[Il 19 maggio 1947 l'Assemblea Costituente prosegue l'esame degli emendamenti agli articoli del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Dobbiamo esaminare l'articolo 44, ultimo del Titolo terzo sui rapporti economici.

L'articolo è del seguente tenore:

«La Repubblica tutela il risparmio; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito».

Sono stati presentati numerosi emendamenti a questo articolo. I seguenti sono stati già svolti:

«Sostituirlo col seguente:

«Lo Stato incoraggia e tutela il risparmio e vigila sull'esercizio del credito e sugli istituti bancari con un organo di coordinamento stabilito per legge.

«Colitto».

«Sostituirlo col seguente:

«La Repubblica favorisce e tutela il risparmio; a tal fine disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito.

«Cortese».

Segue l'emendamento dell'onorevole Marina:

«Sostituirlo col seguente:

«Lo Stato incoraggia e tutela il risparmio: controlla e coordina l'esercizio del credito».

Non essendo l'onorevole Marina presente, si intende che abbia rinunciato a svolgerlo.

Gli onorevoli Zerbi, Malvestiti, Cappugi, Belotti, Balduzzi, Avanzini, Morelli, Pat, Sampietro, Pastore Giulio, Cotellessa, Bianchini Laura, Castelli Avolio, Ferrario Celestino, Gui, Quarello, De Maria, Coccia, Pella, Meda, Delli Castelli Filomena, Benvenuti, Clerici, Baracco, Bovetti, Gortani, Arcaini, hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«La Repubblica tutela il risparmio in tutte le sue forme e favorisce l'accesso del risparmio popolare all'investimento reale promuovendo la diffusione della proprietà dell'abitazione, della proprietà diretta coltivatrice, del diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

«La Repubblica disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito».

L'onorevole Zerbi ha facoltà di svolgerlo.

Zerbi. Onorevoli colleghi, l'emendamento che a nome di un folto gruppo di deputati ho l'onore di proporre alla vostra benevola attenzione dice: «La Repubblica tutela il risparmio in tutte le sue forme e favorisce l'accesso del risparmio popolare all'investimento reale promuovendo la diffusione della proprietà dell'abitazione, della proprietà diretta coltivatrice, del diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

«La Repubblica disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito».

Esso vuole esprimere il lamento di milioni e milioni di piccoli risparmiatori italiani, la tragedia — dirò senza iperbole — di tutta la nostra generazione di piccoli risparmiatori, che negli ultimi trenta anni o poco più, ha veduto il potere di acquisto della lira ridotto ad un centoquarantesimo della lira del 1913 o ad un trentacinquesimo della lira che correva nella pausa fra la prima e la seconda guerra mondiale. Tale immane tragedia ha inciso proprio e sopratutto sui risparmi delle classi popolari. Il risparmio delle classi ricche, per le sue stesse dimensioni e per la conoscenza che la ricca borghesia possiede delle multiformi vie di investimento e reinvestimento, sa ben trovare da solo impieghi che lo difendano dalla svalutazione monetaria e bene spesso sa volgere la svalutazione medesima a proprio vantaggio. È invece il piccolo risparmio delle classi popolari, il quale spesso indugia forzatamente nelle forme più semplici dell'investimento monetario — nel deposito bancario, nel titolo di Stato, nell'obbligazione — che più si è trovato esposto alle intemperie della moneta, le quali hanno caratterizzato questo ultimo trentennio e lo hanno gravemente sinistrato nella prima guerra vittoriosa e lo hanno annichilito dopo questa seconda sfortunata guerra. Per la sua stessa limitata entità individuale e per la scarsa conoscenza che il piccolo risparmiatore popolare ha delle svariate possibilità del mercato finanziario, i singoli piccoli risparmiatori continuerebbero anche nel futuro a non sapere difendersi da soli contro eventuali ulteriori bufere monetarie.

Rilevo con vivo compiacimento che la tragedia del piccolo risparmio popolare è ben presente a colleghi di ogni settore.

L'onorevole Nobile ha pure presentato un emendamento per la tutela del piccolo risparmio, auspicando che la futura legislazione rechi provvedimenti intesi a riparare i danni causati a tale risparmio da eventuali inflazioni monetarie. L'onorevole Quintieri Quinto ne ha presentato uno il quale impegna la Repubblica a tutelare il valore della moneta nazionale ed il risparmio. Infine anche gli onorevoli Einaudi, Corbino, Lucifero, Condorelli ed altri propongono un emendamento al fine di garantire costituzionalmente il rispetto della clausola oro.

L'emendamento Quintieri, e sia pure meno esplicitamente, quello Nobile esprimono un encomiabilissimo, eroico proposito, che purtroppo la Repubblica Italiana non può garantire di saper tradurre in atto.

La nostra lira è una modesta valuta la quale nella più benevola ipotesi può contare di riuscire a mantenersi stabile nel domani, tutt'al più fintanto che si manterranno stabili la sterlina e soprattutto il dollaro. Ma quando una di tali grandi monete regolatrici del mercato internazionale cadesse, noi saremmo trascinati con essa nella caduta, saremmo indotti ad «allinearci», come usa dirsi eufemisticamente, non foss'altro che per le esigenze delle nostre correnti esportatrici.

Più efficace sarebbe, indubbiamente, la salvaguardia della clausola oro, per quanto di tale clausola non sarebbe certo il risparmio popolare ad approfittare abitualmente.

La stessa nobile preoccupazione per le sorti del piccolo risparmio emerge dall'emendamento dell'onorevole Salerno il quale vorrebbe tutelato «il risparmio che trae origine dal lavoro»; essa è implicita nell'emendamento dell'onorevole Barbareschi che vuole impegnare la Repubblica a favorire oltre che a tutelare il risparmio; essa s'intravede infine anche come presupposto dell'emendamento dell'onorevole Mazza a favore delle piccole e medie aziende.

Gli uni come gli altri emendamenti proposti all'articolo 44 del Progetto palesano il desiderio di garantire, in qualche forma nuova, il mantenimento del potere di acquisto del risparmio monetario.

Sennonché, io ritengo che il solo mezzo che l'esperienza storica abbia dimostrato sufficientemente efficace per difendere, almeno in larga parte, il contenuto economico del risparmio delle classi operaie, artigiane, impiegatizie, pensionate, insomma del piccolo risparmio popolare sia nello spalancare a tale piccolo risparmio anche le porte dell'investimento reale in beni strumentali, sia nell'educare tale piccolo risparmio a tali investimenti, sia nel munirlo di strumenti economico-giuridici nuovi o di nuove forme associative, atte a redimere il risparmio popolare da quel complesso di inferiorità che finora lo ha fatto soccombente alle vicende della moneta.

