[L'11 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Preti. [...] Bisogna infatti rendersi conto che lo Stato moderno, il quale giorno per giorno allarga la sfera delle sue funzioni, specialmente nel campo economico, ha bisogno di una legislazione rapida, aderente alle contingenze quotidiane; le quali mutano continuamente in relazione al fatto che oggi il mondo procede assai più velocemente che non ai tempi della democrazia strettamente borghese.
Perciò è inutile che i nostalgici rimpiangano i tempi in cui la Camera approvava quaranta leggi all'anno, e affermino che oggi ci troviamo sul piano della degenerazione parlamentare. Egli è che il mondo va avanti e forse essi stanno troppo fermi!
Orbene, bisogna decidersi a riconoscere che l'Assemblea plenaria, nella democrazia moderna, non può fungere se non da organo di controllo politico. Del resto lo riconoscono anche gli inglesi, i quali non sono affatto entusiasti del funzionamento della Camera dei Comuni, e per bocca di molti trattatisti affermano la necessità di riformarne il regolamento, di guisa che le Commissioni si sostituiscano all'Assemblea plenaria nella normale procedura legislativa. Cinquecento uomini o più, riuniti in quest'Aula riusciranno sempre a fare pochissime leggi, perché troppi vorranno intervenire e dire la loro parola talvolta neppure autorevole e, queste leggi, finiremo anche per farle male, grazie agli emendamenti improvvisati, approvati — come capita — a tambur battente, senza una sufficiente meditazione. E se, in materia di Costituzione, possiamo stare tranquilli, contando sull'opera della Commissione di revisione che riparerà a più di un errore, non si potrà per altro contare su un analogo esame di appello per la legislazione normale.
Abbiamo visto quel che è successo nelle discussioni di quest'anno: leggi di un'importanza molto relativa, come quella «leggina» che modificava il testo unico della legge comunale e provinciale, hanno richiesto un numero iperbolico di sedute. Se è ammissibile dunque, impiegare molto tempo per discutere la Costituzione, che è la legge fondamentale della Repubblica, non è serio perdere altrettanto tempo per leggi che potrebbero essere sbrigate con modesto impiego di tempo e di energie. È triste constatare come pochi deputati stiano a discutere fiaccamente in quest'Aula, mentre i più, se non sono addirittura nel «salone dei passi perduti» a fumare e ad oziare, stanno seduti al loro scanno, intenti a scrivere lettere alla moglie o al sindaco del paese.
Orbene, dinanzi a noi si pone un'alternativa. Possiamo da un lato prendere onestamente atto di questo stato di cose; ed allora si decide senz'altro di addossare il peso della legislazione ordinaria alle Commissioni, riservando all'Assemblea semplicemente le leggi costituzionali, quelle di approvazione dei trattati, e quelle sul bilancio, le leggi insomma che implicano una discussione politica. Nel quale caso bisogna modificare la norma del regolamento che si riferisce al metodo di discussione, facendo dell'attuale procedura d'urgenza la procedura normale e viceversa. Oppure ci ostiniamo ad ignorare la realtà; ed allora, lasciando noi oggi le cose così come sono, potremo domani constatare che, di fronte all'irrimediabile lentezza del Parlamento, il quale non riuscirà nei termini dovuti a esplicare le sue funzioni, il Governo assumerà di fatto la funzione legislativa, come del resto da parecchi lustri va accadendo in Italia e nell'Europa in genere.
[...]
