[Il 6 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Turco. [...] mentre la Magistratura reclama, ed a buon diritto, pel suo specifico settore della funzione giurisdizionale, la piena partecipazione — par inter pares — all'esercizio della sovranità; d'altro canto, nella sua tesi estremista, tende a sottrarsi, con la richiesta di indipendenza integrale ed assoluta dell'Ordine, a quella necessaria coordinazione, al collegamento con gli altri poteri sovrani, dalla cui armonica collaborazione soltanto è possibile ottenere l'equilibrio e l'organica efficienza del complesso delle funzioni statali.
Romano. L'articolo 97 dice «autonomo ed indipendente». Se mai è contraddittorio il progetto.
Turco. L'onorevole Romano abbia la bontà di ascoltare, perché io non sono affatto nemico della necessaria indipendenza della Magistratura, ma affermo che, se sovrano è il popolo, nessun ordine può sottrarsi al suo volere, al suo controllo.
Ma poiché la espressione più diretta ed immediata e periodicamente rinnovantesi della volontà popolare è il Parlamento, una assoluta indipendenza (e quindi disgiunzione) della Magistratura dal Parlamento e dal Governo, sua emanazione, significherebbe rendere indipendente l'ordine giudiziario dalla stessa volontà del popolo.
D'altra parte, mentre la Magistratura si irrigidisce su questa posizione di punta (reclamando a corrispettivo del suo superdovere di garante delle elementari libertà di tutti, il superdiritto ad una splendida isolazione nel campo della sovranità, refrattaria ad ogni collegamento, ed aspirando perfino ad arbitrare la concorrente funzione degli altri poteri sovrani, col sostituire alla Corte Costituzionale il diktat del suo Consiglio Superiore), per converso, la Magistratura non esita ad adeguarsi, nei mezzi di reclamo e di rivendicazione, a tutte le varie categorie di prestatori di opere, rivendicando per sé perfino il diritto di sciopero.
Romano. Io ho parlato sempre contro il diritto di sciopero.
Turco. Ma noi non possiamo condividere la sua solidarietà di casta, ed abbiamo il dovere, non solo della consapevolezza, ma anche della coraggiosa sincerità.
Ma, insomma, non sente la Magistratura che la indipendenza reclamata è un duro privilegio, che impone il coraggio di restare sola con se stessa, e che il superdiritto alla sovranità rende incompatibile la sua carenza in qualsiasi momento — come è inconcepibile lo sciopero dello Stato. No: i poteri dello Stato non possono in nessun momento scioperare, senza stroncare l'esistenza giuridica dell'organizzazione statale!
Questa aspra posizione di antitesi è stata felicemente superata dal compromesso fra l'autonomia ed il controllo, adottato dal progetto, che implica:
a) indipendenza del giudice sì, ed indipendenza integrale;
b) ma indipendenza assoluta del potere giudiziario, no: nel senso che non si vuol creare un corpo chiuso ad ogni influenza della volontà popolare esplicantesi attraverso l'intervento dei rappresentanti diretti del popolo.
[...]
Bozzi. [...] Io vorrei, come dicevo, occuparmi del problema centrale, della indipendenza della Magistratura: tema di somma rilevanza, anche se la desolazione di questi banchi possa far pensare che non tutti la sentono. Tema che non interessa una particolare categoria di pubblici funzionari. Qui noi non stiamo ad esaminare lo stato giuridico ed economico dei magistrati, quasi essi reclamassero per se stessi speciali provvidenze, come un settore, il più qualificato, il più nobilmente qualificato, della vasta famiglia dei pubblici funzionari. Noi affrontiamo oggi uno dei problemi fondamentali in uno Stato democratico: il problema della giustizia, il problema della attuazione della legge; cosa che interessa tutti i cittadini, nei loro beni, nel loro onore. Perché, amici e colleghi, sarebbe enunciazione puramente accademica l'affermazione dei diritti di libertà, che noi abbiamo sancito nella prima parte di questa Carta costituzionale; sarebbe enunciazione accademica l'allargamento della sfera dei diritti civili e politici del cittadino verso lo Stato, se nella Costituzione non forgiassimo in pari tempo uno strumento valido, che sapesse dare garanzia di questi beni a tutti i cittadini ed a ciascuno di essi, se occorre, anche contro lo Stato, quando lo Stato dei diritti e delle libertà dei singoli si facesse violatore.