L'emendamento da noi proposto è in parte esemplificativo. Dopo avere impegnata la Repubblica genericamente a favorire l'accesso del risparmio popolare all'investimento reale, il nostro emendamento auspica anzitutto la diffusione della proprietà dell'abitazione. Anche per la ristrettezza di tempo lasciata all'illustrazione dell'emendamento, è superfluo che io indugi a richiamare le varie forme di aiuto che lo Stato può predisporre per la diffusione della proprietà o della comproprietà dell'abitazione. L'emendamento auspica poi «la diffusione della proprietà diretta coltivatrice»: è questa una viva aspirazione di larghissime masse popolari delle nostre campagne ed io credo che noi incoraggeremmo molto efficacemente il risparmio delle nostre classi contadine, quando richiamassimo nella Costituzione questa loro aspirazione quale finalità sociale della nostra Repubblica. Il nostro emendamento vuole infine impegnare il futuro legislatore a facilitare al risparmio popolare il diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

Mi si potrebbe obiettare che nessuna remora esplicita la nostra legislazione pone a che le quote del piccolo risparmio popolare abbiano libero accesso anche all'investimento azionario, mentre le Borse valori spalancano indiscriminatamente le proprie porte a chiunque abbia danaro in cerca d'impiego.

Tutto ciò è vero, ma è altrettanto vero che in concreto fattori di varia indole hanno finora operato nel nostro Paese nel senso di convogliare il risparmio popolare verso gli investimenti monetari a reddito fisso, ossia verso quegli impieghi che già la prima inflazione aveva largamente falcidiato di contenuto economico e che questa seconda ha ormai pressoché annichilito.

La scarsa competenza del singolo risparmiatore popolare a valutare serenamente i rischi tecnici ed economici connessi all'investimento azionario, hanno costituito finora remora grave a che il risparmio popolare accedesse a questa forma d'impiego, capace di garantire a sufficienza contro le male conseguenze delle svalutazioni monetarie.

Ma è soprattutto la limitata dimensione dei singoli risparmi personali o familiari la quale, in linea di fatto, non suole consentire all'operaio, all'artigiano, al pensionato, e neppure al modesto impiegato od al piccolo professionista, di assortire un pacchetto azionario costituito da impieghi opportunamente ripartiti fra vari settori produttivi, in guisa da trarne un dividendo medio sufficientemente rimunerativo e non troppo variabile e da salvaguardare al tempo stesso nel suo insieme il capitale economico investito, pur frammezzo alle alterne vicende di prosperità e di crisi che caratterizzano la gestione di molte imprese e che più o meno mediatamente si ripercuotono sui dividendi e sui corsi dei titoli azionari.

Noi non ignoriamo che nel nostro Paese sono oggi in atto movimenti i quali tendono a diffondere il diretto investimento azionario anche presso ceti di risparmiatori fino a ieri estranei a questo tipo di investimento. Ce li segnala anche l'inusitata attività borsistica tuttora in corso. Non ignoriamo che talune nostre grandi imprese, specie nel nord, hanno recentemente assegnato opzioni ai propri dipendenti, ed attraverso queste opzioni li hanno ammessi ad un sia pure limitato investimento dei loro risparmi nella azienda stessa dove lavorano. Noi ci avviamo ad avere una discreta partecipazione di talune masse impiegatizie ed operaie al capitale di taluni dei nostri grandi complessi produttivi.

Ma io ritengo che la Repubblica italiana debba preoccuparsi di volgarizzare questa forma di investimento presso tutte le nostre classi popolari.

All'incirca un secolo fa, in seguito a vicende che potremmo designare come semplici ventate a paragone della catastrofica bufera che in questi ultimi anni ha squassato in Italia gli investimenti monetari a reddito fisso, il piccolo e medio risparmiatore inglese congegnarono la propria difesa nel cosiddetto investment trust, organismo di concentrazione del risparmio, capace di attuare accorti assortimenti di investimenti e di rischi azionari ed obbligazionari, pronto a mutare tempestivamente gli investimenti medesimi in rapporto alle variabili tendenze del mercato monetario e finanziario all'intento di assicurare al risparmio stesso un optimum di sicurezza e di stabilità di contenuto economico insieme alla più alta rimunerazione possibile.

Io credo che l'investment trust possa essere molto utilmente diffuso anche nel nostro Paese, sia nella sua struttura tradizionale sia e soprattutto nella forma di grandi cooperative d'investimento, le quali in varia guisa potrebbero anche coordinare le finalità caratteristiche dell'investment trust con quelle di holding popolari oppure d'impiegati ed operai risparmiatori. La tirannia dei pochi minuti accordatimi dal regolamento non mi consente di analizzare le concrete possibilità di fecondo sviluppo dell'investimento associativo, ma il chiaro intuito degli onorevoli colleghi non può non prospettare a loro gli enormi vantaggi che le classi piccolo-risparmiatrici trarrebbero dalla diffusione di investment trusts o meglio di sane cooperative d'investimento capaci di educare ed avviare larga quota del risparmio popolare ad essere partecipe dei grandi complessi produttivi del Paese e ad essere protetta contro le deprecatissime ma storicamente inevitabili svalutazioni del modulo monetario, attraverso un tale indiretto ed opportunamente assortito investimento reale.

Mediante le accennate forme d'investimento associativo noi diffonderemmo la piccola comproprietà dei grandi capitali industriali, noi intesseremmo concreti motivi di solidarietà economica fra molti del nostro popolo ed i maggiori dei nostri complessi produttivi ed erigeremmo, al tempo stesso validi strumenti di meno iniqua redistribuzione fra le varie classi sociali delle male conseguenze di future bufere monetarie. Per tutte queste considerazioni io ritengo che la nostra Costituzione non possa ignorare l'accennato problema e, nella forma qui proposta, o in altra più acconcia, io penso debba impegnare il futuro legislatore alla ricerca di una sostanziale e non appena nominale difesa del risparmio popolare.

Solo documentando con opportune leggi ed istituzioni la nostra decisa volontà di vigilare a siffatta sostanziale difesa, noi potremo nuovamente esaltare quella che è stata una delle migliori caratteristiche del nostro popolo: la virtù del risparmio, la quale condiziona la nostra stessa rinascita economica. (Applausi).

Presidente Terracini. L'onorevole Nobile ha presentato il seguente emendamento:

«Sopprimere la frase: La Repubblica tutela il risparmio; ed in via subordinata, sostituirla come segue:

«La Repubblica tutela il piccolo risparmio; e a tal fine la legge emana i provvedimenti opportuni per riparare i danni ad esso causati da eventuali inflazioni monetarie».

Ha facoltà di svolgerlo.

Nobile. Sarò molto breve. Nell'articolo 44 si afferma che «la Repubblica tutela il risparmio». Propongo la soppressione di una tale frase che sembra vuota e retorica ed in aperto contrasto con i fatti.

