[Il 6 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».]
Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: «Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Dobbiamo iniziare oggi la discussione generale del Titolo IV, relativo alla Magistratura e del Titolo VI, relativo alle garanzie costituzionali, che come venne deciso dall'Assemblea fin dall'inizio, vengono dinanzi a noi abbinati.
Vorrei pregare gli onorevoli colleghi che si sono iscritti a parlare sulla discussione generale, ma che hanno contemporaneamente presentato emendamenti su singoli articoli, di volere svolgere nel corso del loro intervento anche gli emendamenti presentati.
In tal modo i loro discorsi avranno un riferimento concreto alla materia in esame, ed eviteremo anche di dare poi altro tempo per svolgere gli emendamenti.
Dichiaro aperta la discussione generale.
Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Turco. Ne ha facoltà.
Turco. Onorevoli colleghi, mi trovo oltre ogni mio desiderio, e, certo, oltre ogni mio merito, ad inaugurare la discussione generale su questa che è praticamente la parte più viva e interessante della nuova Costituzione.
Più interessante: perché buona parte del popolo può essere indifferente perfino per questa o per quella forma di Governo, può sentire, o no, la grande riforma regionale; può non essere molto preoccupato pel difficile dosaggio dei poteri del Capo dello Stato, e dalla più o meno omogenea struttura dell'Alta Corte costituzionale, ecc.; ma tutti, dico tutti, hanno acutissimo ed immediato interesse alla pronta, retta e ferma amministrazione della giustizia, che assicuri la realizzazione effettiva della libertà di tutti e dei diritti di ciascuno. Inutile ed ingombrante lavoro resterebbe quello sinora durato per individuare ed allargare la sfera della libertà e del patrimonio giuridico di tutti i cittadini, qualora non riuscissimo ad organizzare per la vita pratica e mettere alla portata di tutti un istrumento vivo ed operante ed indipendente, che ne costituisca la permanente inflessibile garenzia.
Ora, io che sono fra i pochi superstiti di una remota generazione parlamentare che era, sì, di acuta sensibilità politica, ma assai meno della presente tecnicamente attrezzata al governo della sempre più complessa vita sociale, avrei preferito restare in silenziosa, ma vigile considerazione della splendida giostra dottrinale, che ha saturato l'attenzione di questa nobile Assemblea.
Sennonché, a un certo momento, tratto ad esprimere, improvvisamente, in sede direi incidentale, il mio avviso alla Commissione parlamentare, su di un tema particolare, sul quale si è distillata e sedimentata l'esperienza di un cinquantennio di esercizio non ignobile della mia professione, quello del magistero della giuria, ho creduto di dovere accettare ed eseguire il compito di portavoce all'Assemblea della tendenza vigorosamente affermatasi nella Commissione, di contrasto irreducibile al ripristino della giuria, che ha imperversato troppo a lungo nelle aule giudiziarie, suggestionata sempre e spesso violentata dalla magniloquente ed inguaribilmente logorroica oratoria giudiziaria.
Così, iscrittomi per quella particolare discussione, per l'automatico rimando ed abbinamento in questa sede alla discussione del tema generale della Magistratura, mi trovo a rappresentare modestamente la corrente, che troppo demagogicamente si vuol gabellare per antidemocratica, ma che è invece ispirata a quel senso della realtà, che è il grado più elevato della matura sintesi mentale, e la matrice unica di ogni vero e stabile progresso civile.
Ma di ciò, a fra poco: perché non vorrei, affacciandomi alla soglia di questo poderoso argomento giurisdizionale, spingere il mio agnosticismo fino al punto di non avvistare, in rapida prospettiva, lo scontro vivace che in questo campo si è determinato fra l'istanza vigorosa, ma unilaterale, della Magistratura ed il sovrano criterio di superiore contemperanza e di equilibrio adottato dal progetto. Uno sguardo sintetico sul contrastato panorama di questo tema bisogna pur darlo, sia pure per inquadrarvi la tesi occasionale del mio discorso, che è diretto precipuamente contro la giuria popolare.
Debbo preliminarmente dichiarare che io sono un fedele, convinto assertore dei meriti della Magistratura italiana, presa nel suo grande complesso. Spesso ho ammirato dell'eroiche virtù; e quanto è stato detto del francescanesimo dei magistrati non è utopia. La Magistratura, nella sua enorme maggioranza, è degna della sua funzione, ed è proprio la radicata convinzione della necessità della unicità, direi dell'esclusività di tale funzione da parte dei giudici ordinari, che mi ha mosso a parlare. Sono un amico, dunque; ne siano ben sicuri i Magistrati.
Ma agli amici bisogna saper dire la verità, anche se sgradita e molesta: ed io dirò subito, perciò, che la posizione presa, nel movimento ricostruttivo istituzionale, dalla classe dei Magistrati è paradossale; e che nella gara delle istanze più o meno legittime, che premono sulla suprema delle nostre crisi statali, è antitetica e contraddittoria.
Infatti, mentre la Magistratura reclama, ed a buon diritto, pel suo specifico settore della funzione giurisdizionale, la piena partecipazione — par inter pares — all'esercizio della sovranità; d'altro canto, nella sua tesi estremista, tende a sottrarsi, con la richiesta di indipendenza integrale ed assoluta dell'Ordine, a quella necessaria coordinazione, al collegamento con gli altri poteri sovrani, dalla cui armonica collaborazione soltanto è possibile ottenere l'equilibrio e l'organica efficienza del complesso delle funzioni statali.
Romano. L'articolo 97 dice «autonomo ed indipendente». Se mai è contraddittorio il progetto.
Turco. L'onorevole Romano abbia la bontà di ascoltare, perché io non sono affatto nemico della necessaria indipendenza della Magistratura, ma affermo che, se sovrano è il popolo, nessun ordine può sottrarsi al suo volere, al suo controllo.
Ma poiché la espressione più diretta ed immediata e periodicamente rinnovantesi della volontà popolare è il Parlamento, una assoluta indipendenza (e quindi disgiunzione) della Magistratura dal Parlamento e dal Governo, sua emanazione, significherebbe rendere indipendente l'ordine giudiziario dalla stessa volontà del popolo.
D'altra parte, mentre la Magistratura si irrigidisce su questa posizione di punta (reclamando a corrispettivo del suo superdovere di garante delle elementari libertà di tutti, il superdiritto ad una splendida isolazione nel campo della sovranità, refrattaria ad ogni collegamento, ed aspirando perfino ad arbitrare la concorrente funzione degli altri poteri sovrani, col sostituire alla Corte Costituzionale il diktat del suo Consiglio Superiore), per converso, la Magistratura non esita ad adeguarsi, nei mezzi di reclamo e di rivendicazione, a tutte le varie categorie di prestatori di opere, rivendicando per sé perfino il diritto di sciopero.
Romano. Io ho parlato sempre contro il diritto di sciopero.
Turco. Ma noi non possiamo condividere la sua solidarietà di casta, ed abbiamo il dovere, non solo della consapevolezza, ma anche della coraggiosa sincerità.
Ma, insomma, non sente la Magistratura che la indipendenza reclamata è un duro privilegio, che impone il coraggio di restare sola con se stessa, e che il superdiritto alla sovranità rende incompatibile la sua carenza in qualsiasi momento — come è inconcepibile lo sciopero dello Stato. No: i poteri dello Stato non possono in nessun momento scioperare, senza stroncare l'esistenza giuridica dell'organizzazione statale!
Questa aspra posizione di antitesi è stata felicemente superata dal compromesso fra l'autonomia ed il controllo, adottato dal progetto, che implica:
a) indipendenza del giudice sì, ed indipendenza integrale;
b) ma indipendenza assoluta del potere giudiziario, no: nel senso che non si vuol creare un corpo chiuso ad ogni influenza della volontà popolare esplicantesi attraverso l'intervento dei rappresentanti diretti del popolo.
Indipendenza del giudice, dunque: e sia indipendenza costituzionale, funzionale ed istituzionale, psicologica (per l'inamovibilità dalla funzione e dalla sede) ed economica, con riguardo alla incompatibilità con qualsiasi forma di attività economica. E su questo terreno, quando il principio fosse accettato, sarebbe agevole intendersi, anche in rapporto alle modifiche proposte circa il numero e la discriminazione dei membri politici del Consiglio Superiore, e con intesa che non si debba più sentir parlare di politica giudiziaria, e di Ministero chiave, in rapporto alla gestione giurisdizionale.
Ma non basta: dev'essere perentoriamente affermato il principio dell'unicità, della integrità, e, quindi, dell'esclusività di tale funzione, che risponde all'integrale fiducia che l'Ordine merita e meriterà sempre più con l'affinamento progressivo, mercé la specializzazione della competenza tecnica e correlative funzioni.
L'unicità importa che nuove giurisdizioni speciali (questa perniciosa crittogama della giustizia) non debbano essere instaurate, e che debbano, anche, essere prontamente eliminate tutte quelle che sono state create per circostanze contingenti e per fini politici.
La Corte Suprema ha espresso solennemente in proposito il suo parere, ed ha elencato tassativamente le sole giurisdizioni eccezionali ammissibili (Corte dei Conti, Consiglio di Stato, tutela giurisdizionale degli interessi legittimi) restituendo, quindi, al Magistrato ordinario l'intera funzione giurisdizionale.
E l'integrità importa sopra tutto, a mio avviso, che non sia strappato all'ordinaria magistratura, sotto pretesto di utopie politiche ed umanitarie, il compito più delicato e geloso — e della massima responsabilità — il governo della giustizia nella zona torrida dell'alta criminalità.
Ed eccomi, con questa considerazione di culminante interesse giuridico e sociale, entrato nella tesi specifica del mio intervento.
Proprio là dove incombe la suprema responsabilità del giudice, non può, non deve mancare il tranquillante corrispettivo della garenzia della competenza, della superiorità morale, della vigilata e progressiva attitudine del giudicante!
Entrata di straforo, in occasione dell'esame dei progetti Gullo per le norme complementari e la procedura del decreto legge 31 maggio 1946 sulla riforma della Corte di Assise, la questione del ripristino della giuria determinò un immediato schieramento, pro e contro, ed io, di parte contraria, fui incaricato di redigere e redassi una relazione di minoranza, che fu onorata dalla sottoscrizione dei Commissari consenzienti.
Ma la vivace battaglia venne abilmente sopita in un prudente agnosticismo, poiché si adottò il criterio di rinviare, senza specifica pronuncia, collegando la questione al vaglio dell'Assemblea in sede costituzionale. Ed è in questa sede, dunque, ed in questo momento, che, nella modestia delle mie forze, adempio al mandato conferitomi.
La nostra tesi è nitida e precisa: noi siamo contrari ad un istituto imperfetto ed imperfettibile, la cui riapparizione, se può ritenersi giustificabile nel tempo e pel tempo di eccezionale, transitorio, arroventato clima politico nel quale riapparve, non può essere accettata definitivamente, sub specie aeternitatis, sul piano tecnico costituzionale. Tutt'al più, dovrebbe, secondo l'ammonimento della Suprema Corte, rinviarsene, con l'abolizione dell'articolo 96, l'esame nel futuro ordinamento giudiziario, poiché non impegna una riforma di diritto sostanziale, ma soltanto una modifica processuale imposta dalla voce perentoria, inequivocabile dell'esperienza.
Ma, prima di giustificare tale tesi, consentitemi di sbarazzarmi di un'accusa pregiudiziale, che scaltramente ci si getta fra le gambe. Siamo reazionari noi nel contrastare non già la partecipazione del popolo, ma la diretta partecipazione del popolo all'amministrazione della giustizia? Siamo noi antidemocratici nel contrastare la partecipazione laica al governo della pesante giustizia criminale?
Qui, perdonatemi, è necessario precisare, con una autocitazione: tengo a riprodurre testualmente il brano correlativo della mia abortita controrelazione:
«Noi non disconveniamo affatto sulla necessità attuale ed imperiosa di democratizzare tutta l'attività statale; e siamo ben lungi dal non riconoscere esatto che la sovranità appartiene al popolo, e che, quindi, sia specifica espressione della sovranità popolare la funzione giurisdizionale. Tutto ciò attiene all'elemento fondamentale di un regime democratico, è una vera e propria esigenza democratica.
«Ma riteniamo che operi soltanto un pregiudizio democratico nella pretesa della partecipazione diretta del popolo sovrano all'amministrazione della giustizia, quando è premessa la norma fondamentale che la sovranità si esercita nelle forme e nei limiti della costituzione, e che quella giurisdizionale (come quella amministrativa) non è funzione originaria, ma derivata, ed è esercitata in nome del popolo (art. 94) e che altre forme di sovranità — la legislativa, l'esecutiva, ecc. — si esercitano dal popolo mediatamente ed indirettamente.