Io devo dire che vi è oggi un diffuso stato d'animo contro la Magistratura. Vorrei ricordare, quasi come attestazione autentica, le parole pronunziate in questa Assemblea da uno dei più illustri giuristi viventi e membro autorevole dell'Assemblea medesima, l'onorevole Calamandrei, il quale, in sede di discussione generale sul progetto di Costituzione, ebbe a dire: «Il Consiglio Superiore della Magistratura che, secondo il progetto proposto da me, avrebbe dovuto essere composto unicamente di magistrati eletti dalla stessa Magistratura, sarà invece composto per metà di elementi politici, eletti dagli organi legislativi. In realtà, chi ha impedito all'auto-governo della Magistratura di affermarsi in pieno non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori dell'opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il procuratore generale Pilotti; la Magistratura deve ringraziare proprio lui dell'ostilità con cui è stata accolta, ecc., ecc.».
Ora io, miei amici, non intendo — Dio me ne guardi! — rivangare qui il «caso Pilotti». Mi piace soltanto ricordare quanto ha scritto uno spirito libero e arguto: che, se l'atteggiamento del procuratore generale Pilotti, quell'atteggiamento che è stato criticato tanto duramente, fosse stato tenuto nei confronti, non già del Presidente della Repubblica, ma, poniamo, onorevole Conti, di Umberto II, il repubblicano onorevole Calamandrei avrebbe, probabilmente, esaltato l'indipendenza del magistrato, il quale...
Ruggiero. Non l'avrebbe fatto in quel caso.
Bozzi. ...il quale, anche di fronte al re, sapeva tenere alta l'indipendenza del potere che rappresentava. Di questo, adunque, non voglio parlare; mettiamo da parte gli argomenti contingenti, legati a situazioni di uomini, che passano. Altri argomenti, vorrei dire visti sub specie aeternitatis, noi dobbiamo tener presenti, perché ci guidino nello studio e nell'elaborazione di questo tema fondamentale: l'amministrazione della giustizia.
La Magistratura — lo dico io che da essa provengo ed ancor oggi vesto la toga, ed appartengo idealmente alla magistratura, per una lunga generazione di famiglia — in questi ultimi 25 anni, per chi ne guardi la complessiva attività svolta, non merita forse né esaltazioni, spesso retoriche o demagogiche, ma nemmeno stroncature.
Rifacciamoci ai tempi, o signori. Vi sono state sentenze in cui evidentemente la bilancia ha pencolato sotto il peso della pressione politica; ma, nell'insieme, la giustizia, specialmente la giustizia resa dai piccoli, dai modesti magistrati, è stata buona. Vorrei dire che, se vi è stata qualche deviazione, non è stata tanto nel non rendere giustizia in casi singoli, quanto in un atteggiamento generico, specialmente nella giurisprudenza della Corte di cassazione, in un atteggiamento generico che si potrebbe chiamare di conformismo. Il giudice, cioè, ha cercato non tanto, come dovrebbe essere suo compito, di interpretare la legge, ma di indagare lo spirito del sistema politico, l'indirizzo desiderato dal Governo, lo scopo politico-sociale che questo voleva fosse raggiunto. Potrei ricordarvi casi tipici: la giurisprudenza sulla clausola oro e sul potere liberatorio della moneta; alcune sentenze sul rapporto di impiego privato. La legge fu interpretata in un certo modo per conformarsi all'indirizzo politico del regime.
D'altra parte, o signori, se non sempre la Magistratura è apparsa a noi su quel piedistallo ideale sul quale la vorremmo sempre vedere, dobbiamo domandarci: non è forse ciò dipeso, sia pure in parte, dalla posizione di non assoluta indipendenza in cui essa era?
Dopo la caduta del fascismo la Magistratura ha ritrovato in pieno il suo antico spirito di indipendenza, che, credete a me, non viene tanto dalle formule della Costituzione, dalle norme dell'ordinamento giudiziario, quando da un abito mentale e morale, che è soprattutto il riflesso della situazione generale politica del Paese. In uno Stato libero la Magistratura è libera, in uno Stato di servitù la Magistratura non può non essere serva, anche se lo Statuto la proclami sovrana e indipendente!