Il prestito cosiddetto della ricostruzione venne emesso a lire 97,50; cinque giorni fa era quotato in Borsa a lire 81, con una perdita del 16 per cento del suo valore primitivo. Se a ciò si aggiunge la diminuzione subita dal potere di acquisto della lira, dopo l'emissione del prestito, si conclude che la perdita effettiva di valore di questo titolo statale, emesso dalla Repubblica, è di molto maggiore. Che cosa ha fatto lo Stato, fino ad oggi, per riparare al danno che ne è derivato ai cittadini che investirono i loro risparmi in questo prestito? Nulla, che io sappia.

Ho parlato del prestito della ricostruzione ma il discorso vale ugualmente per il risparmio affidato alle Casse Postali o all'Istituto Nazionale delle Assicurazioni. Milioni di lavoratori, che avevano fiducia nella stabilità della lira, hanno negli anni scorsi prestato allo Stato italiano il loro danaro, acquistando buoni postali o depositandoli nelle Casse di Risparmio. Nel 1939 il numero dei libretti e dei buoni postali ammontava niente di meno che a 17 milioni 760 mila, per un ammontare di circa 32 miliardi. Questo vuol dire che il valore medio di ogni deposito o buono era di appena 1800 lire. Si tratta dunque veramente di piccolo risparmio, frutto di lavoro. Ma che cosa valgono oggi quelle 1800 lire? Meno di cinquanta, forse. Quel risparmio si è pressoché volatilizzato.

Ho voluto sfogliare le statistiche dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni. Ho trovato che nella composizione del portafoglio di quell'Istituto il nucleo fondamentale è costituito dalle assicurazioni miste ordinarie, che rappresentano il 44 per cento del capitale assicurato. Il numero di questi contratti al 31 dicembre del 1941 era di 510 mila (cioè il 13,8 per cento del numero totale) per un ammontare di circa 10 miliardi di lire; il capitale medio assicurato era quindi di 19 mila lire circa. Vi è di più. I contratti per le forme popolari erano 1.225.000 (ben 33,1 per cento del totale) per un ammontare di 2.613.000.000 lire (11,9 per cento del totale), con una media di lire 2.132. L'esiguità di questi valori medi conferma che si tratta di piccoli risparmiatori, che nell'una e nell'altra forma affidarono allo Stato il loro piccolo gruzzolo di denaro, risparmiato a costo di molte privazioni. Orbene, questi milioni di impiegati, o piccoli professionisti, operai, artigiani che versarono nelle casse postali o in quelle dell'I.N.A. delle buone lire, se ne vedono oggi restituire altre che valgono sì o no la cinquantesima parte di quelle.

Questi milioni di lavoratori, che con quei sudati risparmi affidati ad Enti statali ritenevano di poter guardare con più serena tranquillità all'avvenire, sono i soli, se ci riflettete bene, che abbiano fin oggi pagato di fatto allo Stato una enorme tassa patrimoniale, enorme perché essa rappresenta un'aliquota del 90 o 95 per cento. Uguale sorte è toccata, in generale, a tutti quanti abbiano investito il loro denaro in titoli statali. Gli interessi sul debito pubblico, che fino ad un paio di anni fa rappresentavano, forse, la terza o quarta parte delle spese totali dello Stato, oggi ammontano appena al 4 per cento di queste. Lo Stato ha così ridotto ad una cifra insignificante il suo debito pubblico, a spese dei risparmiatori.

Borsari neri, speculatori dell'industria e commercio, non hanno pagato invece ancora alcuna imposta sul danaro malamente acquistato, mentre che l'imposta l'hanno pagata in misura esosa quelli che lira a lira, stringendosi la cintola, fecero dei risparmi con l'intendimento di crearsi una piccola pensione per la vecchiaia. Le donne di servizio, che ogni mese si recavano a comperare le marche da mettere sul libretto della previdenza, hanno pagato il 98 per cento del loro risparmio, ma nulla ha pagato ancora fino ad oggi né il grosso commerciante, né il grosso industriale.

Di fronte a questa dura, amara realtà venire oggi a proclamare solennemente nella Costituzione che la Repubblica tutela il risparmio sembra quasi un dileggio. Senza volerlo, quelli che hanno proposto tale formula hanno aggiunto la beffa al danno. Una tale frase generica è vuota di significato. Essa costituisce pura retorica la quale toglie prestigio alla Carta costituzionale. Molto meglio sopprimerla. Per tutelare il risparmio non solo si dovrebbe arrestare il preoccupante processo di inflazione, oggi in corso, il che forse sarebbe possibile se avessimo veramente un Governo che governasse, e che desse un indirizzo a tutta l'economia nazionale, ma si dovrebbe anche iniziare il processo inverso di rivalutazione, cosa che a mio parere è assurda, e nemmeno desiderabile.

Vorrei perciò pregare il Comitato dei diciotto, che così spesso, arbitrariamente, parla a nome della Commissione dei settantacinque, che mai viene interpellata, vorrei pregare questo Comitato, che troppo spesso si ritiene infallibile, di voler accogliere la mia proposta di soppressione. Che se poi si volesse proprio insistere a parlare di tutela del risparmio, l'unico modo serio di parlarne nella Costituzione è quello di affermare che la Repubblica garantisce al piccolo risparmio, frutto del lavoro, il suo valore iniziale di acquisto.

Questo, per l'appunto, forma oggetto dell'emendamento che ho proposto in via subordinata, nel caso che non sia accolta la proposta di soppressione. (Voce da sinistra: bravo!).

Presidente Terracini. L'onorevole Quintieri Quinto ha presentato il seguente emendamento:

«Alle parole: La Repubblica tutela il risparmio, sostituire le altre: La Repubblica tutela il valore della moneta nazionale ed il risparmio».

Ha facoltà di svolgerlo.

Quintieri Quinto. Mi rendo conto delle obiezioni che possono levarsi alla inclusione nella Carta costituzionale dell'emendamento da me proposto, emendamento molto semplice e che significa, in sostanza, tutelare, oltre al risparmio, anche il valore della moneta. Ma l'importanza della questione è così grande, dato che sul valore della moneta vengono ad incidere tutti i nostri dissensi nel campo economico e tutte le nostre discussioni politiche, che mi è sembrato indispensabile richiamare l'attenzione dell'Assemblea su questo che è certamente il punctum dolens della vita italiana.

Non mi faccio illusioni sulla difficoltà di difendere la lira. Quando Marco Polo andò in Cina, trovò che i tartari avevano inventato qualche cosa di simile alla nostra carta moneta e già avevano fatto la prova che il sistema non era buono, in quanto dopo poco dalla sua adozione occorreva una forte quantità di quei segni monetari per comperare un pasticcio di riso. Quindi, la svalutazione della moneta fiduciaria ha antichi precedenti; è, in certo senso, il facilis descensus Averni di Virgilio.

Come ho detto, i nostri mali economici vengono tutti a confluire nel problema della moneta. L'attuale crisi di governo, per esempio, è una crisi monetaria che ha avuto ed ha ripercussioni sulla vita politica della nazione.