«Il popolo esercita democraticamente la sua sovranità, indirettamente, a mezzo degli organi che attingono origine, legittimità e potere dal popolo stesso organizzato a Stato. Così il popolo partecipa all'amministrazione della giustizia mediante l'organo della Magistratura, proposto nello stesso progetto come organo di designazione derivata dal popolo, autonomo ed indipendente, espresso e governato da un Consiglio Superiore, nel quale la voce e la volontà della Nazione è determinante e decisiva. Oggi, mediante la netta distinzione dei poteri dello Stato ed il concorso delle varie categorie sociali alla formazione delle leggi per mezzo dei loro rappresentanti, la coscienza morale e giuridica della collettività si esprime nel momento legislativo. Al giudice resta soltanto il compito di applicare la legge».
Potrei aggiungere che noi oramai siamo pervenuti ad una svolta del concetto di democrazia, che, slargandosi dal settore politico, va trasformandosi in democrazia sociale ed economica.
Comunque, anche a restar fermi al vecchio schema, è troppo chiaro che noi, oppositori della giuria, non contrastiamo l'esigenza democratica, ma soltanto un pregiudizio democratico, che è costato troppo duro nel passato alla giustizia criminale.
Ma noi siamo tanto equanimi, dopo respinta la immeritata accusa, da ammettere e convenire che nelle speciali transitorie (oggi fortunatamente superate) circostanze politiche, sul piano della necessità di una drastica ritorsione politica, anche quello che era soltanto un pregiudizio democratico, potesse e dovesse avere diritto (precario) di cittadinanza legislativa, per dar la sensazione al popolo di volersi definitivamente cancellare, direi plasticamente e di impeto, ogni vestigio della combattuta, contraria ideologia.
Giacché noi abbiamo la serenità necessaria per riconoscere, sul piano storico, la ricorrenza e l'irresistibilità del fenomeno del globale mimetismo, pel quale, in ogni crisi costituzionale, nel suo periodo parossistico di sovratensione politica, ogni manifestazione sociale si adegua e si colora della colorazione politica del momento critico che si attraversa.
Nella vita politica dei popoli si nota un fenomeno ricorrente: quello dell'inevitabile mimetismo che regola il ritmo della evoluzione legislativa sul passo del progresso politico sociale nella storia di ciascun paese.
Inevitabile ed opportuna è la uniforme colorazione, l'adeguamento esageratamente formale di tutti gli istituti fondamentali dello Stato all'accentuazione politica. È la tendenza mitopeica che si sgancia ed opera, nel momento della febbre politica, e sommerge e colora l'intera fenomenologia politico-sociale. Così abbiamo avuto, nella nostra crisi, la palingenesi democratica. Tutto per la e nella democrazia: niente al di fuori della democrazia. Ed allora si esagera: ma è naturale, opportuna l'esagerazione, purché temporanea, limitata al momento e pel momento di sovratensione politica transitoria.
Ecco perché l'onorevole Togliatti ha fatto bene, e non poteva far diversamente, nel periodo di estrema concitazione politica, quando gli si chiedeva da ogni lato l'abolizione delle Sezioni Speciali delle Corti politiche, a ripristinare l'istituto della giuria per quell'arroventato clima politico.
Il fascismo — con la sua tendenza mitopeica dello Stato — non riconoscendo altra sovranità che quella dello Stato, non poteva tollerare che si contrapponesse, con la giuria, la giustizia del popolo a quella del Re.
Era ben naturale, che per necessaria, immediata ritorsione politica, l'onorevole Togliatti, non riconoscendo altra sovranità che quella del popolo, affermasse anche nel piano tecnico la contrapposizione della giustizia popolare a quella dello Stato. Epperò ristabilì con il decreto-legge 31 maggio 1945, n. 500, l'organo della giuria come patentemente, immediatamente e direttamente rappresentativo della coscienza popolare, per dare la sensazione viva della unicità della sovranità del popolo, per dare la colorazione politica anche alla funzione giurisdizionale.
Ma ora che il turbine politico va lentamente ma decisamente quetandosi, e noi legislatori siamo chiamati a fare opera duratura in una Costituzione rigida, come faremo a conservare ancora questo ibrido istituto, regalatoci dalla nostra inguaribile mania imitativa delle legislazioni straniere, a mantenerlo ancora nella nostra tradizionale, limpida e quadrata compagine legislativa?
Crollano i troni attorno a noi, o signori, tramontano vecchie e pur nobili ideologie, che hanno fatto le glorie dei secoli passati. Solo i giurati debbono permanere a perturbare sempre, con il loro ictus irragionato, incorreggibile ed irresponsabile il tremendo flusso della giustizia punitiva?
Noi, modestamente, ci opponiamo: e non tanto per ragioni di fideisnio scientifico o per servaggio a pregiudiziali politiche, quanto per la costatazione realistica del bilancio fallimentare dell'istituto della giuria al banco di prova dell'esperienza. Già al principio del secolo il nostro grande Alimena lo definiva «l'organo dell'ordinamento giudiziario senza pace».
E difatti è riuscito a guadagnarsi, nel cinquantennio di sua vita funzionale, l'ostilità decisa e quasi unanime della dottrina, dei tecnici, dei congressi. E la perturbazione era così progredita che, nella prassi giudiziaria, l'opera del Supremo Collegio, più che in un controllo di diritto si era dovuta trasformare in vero e proprio controllo di giustizia.
Per noi, che abbiamo lungamente vissuto l'avventura giudiziaria dei giudici popolari, è doverosa la testimonianza che il verdetto dei giurati, in buona metà dei giudizi in Assise, quando non era il risultato di sopraffazione (o intellettuale o politica o, peggio, finanziaria), era semplicemente il risultato dell'azzardo, pel meccanico sorteggio, di quei giudici improvvisati. Onde la coscienza pubblica s'era da tempo orientata più che verso la speranza, verso la sicura attesa dell'estromissione definitiva del giurì dalla nostra legislazione. Perché, ripeto, quello della giuria è un istituto imperfetto ed imperfettibile. Infatti, due supreme facoltà umane, antitetiche fra loro, ma egualmente indispensabili, dovrebbero concorrere alla formazione di un giudizio umanamente perfetto: la intuizione e la riflessione. Donde, due tendenze contrastanti: la commossa, spontanea reattività al reato della coscienza popolare: è la prima. La seconda è l'attento consapevole travaglio del senso critico del giudice esperto.
La prima sgorga dall'irrazionale, impulsivo campo della emotività, ed è, qualche volta, divinatrice: arma prodigiosa, ma pericolosa, perché «l'affetto l'intelletto lega» e trascina oltre e contro la volontà della legge, e sbocca e non può che sboccare in un enigmatico monosillabo incontrollato ed irretrattabile, donde la lunga teoria degli errori giudiziari, che di lagrime gronda e fa terrore.
La seconda, la riflessione, è facoltà raziocinante, detersiva di ogni contaminazione alogica o sentimentale, severa e sicura investigatrice della realtà ontologica (esistenza del reato e individuazione dell'autore) e della realtà psicologica (colpevolezza e responsabilità anche in rapporto all'alterazioni psichiche ed ai riflessi sociali) con pienezza di capacità di attenzione e di critica.
Questa sbocca in una pronuncia razionalizzata della motivazione, quindi controllabile e quindi reparabile; motivazione proporzionata all'importanza della imputazione. Una giustizia, si è detto, sottratta all'obbligo della motivazione è il sintomo di uno Stato in isfacelo.
Ora, come è possibile contemperare queste due esigenze? E, nella impossibilità, a quale delle due attenersi?
Noi optiamo decisamente per la seconda, perché, mentre non è, quasi mai, da aspettarsi che il giurì improvvisi la competenza, l'attitudine critica e la dirittura morale, doti del giudice togato, c'è da aspettarsi, invece, che il giudice togato, accortamente sollecitato, superi e vinca quella, che sotto il nome di deformazione professionale, gli si rimprovera come insensibilità al flusso della realtà ed al ritmo palpitante della vita collettiva.
Non vi è giudice che possa resistere allo squillante richiamo del sentimento e alla suggestione dell'umana giustificazione dell'episodio criminoso e delle sue correlazioni sociali e politiche: come non vi è reato che, nel suo intrico psicologico, non abbia una piccola luce di umanità, che, saputa scovrire e portare in primo piano, illumina tutto l'orizzonte processuale e guida e sorregge il giudice attraverso le dighe e le precisazioni scientifiche del diritto.
Il problema definitivo da affrontare è, dunque, non già quello di scegliere fra il giudice improvvisato ed irresponsabile, ed il giudice ordinario e responsabile: ma è quello di arrivare, mediante gli opportuni ordinamenti, alla formazione di un giudice ordinario compos, sagace, addestrato, aggiornato nelle varie specializzazioni apprestate da tutte le scienze moderne: e di renderlo tetragono, nella sua coordinata indipendenza, al bisogno ed alle prepotenze.
E ad un giudice così fatto, che è fortunatamente frequente, e più lo sarà nel prossimo avvenire, non bisogna negare la fiducia, e disautorarlo negandogli il compito più grave ed essenziale della funzione giurisdizionale: quello di arginare le asprezze brutali della realtà criminosa.
Voglio dirvi un'ultima parola, o signori: una parola di vita palpitante di umana realtà.
I destini degli uomini sono imperscrutabili ed irreversibili. Niente può mettere al sicuro il più giusto, il più puro, il più forte degli uomini dal trovarsi impigliato, attore o vittima, in una macchinosa vicenda giudiziaria.
Quale giudice voi preferireste per la tutela della vostra libertà, del vostro onore, dell'avvenire dei vostri figli: il giudice improvvisato ed irresponsabile, o il giudice conscio, esperto, addestrato, indipendente e responsabile?
Questa scelta, che impegna la vostra responsabilità di legislatori, voi dovete tradurre sulle tavole della Costituzione.
E se noi, accettando il sistema bicamerale, abbiamo rifiutato di credere all'infallibilità di una intera Assemblea di ottimati: come possiamo credere al tabù delle infallibilità di un manipolo raccogliticcio di giudici popolari? (Applausi al centro — Congratulazioni).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Bozzi. Ne ha facoltà.
Bozzi. Onorevoli colleghi, non mi intratterrò, come ha fatto l'onorevole Turco, su un tema particolare, se pure di alta importanza, quale quello della giuria; ma cercherò di dare uno sguardo panoramico ai Titoli del progetto, che sono all'ordine del giorno.
Dico subito che sul tema trattato dall'onorevole Turco io sono perfettamente d'accordo con lui; tuttavia ritengo che il problema della giuria non debba essere risoluto in sede di Carta costituzionale, perché la giuria è giudice ordinario e la questione se essa debba esistere o no e, eventualmente, con quali competenze e limitazioni è questione da Codice di procedura penale o da legge sull'ordinamento giudiziario, così come è stato fino ad oggi.
Io vorrei, come dicevo, occuparmi del problema centrale, della indipendenza della Magistratura: tema di somma rilevanza, anche se la desolazione di questi banchi possa far pensare che non tutti la sentono. Tema che non interessa una particolare categoria di pubblici funzionari. Qui noi non stiamo ad esaminare lo stato giuridico ed economico dei magistrati, quasi essi reclamassero per se stessi speciali provvidenze, come un settore, il più qualificato, il più nobilmente qualificato, della vasta famiglia dei pubblici funzionari. Noi affrontiamo oggi uno dei problemi fondamentali in uno Stato democratico: il problema della giustizia, il problema della attuazione della legge; cosa che interessa tutti i cittadini, nei loro beni, nel loro onore. Perché, amici e colleghi, sarebbe enunciazione puramente accademica l'affermazione dei diritti di libertà, che noi abbiamo sancito nella prima parte di questa Carta costituzionale; sarebbe enunciazione accademica l'allargamento della sfera dei diritti civili e politici del cittadino verso lo Stato, se nella Costituzione non forgiassimo in pari tempo uno strumento valido, che sapesse dare garanzia di questi beni a tutti i cittadini ed a ciascuno di essi, se occorre, anche contro lo Stato, quando lo Stato dei diritti e delle libertà dei singoli si facesse violatore.
Io devo dire che vi è oggi un diffuso stato d'animo contro la Magistratura. Vorrei ricordare, quasi come attestazione autentica, le parole pronunziate in questa Assemblea da uno dei più illustri giuristi viventi e membro autorevole dell'Assemblea medesima, l'onorevole Calamandrei, il quale, in sede di discussione generale sul progetto di Costituzione, ebbe a dire: «Il Consiglio Superiore della Magistratura che, secondo il progetto proposto da me, avrebbe dovuto essere composto unicamente di magistrati eletti dalla stessa Magistratura, sarà invece composto per metà di elementi politici, eletti dagli organi legislativi. In realtà, chi ha impedito all'auto-governo della Magistratura di affermarsi in pieno non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori dell'opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il procuratore generale Pilotti; la Magistratura deve ringraziare proprio lui dell'ostilità con cui è stata accolta, ecc., ecc.».