Lo so; in questi ultimi anni la Magistratura ha emanato sentenze molto criticate in sede politica; io non mi sentirei di sottoscrivere questa o quella; non dico come uomo politico, ma anche come giurista. Ma in questa grande crisi della legalità (perché oggi il fenomeno più acuto e più grave della nostra società è la crisi della legalità), in questa profonda incertezza che ci travaglia, in questa fase di trapasso fra un mondo che non è ancora del tutto tramontato ed un altro che si delinea e si va faticosamente formando, non pensate che questo complesso di fattori non potesse non ripercuotersi anche sugli organi che hanno il compito di attuare la legge? Incertezze, anche deviazioni forse, ve ne sono state. Ma a chi va attribuita la colpa? Tenete anche presente, o colleghi, che non tutte le leggi oggi sono tecnicamente perfette. La tecnica legislativa lascia molto a desiderare. Qui, più volte, è stata sollevata la questione dell'applicazione dell'ultimo decreto di amnistia. Bisogna riconoscere francamente che questo decreto tecnicamente non era ben fatto; e bisogna riconoscere che, perlomeno in gran parte, il giudice si è trovato in difficoltà obiettive di interpretazione, che hanno potuto dare luogo ad applicazioni che a volte son potute sembrare aberranti.
Ma, tutto questo è ancora particolare. Noi oggi lavoriamo per creare il nuovo Stato, uno Stato di democrazia costituzionale. In questo Stato, quale è la posizione che assegneremo alla Magistratura?
Io ricordo che nelle sedute della seconda Sezione della seconda Sottocommissione, presieduta dall'illustre onorevole Conti, vi fu un argomento che si poneva sempre contro l'indipendenza della Magistratura, un argomento del quale si fece paladino l'onorevole Laconi: la Magistratura è conservatrice e, quindi, reazionaria e retriva; bisogna, perciò, renderla più diretta e genuina espressione del popolo, tenerla sotto il controllo del popolo, che è l'unico depositario della sovranità. Ebbene, o signori, non vi meravigliate se io dico che la funzione della Magistratura, la funzione del giudice dev'essere proprio funzione conservatrice; conservatrice non nel senso in cui si parla di conservatorismo sul piano politico, ma conservatrice nel senso di garanzia e di custodia dello Stato democratico e dell'ordinamento giuridico.
Vediamo le cose più da vicino. Quali sono le parti della politica, quali sono le parti della giustizia? La politica finisce il suo compito nel momento in cui si traduce nella legge; la politica esaurisce la sua funzione nell'atto in cui crea la norma obiettiva che si inserisce nell'ordinamento giuridico dello Stato. Questo è il compito della politica; questa è la funzione del popolo, se noi per popolo non intendiamo, con visione frammentaria che non è democratica, questa o quella manifestazione espressa da questo o da quel partito, da questa o da quella categoria, ma intendiamo la riduzione di queste diverse manifestazioni nell'unità dello Stato, che è appunto la volontà unica del popolo, che si manifesta nei modi previsti dalla Costituzione.
In un regime di democrazia costituzionale non può esservi antitesi fra Stato e popolo.
Ora, se le parti della politica finiscono nell'atto in cui si crea la legge, quale è la funzione del giudice? La funzione di interpretare questa legge e di applicarla, funzione di conservare la legge, consacrazione della volontà popolare. Se il giudice si facesse esso stesso legislatore, e volesse attuare la legge non secondo la lettera e lo spirito di essa, obiettivamente fissati, ma secondo i suggerimenti mutevoli della cosiddetta coscienza popolare, influenzati da fuggevoli maggioranze o da altro, allora non avremmo più una società civile regolata dalla legge, ma una società regolata dal criterio del caso per caso, cioè regolata dall'arbitrio. Questa è la funzione conservatrice, non nel senso retrivo, reazionario, del giudice. Volete cambiare la legge? Si aprono nuovi orizzonti o vi è un impeto di nuove correnti sociali? Non è compito del giudice di tradurle in atto, se prima il legislatore non le abbia elevate a norma di diritto. Il giudice ha un solo dovere: di conservare, applicandolo, l'ordinamento giuridico creato dal popolo. Questa è democrazia sana e costituzionale.
E, badate, la funzione del giudice è vincolata, perché egli non è nemmeno libero di interpretare (amico Persico, sento sottovoce le tue critiche) la legge come vuole. Il legislatore interviene e regola e detta esso stesso le norme, onde la interpretazione della legge deve avvenire.
Non c'è quindi nessun campo di arbitrio del giudice: la stessa legge dà le norme di interpretazione; il giudice svolge un'attività vincolata dallo stesso legislatore.