Il sintomo che ha scosso il nostro Paese, soprattutto attraverso il grido di allarme proveniente dagli ambienti finanziari, è stato quello fornito dalle Borse. Chi ha osservato i listini delle quotazioni ha potuto constatare come il valore di mercato dell'insieme delle azioni in esse quotate si è quasi decuplicato in un anno, cioè dall'aprile 1946. Si tratta di migliaia di miliardi, forse ci si avvicina ai 2 mila miliardi, che, ad un dato momento, si sono trovati come per miracolo nelle tasche di un certo numero di persone. Il Paese ha guardato, sorpreso, questo avvenimento e se ne è emozionato, tanto più che, parallelamente, si verificava anche una rapida ascesa dei prezzi dei generi alimentari, delle materie prime, ecc., altrettanti elementi che hanno sottolineato agli occhi del popolo il rapido progredire del processo di svalutazione.

Senza moneta stabile non c'è lavoro. Ho sentito parecchie volte giustamente deprecare in quest'aula la speculazione. È verissimo: in questo momento l'intera vita economica italiana è affetta ed infetta dalla speculazione. Ma come sorge la speculazione? La speculazione sorge perché le si è creato un ambiente favorevole. Anzi l'ambiente creato oggi in Italia permette solo la speculazione; una situazione favorevole al lavoro reale, proficuo per tutti, con risultati a lunga scadenza, in questo momento non c'è. Quindi una parte importante dell'attività della nazione è rivolta al gioco di Borsa, all'accaparramento delle merci per rivenderle quando il loro prezzo è aumentato ecc. Non si producono nuovi beni, non ci si preoccupa del futuro, troppo incerto e nebuloso; tutta l'attività economica resta sotto l'incubo della svalutazione monetaria.

Comprendo anche che parlare di stabilità monetaria, significa fare appello ai sacrifici indispensabili per difendere la moneta; la moneta non si tutela con palliativi, con provvedimenti di facilità o lasciando che le cose vadano per la loro china; la moneta si difende addossando a tutte le classi, senza eccezione — naturalmente soprattutto alle classi abbienti — i sacrifici necessari ed inevitabili. Quindi, in un certo senso, capisco come il Paese desideri ed aneli la tutela della moneta, ma si spaventi dei sacrifici necessari a raggiungere tale risultato. Però, presto o tardi, questi sacrifici bisognerà pur farli, se non altro per evitare che il valore della moneta venga ridotto a zero; è evidente che non si può andare all'infinito su questa strada della svalutazione. Non solo, ma i sacrifici diverranno tanto più gravi per quanto più tardi saranno fatti. Quanto più tarderemo ad imporre le necessarie limitazioni dei consumi, quanto più tarderemo a riorganizzare l'amministrazione fiscale, riorganizzazione che costituisce il presupposto per sottrarre ai consumatori quei super redditi che non possono essere assorbiti da mercati privi di beni, quanto più tergiverseremo a fare questo, tanto maggiore sarà il danno causato dalla svalutazione monetaria alla struttura sociale ed economica della nazione e tanto maggiore lo sforzo a cui tale struttura sarà poi sottoposta.

Si tenga conto che lo Stato, nello svalutare la moneta, compie una specie di suicidio, perché svaluta, insieme con la moneta, anche il suo prestigio.

Io vedo sopra la testata del principale giornale cattolico di Roma un motto: Unicuique suum. Ora, mi appello ai colleghi della democrazia cristiana perché vogliano dirmi che cosa sarà dell'Unicuique suum quando il risparmio, soprattutto quello dei piccoli risparmiatori, sarà per intero passato nelle tasche di altra gente, degli speculatori, di coloro che vanno accaparrando, con debiti che pagheranno in moneta svalutata, merci o beni reali, che accentrano nelle loro mani una parte sempre maggiore della ricchezza nazionale.

Spero quindi che avrò l'appoggio dei colleghi della democrazia cristiana, ed altrettanto dico a proposito dei colleghi delle sinistre, per le ragioni stesse esposte poc'anzi dall'onorevole Nobile. I piccoli risparmiatori non hanno idea della valuta estera e molto meno delle merci, dei titoli in borsa, per tutelarsi contro la frode compiuta ai loro danni con la svalutazione.

Fino al giorno dunque nel quale questo sforzo, che riconosco aspro, non sarà stato fatto in Italia, fino a che non si sarà riusciti a stabilizzare la moneta, tutto sarà precario, a incominciare dall'indipendenza del nostro Paese. Sarà vano infatti parlare di indipendenza nazionale, finché non avremo una moneta relativamente stabile ed in conseguenza un minimo di attività produttiva efficientemente organizzata.

Il problema monetario si ripercuote sui nostri rapporti con l'estero, perché, se non avremo una moneta, dovremo rivolgerci ad altre nazioni, a quelle che potranno aiutarci e che vorranno fornirci i mezzi per riorganizzare la nostra circolazione monetaria.

Credo con ciò di aver esposto i punti essenziali per cui sono convinto che la questione monetaria sia di importanza veramente decisiva. Io confido nell'adesione dei colleghi di tutti i settori, indipendentemente dal colore politico, perché si tratta dell'indipendenza e dell'avvenire del nostro Paese. (Applausi a destra).

Presidente Terracini. Gli onorevoli Barbareschi, Carmagnola, Mariani, Vischioni, Costantini, De Michelis, Merlin Lina, Merighi, hanno presentato il seguente emendamento:

«Alle parole: La Repubblica tutela, sostituire: La Repubblica favorisce e tutela».

L'onorevole Barbareschi ha comunicato di ritirarlo.

Gli onorevoli Salerno, Di Gloria e Pignatari hanno presentato il seguente emendamento:

«Alle parole: La Repubblica tutela il risparmio, aggiungere le parole: che trae origine dal lavoro».

L'onorevole Salerno ha facoltà di svolgerlo.

Salerno. L'emendamento da me proposto, insieme con altri colleghi, si accosta di molto all'emendamento del collega onorevole Zerbi e soprattutto a quello del collega onorevole Nobile, benché se ne distacchi per qualche tratto caratteristico. Ma vi è una sostanza che unisce questi emendamenti, e perciò, fin da questo momento, io proporrei di esprimere questo concetto informatore in una formula concordata od unificata.

Il concetto informatore in definitiva è questo: impedire che, attraverso un'antica attività economica, qual è il risparmio, si perpetuino e si proteggano forme, le quali potrebbero essere in contrasto con i principî economici e sociali ai quali vuole ispirarsi la Carta costituzionale.