Ora io, miei amici, non intendo — Dio me ne guardi! — rivangare qui il «caso Pilotti». Mi piace soltanto ricordare quanto ha scritto uno spirito libero e arguto: che, se l'atteggiamento del procuratore generale Pilotti, quell'atteggiamento che è stato criticato tanto duramente, fosse stato tenuto nei confronti, non già del Presidente della Repubblica, ma, poniamo, onorevole Conti, di Umberto II, il repubblicano onorevole Calamandrei avrebbe, probabilmente, esaltato l'indipendenza del magistrato, il quale...
Ruggiero. Non l'avrebbe fatto in quel caso.
Bozzi. ...il quale, anche di fronte al re, sapeva tenere alta l'indipendenza del potere che rappresentava. Di questo, adunque, non voglio parlare; mettiamo da parte gli argomenti contingenti, legati a situazioni di uomini, che passano. Altri argomenti, vorrei dire visti sub specie aeternitatis, noi dobbiamo tener presenti, perché ci guidino nello studio e nell'elaborazione di questo tema fondamentale: l'amministrazione della giustizia.
La Magistratura — lo dico io che da essa provengo ed ancor oggi vesto la toga, ed appartengo idealmente alla magistratura, per una lunga generazione di famiglia — in questi ultimi 25 anni, per chi ne guardi la complessiva attività svolta, non merita forse né esaltazioni, spesso retoriche o demagogiche, ma nemmeno stroncature.
Rifacciamoci ai tempi, o signori. Vi sono state sentenze in cui evidentemente la bilancia ha pencolato sotto il peso della pressione politica; ma, nell'insieme, la giustizia, specialmente la giustizia resa dai piccoli, dai modesti magistrati, è stata buona. Vorrei dire che, se vi è stata qualche deviazione, non è stata tanto nel non rendere giustizia in casi singoli, quanto in un atteggiamento generico, specialmente nella giurisprudenza della Corte di cassazione, in un atteggiamento generico che si potrebbe chiamare di conformismo. Il giudice, cioè, ha cercato non tanto, come dovrebbe essere suo compito, di interpretare la legge, ma di indagare lo spirito del sistema politico, l'indirizzo desiderato dal Governo, lo scopo politico-sociale che questo voleva fosse raggiunto. Potrei ricordarvi casi tipici: la giurisprudenza sulla clausola oro e sul potere liberatorio della moneta; alcune sentenze sul rapporto di impiego privato. La legge fu interpretata in un certo modo per conformarsi all'indirizzo politico del regime.
D'altra parte, o signori, se non sempre la Magistratura è apparsa a noi su quel piedistallo ideale sul quale la vorremmo sempre vedere, dobbiamo domandarci: non è forse ciò dipeso, sia pure in parte, dalla posizione di non assoluta indipendenza in cui essa era?
Dopo la caduta del fascismo la Magistratura ha ritrovato in pieno il suo antico spirito di indipendenza, che, credete a me, non viene tanto dalle formule della Costituzione, dalle norme dell'ordinamento giudiziario, quando da un abito mentale e morale, che è soprattutto il riflesso della situazione generale politica del Paese. In uno Stato libero la Magistratura è libera, in uno Stato di servitù la Magistratura non può non essere serva, anche se lo Statuto la proclami sovrana e indipendente!
Lo so; in questi ultimi anni la Magistratura ha emanato sentenze molto criticate in sede politica; io non mi sentirei di sottoscrivere questa o quella; non dico come uomo politico, ma anche come giurista. Ma in questa grande crisi della legalità (perché oggi il fenomeno più acuto e più grave della nostra società è la crisi della legalità), in questa profonda incertezza che ci travaglia, in questa fase di trapasso fra un mondo che non è ancora del tutto tramontato ed un altro che si delinea e si va faticosamente formando, non pensate che questo complesso di fattori non potesse non ripercuotersi anche sugli organi che hanno il compito di attuare la legge? Incertezze, anche deviazioni forse, ve ne sono state. Ma a chi va attribuita la colpa? Tenete anche presente, o colleghi, che non tutte le leggi oggi sono tecnicamente perfette. La tecnica legislativa lascia molto a desiderare. Qui, più volte, è stata sollevata la questione dell'applicazione dell'ultimo decreto di amnistia. Bisogna riconoscere francamente che questo decreto tecnicamente non era ben fatto; e bisogna riconoscere che, perlomeno in gran parte, il giudice si è trovato in difficoltà obiettive di interpretazione, che hanno potuto dare luogo ad applicazioni che a volte son potute sembrare aberranti.
Ma, tutto questo è ancora particolare. Noi oggi lavoriamo per creare il nuovo Stato, uno Stato di democrazia costituzionale. In questo Stato, quale è la posizione che assegneremo alla Magistratura?
Io ricordo che nelle sedute della seconda Sezione della seconda Sottocommissione, presieduta dall'illustre onorevole Conti, vi fu un argomento che si poneva sempre contro l'indipendenza della Magistratura, un argomento del quale si fece paladino l'onorevole Laconi: la Magistratura è conservatrice e, quindi, reazionaria e retriva; bisogna, perciò, renderla più diretta e genuina espressione del popolo, tenerla sotto il controllo del popolo, che è l'unico depositario della sovranità. Ebbene, o signori, non vi meravigliate se io dico che la funzione della Magistratura, la funzione del giudice dev'essere proprio funzione conservatrice; conservatrice non nel senso in cui si parla di conservatorismo sul piano politico, ma conservatrice nel senso di garanzia e di custodia dello Stato democratico e dell'ordinamento giuridico.
Vediamo le cose più da vicino. Quali sono le parti della politica, quali sono le parti della giustizia? La politica finisce il suo compito nel momento in cui si traduce nella legge; la politica esaurisce la sua funzione nell'atto in cui crea la norma obiettiva che si inserisce nell'ordinamento giuridico dello Stato. Questo è il compito della politica; questa è la funzione del popolo, se noi per popolo non intendiamo, con visione frammentaria che non è democratica, questa o quella manifestazione espressa da questo o da quel partito, da questa o da quella categoria, ma intendiamo la riduzione di queste diverse manifestazioni nell'unità dello Stato, che è appunto la volontà unica del popolo, che si manifesta nei modi previsti dalla Costituzione.
In un regime di democrazia costituzionale non può esservi antitesi fra Stato e popolo.
Ora, se le parti della politica finiscono nell'atto in cui si crea la legge, quale è la funzione del giudice? La funzione di interpretare questa legge e di applicarla, funzione di conservare la legge, consacrazione della volontà popolare. Se il giudice si facesse esso stesso legislatore, e volesse attuare la legge non secondo la lettera e lo spirito di essa, obiettivamente fissati, ma secondo i suggerimenti mutevoli della cosiddetta coscienza popolare, influenzati da fuggevoli maggioranze o da altro, allora non avremmo più una società civile regolata dalla legge, ma una società regolata dal criterio del caso per caso, cioè regolata dall'arbitrio. Questa è la funzione conservatrice, non nel senso retrivo, reazionario, del giudice. Volete cambiare la legge? Si aprono nuovi orizzonti o vi è un impeto di nuove correnti sociali? Non è compito del giudice di tradurle in atto, se prima il legislatore non le abbia elevate a norma di diritto. Il giudice ha un solo dovere: di conservare, applicandolo, l'ordinamento giuridico creato dal popolo. Questa è democrazia sana e costituzionale.
E, badate, la funzione del giudice è vincolata, perché egli non è nemmeno libero di interpretare (amico Persico, sento sottovoce le tue critiche) la legge come vuole. Il legislatore interviene e regola e detta esso stesso le norme, onde la interpretazione della legge deve avvenire.
Non c'è quindi nessun campo di arbitrio del giudice: la stessa legge dà le norme di interpretazione; il giudice svolge un'attività vincolata dallo stesso legislatore.
L'onorevole Turco, nel suo discorso di poco fa, è caduto in una certa contraddizione, perché ha esaltato l'indipendenza del giudice, ma ha criticato l'indipendenza assoluta dell'Ordine giudiziario, come se l'indipendenza del giudice si potesse realizzare del tutto al di fuori della Magistratura, cioè del complesso di organi in cui il giudice si inserisce, indipendente. Egli è per la semi-indipendenza; il che vale tanto quanto dire per la non indipendenza. Ora, la indipendenza della Magistratura e del giudice è un problema già risolto dal popolo nell'atto in cui esso si dà una Costituzione di democrazia costituzionale.
Ma, che cosa significa indipendenza? Indipendenza, di chi? Indipendenza da che? Secondo me, il problema fondamentale è l'indipendenza del giudice, l'indipendenza del singolo giudice che dicit jus ed applica alla fattispecie concreta la norma astratta di legge, che compie — avvicinandosi in qualche momento veramente alla divinità — la difficile funzione di giudicare il suo simile, di condannarlo o di assolverlo, del giudice che risolve i conflitti patrimoniali, del giudice che reintegra sempre il diritto offeso, anche contro lo Stato.
Indipendenza del giudice, che è la cosa più importante, credete a me; indipendenza che si deve realizzare (ed è questo un punto che vorrei richiamare alla vostra particolare attenzione) non solo nei confronti del potere esecutivo e del potere legislativo, ma si deve realizzare anche nei confronti della gerarchia interna giudiziaria. Questo è un aspetto sul quale, forse, l'attenzione non è stata a sufficienza portata: indipendenza anche dai superiori. Il magistrato non deve avere superiori, nel senso gerarchico della parola; egli deve ubbidire soltanto alla propria coscienza e alla legge. (Approvazioni). Al disopra, non vi deve essere gerarchia; e questo punto è, con solennità, affermato nella Costituzione.
Ma noi dobbiamo far sì che la formula abbia contenuto e che l'affermazione di indipendenza istituzionale diventi norma di vita, si inserisca in interiore homine.
Vedete: io vi dirò cose che possono sembrare meschine; ma, secondo me, che sono vissuto nell'ambiente e ne conosco un po' da vicino gli uomini, esse hanno importanza notevole, forse maggiore di tante formule che sono inserite nel progetto. V'è un complesso di motivi, economici, psicologici, a volte anche di vanità, che influiscono sulla coscienza o, senza affiorare nella coscienza, sul subcosciente del giudice. Che è un uomo, vive nella vita, sente le influenze della società. Vorremo isolarlo, metterlo sotto una campana pneumatica? È una cosa difficile, anzi impossibile. Ma qualche cosa si può e si deve fare: smorzare, diminuire quelli che sono i motivi che, in base all'esperienza, noi sappiamo più direttamente e più profondamente incidono nell'anima del magistrato.
Non crediate che dica cosa miserevole; ma quando io sostengo che il magistrato non deve avere onorificenze, io lo sottraggo ad uno dei motivi che l'esperienza ha dimostrato avere maggiore influenza su di lui. Ormai noi, indirettamente, abbiamo affermato che la Repubblica distribuirà onorificenze.
Nitti. Spero di no!
Bozzi. I magistrati non devono avere onorificenze: il giudice che non si è mai venduto per denaro, non si venderà nemmeno per le onorificenze.
Una voce a sinistra. Ma s'imboscherà nei Ministeri!
Bozzi. Ma credete a me che l'idea della commenda — ieri della corona d'Italia, domani della Repubblica, non so quale nome avrà — esercita grande seduzione su molti. I giudici vivono in povertà e in onestà; amano queste chincaglierie, come le chiamava un alto magistrato a me molto caro. E pur di averle non esitano a fare anticamera nei Gabinetti dei Ministri. Ma poi v'è l'esame comparativo con il collega che è commendatore ed è meno anziano o, peggio ancora, v'è il caso del presidente che è cavaliere e del giudice che è commendatore!... Tutto questo complesso di inferiorità crea una situazione psicologica di disagio, di difficoltà, di indebolimento di quello stato di serenità per cui il giudice si deve sentire pago soltanto della nobile missione che a lui è affidata: difficile privilegio che gli deve saper dare l'amore di vivere solo con se stesso.
Ma vi sono problemi più sostanziali, come quello dell'iscrizione ai partiti politici. Noi abbiamo combattuto, in sede di seconda Sottosezione, una battaglia e abbiamo affermato nel progetto, che il giudice non deve essere iscritto a partiti politici, né ad associazioni segrete.