L'onorevole Turco, nel suo discorso di poco fa, è caduto in una certa contraddizione, perché ha esaltato l'indipendenza del giudice, ma ha criticato l'indipendenza assoluta dell'Ordine giudiziario, come se l'indipendenza del giudice si potesse realizzare del tutto al di fuori della Magistratura, cioè del complesso di organi in cui il giudice si inserisce, indipendente. Egli è per la semi-indipendenza; il che vale tanto quanto dire per la non indipendenza. Ora, la indipendenza della Magistratura e del giudice è un problema già risolto dal popolo nell'atto in cui esso si dà una Costituzione di democrazia costituzionale.
[...]
Ma l'organo di amministrazione è inadeguato. Come è composto? Del Presidente della Repubblica, che lo presiede, e di due vicepresidenti: uno di diritto, il primo presidente della Corte di cassazione, l'altro eletto dall'Assemblea; e poi di un numero di membri, metà eletti dagli stessi magistrati, in categorie determinate dalla legge, metà eletti dall'Assemblea Nazionale, cioè dalle due Camere riunite.
Io non ho niente da obiettare circa la presidenza del Presidente della Repubblica; è il sistema della Costituzione francese. Il Presidente della Repubblica, che è capo del potere esecutivo, che noi abbiamo voluto non fosse mantenuto del tutto estraneo al potere legislativo; partecipa anche alla vita della Magistratura, del terzo potere dello Stato. Dà decoro e lustro all'organo, e riafferma l'unità dello Stato, che in lui si impersona.
Comunque, è qui da sottolineare che il Presidente della Repubblica interviene nell'organo di autogoverno in quella forma che l'amico Dominedò direbbe «in via di prerogativa», perché certamente i suoi atti non sono garantiti dalla responsabilità governativa; d'altra parte non ve ne sarebbe bisogno, perché, partecipando il Presidente della Repubblica ad un organo collegiale, non ha risalto individuale la manifestazione della sua volontà, che concorre a formare, assieme a quella degli altri membri, la volontà unitaria del collegio.
Poi vi sono due vicepresidenti. Ma che cosa significano due vicepresidenti? Noi dobbiamo pensare che, di fatto, il Presidente della Repubblica non potrà intervenire nel normale svolgimento della vita del Consiglio superiore della Magistratura. Come si divideranno i compiti questi due vicepresidenti, l'uno tecnico, l'altro politico? E non sente ognuno come i componenti politici potranno essere in conflitto, se non permanente, frequente con i membri tecnici? La politica farà come il lupo: superior stabat lupus!...
Io credo che se non vogliamo creare un regime di semi-indipendenza (la peggiore delle soluzioni), bisogna far sì che il Consiglio superiore della Magistratura sia composto esclusivamente di magistrati.
Io sento le obiezioni, sento l'eco viva delle obiezioni fatte in sede di Sottocommissione, sento adesso le critiche e le riserve mosse dall'onorevole Turco. Vi sono frasi che hanno fortuna. Una è questa: la Magistratura può diventare una «casta», una casta che si può porre fuori dello Stato, domani contro lo Stato; può perfino disapplicare, come sussurrava or ora, impaurito quasi, l'onorevole Ruggiero, le leggi dello Stato. L'onorevole Ruini teme una forma di «mandarinato». Ma veramente vogliamo discutere di questo? Per il fatto che si crea il Consiglio superiore della Magistratura, che già esiste, al quale il Guardasigilli onorevole Togliatti dette una configurazione veramente democratica con la legge del maggio 1946, perché si dà vita a quest'organo, prenderebbe forma concreta il pericolo che il magistrato possa rifiutarsi di applicare la legge! Ma perché questo non può avvenire anche oggi? Ma le leggi le applica il Consiglio superiore o le applicano i singoli collegi, i singoli giudici? Temete, per caso, che il Consiglio possa dettare norme circa l'interpretazione e l'applicazione della legge? E non protestate quando ciò vien fatto dal potere esecutivo!
Se, onorevole Ruggiero, dovesse avvenire ciò che lei teme, vorrebbe dire che si avrebbe lo sfacelo dello Stato. Se noi possiamo credere come veramente realizzabile l'ipotesi che i magistrati ad un bel momento non applichino le leggi dello Stato, allora lo Stato è in frantumi. Non è più questione di Costituzione. Siamo veramente nella notte, nelle tenebre più profonde. Ma di contro a questo pericolo immaginario noi abbiamo il grande vantaggio, certo, di avere veramente una Magistratura indipendente dal potere esecutivo e quindi quelle garanzie, che io ho detto individuali, acquistano maggiore rilievo per il fatto che vi è la coindipendenza costituzionale dell'organo.