Questo argomento del risparmio è veramente importante, non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista sociale. E quando, da parte dei presentatori di emendamenti, si andava quasi alla ricerca di un mezzo con cui tutelare il piccolo risparmio — come diceva l'onorevole Nobile — o il risparmio che proviene dal popolo — come diceva il collega Zerbi — io vedevo che essi in sostanza tendevano soprattutto a trovare una formula pratica che difendesse questo genere di risparmio. Perché, che cosa è poi il risparmio? A sentire gli economisti, è risparmio tutto ciò che è astensione dal consumo, tutto ciò che è accantonamento di beni. Ma se la formula che è contenuta nel testo del progetto di Costituzione dovesse essere mantenuta, io ritengo che essa non potrebbe trovare il suffragio di quanti ne penetrano il significato; perché, mentre abbiamo, attraverso gli articoli che riguardano la proprietà, stabilito che la proprietà deve essere disciplinata, limitata, indirizzata a fini di utilità sociale, dovremmo poi accettare una formula vaga, indiscriminata «la Repubblica tutela il risparmio», cioè tutela tutto ciò che è accantonamento di beni, beni che potrebbero avere, e hanno spesso, origini totalmente diverse. Sarei dell'opinione dell'onorevole Nobile di sopprimere la formula, la quale, come egli diceva giustamente, non ha significato, perché non so che cosa significhi tutelare indiscriminatamente, incondizionatamente il risparmio, se nella parola «risparmio» noi vogliamo trovare solo gli estremi di carattere economico.

Allora, la maniera di venire incontro a questa viva esigenza sociale, all'esigenza cioè di rendere l'espressione «risparmio» aderente alla concezione sociale della vita economica, quale noi vogliamo plasmarla attraverso la Carta costituzionale, non può essere che questa: stabilire che il risparmio tutelato è solo quello che proviene dal lavoro. Perché — parliamoci chiaro — onorevoli colleghi, anche il denaro che proviene dal mercato nero e che viene accantonato, anche il denaro che proviene dalla «tratta delle bianche» o da altri numerosi infamanti mestieri, solo perché accantonato, dovrebbe essere tutelato secondo questa formula; dovrebbe essere tutelato alla stessa stregua con cui si tutela il risparmio vero, cioè la rinuncia ad un bene, o ad un godimento, o a una soddisfazione, quale può essere un paio di calze per una dattilografa o un pasto per un impiegato: risparmio l'uno, economicamente, risparmio l'altro. Però, la verità è questa: che attraverso la formula che io propongo, la espressione «risparmio» viene liberata da un suo concetto di astrattismo economico e viene rivestita invece dei suoi dati essenziali, delle sue caratteristiche, dei suoi elementi peculiari, cioè di un senso di sacrificio, di rinuncia ad un bene in vista di una soddisfazione futura, e quindi di una rinuncia a carattere previdenziale. Mentre, se si dovesse confermare la formula del progetto, noi involontariamente o implicitamente apriremmo un campo sterminato alla tutela del risparmio, laddove il risparmio inteso in senso lato dovrebbe trovare la sua tutela generica nella ricchezza, nella proprietà, la quale ha avuto la sua disciplina in un'altra parte della Costituzione; e se vogliamo dare una tutela specifica al risparmio, dobbiamo circoscriverla e limitarla solo a quei beni e a quelle ricchezze che provengono dal sacrificio e dal lavoro.

Si dirà che tutto questo non ha a che vedere col concetto generale di risparmio; si dirà — e comprendo che, fra tanti economisti illustri e puri che ci sono in quest'aula, questa mia proposta potrà sembrare anche fantasiosa e senza contenuto pratico — si dirà che siamo lontani dal concetto generale di risparmio, cui è ispirato il testo del progetto; ma io vorrei dire a questi illustri colleghi che se l'espressione «risparmio» ha un significato sociale, il risparmio deve essere «socialmente» disciplinato; e vorrei anche aggiungere che il risparmio, appunto perché può essere effetto di un sacrificio oppure di una sovrabbondanza di beni, non può dar luogo ad una medesima disciplina.

Io provengo da una città dove ha sede uno dei più grandi istituti di risparmio: il Banco di Napoli. Ebbene, il Banco di Napoli offre spesso lo spettacolo di lunghe file di poveri operai che portano il loro biglietto alla banca perché sia custodito. Io penso che questo è il risparmio che deve avere particolare tutela! Tutto quello che non è questo risparmio, tutto quello che non è frutto di una rinuncia e di un sacrificio è proprietà, e pertanto la sua tutela rientra nella tutela generica della proprietà.

Vorrei insistere perciò su questo concetto: che il risparmio è un'attività economica nella quale il bene risparmiato non si può staccare dalla persona del risparmiatore, poiché nella espressione «risparmio» è insito un carattere personale ed umano. Il risparmio è un bene ed è una proprietà che merita una particolare tutela, ma la merita solamente se ha questa cifra, questo sigillo, questo senso specifico di provenienza, dal lavoro e dal sacrificio umano; diversamente la sua tutela sarebbe una tutela indiscriminata.

Comprendo che questi potrebbero essere anche dei semplici principî, ma sono i principî che possono orientare una legislazione, perché tutto quello che noi vogliamo raggiungere non lo raggiungeremo se non ci orienteremo verso una legislazione futura che apra l'indagine ed il controllo sulla ricchezza e sulla distribuzione della ricchezza, che tocchi cioè il terreno vivo e scottante della giustizia sociale!

Noi non vogliamo con ciò dire ai ricchi: «Consumate più che potete», benché qualche antico scrittore, come per esempio il Montesquieu, abbia detto: «Se i ricchi non consumassero, i poveri morrebbero di fame». Questo è un errore che oggi nessuno più ripete; però diciamo che se il risparmio non è frutto di un sacrificio e di una rinuncia esso non ha bisogno di una particolare tutela; tutelare tali beni indiscriminatamente significherebbe tutelare implicitamente quelle attività che li ha prodotti e che molte volte sono attività che non meritano né moralmente né giuridicamente una tutela o un riconoscimento.

E non si vuole dare nemmeno la scalata alle banche; ma bisogna che anche le banche siano disciplinate e controllate, perché non si può nascondere che oggi esse sono dei fortilizi ove si rinserrano con facilità ricchezze di qualsivoglia provenienza. Ho letto la relazione dell'onorevole La Malfa circa l'imposta straordinaria sul patrimonio: si è pensato anche in quel campo di rispettare il segreto bancario, e ciò mi pare che conferisca alle banche il carattere di una roccaforte dove i denari più o meno mal guadagnati possono godere sicurezza e impunità. Ora, tutto questo non può essere tutelato. Noi vogliamo, attraverso la formula che proponiamo e che d'altra parte suggella il principio del lavoro (non più solamente nel campo ideale, bensì nel campo concreto dell'economia) vogliamo, attraverso questa formula: «la Repubblica tutela il risparmio che trae origine dal lavoro», confermare un principio che s'intona con tutta l'architettura della Carta costituzionale. Dobbiamo pur uscire dalle astrazioni, che del resto sono accolte in tutti i settori; dobbiamo passare dalle formule all'applicazione delle formule, e il primo successo dell'applicazione noi dovremo vedere nella tutela del risparmio che deriva dal lavoro.

Ciò non dispiacerà agli onesti, non dispiacerà a tutti coloro che veramente credono che il lavoro sia un bene che bisogna anteporre ad ogni altro bene e ad ogni altro fattore economico. (Applausi).