Clerici. [...] Passo ora brevissimamente al quarto punto. L'onorevole Preti ha fatto alcune osservazioni cui aderisco, in merito alla seconda sezione del Titolo primo della parte seconda del progetto di Costituzione, cioè in merito alla formazione delle leggi. L'articolo 69 del progetto di Costituzione, al penultimo capoverso dice: «Su richiesta del Governo o del proponente, ciascuna Camera può deliberare che l'esame di un disegno di legge sia deferito ad una Commissione composta in modo da rispettare la proporzione dei gruppi alla Camera, e che, su relazione della Commissione, si proceda alla votazione senza discutere, salve le dichiarazioni di voto». È già un notevole passo avanti, ma non sufficiente data la realtà legislativa. Aggiungerò alle osservazioni dell'onorevole Preti alcune altre, a suffragio di quanto egli ci ha detto, se ben ho capito il suo discorso: lo Stato moderno — tutti ne convengono — fa molte leggi, ne fa a centinaia, ne fa a migliaia. Ma non può fare diversamente perché è uno Stato complicato; tutto è complicato nella vita moderna. È una regola generale che si osserva in qualsiasi paese, perché ovunque è l'identico stato delle cose. Ma un'altra osservazione si impone. A qualsiasi Assemblea manca, non dirò la competenza, ma il tempo di esaminare tutte queste leggi. Abbiamo visto noi stessi qui quello che accade quando si vuole procedere a fare una legge con attenzione: abbiamo impiegato dieci o dodici giornate per la legge sulla cinematografia ed un mese per approvare la patrimoniale.
Come faranno i nostri successori avanti a centinaia e migliaia di progetti di legge da fare o da approvare in conferma dei decreti legislativi del Governo in questi due o tre anni di attività legislativa delegata? Si dice che molta parte della materia legislativa verrà scaricata sulle Assemblee delle Regioni. Ma io convengo che, ciò malgrado, il lavoro per le nuove Camere sarà sempre almeno dieci volte superiore ad ogni possibilità umana.
Richiamo poi la vostra attenzione su di un fenomeno incontestabile, che gli anziani di questa Assemblea potranno confermarci; che cioè da quasi un quarantennio in Italia, assai prima del fascismo, quindi, la funzione legislativa veniva per la massima parte scaricata dal Parlamento sul Governo. È stata questa — diranno gli storici futuri — una fatalità. Ricordo brevemente qualche fatto e qualche dato.
Nel 1915, alla vigilia della nostra entrata in guerra, il 22 del mese di maggio fu deferita al Governo una così ampia facoltà legislativa, che praticamente si può affermare aver da allora tutti i Governi legiferato senza controllo parlamentare. È questo un fatto storico, che non si potrà rimproverare ad alcuno, ma che è incontestabile e che perciò s'impone alla nostra meditazione.
Nella XXV legislatura, su 826 decreti legislativi mandati dal Governo per la convalida, ne furono convalidati dal Parlamento appena 9. Nella XXIV, che va dal 1913 al 1919, furono approvati 396 disegni di legge sui 1181 che il Governo aveva trasmesso all'Assemblea. Nella XXV, che era Camera rinnovata e popolare, con 200 deputati della sinistra e 100 deputati del partito popolare, furono approvati solo 166 progetti di legge sui 1139 presentati. Nella XXVI, che andò dal giugno al dicembre 1921, 106 su 1185. Ed il Tittoni, nel noto suo saggio pubblicato dall'editore Zanichelli, dice che se nel 1922 si pensò di riparare all'inconveniente istituendo le sedute mattutine, accanto a quelle pomeridiane, si poté però constatare allora che le sedute mattutine erano disertate e che i deputati presenti nell'Aula non superarono mai il centinaio. (Questa mattina credo che non fossimo neanche cinquanta!)
Insomma, è difficile che una Camera possa lavorare più di quello che noi lavoriamo ora. E se si guarda alla media delle leggi che si dovrà invece fare ogni anno, è chiaro che si creerà una situazione inestricabile, e che non basterebbe, per smaltire il lavoro, votare quattro, cinque, sei leggi al giorno!
Quindi, bisognerà risolvere il problema, io credo, ancora più radicalmente di quanto non abbia già fatto il progetto di Costituzione, che qui è piuttosto incerto.