La funzione giurisdizionale non è super partes, è al di fuori delle parti. Il potere che la esercita non può non essere indipendente in senso assoluto.
Il magistrato che elegge esso stesso il Consiglio che dovrà amministrare il suo stato giuridico, la sua vita di funzionario, si sente maggiormente garantito, non ha bisogno di ricorrere al Ministro Tizio o al Ministro Caio.
[...]
Quindi voi vedete che questa possibilità di casta chiusa fuori e contro lo Stato non esiste. È una ipotesi irreale, che non può essere nemmeno addotta come argomento polemico. Si infrange da se stessa. Io quindi credo, senza entrare in particolari, che noi dobbiamo dare alla Magistratura questa indipendenza con coscienza tranquilla, sicuri che la Magistratura saprà adempiere al difficile compito.
[...]
Mastino Pietro. [...] Veniamo all'altro, importante argomento, quello che riguarda il Consiglio superiore della Magistratura.
In questo, onorevoli colleghi, che è uno dei punti più dibattuti, io non esito a dichiarare subito che sono contrario alla designazione da parte dell'Assemblea nazionale di membri del Consiglio superiore della Magistratura. È innegabile che la designazione conserverebbe sempre una specie di carattere, o di sapore politico, e che l'indipendenza di cui si è tanto parlato riceverebbe, per questo fatto, un colpo gravissimo; è innegabile, ancora, che la disposizione contenuta nell'articolo 97 del progetto è in stridente contrasto con l'ultimo capoverso dell'articolo 94.
Nell'articolo 94, ultimo capoverso, è scritto «I magistrati non possono appartenere a partiti politici». Io domando se non sia contraddittorio e se non sia profondamente ingiusto pretendere dai magistrati di rinunziare ad una parte della propria personalità, col divieto di inscrizione nei partiti politici e, allo stesso tempo, invece, disporre che nel Consiglio superiore alla Magistratura rientri quella politica dalla quale vorremmo che il magistrato fosse escluso. Dobbiamo, senza diffidenza, riconoscere alla Magistratura l'autogoverno.
E non mi soffermo ad esaminare (per il caso che sia approvato il principio per cui elementi designati dall'Assemblea nazionale partecipino al Consiglio superiore della Magistratura), non mi soffermo ad esaminare il caso degli appartenenti agli albi forensi, che non esercitino la professione durante il periodo in cui appartengano al Consiglio superiore della Magistratura, ma che tuttavia potranno esercitarla in seguito.
Chiunque eserciti la professione sa quali possibilità — non voglio dire quali astuzie — si possono praticare, perché l'esercizio avvenga per interposta persona. Sarà possibile, soprattutto agli avvocati che esercitano esclusivamente nei campi civile e amministrativo, servirsi, per la firma, del nome di un sostituto, di un collega, mentre l'appartenenza al Consiglio superiore della Magistratura, se non aumenterà il numero delle cause, certamente influirà per porre in stato di possibile soggezione i magistrati.
[...]
Ciampitti. [...] L'ideale sarebbe, in verità, che tutto il Consiglio Superiore fosse eletto dalla Magistratura, che più di ogni altro conosce ed apprezza i migliori della propria famiglia giudiziaria. Comunque, è manifestamente eccessivo il numero dei componenti di nomina dell'Assemblea Costituente rispetto a quello assegnato ai magistrati; senza dire che, indubbiamente, la nomina da parte dell'Assemblea Costituente risentirà facilmente, se non certamente, delle influenze politiche con indubbio danno della serenità e obbiettività dei giudizi da emettersi dall'alto consesso giudiziario.
Non si comprende poi la nomina di due vice Presidenti, di cui uno da nominarsi dall'Assemblea Costituente, quando uno potrebbe bastare nella persona del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, in assenza del quale potrebbe assumerne le funzioni il membro più anziano. È ovvio inoltre che gli iscritti agli albi forensi non possano essere eletti dall'Assemblea Costituente quali componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Non basta che si inibisca loro l'esercizio della professione durante il tempo in cui faranno parte del Consiglio Superiore, poiché la professione, come è già stato ricordato, si può anche esercitare per interposta persona, sicché il pericolo di influenza in un senso o nell'altro non si elimina affatto.
A cura di Fabrizio Calzaretti