraimposizione che secondo taluni dovrà costituire il nucleo essenziale.
Si tratta di idee naturalmente di gran massima, che leggi speciali dovranno concretare, in rapporto allo studio approfondito delle funzioni cui la Regione è chiamata; ed è ovvio rilevare che anche, anzi specialmente nella materia finanziaria, il sistema non può essere riguardato sub specie aeternitatis.
Accanto ai tributi dovrà funzionare il contributo dello Stato, sia pure sotto la forma di quote di tributi erariali.
La primitiva Commissione di studio aveva limitato il contributo statale alla ipotesi della esecuzione di opere pubbliche di notevole entità ed alla condizione che la Regione non pervenisse a coprire il fabbisogno neppure ricorrendo al contributo di miglioria.
Lo Stato deve dare un primo contributo (e ciò corrisponde anche a un principio di giustizia) a titolo di rimborso di quelle spese finora sostenute da esso.
Invero cade in esame la pregiudiziale ed emergente considerazione che il nuovo ente sorge anzitutto per esplicare sul piano locale una parte di quelle stesse funzioni che finora sono addemandate allo Stato. Quindi in concreto si attua una sostituzione dell'uno all'altro ente nella competenza passiva delle spese inerenti alle dette funzioni e servizi, salvo quell'incremento che sarà per derivare dalla maggiore adesività delle une e degli altri alle necessità locali. Di qui è logico che lo Stato assegni alla Regione quella somma che rappresenta la quota spese attualmente incontrata per i servizi e le funzioni locali e che, ove la Regione non fosse costituita, continuerebbe ad essere a carico del centro. La difficoltà sta nel determinare questa entità; ma il calcolo, che necessariamente verrà fatto sui grandi numeri e per ordine di grandezza di milioni, non presenta radicale impossibilità.
Già esistono precedenti in materia, giacché non è infrequente il caso in cui lo Stato nell'assegnare al Comune taluni servizi, finora gestiti dal centro o dallo stesso direttamente finanziati, ha in modo globale e definitivo fissato una somma, corrispondente grosso modo all'entità reale della spesa. Dirò, tra parentesi, che talora lo Stato stabilisce cifre globali piuttosto a suo vantaggio, come è avvenuto ultimamente per le spese del servizio di razionamento, in cui lo Stato, che negli anni anteriori aveva pagato a piè di lista personale e stampati, ha ora stabilito un'aliquota spese pro capite; ed il conto purtroppo non torna più, e vane sono tornate le opposizioni degli enti e le stesse interrogazioni parlamentari di chi vi parla, rimaste... senza risposta e ulteriormente rinnovate!
In sostanza qui si attua un mero rimborso, che non è neppure un contributo vero e proprio.
Infine, nella facile ipotesi che neppure queste fonti di entrata siano sufficienti, e sempre tenuto anche conto dei proventi dei beni demaniali della Regione e del suo patrimonio, dovrà subentrare a pareggio il contributo integrativo dello Stato.
Ciò risponde a criterio di necessità ed ha per risultato anche un equo livellamento tra Regioni di diverso sviluppo e di diversa capacità economica.
Non è qui mia intenzione di stabilire rapporti tra le entrate e le spese di ciascuna Regione secondo la contabilità data dallo Stato da un punto di vista quasi esclusivamente di cassa; quindi non si possono tenere presenti tale risultanze agli effetti della integrazione, trattandosi di termini non analoghi.
Si deve prescindere insomma dallo sbilancio di cassa in relazione ai tributi e spese dello Stato per ciascuna Regione, ma si deve riguardare in concreto lo spareggio del bilancio della Regione ed integrarlo.
Anche qui sarà questione di limiti e di controlli, probabilmente in relazione ad una distinzione analoga a quella in vigore per i Comuni tra spese obbligatorie e spese facoltative; se pure la distinzione potrà essere mantenuta, per la rinnovata tendenza autonomistica degli enti locali.
L'istituto del contributo integratore ha precedenti anche nell'attuale sistema, che ammette entro certi limiti la integrazione dei bilanci comunali e provinciali, con somme che in questi anni hanno toccato cifre elevatissime.
Dirò d'incidenza che anche qui può spesso sopperire lo spirito d'iniziativa degli amministratori locali, che talora trovano certo più comodo presentare i bilanci in passivo, anziché adoperarsi al pareggio mediante riduzione di spese ed incremento delle entrate, anche a costo di perdere un po' della loro popolarità.
La Commissione si è trovata concorde nello stabilire questa fonte di entrata, ma l'ha concepita, a quanto pare, all'infuori del concetto di integrazione di bilancio ai fini del pareggio, in dipendenza di un vero e proprio diritto ad un contributo, per cui si attuano una collaborazione tra Stato e Regione e una effettiva solidarietà tra le Regioni, tanto che da qualche Commissario si è parlato quasi di una stanza di compensazione, cui dovrebbe essere preposta una commissione composta da un rappresentante per ogni Regione e presieduta da persona nominata dal Parlamento.
Questa è questione di dettaglio, è vero, ma il principio stabilito all'art. 113 che «il gettito complessivo dei tributi erariali è ripartito in modo che le Regioni meno provviste di mezzi possano provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni essenziali» appare perfettamente logico e rispondente a quel criterio di giustizia e di solidarietà cui si è accennato.
Il sistema del contributo integratore ha anche precedenti all'estero; e gli atti della Commissione riportano il caso della Svizzera, in cui i Cantoni sotto forma di rivendicazioni possono richiedere l'intervento finanziario della Confederazione; il che è destinato a verificarsi con qualche frequenza, attesa la diversità delle condizioni tra i Cantoni alpestri e quelli che godono di un rilevante progresso industriale.
Del pari appare fondato l'altro capoverso dello stesso articolo, che contempla l'istituzione di fondi per fini speciali in base a leggi che determinino i contributi dello Stato e delle Regioni e la gestione e la ripartizione dei fondi.
Adunque: entrate demaniali e patrimoniali; tributi propri; contributo dello Stato sia per rimborso che per integrazione; fondi per fini speciali; è un sistema necessariamente composito, che, come si è detto, se non si può dire peculiare e caratteristico, non vulnera affatto il principio dell'autonomia finanziaria, che è il presupposto ed il vero presidio dell'autonomia della Regione.
È stato autorevolmente eccepito che l'articolo 113, che tale sistema enuclea, è frutto di un compromesso, giacché mentre si sarebbe affermata genericamente l'autonomia, contemporaneamente la si sarebbe limitata in dipendenza di un coordinamento con le finanze dello Stato; il che pare quanto meno ininfluente, essendo ovvio che, trattandosi di enti pubblici, i quali debbono incidere coi loro tributi sul reddito del cittadino, che è sempre lo stesso qualunque sia la forma con cui esso si dimostra ed è colpito, si debba cercare di armonizzare e coordinare nel limite del possibile le finanze dello Stato con quelle degli enti locali.
Come già ho osservato, forse il problema sarà semplificato dal fatto che in un primo periodo le spese saranno di modesta portata; d'altronde siffatti problemi di riparto si prospettano già in parte in rapporto alle quattro Regioni cui è già stata assicurata l'autonomia, mentre qualche anno fa lo Stato ha dovuto risolvere la questione della creazione di diverse nuove province. Ad ogni modo, ripetesi che è questione di gradualità, e attraverso il collaudo della esperienza anche il sistema tributario della regione troverà la sua definizione.
A cura di Fabrizio Calzaretti