Presidente Terracini. L'onorevole Mazza ha presentato il seguente emendamento:

«Dopo la parola: credito, aggiungere: «Favorisce piccole e medie aziende».

Ha facoltà di svolgerlo.

Mazza. Onorevoli colleghi, io non vi annoierò. Il mio emendamento è molto semplice, tanto da sembrare banale. Io, in omaggio al cantico della cooperazione che nella settimana scorsa si è svolto in questa Aula, mi permetto di ricordarvi le aziende cooperative di credito, centinaia di piccole aziende del credito, che in Italia sono soffocate dai grandi istituti bancari. Appunto per evitare che esse possano scomparire nell'avvenire io vi chiedo se non riteniate opportuno di aggiungere alla parola «credito» le altre: «favorisce piccole e medie aziende» oppure: «favorisce le piccole cooperative di credito».

Non mi pare di dover spendere altre parole nell'illustrazione di questo emendamento anche perché l'onorevole Adonnino fa la stessa proposta, ed io sono lieto di cedergli la parola. (Approvazioni).

Presidente Terracini. Gli onorevoli Adonnino, Mastino Gesumino, Ermini, Froggio, Tessitori, Franceschini, Trimarchi, Cremaschi Carlo, Uberti, Codacci Pisanelli, hanno presentato il seguente emendamento:

«Dopo la parola: credito, aggiungere: e ne agevola i piccoli e medi istituti».

L'onorevole Adonnino ha facoltà di svolgerlo.

Adonnino. Questo emendamento non richiede molte parole. In una Assemblea così democratica come questa ed in una Costituzione così imbevuta di spirito democratico, mi pare che non possa mancare un accenno alla democrazia del credito e alla protezione delle manifestazioni del piccolo credito.

Nei piccoli centri, nei villaggi, sono proprio i piccoli istituti quelli che veramente recano un efficace aiuto alle piccole aziende, agli artigiani, ai piccoli agricoltori, ai contadini, data la facilità delle loro decisioni, la conoscenza che hanno dell'ambiente, la semplicità dell'intervento; mentre i grandi organi bancari meno efficacemente possono intervenire. Essi devono infatti chiedere informazioni, le devono trasmettere alla sede centrale, la sede centrale deve esaminarle, decidere: tutto questo inceppa e disturba l'efficace svolgimento del credito.

Finora, a dire il vero, ho sentito che le grandi banche non hanno profittato della loro situazione privilegiata di fronte alle piccole aziende di credito, e che anzi le hanno sempre aiutate. Ma avviene di veder talvolta, come in alcuni piccoli centri del Mezzogiorno, che nella stessa via molti istituti di credito si allineano uno a fianco dell'altro. Questo veramente non può che portare ad una concorrenza nociva e conseguentemente al soffocamento delle piccole aziende.

Io credo che sia necessario dare al legislatore futuro una direttiva perché queste piccole aziende siano tutelate. Si è detto che forse questa sarebbe una norma troppo particolareggiata: veramente di norme particolareggiate ce ne sono parecchie nella Costituzione, ma questa ha di certo diritto di cittadinanza in quanto, in un campo così difficile come quello del credito, afferma proprio le necessità essenziali della democrazia in Italia. (Applausi).

Presidente Terracini. L'onorevole Persico ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere i seguenti commi:

«Nessun tributo può essere imposto e riscosso se non è stato consentito dal Parlamento.

«Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile».

Ha facoltà di svolgerlo.

Persico. Approvo il testo dell'articolo 44: «La Repubblica tutela il risparmio...». Lo Stato, cioè, deve assumere la difesa, quanto più è possibile, dei piccoli risparmiatori. Bisognerà rivedere ed aggiornare la legge 7 settembre 1926 sulla tutela del risparmio. Potremo anche accogliere l'emendamento dell'onorevole Nobile integrato da quello dell'onorevole Salerno, perché la finalità è unica: la tutela del piccolo risparmio. E questo deve essere tutelato soprattutto da quei colpi improvvisi di vento, quei numerosi fallimenti delle piccole banche locali per cui tanti patrimoni sono andati completamente distrutti.

«La Repubblica disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito»: qui mi pare che dobbiamo risolvere il problema delle banche: cioè se le banche dovranno essere statizzate o meno. Per il nostro massimo istituto di emissione è rimasto, sì, il Governatore, l'illustre collega onorevole Einaudi; è rimasta, sì, l'Assemblea dei partecipanti, ma in fondo si può dire che la Banca d'Italia è oggi completamente statizzata. Rimane il problema delle banche d'interesse nazionale, che si potrà risolvere a suo tempo.

Ma più che dimostrare l'utilità di questo articolo 44, voglio brevemente dire le ragioni per le quali ho creduto opportuna la proposta di aggiungere due capoversi, che non ho ideato io, ma che vengono direttamente dallo Statuto Albertino e sono collaudati da cento anni di vita. Allo Statuto Albertino venivano dalla Costituzione spagnola del 1830 e soprattutto da quella belga del 1831: quindi è passato oltre un secolo di esperienza. Sono gli articoli 30 e 31 dello Statuto Albertino.

Ho aggiunto i due commi, per colmare una lacuna. Dico la verità, ho cercato invano nei lavori preparatori qualche cosa che mi illuminasse; ho guardato i verbali della terza Sottocommissione; quelli della Commissione di coordinamento e del Comitato di redazione, ma poco o nulla ho scoperto al riguardo. Solo la relazione dell'onorevole Ruini ha una frase, che rimane un po' generica e che dice così: «L'altro accenno alla tutela del risparmio ed alla vigilanza sul credito, contiene una indicazione al coordinamento di norme e d'istituti che manca oggi in Italia».

Ho cercato poi nei lavori preparatori del Ministero della Costituente ed ho trovate molte notizie nel volume V, che si occupa delle Finanze; e nell'Appendice al volume V, dove la questione è ampiamente trattata.

L'articolo 30 dello Statuto Albertino dice: «Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re».

L'emendamento che io propongo è naturalmente aggiornato:

«Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dal Parlamento».

Storicamente i Parlamenti sono sorti appunto per consentire la imposizione dei tributi: nei regimi assoluti il Re convocava il Parlamento per averne il consenso nelle sue richieste di natura finanziaria.

Così sono sorti la Camera dei Comuni e gli Stati Generali, che diedero poi luogo al glorioso Parlamento francese.

Quindi, la legge che stabilisce i tributi deve essere fatta dalle Camere e deve riguardare due cose: l'imposizione del tributo, e l'autorizzazione a riscuoterlo.

Vi deve essere quindi una legge-norma, cioè una legge d'imposta; e una legge di bilancio, una legge-provvedimento, che renda possibile la riscossione del tributo.

Si potrebbe opporre — ma non credo che l'obiezione abbia valore — che l'articolo 18, già approvato, della Costituzione si occupa già di questo problema. Esso dice: «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge».