Ma si obietta: il giudice non può forse avere una sua opinione politica? Certo che la deve avere; ma lo status di iscritto, di gregario e, peggio, di capo, di esponente di un partito, oggi che i partiti, per intrinseca necessità, si vanno sempre più organizzando su un piano di rigida disciplina e di gerarchia, è indubbio che potrebbe esercitare sulla sua coscienza o sulla sua subcoscienza un'innegabile influenza. E quando anche il giudice riuscisse a rendersi immune, con la sua dirittura, da simili debolezze, chi potrebbe mai togliere il dubbio, il sospetto alla pubblica opinione che il magistrato, in quella o in quell'altra controversia, si sia regolato in quel modo e non in altro perché l'imputato o la parte era di quel certo partito e non di altro?
Onorevoli colleghi! Noi dobbiamo circondare del più grande prestigio la figura del magistrato e dobbiamo eliminare tutte le cause che, sia pure ingiustamente, possano dar motivo a sospetti o a riserve, che non ferirebbero il singolo, ma l'istituto in se stesso.
V'è poi un altro problema che sono costretto ad indicarvi usando un'espressione assai brutta: bisogna «sburocratizzare» la Magistratura. Bisogna sburocratizzarla non solo nei confronti degli altri impiegati dello Stato, perché il giudice è lo Stato in una delle manifestazioni della sua sovranità, è la legge vivente; ma bisogna sburocratizzarla anche nei riguardi dell'interna organizzazione. Dovrà dunque cadere la gerarchia interna, nel senso che non vi dovranno esser gradi, ma distinzioni di funzioni.
Oggi avviene invece purtroppo che i giudici sentano notevolmente l'influenza del loro presidente, del «capo», come usa dire. Il Codice di procedura stabilisce, ad esempio, che il presidente, nella sua qualità di anziano, deve votare per ultimo: è il primus inter pares. Tutti sanno che ciò invece non avviene, o avviene di rado. Il presidente dice per primo la sua opinione e questo naturalmente pone il giudice di grado inferiore in una situazione di disagio.
Onorevoli colleghi, bisogna davvero che l'uomo, in certi momenti, attinga una forza quasi divina per resistere anche al suo superiore; e noi non possiamo sempre pretendere dal giudice, che è uomo, manifestazioni di questa forza.
Perciò sarà anche necessario che la progressione in carriera sia, di regola, affidata a criteri obiettivi; ai concorsi, soprattutto.
Ma vi è poi anche un'altra questione: quella cui accennava poc'anzi l'amico Musotto: l'imboscamento dei giudici! Non c'è stato mai Guardasigilli il quale sia stato capace di condurre a termine questa grande operazione chirurgica, di riportare i giudici, tutti i giudici, nelle preture, nei tribunali, nei processi, nelle corti. I giudici non sempre amano di fare i giudici!
Preferiscono i Ministeri, i Gabinetti, le Segreterie particolari. Ci sono Magistrati che sono arrivati in Cassazione dopo anni ed anni di codesta diserzione! Tutti si lamentano che i giudici sono pochi; mi duole che non sia qui il Guardasigilli: io dico che i giudici sono sufficienti. Già molte funzioni nella riforma dell'ordinamento giudiziario potranno essere tolte ai giudici e date ad altri funzionari; ma io vorrei che, costituzionalmente, si fissasse questo principio fondamentale: che il giudice non deve essere distolto dalla sua funzione, che è quella di render giustizia. Non giudici nei Gabinetti dei Ministri, non giudici nelle Commissioni, non giudici che — ahimè! —, alle volte sospinti dalle necessità, elemosinino di far parte di questa o di quella Commissione di esame, di questa o di quella Commissione per lo studio di un determinato progetto, di questo o quel Consiglio. Dico, ahimè sospinti dalla necessità, perché le loro condizioni economiche sono di povertà: di povertà che dev'essere, per la dignità della funzione, dissimulata. Questo veramente sarà uno dei punti più fondamentali nella riforma che noi tentiamo di dare all'ordinamento giudiziario.
Ma tutto questo non è sufficiente, onorevole Turco, perché il magistrato si inserisce in una organizzazione, fa parte di un potere, che è sovrano.
Qual è il posto che noi daremo a quello che, con frase non del tutto felice, anzi, non propria secondo il mio punto di vista, è chiamato ancora «Ordine giudiziario?» Quale è l'indipendenza, per usare un'espressione tecnica, l'indipendenza funzionale di questo cosiddetto Ordine giudiziario? Dico espressione non felice, perché è tolta di peso dallo Statuto albertino, per il quale — residuo di una mentalità proveniente dalla Rivoluzione francese, che vedeva i tribunali con molto sfavore — la funzione della giustizia era quasi una funzione delegata, delegata dal sovrano. Poi, con l'evolvere dei tempi, mutarono le cose, ma l'impostazione originaria era questa: si parlava di potere legislativo e di potere esecutivo, ma non di potere giudiziario, ma di Ordine giudiziario, perché si considerava la giustizia come delegata dal re; diversamente da quanto già, per esempio, aveva fatto, con una maggiore larghezza di impostazione, lo Statuto belga del 1831, che parlava di potere giudiziario. Noi abbiamo mantenuto questa frase quasi per paura di usare la parola potere. Ebbene, il potere giudiziario è un potere dello Stato, perché è una manifestazione della sovranità dello Stato.
Come è stata garantita l'indipendenza funzionale dell'Ordine giudiziario? Non bene. Si è fatto un tentativo; il progetto si è fermato a metà, un po' per preoccupazioni del tipo «caso Pilotti», un po' per motivi di diverso genere, più profondi, inerenti a una visione politica che io non condivido. In fondo, il progetto dice questo: l'autogoverno della Magistratura è affidato alla stessa Magistratura.
Qui bisogna intendersi. Che cosa è questo autogoverno che mette tanta paura a qualcuno? Ma, signori, non è già che al Consiglio superiore della Magistratura si dia — come taluno forse crede e come taluno ha sostenuto — la potestà di dettarsi esso stesso le leggi della sua vita. Ma no! Molti credono che l'autogoverno significhi questo: che il Consiglio superiore della Magistratura sia un potere legiferante.
L'autonomia qui è intesa in senso non tecnico; è soltanto una potestà amministrativa. È questo il punto che voglio sottoporre alla vostra attenzione. L'accordo che molti ritengono (ed io per primo fra questi) necessario fra potere giudiziario e potere legislativo, ha già la sua prima realizzazione in ciò: è il Parlamento, ossia il potere legislativo, che detta la legge fondamentale della Magistratura, l'ordinamento giudiziario. Insomma, il Consiglio superiore non è legibus solutus, è un organo di amministrazione. Si è voluto dire: l'amministrazione della magistratura, anziché affidarla al Ministero della giustizia, al potere esecutivo, l'affidiamo ai magistrati medesimi. Ma amministrazione che si muove nei limiti e nello spirito della legge che fa il Parlamento.
Ed ecco, vedete, il primo raccordo fondamentale: la Magistratura vive sulla base e in conformità della legge che fa il Parlamento. Siamo in regime di democrazia costituzionale. La Magistratura, potere dello Stato, si amministra da sé, come il Parlamento o, per fare altri esempi, come la Corte dei conti, istituto paraparlamentare. Lo status dei magistrati, l'assunzione in carriera, le promozioni, i trasferimenti da sede a sede, i passaggi da funzione a funzione, tutto quel complesso di attività che si designa come governo e disciplina della Magistratura, è affidato alla Magistratura medesima.
Ma l'organo di amministrazione è inadeguato. Come è composto? Del Presidente della Repubblica, che lo presiede, e di due vicepresidenti: uno di diritto, il primo presidente della Corte di cassazione, l'altro eletto dall'Assemblea; e poi di un numero di membri, metà eletti dagli stessi magistrati, in categorie determinate dalla legge, metà eletti dall'Assemblea Nazionale, cioè dalle due Camere riunite.
Io non ho niente da obiettare circa la presidenza del Presidente della Repubblica; è il sistema della Costituzione francese. Il Presidente della Repubblica, che è capo del potere esecutivo, che noi abbiamo voluto non fosse mantenuto del tutto estraneo al potere legislativo; partecipa anche alla vita della Magistratura, del terzo potere dello Stato. Dà decoro e lustro all'organo, e riafferma l'unità dello Stato, che in lui si impersona.
Comunque, è qui da sottolineare che il Presidente della Repubblica interviene nell'organo di autogoverno in quella forma che l'amico Dominedò direbbe «in via di prerogativa», perché certamente i suoi atti non sono garantiti dalla responsabilità governativa; d'altra parte non ve ne sarebbe bisogno, perché, partecipando il Presidente della Repubblica ad un organo collegiale, non ha risalto individuale la manifestazione della sua volontà, che concorre a formare, assieme a quella degli altri membri, la volontà unitaria del collegio.
Poi vi sono due vicepresidenti. Ma che cosa significano due vicepresidenti? Noi dobbiamo pensare che, di fatto, il Presidente della Repubblica non potrà intervenire nel normale svolgimento della vita del Consiglio superiore della Magistratura. Come si divideranno i compiti questi due vicepresidenti, l'uno tecnico, l'altro politico? E non sente ognuno come i componenti politici potranno essere in conflitto, se non permanente, frequente con i membri tecnici? La politica farà come il lupo: superior stabat lupus!...
Io credo che se non vogliamo creare un regime di semi-indipendenza (la peggiore delle soluzioni), bisogna far sì che il Consiglio superiore della Magistratura sia composto esclusivamente di magistrati.
Io sento le obiezioni, sento l'eco viva delle obiezioni fatte in sede di Sottocommissione, sento adesso le critiche e le riserve mosse dall'onorevole Turco. Vi sono frasi che hanno fortuna. Una è questa: la Magistratura può diventare una «casta», una casta che si può porre fuori dello Stato, domani contro lo Stato; può perfino disapplicare, come sussurrava or ora, impaurito quasi, l'onorevole Ruggiero, le leggi dello Stato. L'onorevole Ruini teme una forma di «mandarinato». Ma veramente vogliamo discutere di questo? Per il fatto che si crea il Consiglio superiore della Magistratura, che già esiste, al quale il Guardasigilli onorevole Togliatti dette una configurazione veramente democratica con la legge del maggio 1946, perché si dà vita a quest'organo, prenderebbe forma concreta il pericolo che il magistrato possa rifiutarsi di applicare la legge! Ma perché questo non può avvenire anche oggi? Ma le leggi le applica il Consiglio superiore o le applicano i singoli collegi, i singoli giudici? Temete, per caso, che il Consiglio possa dettare norme circa l'interpretazione e l'applicazione della legge? E non protestate quando ciò vien fatto dal potere esecutivo!
Se, onorevole Ruggiero, dovesse avvenire ciò che lei teme, vorrebbe dire che si avrebbe lo sfacelo dello Stato. Se noi possiamo credere come veramente realizzabile l'ipotesi che i magistrati ad un bel momento non applichino le leggi dello Stato, allora lo Stato è in frantumi. Non è più questione di Costituzione. Siamo veramente nella notte, nelle tenebre più profonde. Ma di contro a questo pericolo immaginario noi abbiamo il grande vantaggio, certo, di avere veramente una Magistratura indipendente dal potere esecutivo e quindi quelle garanzie, che io ho detto individuali, acquistano maggiore rilievo per il fatto che vi è la coindipendenza costituzionale dell'organo.
La funzione giurisdizionale non è super partes, è al di fuori delle parti. Il potere che la esercita non può non essere indipendente in senso assoluto.
Il magistrato che elegge esso stesso il Consiglio che dovrà amministrare il suo stato giuridico, la sua vita di funzionario, si sente maggiormente garantito, non ha bisogno di ricorrere al Ministro Tizio o al Ministro Caio.
Ma ritorno a un tema al quale ho dianzi fatto riferimento: il collegamento con gli altri poteri dello Stato. Ci deve essere e si attua per due forme, per due raccordi. Uno è quello che ho indicato dianzi: la legge sull'ordinamento giudiziario che è fatta dal Parlamento; quindi una influenza, dirò così, preventiva, esercita l'organo rappresentativo della volontà popolare sulla vita della Magistratura, fissando i limiti della potestà di amministrazione del Consiglio superiore e la vita stessa della Magistratura come ordine. Il secondo raccordo è il Ministro della giustizia. Il Ministro della giustizia non deve scomparire (è detto nel progetto); il Ministro della giustizia ha una serie di compiti vastissimi. Già dovrebbero tornare alla sua competenza gli affari di culto, ma poi ha tutte le questioni professionali, gli ausiliari della Magistratura, del giudice (cancellieri, ufficiali giudiziari), materia che va trattata in perfetto accordo con il Consiglio superiore perché i giudici non funzionano se non funzionano bene i cancellieri e gli ufficiali giudiziari. Non solo, ma il Consiglio superiore della Magistratura, nella mia concezione, deve essere un organo soltanto deliberante; guai se diventasse esso stesso un Ministero; guai se trasferissimo il Ministero da Via Arenula a Piazza Cavour: sarebbe la stessa situazione, forse peggiore.