Ma vi è un'altra osservazione, sempre statistica e sempre sconfortante (e mi riferisco ancora al regime prefascista); cioè che il Governo in pratica è stato sempre più incontrollato in quella che è la sua tipica responsabilità verso le Camere, cioè per quanto riguarda i bilanci consuntivi, il che vuol dire che il Parlamento ha praticamente rinunziato alla sua precipua funzione, al suo tipico dovere, abdicando al controllo finanziario. Infatti i consuntivi 1905-1906 sono stati approvati con la legge 27 giugno 1909, n. 385; quelli dal 1906 al 1911 in blocco con la legge 14 marzo 1913; quelli del 1910-11 con la legge 19 giugno 1913; quello del 1911-12 con la legge 21 dicembre 1912; e tutti in blocco quelli dal 1912 al 1918, soltanto nel 1922. Il 21 dicembre del 1921 disse alla Camera l'allora Ministro del tesoro onorevole De Nava, parlando per l'esercizio provvisorio: «Mi sia lecito constatare che colla giornata di oggi, discutendosi il bilancio del tesoro, tutti i bilanci sono pronti. E questo fatto, lasciatemelo dire, non si era verificato da parecchi anni, anche prima della guerra». E poi? Poi venne il fascismo!
Insomma, la realtà è che neanche questa loro funzione fondamentale, l'approvazione dei bilanci, le Camere, sovraccariche di lavoro politico, hanno svolto.
Ora, io mi auguro una soluzione più radicale; e spero che i colleghi i quali parleranno dopo di me e con molta maggiore autorità di me, proporranno emendamenti atti a risolvere questo problema. Già in proposito venne presentato al Senato un progetto, mi pare nel 1922, dal senatore Scialoia e dal senatore Mortara e da altri 70 Senatori, al fine di temperare, se non di vietare del tutto, l'uso dei decreti-legge. Anzi l'abuso, quell'abuso (si pensi, in sette anni dal 1907 al 1913 il Governo emanò 30 decreti-legge ed invece 2800 dal 1914 al 1921) per cui la Corte di cassazione del Regno, allora a sezioni unite, emanò una memorabile sentenza, — il 24 gennaio 1922, Mortara estensore-presidente — che dichiarava illegale un decreto-legge. E vi fu allora l'inizio coraggioso di una revisione che il fascismo poi ha stroncato.
Possiamo facilmente prevedere, dunque, da una parte una quantità enorme di progetti di legge, che dovranno essere sottoposti alle Camere future per essere approvati (e non parlo di tutti i decreti legislativi, rispetto ai quali le Camere future non potranno che arrivare a una convalida generale, così come si fece per la legislazione 1915-1919 dopo l'altra guerra); dall'altra parte la impossibilità per i nostri successori di funzionare più attivamente di quanto si fa ora da noi e si fece dai nostri predecessori. Credo perciò che noi dovremo vedere se lo spirito della democrazia parlamentare non abbia bisogno e opportunità di forme nuove. In fin dei conti, noi siamo ancora tutti presso a poco legati nelle forme a quel delicatissimo regime che è sorto tra il 1740 e il 1800 in Inghilterra, quando si andava in portantina e col guardinfante; a quello che è lo spirito del regime parlamentare di allora o tutt'al più del tempo di Luigi Filippo. Ma da allora il mondo ha camminato.
Io credo che proprio in questo capitolo della formazione delle leggi noi dovremo proporci questo problema, risolvere con nuove forme l'antico e venerato principio parlamentare.
Concludendo, non basta statuire (come statuisce il progetto di Costituzione): il Governo non potrà fare leggi. Ma le potranno fare le Camere? Se non si troverà modo di distinguere leggi da leggi, se non si potranno affrontare e risolvere i problemi cui ho accennato, noi rischieremo di avere scritto nello Statuto fondamentale norme impossibili. Se facciamo una Costituzione che sappiamo a priori che è impossibile applicare, evidentemente non facciamo opera saggia.
E allora, per la salvaguardia dello spirito della Repubblica, credo che, al di sopra delle ideologie di partito, dovremo guardare le cose concretamente, dovremo guardare alle possibilità obiettive e vedere se il progetto non possa essere notevolmente migliorato. (Vivi applausi — Molte congratulazioni).
A cura di Fabrizio Calzaretti