L'onorevole Badini Confalonieri notò, a suo tempo, che la dizione è antiquata, perché risponde alle prestazioni di altri tempi. Comunque, ci sono casi, in cui queste prestazioni sono necessarie e attuali. Proprio ieri il Prefetto di Sassari ha emanato un'ordinanza che obbliga tutti i cittadini, dai 18 ai 60 anni, a prestare cinque ore di lavoro per la lotta contro le cavallette.

Le prestazioni patrimoniali riguardano i casi di requisizioni d'immobili, di vestiari, di viveri, quando guerre, calamità pubbliche o circostanze eccezionali lo impongano.

Nessun rapporto, quindi, fra l'articolo 18 già approvato, e l'emendamento che io propongo.

E qui si può notare — per inciso — che le discussioni del progetto di Costituzione hanno alti e bassi abbastanza strani. Nelle sedute mattutine gli articoli passano rapidamente; invece nelle sedute pomeridiane si discute molto di più.

L'articolo 18 fu approvato a tamburo battente. Una proposta di emendamento dell'onorevole Badini Confalonieri non venne approvata ed una proposta dell'onorevole Ferrarese fu rimandata ad altra sede.

E così l'articolo fu presto votato. Quindi neanche da questo precedente parlamentare possiamo trarre dei lumi.

Vi è poi il secondo comma del mio emendamento, che suona così:

«Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile».

L'articolo 31 dello Statuto Albertino, da cui è tolta la formula, diceva:

«Il debito pubblico è guarentito.

«Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile».

A parte il fatto che non mi piace la parola «guarentito», la quale è antiquata, ho tolta la prima parte ed ho mantenuto, invece, la seconda.

Per il debito pubblico provvede bene la legge 10 luglio 1861 sul Gran Libro del Debito Pubblico che, all'articolo 4, stabilisce: «La prima assegnazione da farsi sul bilancio di ciascun anno è per il pagamento delle rendite, che costituiscono il debito pubblico». È una legge fondamentale dello Stato, che nessuno può mettere in discussione e che si è mantenuta inalterata fino ad oggi.

Io consiglio i colleghi di recarsi al Ministero del tesoro a vedere — è cosa molto interessante — le grandi stanze piene di tutti i volumi del Gran Libro, che si tramandano di generazione in generazione.

Troveranno anche una cosa molto caratteristica: c'è un impiegato che da quando è entrato in carriera, dai 18 anni ai 60 anni, è sempre rimasto nella stessa stanza a prestare lo stesso servizio: il che dimostra che la continuità è anche nella persona addetta al delicatissimo servizio.

Si potrebbe, forse, fare all'articolo 4 della legge del 1881 una aggiunta: cioè che sono garantiti, nella assegnazione dei fondi di bilancio, anche i titoli scaduti e sorteggiati, perché oggi si parla soltanto di rendite.

E a me sembra che non sia giusta questa diversità di trattamento fra pagamento di rendite e di titoli scaduti o sorteggiati.

E qui esprimo un convincimento, che sarà utile manifestare poi alla Assemblea Costituente in altra sede.

Converrà, come fa l'Inghilterra, stabilire il fondo consolidato «consolidated fund», per cui certe spese fisse (in Inghilterra sono poche riguardanti la lista civile, il debito pubblico, gli stipendi della Magistratura, dello speaker ai Comuni, ecc.) non si discutono ogni anno nel bilancio, ma vanno da Corona a Corona, da Sovrano a Sovrano (il sistema fu introdotto nel 1688 coll'avvento al trono di Guglielmo III). In una riforma che potremo fare al nostro bilancio si potrebbe stabilire che le spese consolidate vanno di decennio in decennio. Ed allora fra queste spese potremo mettere gli interessi del debito pubblico. Cosicché ci sarebbe una garanzia assoluta, perché il bilancio avrebbe una parte fissa fuori discussione, nella quale entrerebbe appunto il pagamento degli interessi.

Ed ora veniamo al secondo comma del mio emendamento:

«Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile».

Ho ritenuto di lasciarlo tale quale era nello Statuto Albertino.

Lo Stato deve mantenere fede ai suoi impegni. Guai se lo Stato perde la fiducia dei cittadini!

Ricordiamo che fra le cause remote della Rivoluzione Francese dell'89 tutti gli storici mettono l'inflazione e il disastro economico provocato, sotto la Reggenza, dal celebre banchiere inglese John Law, e fra le cause immediate del nazifascismo in Germania (questo purtroppo lo abbiamo visto noi) vi è stata senza dubbio la caduta del marco.

Quindi la difesa degli impegni dello Stato è una cosa essenziale per ogni regime che voglia durare. Perciò il potere esecutivo deve iscrivere ogni anno nei suoi bilanci le somme necessarie perché siano estinte, o siano le varie passività dello Stato, o ne siano pagati gli interessi. Il potere legislativo deve approvare queste somme iscritte nei vari bilanci, ed il potere giudiziario dovrà difendere i diritti dei creditori anche contro lo Stato, se occorre.

Nel questionario n. 4, allegato ai lavori della Commissione economica, ho letto attentamente le risposte che le banche e gli economisti hanno dato al quesito se sia opportuna la garanzia costituzionale degli impegni finanziari dello Stato. Risposte discordanti.

Alcuni ritengono utile che nella Costituzione ci sia questa norma, altri la stimano superflua, perché dicono che la garanzia del rispetto degli impegni finanziari dello Stato deriva dall'interesse che lo Stato ha a non compromettere il proprio credito.

Altri affermano che la garanzia costituzionale è assolutamente inefficace di fronte alla svalutazione monetaria.

È facile rispondere.

Secondo me, la riaffermazione statutaria della inviolabilità degli impegni finanziari è sopratutto necessaria in un periodo fortunoso come quello che la Finanza dello Stato italiano attraversa. Oggi tutto è instabile; e la norma statutaria, dalla quale deriva che lo Stato mantiene inviolabili gli impegni verso i suoi creditori, resta un'ancora ferma che potrebbe ispirare una maggior fiducia da parte dei creditori presenti e futuri. Lo Stato democratico italiano ha, del resto, già dato prova di questa sua volontà; si è addossato tutti i debiti della cosiddetta repubblica sociale fascista, e credo che anche i Comuni di Milano e di Genova finiranno per addossarsi gli oneri dei prestiti Parini e San Giorgio, perché sarebbe doloroso se questo non avvenisse.

Ma vi è una ragione preminente, onorevoli colleghi, una ragione che, secondo me, risolve alla radice la questione; sarebbe certo interpretato nel senso più sfavorevole, oggi, togliere dalla nuova Costituzione il tradizionale principio dell'inviolabilità dei debiti dello Stato. Questo mutamento potrebbe incidere sul credito internazionale dello Stato con enorme danno.

Come già la Commissione economica, anche la Sottocommissione di studio dei problemi attinenti all'organizzazione dello Stato, presieduta dal prof. Forti, concluse per il mantenimento nella nuova Carta Costituzionale dell'art. 31 dello Statuto Albertino.