L'amministrazione, come parte di preparazione e poi di esecuzione dei provvedimenti, dovrebbe restare al Ministero di grazia e giustizia. Il Consiglio superiore è organo deliberante, che dice la sua parola definitiva nella materia dello status dei giudici, (Pubblico ministero compreso) sottraendola per sempre all'influenza del Ministro, del potere esecutivo. Il Ministro, poi, che acquisterà il maggiore rilievo costituzionale di Guardasigilli, risponderà al Parlamento del buon andamento dell'amministrazione della giustizia.
Egli avrà il potere di promuovere l'azione disciplinare contro i magistrati, e giudicherà su questa azione la sezione che sarà designata dal Consiglio superiore della Magistratura con potestà giurisdizionale, così come è detto nella legge Togliatti del 1946.
Quindi voi vedete che questa possibilità di casta chiusa fuori e contro lo Stato non esiste. È una ipotesi irreale, che non può essere nemmeno addotta come argomento polemico. Si infrange da se stessa. Io quindi credo, senza entrare in particolari, che noi dobbiamo dare alla Magistratura questa indipendenza con coscienza tranquilla, sicuri che la Magistratura saprà adempiere al difficile compito.
Ma, prima di terminare, volevo accennare a due altri punti, rapidissimamente.
Il sistema creato colloca l'Ordine giudiziario in una posizione che non è costituzionalmente appropriata. Dico, soprattutto, con riferimento alla Corte costituzionale. Noi abbiamo creato una Costituzione rigida. Nessuno ne ha mai discusso ex professo, ma si dà da tutti per ammesso che la Costituzione debba essere rigida, e sarà rigida. Quindi, necessità di un organo che compia il sindacato sulla costituzionalità intrinseca della legge. Quale deve essere questo organo? Badate che qui siamo di fronte a uno dei problemi più importanti di tutta la Costituzione. Io vi dico che ho molto riflettuto. Io ho partecipato alla formazione di questa parte del progetto, ma ho riesaminato tutti gli aspetti e tutte le soluzioni, e devo onestamente dirvi che la soluzione adottata non mi soddisfa. Noi abbiamo creato una Corte costituzionale che è un organo politico, che è un super Parlamento. Questo è estremamente pericoloso. Se, per ipotesi, la maggioranza del Parlamento, messasi sul piano inclinato della dittatura, vota una legge contro la Costituzione, noi non avremo la possibilità che la Corte dichiari l'incostituzionalità della legge, perché il Parlamento stesso forma la Corte costituzionale, e quindi l'elemento politico della maggioranza sarà presente anche in sede di Corte costituzionale. Noi sconvolgiamo tutto il sistema che vogliamo creare, non so se consapevolmente o inconsapevolmente. Questo è estremamente pericoloso. La Corte costituzionale deve essere un organo strettamente giurisdizionale, non organo politico; deve compiere un procedimento logico di accertamento: esaminare se la norma corrisponda o no, violi o no la Costituzione è un'opera che deve essere rimandata ai tecnici dell'amministrazione della giustizia, ordinaria e speciale. Vogliamo creare un organo a sé e non affidarlo alla Corte di cassazione. Va bene. Comunque, la Corte costituzionale non deve essere un organo politico perché, altrimenti, noi creeremo un super Parlamento: cosa pericolosissima, specialmente se tenete presente la natura di certe norme costituzionali che noi abbiamo inserito nella prima parte della Costituzione. Norme vaghe, norme direttive, norme programmatiche. Quando il legislatore ordinario dovrà dare concreta forma a queste aspirazioni, a queste tendenze, quale sarà il giudice che potrà dire se veramente questo compito è stato felicemente compiuto, è stato compiuto con rispondenza, con fedeltà alle norme costituzionali?
Ed un ultimo punto voglio toccare: quella della Corte di cassazione. Io ho letto un ordine del giorno che mi ha meravigliato, e mi ha addolorato e preoccupato, perché l'ho visto firmato da deputati di molti settori, il che mi fa temere che potrà passare.
Si vuole frazionare la Corte di cassazione.
Onorevoli amici, c'è la necessità dell'unità della giurisdizione. Non mi fermo su questo punto. Ma se dovessero essere approvati i concetti inseriti in quell'ordine del giorno romperemmo l'unità della giurisdizione, perché questa si realizza soprattutto attraverso l'organo supremo di interpretazione e di attuazione della legge.
Si è detto che la Cassazione esercita una funzione pedagogica. Giustissimo! Vogliamo rompere l'unità dell'ordinamento giuridico, ripristinando le vecchie Cassazioni? No, signori! Erano cinque; saranno 14, perché verrà l'onorevole Lussu che dirà giustamente: «Perché volete che la Sicilia abbia la sua Cassazione e la Sardegna no?» (Interruzioni — Commenti).
Avremo la Cassazione della Val d'Aosta.
Ora, onorevoli colleghi, questa della Cassazione unica non è una legge fascista. Molti dicono: «È stata adottata nel 1923: ergo, delenda est. Porta lo stemma del littorio, via!». Signori questa è un dato puramente cronologico. Fin dal 1862 (non mi voglio soffermare; ne discuteremo partitamente quando prenderemo in esame questo ordine del giorno) vi è un progetto Minghetti, che è di una attualità impressionante per l'unità; il progetto Pisanelli; e il progetto del 1919 del guardasigilli Mortara, il più grande processualista. Vi cito sulla dottrina, Calamandrei, che ha un'opera classica: La Cassazione civile, e che sostiene in questa la sua idea della Cassazione unica.
Si dice: «Vi è pericolo della immobilizzazione della giurisprudenza». No! Noi vogliamo l'uniformità della giurisprudenza; vogliamo che a Torino non si dica cosa contraria di quella che si dice a Palermo; non vogliamo vulnerare il principio che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Ma volere l'uniformità della giurisprudenza, non significa cristallizzare il giusto moto progressivo di essa. Cambiare la giurisprudenza, sì, ma avvedutamente, e non per esigenze che possono essere regionali, extragiuridiche, di politica regionalista. Vi dico che se questa questione dell'unità della Cassazione è suffragata da ragioni tecniche validissime, oggi se ne aggiunge una, decisiva di per sé sola. Oggi abbiamo creato le Regioni, che sono enti dotati di autonomia politica; non voglio ancora una volta parlarne male; ma abbiamo anche detto che la Repubblica deve essere una e inscindibile. Come vogliamo tradurre in atto questa unità e inscindibilità, se non attraverso questi due principî: che la legge del Parlamento è superiore alla legge della Regione; che la funzione suprema d'interpretare il diritto deve essere uguale per tutto il territorio? Questo e il tessuto connettivo costituzionalmente più importante per mantenere l'unità dello Stato.
Io vorrei pregare gli amici di riflettere su questo punto. Io ho fiducia. Sono certo, onorevoli colleghi, che l'Assemblea, per lo meno nei giorni che verranno, sentirà la profonda importanza di questo tema. Noi stiamo creando il vero strumento di difesa dei diritti e delle libertà. Non creiamo prerogative a persone: vogliamo una Magistratura che sia soltanto al cospetto della sua coscienza e della legge, quale che essa sia. La legge, una volta creata, non appartiene a questo o a quel partito, a questa o a quella tendenza, che pur l'ha voluta; appartiene allo Stato, al popolo; il giudice ha il dovere di applicarla secondo coscienza. Noi vogliamo eliminare le pressioni politiche e le ingerenze di partiti e di Governo sull'amministrazione della giustizia. Perciò ci rivolgiamo a tutti gli spiriti anelanti a vera libertà e a vera dignità di istituti civili! (Applausi — Congratulazioni).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Mastino Pietro. Ne ha facoltà.
Mastino Pietro. Onorevoli colleghi, accogliendo l'invito autorevole e giusto del nostro Presidente, io illustrerò gli emendamenti da me proposti al Titolo IV dell'attuale progetto di Costituzione ed accennerò solo ai principî ed alle questioni di indole generale, che servano ad illustrarne maggiormente la bontà.
Non perderò, quindi, né vi farò perdere il tempo per esaltare l'importanza del problema oggi in discussione, in quanto ritengo sia di consenso comune il ritenere che l'ordine, la tranquillità, direi anche il grado di civiltà di una nazione sono in rapporto diretto della bontà del sistema giudiziario, che la Nazione si sa dare; ed è giusto quindi che si dia speciale importanza, in questo rinnovato clima di democrazia, alla discussione sul potere giudiziario, anche se questa importanza non riceva conferma dalla presenza numerosa dei colleghi, durante questa discussione.
Un primo pericolo, un primo inconveniente dobbiamo evitare: quello di includere nella Costituzione argomenti o elementi, che possono trovare miglior posto nel Codice di procedura o di diritto. La Costituzione dovrebbe avere anche in questo campo principî fondamentali, principî essenziali; la Costituzione dovrebbe tracciare le direttive, sulle quali poi dovranno essere formati e compilati i Codici di diritto e di procedura.
Ad esempio, io leggo nel progetto come la pubblicità dei giudizi e la motivazione dei deliberati giudiziari siano elementi indispensabili da fissare nella Costituzione. Convengo su questi principî, in quanto la pubblicità dei giudizi è garanzia indispensabile di giustizia, ed in quanto la motivazione spiega e giustifica il provvedimento, ed affermare la loro necessità nel progetto di Costituzione non è fuor di luogo, soprattutto perché dobbiamo lamentare che, mentre molti ricorsi, anche di condannati a pene gravi, vengono respinti (anzi non vengono dichiarati ammissibili per mancanza di motivazione), assistiamo spesso a decisioni giudiziarie, da parte degli stessi organi, prive quasi completamente della motivazione necessaria.
Ma quando, nello stesso progetto, sono affermati il diritto di ricorso in Cassazione per violazioni di legge, e l'esecutorietà delle sentenze divenute definitive, si affermano due cose e due principî che, a mio avviso, meglio sarebbe collocare nel Codice di procedura. Fedele alla promessa fatta, onorevoli colleghi, di attenermi al progetto ed agli emendamenti da me formulati, io dico subito come nell'articolo 94 del progetto toglierei — ed ho presentato un apposito emendamento in questo senso — la seconda parte del primo capoverso. Dice l'articolo: «I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano secondo coscienza». Toglierei questa seconda parte che fa riferimento alla coscienza e lascerei solo l'altra: «I magistrati dipendono soltanto dalla legge». Che interpretino ed applichino secondo coscienza la legge stessa è un presupposto di indole morale, che non ha bisogno di essere incluso nel progetto di Costituzione, il quale deve affermare principî giuridici, e che, certamente, non verrebbe rispettato, anche se noi l'includessimo, da quei pochissimi che eventualmente manchino di coscienza.
Nell'articolo 94 ho introdotta una dizione che mi sembra più precisa, ed è questa: «La funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici e dai magistrati del pubblico ministero, che dipendono soltanto dalla legge». Appositamente ho parlato di «magistrati del pubblico ministero», intendendo con ciò che la nuova fisionomia del pubblico ministero deve essere quella di un magistrato staccato dalla dipendenza del potere esecutivo; il pubblico ministero diventa così organo del potere giudiziario. Anche adesso la sua funzione principale è quella di dare giudizi di necessità e di legalità, e solo eccezionalmente esprime giudizi d'opportunità e di convenienza. È giusto, quindi, precisare che la funzione giurisdizionale è esercitata, oltre che dai giudici, anche dai magistrati del pubblico ministero.
Sono stato anche indotto a questa precisazione dal fatto che nei lavori non solo riaffiorò, ma fu sostenuto, in termini espliciti, il concetto opposto. L'onorevole Leone vorrebbe riaffermare nella Costituzione la figura del pubblico ministero dipendente dal potere esecutivo.
Con l'emendamento che ha il numero 99-bis, ed in cui è detto che «ogni magistrato esercita in modo autonomo le proprie funzioni», ho voluto stabilire l'indipendenza del giudice dal vincolo gerarchico; stabilire, cioè, la sua autonomia interna.
Questo lato del problema è stato illustrato poc'anzi dall'onorevole Bozzi ed io non mi vi soffermo più a lungo. Egli ha parlato della abituale violazione dell'obbligo, per i magistrati più giovani e di minor grado, di esprimere per primi il proprio parere nelle riunioni in camera di consiglio sulle decisioni da prendere, e lamenta che ciò metta il magistrato più giovane in difficoltà ad esprimere la propria opinione, quando il superiore gerarchico abbia già manifestato la propria, in senso diverso. Questo è un inconveniente che l'onorevole Bozzi giustamente lamenta, ma non è il maggiore degli inconvenienti. Maggiore inconveniente, ad esempio, era quello per cui nell'istruttoria le sentenze venivano rese da giudici istruttori necessariamente inferiori per grado a quei magistrati della Procura camerale, che avevano, in un senso o nell'altro, già dato, con le conclusioni definitive, il proprio giudizio.
Non si è accennato finora, onorevoli colleghi, a proposito dell'indipendenza della Magistratura, ad un argomento che è veramente essenziale. Intendo riferirmi a quello da me indicato nell'articolo 102-bis, così redatto: «Lo Stato garantisce l'indipendenza economica del magistrato e dei funzionari dell'ordine giudiziario»: Onorevoli colleghi, noi dobbiamo avere del magistrato — e l'abbiamo — una visione alta; la visione del magistrato che con nobiltà e dignità adempie alle sue funzioni, e tutti siamo d'accordo nel riconoscere che la generalità dei magistrati ha degnamente esercitato il proprio ministero. Dobbiamo però, nello stesso tempo, riconoscere che egli è un uomo come tutti gli altri, che ha necessità pratiche come tutti gli altri, e che per la tranquillità, per la serenità del suo lavoro, per la dignità del suo ministero, per la dignità stessa dello Stato, che delega ai magistrati una parte della propria sovranità, dev'essere a lui ed ai funzionari dell'ordine giudiziario garantita l'indipendenza economica. Quanto difficile sia amministrare giustizia, e non tradire i suoi segreti (e con ciò intendo soprattutto riferirmi alla posizione dei dipendenti ausiliari dell'amministrazione), mentre si vive in gravi strettezze economiche, fra mille difficoltà e troppe tentazioni, è cosa risaputa.
Necessità quindi di provvedimenti al riguardo, che non si limitino a riconoscimenti verbali. Mi pare che questo mio emendamento, se potrà essere discusso nella forma, dovrà trovarci tutti d'accordo nella sostanza.
Ho anche proposto un altro emendamento che riguarda l'immunità dei magistrati dall'arresto, nei casi in cui non concorra la flagranza di delitto. Troppo, onorevoli colleghi, è di danno per la società il caso, non infrequente, che un magistrato venga colpito nel suo prestigio da un arresto che poi risulti immeritato. Anche in Roma, se io non vado errato, precisamente lo scorso anno, si verificò il caso del «fermo» poi mutato in «arresto» di un magistrato, il quale, dopo un mese e più di carcerazione, venne riconosciuto completamente innocente degli addebiti che gli erano stati mossi. Questo si deve assolutamente evitare: il magistrato, il quale torni all'esercizio della propria funzione, dopo un periodo di carcerazione ingiusta, darà luogo a manifestazioni di stima, da parte di quelli che mai avranno dubitato della sua innocenza e che lamenteranno l'affronto ed il torto di cui fu vittima, ma nello stesso tempo non sarà mai sicuro di sfuggire alle insinuazioni artificiose ed interessate da parte di altri. Noi, in quanto rappresentanti della Nazione, godiamo di una immunità che si fonda sullo stesso principio per cui la chiedo e propongo per i magistrati: delicatezza della funzione esercitata.
Poiché si è parlato di indipendenza e si parte dal concetto indiscutibile della inamovibilità dei giudici, dobbiamo subito dire che è però giusto quanto è affermato nel progetto, per cui alla assunzione dei magistrati si deve procedere solo per concorso; il magistrato che ha speciali garanzie, il magistrato che appartiene alla categoria dei cittadini che esercitano la più alta delle funzioni, quella di interpretare ed applicare la legge, deve costituire un corpo composto di elementi scelti, deve appartenere ad una categoria, per quanto possibile, eletta.
Non si devono poi applicare i vecchi sistemi e riparare alla deficienza numerica dei magistrati con l'assumerli, senza concorso, in base al titolo di laurea, oppure ad un periodo di esercizio professionale più o meno brillante. Io sono contrario alla istituzione di magistrati onorari, sono contrario ad inserire negli organi giudiziari magistrati tratti dall'avvocatura o dal campo accademico.
Solo attraverso un concorso rigoroso si potrà ottenere una buona Magistratura. Tanto più, quindi, sarei contrario, ove dovesse affiorare in quest'Aula, al concetto di una Magistratura elettiva. Con la elezione il popolo affida il proprio volere ai suoi rappresentanti. Nel caso della Magistratura noi siamo invece in questa condizione: che il popolo ha già manifestato il suo volere ed ha già consacrato la sua idea nella legge e nei codici che si debbono applicare. Quindi, il criterio elettivo è, non solo inopportuno, ma potrebbe essere addirittura disastroso.
Veniamo all'altro, importante argomento, quello che riguarda il Consiglio superiore della Magistratura.
In questo, onorevoli colleghi, che è uno dei punti più dibattuti, io non esito a dichiarare subito che sono contrario alla designazione da parte dell'Assemblea nazionale di membri del Consiglio superiore della Magistratura. È innegabile che la designazione conserverebbe sempre una specie di carattere, o di sapore politico, e che l'indipendenza di cui si è tanto parlato riceverebbe, per questo fatto, un colpo gravissimo; è innegabile, ancora, che la disposizione contenuta nell'articolo 97 del progetto è in stridente contrasto con l'ultimo capoverso dell'articolo 94.
Nell'articolo 94, ultimo capoverso, è scritto «I magistrati non possono appartenere a partiti politici». Io domando se non sia contraddittorio e se non sia profondamente ingiusto pretendere dai magistrati di rinunziare ad una parte della propria personalità, col divieto di inscrizione nei partiti politici e, allo stesso tempo, invece, disporre che nel Consiglio superiore alla Magistratura rientri quella politica dalla quale vorremmo che il magistrato fosse escluso. Dobbiamo, senza diffidenza, riconoscere alla Magistratura l'autogoverno.
E non mi soffermo ad esaminare (per il caso che sia approvato il principio per cui elementi designati dall'Assemblea nazionale partecipino al Consiglio superiore della Magistratura), non mi soffermo ad esaminare il caso degli appartenenti agli albi forensi, che non esercitino la professione durante il periodo in cui appartengano al Consiglio superiore della Magistratura, ma che tuttavia potranno esercitarla in seguito.
Chiunque eserciti la professione sa quali possibilità — non voglio dire quali astuzie — si possono praticare, perché l'esercizio avvenga per interposta persona. Sarà possibile, soprattutto agli avvocati che esercitano esclusivamente nei campi civile e amministrativo, servirsi, per la firma, del nome di un sostituto, di un collega, mentre l'appartenenza al Consiglio superiore della Magistratura, se non aumenterà il numero delle cause, certamente influirà per porre in stato di possibile soggezione i magistrati.
In fatto di unità di giurisdizione io, onorevoli colleghi, sarei per l'unità della giurisdizione civile, penale e amministrativa. Ma se anche il Consiglio di Stato e la Corte dei conti dovessero rimanere come organi giurisdizionali, io chiederei che fosse sancito il diritto di ricorso alla Corte suprema contro ogni decisione di Magistratura ordinaria o speciale, per qualsiasi violazione o falsa applicazione della legge.
Credo che tutti siamo d'accordo, in linea per lo meno teorica, nel riconoscere che debbano essere aboliti i tribunali speciali e che nuovi tribunali speciali o commissioni straordinarie non debbano essere stabiliti. Però, intanto, nel progetto, la disposizione precisa dell'abolizione di quelli esistenti non è consacrata. È consacrato, sì, il divieto dell'istituzione di nuovi tribunali speciali, ma non è stabilita la soppressione immediata degli attuali. È stabilito che la soppressione debba avvenire entro cinque anni; ma se noi, ad esempio, dovessimo — uso questo termine un po' volgare, ma espressivo — dovessimo, dicevo, sorbirci, per cinque anni ancora, i provvedimenti straordinari stabiliti in materia penale, per cui l'imputato viene sottratto talvolta ai suoi giudici naturali, ed affidato — direi consegnato — ai tribunali militari di guerra, se questo, dico, si dovesse verificare, dovrei dire allora che noi, con questo nostro progetto di Costituzione, non abbiamo fatto un passo innanzi, ma ne abbiamo fatto molti in una via di regresso.
Io sono favorevole alla soppressione del tribunale militare in tempo di pace. L'onorevole Bozzi, sostenendo poc'anzi la necessità della Cassazione unica, ha creduto di trovare un argomento a favore della propria tesi accennando al pericolo della richiesta di istituzione di Cassazioni in tutte le Regioni, il che, ove tale richiesta fosse accolta, determinerebbe una difformità eventuale nell'interpretazione della legge.
L'onorevole Bozzi ha detto che subito una richiesta del genere verrebbe presentata dall'onorevole Lussu per la Sardegna. Ebbene, io dico all'amico Bozzi che l'onorevole Lussu, il quale ha avuto con me uno scambio di idee sull'argomento, è favorevole alla Cassazione unica. Le ragioni per cui alcune Regioni chiedono la Cassazione regionale sono alquanto diverse da quelle cui ha fatto cenno l'onorevole Bozzi. Sono rappresentate dal fatto che sembra eccessivo accentrare tutte le cause in un'unica Corte suprema qui in Roma; che sia più difficile, per molti, la tutela dei propri diritti per il fatto che è necessario sopportare un maggior cumulo di spese; sono rappresentate soprattutto dal desiderio di far rivivere le proprie Cassazioni regionali, che ebbero vita in certo senso gloriosa.
Ciò non di meno io, sebbene regionalista, riconosco che solo la Cassazione unica può dare un'eguale, un'uniforme, una stabile interpretazione della legge. So bene come le varie sezioni della Cassazione abbiano sovente espresso difformi pareri nell'interpretazione della legge; so benissimo che questo si è verificato anche nel campo penale, Ma so che questi errori sono correggibili e non raggiungono quella ricchezza, direi, di episodi e quella profondità di danno che invece verrebbero raggiunti se le Cassazioni fossero tante quante sono le Regioni, o se anche solo le Cassazioni risorgessero là dove ebbero vita in precedenza: Firenze, Torino, Napoli e Palermo.
La stabile, uniforme interpretazione della legge è un elemento assolutamente necessario per la vita dello Stato. E affermando, come affermo, io regionalista, la necessità di mantenere la Cassazione unica, do la riprova del come, onorevoli colleghi, il nostro regionalismo non sia un regionalismo anti-unitario. Vi sono i principî fondamentali della legge per tutta la Nazione, che hanno bisogno di un'unica interpretazione, in quanto la Nazione deve avere una direttiva fondamentale unica, che è data appunto dall'attività giurisdizionale che interpreta la legge in modo uniforme. (Approvazioni).
Ed entriamo, onorevoli colleghi, nell'ultimo argomento che io tratterò un po' diffusamente: nella dibattuta questione della Corte d'assise. È curioso questo, ed è singolare come quasi tutti gli avvocati, soprattutto gli avvocati penalisti, siano in genere poco favorevoli alla Corte d'assise. (Commenti).
Intendiamoci: alla giuria, così come era e come funzionava anni fa, crederei che quasi tutti siamo contrari; alla giuria così come venne concretata e formulata nell'attuale progetto, crederei che anche quasi tutti siano maggiormente contrari; per lo meno sono contrari i penalisti. Ma siamo anche ugualmente contrari all'attuale funzionamento della Corte d'assise, che consiste nell'inserimento di elementi cosiddetti popolari fra i giudici togati, cioè all'assessorato. Si verifica questo, onorevoli colleghi: che il magistrato spesso considera precipua sua funzione quella di stare a guardia per ciò che gli assessori eventualmente potranno fare. Noi dobbiamo uscire da questa situazione.
L'articolo 96 dispone che il popolo partecipi direttamente all'amministrazione della giustizia mediante l'istituto della giuria, nei processi di Corte d'assise.
Io credo di non poter essere giudicato sospetto quando affermo che qui si è avuta una infiltrazione di tendenze demagogiche. Il popolo deve partecipare all'amministrazione della giustizia? Senza dubbio. Ma non è detto che debba parteciparvi solo attraverso la giuria nei processi di Corte d'assise; il popolo partecipa all'amministrazione della giustizia, informandone le leggi, rendendole più moderne, nel senso di renderle più adatte, più attuali, più adeguate all'ambiente; nel senso che la legge ha da essere modificata, rimodernata, resa viva, di modo che contempli i fatti umani così come si verificano nell'ambiente e nel periodo di tempo in cui deve essere applicata.
Io ricordo come il vecchio Codice — consentitemi l'accenno — non stabilisse minore pena per chi commettesse delitto per causa di onore. Tutt'al più si poteva ammettere il beneficio della provocazione. In seguito, opportunamente, venne introdotto un articolo, per cui i reati di sangue commessi per ragioni di onore vengono puniti con una pena speciale, di molto ridotta. Ecco che la spinta del popolo ha influito sulla modificazione della legge.
In questo senso, onorevole Bozzi, io trovo motivo per dire che non è vero che la giurisprudenza, quella che rappresenta e costituisce l'opera dei magistrati, debba necessariamente aver carattere conservatore. Il magistrato deve necessariamente applicare la legge, ma spetta al suo spirito, al senso di modernità e di umanità di cui possa essere animato, di far fare un passo innanzi alla legge stessa. I nuovi Codici, in certo senso, altro non rappresentano, se non la codificazione nuova di ciò che la giurisprudenza ha portato come nuovo contributo, per fare un passo innanzi. Ed è per questo che noi abbiamo introdotto nel Codice penale — come dicevo — un istituto relativo ai delitti per causa d'onore, considerati in modo speciale; ed è perciò che si è ristabilito il criterio delle attenuanti, ed è perciò che ha vita l'articolo 62 sulle diminuenti, articoli e principî che dovrebbero avere maggiore amplificazione.
Il popolo partecipa, quindi, all'amministrazione della giustizia, vi partecipa con le forme e per le vie di cui ho parlato. Quindi il problema delle Assise lo dobbiamo esaminare sotto un altro punto di vista.
Qual è il criterio fondamentale, in base al quale decidere se attribuire al giudizio delle assise le cause così dette di maggior competenza, oppure attribuirle ai tribunali? Dobbiamo seguire la via che porti ad una migliore amministrazione della giustizia. Questo dev'essere il criterio per decidere.
Attualmente, alla Corte di assise vengono deferiti tutti i processi in cui la pena superi i dodici anni. Questo criterio, onorevoli colleghi, non può essere seguito. Non bisogna badare ad un criterio quantitativo, bisogna badare ad un criterio qualitativo. Certi reati potranno essere ancora di competenza della Corte di assise. Quali? Ecco il punto. Potranno essere di competenza della Corte di assise, onorevoli colleghi, reati politici, qualche reato o tutti i reati passionali. Con questo criterio dovrà regolarsi la competenza delle Assise.
Io ho proposto la soppressione dell'articolo 96, non perché sia contrario a qualunque deferimento di cause alle Assise, ma perché non ammetto possa risorgere una giuria, le cui sentenze debbano decidere della vita di esseri umani e dei loro averi senza neanche la possibilità di appello.
La stranezza oggi è questa: che mentre è possibile l'appello da qualunque sentenza che condanni a qualche migliaio di lire di multa o a pochi giorni di carcere, tale possibilità è vietata per le cause in cui prima c'era la condanna a morte ed oggi v'è la condanna all'ergastolo.
Di modo che si arriva a questa incongruenza: che di fronte a casi troppo appariscenti, che cioè troppo palesemente violano la giustizia, la Cassazione che dovrebbe occuparsi solo di questioni di diritto, esamina la causa talvolta in linea di fatto.
La Corte di assise, competente solo nelle poche cause alla cui natura ho accennato, dovrebbe essere sistemata e regolata in modo da garantire il diritto all'appello.
La difficoltà del problema dovrà essere esaminata in sede di ordinamento giudiziario, o potrà avere, alla luce dei criteri ora espressi, opportuna soluzione.
Devo spiegare perché non attribuisco l'esclusività della competenza ai magistrati togati, dicendo, anche a questo proposito, chiaro il mio pensiero. Devo riconoscere che non sempre e non tutti hanno l'animo aperto a correnti e a sentimenti nuovi, e voglio sperare che, con l'attribuire loro la competenza anche in molte cause ora di assise (e col togliere loro la preoccupazione di quello che sarà il comportamento dei giurati o degli assessori), siano animati nella loro opera da spirito più largamente umano e, mi permetto di dire, anche da minor senso di diffidenza verso le posizioni a difesa, se non, talvolta, verso gli avvocati.
Io avrei voluto, onorevoli colleghi, che fosse stato presente (non ne ha l'obbligo) il Ministro di grazia e giustizia, perché avrei voluto dire in sua presenza come non sia esatto quanto poc'anzi ha affermato l'onorevole Bozzi, il quale ha detto che di magistrati ne abbiamo a sufficienza. Noi abbiamo l'organico, se non sbaglio, del 1865. Noi abbiamo quell'organico di fronte ad una complessità di vita ben diversa di quella di allora; noi abbiamo un organico per cui, onorevoli colleghi, troppi tribunali sono disorganizzati per mancanza di giudici.
Intendo accennare, finendo, alla necessità che la giustizia di cui ci preoccupiamo con l'organamento del potere giudiziario, sia uguale per tutti i cittadini e per tutte le terre, che non si debba più verificare ciò che, ad esempio, capita a Cagliari nonostante il lodevole spirito di sacrificio di quei magistrati, che cause già istruite giacciano per mesi in attesa che si effettuino le conclusioni, rese impossibili dalla mancanza di personale. È giusto che la giustizia porti la sua luce benefica indistintamente verso tutti ed in tutte le Regioni. (Applausi).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Ciampitti. Ne ha facoltà.
Ciampitti. Onorevoli colleghi, non sembri immodestia la mia, se inserisco la mia parola dimessa nella interessante discussione, alla quale hanno partecipato e parteciperanno insigni colleghi, certo più autorevoli e più competenti di me, intorno ad uno dei titoli più importanti del progetto di Costituzione.
Il mio intervento è dovuto unicamente alla lunga consuetudine professionale con la Magistratura, il che mi ispira il dovere di spendere una parola modesta, ma fervida, per la risoluzione di un problema vitale, che interessa la benemerita categoria dei magistrati, spesso indifesi e umiliati, ma sempre dignitosi, operosi, pieni di abnegazione, capaci di ogni sacrificio.
Il problema della Magistratura, altrettanto importante quanto in gran parte se non del tutto ignorato, va impostato od affrontato coraggiosamente nella sua interezza e nella sua complessità, studiandolo a fondo e dando ad esso quella giusta soluzione che, non soltanto dalla benemerita categoria dei magistrati si attende, ma anche e sopratutto dalla coscienza pubblica. Deve essere merito dell'Assemblea Costituente dare un assetto definitivo e soddisfacente all'increscioso stato di cose attuale riguardo al potere giudiziario, che dura da troppo tempo e che minaccia di compromettere la funzione della giustizia, a giudicare dalla recente agitazione della Magistratura, allarmante segno premonitore di incresciose conseguenze. Chi crede che il disagio dei magistrati sia soltanto o prevalentemente economico, sbaglia di grosso. Anzitutto si tratta di disagio morale, di una vera crisi di prestigio. La Magistratura anela alla conquista dell'indipendenza e dell'autonomia, senza di che essa non potrà compiere serenamente e coscienziosamente la sua alta e nobile funzione, essenziale alla vita dello Stato, garanzia di ogni libertà, tutela dei diritti dei cittadini, in ogni libero ordinamento civile. Caduto il regime fascista e restaurato in Italia un regime di legalità e di libertà, occorre che questo sia validamente rispettato e difeso contro ogni sopraffazione o ingerenza e che tutti, cittadini ed organi della pubblica autorità, si assoggettino incondizionatamente al rispetto della legge. Tale garanzia può trovarsi soltanto in un potere giudiziario che sia indipendente e forte, cui si assegnino compiti ben determinati, precisandone i rapporti con gli altri poteri dello Stato.
Negandosi la più incondizionata indipendenza alla Magistratura, viene meno la condizione essenziale e fondamentale di una sana e retta giustizia, che non è possibile realizzare se chi deve amministrarla non goda di piena libertà ed autonomia. Si può anche negare il rapporto di dipendenza gerarchica nell'interno del suo funzionamento, perché il principio dell'obbedienza gerarchica, che vige nelle altre amministrazioni pubbliche o private, non è concepibile nell'ambito della Magistratura, perché chi rende giustizia deve ispirarsi soltanto alla propria coscienza, tanto che nella Magistratura collegiale vige il democratico sistema della maggioranza e non quello della dipendenza gerarchica, ed il voto del Presidente non è preminente, ma equivale a quello del meno anziano dei giudici. Se è vero che la funzione della giustizia umana ha in sé qualche cosa di divino, essa deve essere assolutamente preservata da ogni possibilità di danno, da ogni speranza di vantaggio, liberando il magistrato da ogni deleteria influenza estranea.
Secondo lo statuto albertino, la Magistratura era concepita come l'emanazione del potere regio, e l'ordine giudiziario, in sostanza, fu considerato né più né meno che come una qualsiasi branca della pubblica amministrazione.
Si disse che la funzione giudiziaria era autonoma e indipendente. Ma come considerarla effettivamente tale, se i magistrati erano soggetti al potere esecutivo per la disciplina, le promozioni ed i trasferimenti? Con lo statuto e la legge Orlando del 1908 si concessero delle guarentigie ai magistrati, ma esse non assicurarono una vera ed effettiva indipendenza, giacché non basta garantire i magistrati dagli arbitrî positivi del potere esecutivo, occorrendo difenderli anche da quelli negativi, consistenti in atteggiamenti del Ministro contrari agli interessi dei magistrati. Non basta ad esempio assicurare l'inamovibilità del magistrato dalla sede, quando egli può avere interesse ad essere trasferito ad una sede più ambita, il che dipende dalla discrezione del Ministro, non sempre ispirata a giustizia e equità.
Particolarmente i magistrati delle province si lamentano che al Ministero della giustizia non sempre le cose vadano bene, specie in fatto di trasferimenti. Vero o no, giova eliminare ogni lamento ed ogni recriminazione. Il progetto di Costituzione riconosce l'esigenza dell'indipendenza e dell'autonomia della Magistratura, ma delle riserve vanno fatte, non sul fine in se stesso, sibbene sui mezzi atti ad assicurare il conseguimento del fine medesimo.
Le norme del progetto non lasciano completamente tranquilli circa la realizzazione di una vera autonomia e di una reale indipendenza del potere giudiziario, anzi si può dire che contraddicano al principio affermato nell'articolo 97 del progetto stesso. È l'autonomia amministrativa che occorre realizzare, mediante l'auto-governo della Magistratura, come già è stato ricordato da qualche collega che ha parlato prima di me. Bisogna svincolare, la Magistratura dalla dipendenza, come impiegati, dal potere esecutivo. Gli organi giudiziari devono provvedere alla propria amministrazione, altrimenti, attraverso i rapporti d'impiego, il potere esecutivo continuerà sempre ad essere il vero «padrone della Magistratura».
Forse non sarebbe inopportuno svincolare addirittura i magistrati dal concetto di carriera, di grado e di promozione, a simiglianza di quello che avviene per i professori universitari. Ma se l'attuale sistema deve perdurare, la materia deve essere affidata esclusivamente ad organi amministrativi composti dai magistrati, costituiti per elezione dai magistrati stessi. In sostanza è il sistema che è prospettato nel progetto che prevede la nomina del Consiglio Superiore della Magistratura, da costituirsi con membri eletti dalla Magistratura stessa e membri di nomina dell'Assemblea Costituente.
L'ideale sarebbe, in verità, che tutto il Consiglio Superiore fosse eletto dalla Magistratura, che più di ogni altro conosce ed apprezza i migliori della propria famiglia giudiziaria. Comunque, è manifestamente eccessivo il numero dei componenti di nomina dell'Assemblea Costituente rispetto a quello assegnato ai magistrati; senza dire che, indubbiamente, la nomina da parte dell'Assemblea Costituente risentirà facilmente, se non certamente, delle influenze politiche con indubbio danno della serenità e obbiettività dei giudizi da emettersi dall'alto consesso giudiziario.
Non si comprende poi la nomina di due vice Presidenti, di cui uno da nominarsi dall'Assemblea Costituente, quando uno potrebbe bastare nella persona del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, in assenza del quale potrebbe assumerne le funzioni il membro più anziano. È ovvio inoltre che gli iscritti agli albi forensi non possano essere eletti dall'Assemblea Costituente quali componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Non basta che si inibisca loro l'esercizio della professione durante il tempo in cui faranno parte del Consiglio Superiore, poiché la professione, come è già stato ricordato, si può anche esercitare per interposta persona, sicché il pericolo di influenza in un senso o nell'altro non si elimina affatto.
L'indipendenza della Magistratura deve essere assicurata anche con un adeguato trattamento economico. Per il prestigio effettivo della Magistratura e per invogliare gli elementi validi ad entrare nella Magistratura stessa, bisogna separare la Magistratura dall'esercito di funzionari ed impiegati statali, per farne un corpo sceltissimo, non numeroso, ben retribuito di rappresentanti della giustizia, cioè di un effettivo e vero potere dello Stato. Si impone quindi l'autogoverno finanziario lasciando alla Magistratura, nei limiti stabiliti ogni anno dal Parlamento, la determinazione degli emolumenti e delle indennità spettanti ai suoi componenti.
Né dovrebbe essere difficile la istituzione di una cassa speciale, cui potessero affluire i proventi degli atti giudiziari a vantaggio dei magistrati. Non è giusto che vada alle casse dello Stato tutto ciò che si ricava dall'amministrazione della giustizia. Del resto, il bilancio della Giustizia, come è noto, è attivo, forse il solo attivo fra tanti bilanci. E nel trattamento economico della Magistratura non è il caso di lesinare.
Il magistrato si vede oggi in uno stato di inferiorità e di impossibilità di vita. Dai frequenti contatti coi magistrati, so che essi vivono di stenti; in molti casi, nella maggior parte dei casi, essi fanno una vita grama, piena di sacrifici veramente enormi. Eppure essi devono rispettare le leggi della dignità e del decoro personale e della propria famiglia; e non hanno i mezzi per sostenere le spese richieste da una vita, anche la più modesta. Non bisogna dimenticare che le ristrettezze della vita materiale dei magistrati hanno un'influenza diretta anche sul potere spirituale e sulle energie mentali del magistrato stesso. Non si può pretendere un grande rendimento, aderente alle esigenze della magistratura, quando si soffre addirittura la fame, o non si hanno i mezzi materiali per poter provvedere alle esigenze più elementari della vita.
Se si fanno poi paragoni fra gli stipendi dei magistrati e quelli di molte categorie di impiegati statali o non statali, si vede in quale umiliante situazione i magistrati si trovino rispetto ad essi. È un quadro di avvilimento quotidiano quello al quale coloro che esercitano la professione forense debbono assistere, con vero rincrescimento ed anche con un senso di commiserazione per questi paria della società, i quali, pure esplicando una nobile funzione, non sono retribuiti in maniera da potere campare la vita con certa dignità e certo decoro.
Quindi, credo che non vi debba essere alcuno tra di noi che dissenta dal proposito, veramente fermo e concreto, di poter fare quanto è in noi per sollevare, oltre che moralmente, anche materialmente, la posizione della Magistratura italiana, che veramente deve essere considerata con quei criteri di umanità, che presiedono in tutte le altre risoluzioni prese dall'Assemblea.
C'è un punto, onorevoli colleghi, che va anche considerato a proposito della Magistratura italiana: parlo delle accuse e delle offese che con molta frequenza si fanno e si muovono contro la Magistratura, attorno alla quale si è creata una atmosfera di prevenzione e di sfiducia che si va sempre più totalmente appesantendo, talvolta per superficialità di giudizio, talvolta per malevolenza, però sempre ed in ogni caso con gravissimo danno dell'alta e delicata funzione della Magistratura e con evidente discredito della funzione del potere giurisdizionale.
C'è chi accusa i magistrati di inettitudine, chi di inerzia, chi di indegnità morale, ingiustamente e pericolosamente generalizzando, con serio discapito per tanti magistrati degnissimi, e più ancora, per l'esercizio del ministerio ad essi affidato. Non si esclude che nella famiglia della Magistratura, come del resto anche in altri settori della vita, fra tanti meritevolissimi di ogni lode e di ogni stima si annidino degli incapaci, dei neghittosi, dei moralmente censurabili. Se ciò è vero, è necessario, anzi è urgente (è la stragrande maggioranza dei magistrati stessi che lo reclamano) procedere ad una salutare e rapida eliminazione degli indegni, prima che questi contagino i buoni, ed anche per evitare che prenda consistenza la voce calunniosa che tutta la Magistratura sia bacata. I magistrati veramente degni di questo nome avvertono un intollerabile disagio morale nel sapersi sospettati di colpe che non hanno, e non possono tollerare che le accuse ed i sospetti contro gli immeritevoli si estendano ad essi, togliendo loro quella tranquillità di spirito e quella serenità di giudizio che sono condizioni prime ed indispensabili per la retta amministrazione della giustizia. A me pare anzi che un procedimento di eliminazione e di epurazione, severo, sereno ed obiettivo, sarebbe stato necessario e forse indispensabile, prima che l'Assemblea Costituente si accingesse alla discussione ed alle deliberazioni di ordine costituzionale nei riguardi della Magistratura. Non è possibile decidere sull'eventuale autonomia del potere giudiziario, sul credito che il Paese può fare alla Magistratura, sulle linee fondamentali del suo ordinamento, sulla partecipazione e sulla funzione che essa dovrà esplicare per il controllo costituzionale delle leggi e sull'ampiezza della sua giurisdizione, senza aver prima presa conoscenza della situazione attuale delle condizioni in cui i magistrati operano, delle cause del malcontento diffuso nel pubblico, prima di aver accertato fino a qual punto arrivi la fondatezza delle accuse e dove comincino per avventura i preconcetti, prima di aver dato il via ad un'opera di risanamento.
L'autonomia del potere giudiziario è tale condizione di indipendenza che dovrebbe essere riconosciuta al di sopra di ogni situazione contingente, perché in caso contrario l'ordine giudiziario riceverebbe un grave detrimento. Un senso di scoramento e di sfiducia nella sensibilità del Paese e di chi lo governa verso i problemi della giustizia, che furono sempre trascurati, pervade anche quelli che furono costantemente tra i più volenterosi, i quali si vedono oggi oltraggiati da accuse indiscriminate. Un maggior danno deriva alla Nazione, in cui diminuisce il senso di fiducia nella autorità dello Stato e nella stessa democrazia, quanto più si abbassa il prestigio degli organi che in un Paese civile dovrebbero costituire l'elemento fondamentale della tranquillità. Troppo spesso oggi accade che la Magistratura si trovi ad essere bersaglio di accuse mosse da chi se ne vuole servire a scopi politici e di parte, per sollevare l'indignazione degli ignari, per scaricarle addosso responsabilità che non la riguardano. Se in democrazia la giustizia è una delle principali funzioni dello Stato, l'Assemblea dei rappresentanti del popolo tutelerà la democrazia, se si metterà in grado di difendere l'ordine giudiziario da ogni ingiusto attacco.
Prima di porre fine a questo mio intervento, mi sia consentito di riferirmi all'ultimo capoverso dell'articolo 94 del progetto di Costituzione, per quanto riguarda il divieto ai magistrati di iscriversi a partiti politici e ad associazioni segrete.
La passione di parte, secondo me, toglie o può togliere al magistrato quel senso di obiettività e di serenità che è condizione prima ed essenziale per la retta amministrazione della giustizia. Seppure il magistrato, nell'adempimento del suo dovere, riesce a sottrarsi all'influenza dell'idea politica, va soggetto sempre e inevitabilmente a sospetti dell'una o dell'altra parte, specie nei piccoli centri giudiziari, in cui, anche volendo, il magistrato non riesce a nascondere la sua fede politica, offrendosi a bersaglio di critiche, di mormorazioni, di malignazioni, il che certo non influisce al suo decoro e al suo prestigio, né determina o consolida la fiducia del popolo nei suoi giudici.
Egli potrà liberamente coltivare nel suo intimo le sue opinioni politiche e liberamente potrà esprimerle con la segretezza del voto. È bene per lui e per l'amministrazione della giustizia che egli non sia sospettato di asservire l'alta e nobile funzione affidatagli di giudicare della libertà e dei beni del proprio simile sotto l'influenza della passione di parte.
Un'ultima parola a proposito della istituzione della giuria popolare, prevista nell'articolo 96 della Costituzione. Io sono convinto e irriducibile avversario della istituzione della giuria popolare. La mia lunga esperienza professionale mi conduce a questo convincimento, che io non so se sia condiviso dalla maggioranza di questa nobile Assemblea. Ma io ricordo gli scandali frequenti, gli errori frequenti, che si sono verificati durante il funzionamento delle giurie popolari. Nella relazione del Comitato per lo studio della riforma penale, costituito dall'Istituto italiano di studi legislativi e composto di magistrati insigni, di professori universitari e di liberi insigni professionisti, sono stati esposti e lumeggiati i motivi molteplici e seri che fanno ripudiare l'istituto della giuria popolare. Molte volte, specialmente nei processi indiziari, il delitto appare avvolto da mistero e l'imputato tenta ogni mezzo per occultare la verità e sfuggire alla condanna, traendo talvolta in errore anche il giudice più accorto ed esperto.
Ora, come può un giudice improvvisato, e quindi impreparato ed inesperto, accingersi alla ricerca della verità, quando egli non ha pratica, quando egli può essere facilmente travolto ed ingannato da equivoche apparenze e da falsi testimoni?
Ricordo che l'onorevole Enrico Ferri, a proposito della funzione giudiziaria che si attribuiva alla giuria popolare, ricorse ad un esempio banale, ma significativo. Egli si esprimeva così: «Sarebbe lo stesso come affidare la riparazione di un orologio ad un calzolaio». Non è colpa della giuria popolare se non è all'altezza della funzione che le si dovrebbe assegnare. E non perché si vuole che il popolo direttamente partecipi all'amministrazione della giustizia, si devono eliminare i magistrati togati, i quali, non so perché, dovrebbero essere capaci di giudicare nelle altre cause e non in quelle che ordinariamente si assegnano alla Corte d'assise.
Del resto, se si parla di percezione logica o di intuito da parte dei cittadini che dovrebbero costituire la giuria popolare, io mi permetto di osservare che tutto ciò non basta.
Occorre che vi sia una preparazione giuridica e che si abbia il sussidio di scienze complementari, oltre che pratica e tecnica giudiziarie, per rendere meno frequenti gli errori, il che con la giuria popolare non si può conseguire.
Moderni studiosi reclamano che il giudice penale abbia forte preparazione giuridica e scientifica. Ora, i rappresentanti del popolo si smarriscono molto spesso in quella che è la ricerca della verità, perché è soltanto la lunga pratica giudiziaria che può mettere i giudici in genere in condizione di poter ricercare la verità e corazzarsi contro tutte le insidie.
Questa non è opera che può essere attribuita a qualunque cittadino; non si possono improvvisare i giudici, specialmente quando alle Corti di assise si assegnano le cause per delitti più gravi di quelli che competono al tribunale. E poi, per chi abbia pratica delle Corti di assise, basta anche considerare la facilità con cui sono conseguite le vittorie da parte di avvocati che finiscono per travolgere il giudizio dei giurati con le blandizie della eloquenza oratoria. Ecco perché si hanno le facili vittorie nelle Corti di assise. Inoltre bisogna considerare anche la influenza che si può esercitare sull'animo dei giudici popolari in conseguenza di ragioni politiche, familiari, per interessi morali, per rapporti di simpatia, ecc., che possono determinare nell'animo dei giudici popolari un atteggiamento favorevole verso l'una o l'altra parte; il più delle volte ciò accade anche inconsapevolmente, per effetto di questi stessi rapporti.
Vi sono, è vero, dei difensori della giuria popolare, i quali si servono di questo argomento: essi dicono che nelle Corti di assise ordinariamente si dà un giudizio di fatto, e questo lo possono dare anche coloro che non sono cultori del diritto e che non sono dei magistrati; ma questo è un errore, perché il fatto ed il diritto spesso si concretizzano nello stesso processo, onde non è possibile parlare distintamente del fatto e del diritto. Il più delle volte bisogna giudicare una questione di diritto insieme ad una questione di fatto ed i giudici del popolo non sono sempre in grado di risolvere queste questioni.
Per quanto riguarda l'assessorato, il rimedio mi pare peggiore. Se i due magistrati che fanno parte della Corte di assise sono in dissenso circa la risoluzione di una questione di diritto, questa si decide col voto di cinque assessori, che non sono giuristi e che di legge non si intendono affatto. Basta questo per tutto.
Quindi, non v'è nessun serio motivo — ed io ho letto molto intorno a questo argomento e non ho trovato elementi capaci di distogliermi dalla mia convinzione — perché al magistrato togato si debbano sottrarre le cause di competenza della Corte di assise, molte delle quali — del resto — sono di più facile indagine e di molto più semplice decisione. Ancora, bisogna aver riguardo a quello che è il problema delle aggravanti e delle circostanze attenuanti in Corte d'assise. Quando si parla di circostanze aggravanti e di circostanze attenuanti non si può prescindere da considerazioni di diritto: il giudice popolare non è in grado di esaminare se, date alcune modalità di fatto, siano o no applicabili le aggravanti o le attenuanti previste dal Codice penale e, ancora, il giudizio della giuria popolare si esprime attraverso un «sì» o un «no», senza una motivazione, senza che, cioè, chi giudica abbia il dovere e la responsabilità di dire le ragioni, la motivazione del proprio giudizio, sia esso di condanna o di assoluzione.
Per queste modeste considerazioni, credo che si debba, da parte dell'Assemblea Costituente, respingere l'articolo 96 del progetto di Costituzione, nel senso che si debba eliminare il giudizio della Corte d'assise a base di giudici popolari e che addirittura tutte le cause penali, qualunque sia la loro entità, debbano essere giudicate dal magistrato togato, il solo che abbia la competenza, la capacità, l'esperienza per assicurare il trionfo della giustizia. (Applausi).
A cura di Fabrizio Calzaretti