Il nuovo Stato democratico, sorto dalla caduta del fascismo, ha bisogno soprattutto di credito e fiducia, sia nelle sfera interna, sia in quella dei rapporti internazionali; il credito e la fiducia sono elementi indispensabili della ripresa economica, cioè della sicurezza del lavoro delle classi operaie.

Solo così ritengo che l'Italia, uscendo dal baratro dove l'ha cacciata il fascismo, potrà riprendere con fede e con speranza le vie luminose dell'avvenire! (Applausi).

Presidente Terracini. Gli onorevoli Einaudi, Morelli Renato, Crispo, Badini Confalonieri, Quintieri Quinto, Bonino, Lucifero, Corbino, Colonna, Condorelli, hanno presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere il seguente comma:

«A tal fine è garantito il rispetto della clausola oro».

L'onorevole Einaudi ha facoltà di svolgerlo.

Einaudi. Se io ho presentato, onorevoli colleghi, il mio emendamento aggiuntivo all'articolo 44, non è perché io non creda che questo articolo non debba essere, nella sua integrità, accolto, e non perché io non abbia apprezzato grandemente le parole che sono state pronunciate prima di me, intorno alla necessità di conservare il valore del risparmio, dagli onorevoli Zerbi, Quintieri, Nobile, ed altri, ed adesso ancora dall'amico onorevole Persico, ma perché io credo che l'emendamento presentato da me abbia per iscopo di dare un contributo concreto alla norma della tutela del risparmio.

L'onorevole Persico, nel suo emendamento, ha riprodotto la norma che era stata scritta già nell'articolo 31 dello Statuto albertino e quella norma era quanto di più lapidariamente chiaro si potesse immaginate. Diceva l'articolo, come ha ricordato l'onorevole Persico, che «ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile». Io non sono d'accordo con l'onorevole Persico nel ritenere che la riproduzione, che mi auguro sia fatta nella nuova Costituzione, di questa norma sia per essere un'ancora ferma alla tutela del risparmio ed al valore della moneta, perché purtroppo quest'ancora ferma non lo fu nei cento anni passati, e se l'esperienza giova a qualche cosa, essa non ci può far presumere che in avvenire si avvererà quello che non fu mai nei cento anni decorsi. I legislatori dei cento anni decorsi avevano cercato anzi di dare un valore preciso alla norma statutaria ed avevano, per esempio, scritto su alcuni dei più importanti titoli di debito pubblico, fra gli altri sulla vecchia rendita italiana 5 per cento, poi diventata 3 1/2 per cento con la conversione Luzzatti-Majorana del 1906, che i portatori potevano richiedere che gli interessi fossero pagati in lire sterline, in franchi ed in altre monete allora pregiate. Ma alla norma, la quale cercava di dare un contenuto al principio statutario, ben presto furono trovati gli opportuni espedienti di evasione, dicendo prima che soltanto i creditori residenti all'estero potevano chiedere il pagamento in moneta straniera, e, quando ciò non bastò, perché molti italiani mandavano a Parigi ed a Londra le cedole per la riscossione, si aggiunse che, oltre alle cedole, si dovevano mandare contemporaneamente anche i titoli, aggiungendo così rischi e spese all'esercizio del diritto, sancito senza restrizioni nel titolo. Poi nemmeno ciò bastò più, e si richiese l'attestazione (affidavit) che le persone da cui venivano presentati i titoli risiedessero all'estero, e sempre più restringendo si chiese che solo gli stranieri potessero usare del diritto, ed ancora che soltanto gli stranieri, i quali da un certo lasso di tempo risiedessero all'estero, potessero esercitarlo. A poco a poco si finì che la norma scritta nello Statuto non ebbe applicazione concreta. Alla interpretazione restrittiva diede autorevole suffragio la nostra Corte di Cassazione, ad imitazione dei Tribunali supremi giudiziari di tutti i paesi, dichiarando, in ripetute sentenze, che anche dove era scritto qualcosa di diverso, e là dove i creditori si erano in qualche modo garantiti contro il deprezzamento della lira facendo riferimento alla lira oro, si giudicava che la lira è sempre la lira, il marco sempre marco, il franco sempre franco. Ossia tutti i debitori potevano pagare nel numero nominale convenuto nella moneta che aveva corso nel momento del pagamento. Questa è la ragione giuridica per cui l'articolo dello Statuto il quale dichiarava che tutti gli obblighi dello Stato erano inviolabili, finì per non aver nessun valore concreto.

Oggi è pacifica giurisprudenza che lo Stato può allungare o scorciare quanto crede il metro monetario, e quanto più lo scorcia, tanto meno i debitori hanno diritto di pagare per rimborsare i loro creditori. Il riferimento ad una unità monetaria fissa che non sia nominale, ma riferentesi ad un dato peso d'oro, oggi non ha efficacia giuridica, non applicandosi il principio fondamentale dello Statuto contenuto nell'articolo 31, perché questo valore è stato distrutto dalla nullità di tutte le clausole oro che dai privati erano state scritte a tutela della buona fede, a tutela degli impegni assunti dai debitori. Di qui l'emendamento da me proposto, il quale tende a non lasciare la promessa di tutela del risparmio come una qualcosa di astratto; ma vuole che a tal fine sia garantito il rispetto della clausola oro. Non si dice che questa clausola oro debba essere imposta; non si vuole che il metro monetario del nostro paese sia variato rispetto a quello che il legislatore vuole. Si dice soltanto che i creditori hanno diritto, se vogliono, di garantirsi contro le svalutazioni della moneta che costituiscono il fatto più clamoroso e socialmente più dannoso verificatosi dal 14 in poi. Quanto sia dannosa la svalutazione è dimostrato da qualche cifra già addotta dall'onorevole Nobile. Mi sia consentito di aggiungerne qualche altra che chiarisce i danni che i depositanti di tutti gli istituti di credito, di tutte le Casse di Risparmio e di tutte le Casse Postali in Italia hanno subìto dal 1914 in poi.

Al 30 giugno del 1914 la somma dei depositi, ad esclusione dei conti di corrispondenza bancari, cioè la somma dei semplici depositi in conto corrente ed a risparmio, presso tutti gli istituti di credito italiani comprese le Casse di risparmio e le Casse postali, ammontava a 7.493 milioni di lire. Oggi, tenuto conto del diminuito valore di acquisto della moneta, quel valore si è ridotto a 0,7 per cento del suo ammontare originario. Quindi, coloro i quali avevano depositato quei 7 miliardi e mezzo si trovano ora a possedere veramente un pugno di mosche, 0,7 per cento di quello che possedevano nel 1914.

Andiamo avanti. I risparmiatori hanno continuato a depositare danaro presso le banche e le Casse di risparmio. Dal 1° luglio 1914 al 30 giugno 1922 i risparmiatori italiani hanno depositato 20.311 milioni di lire. Il valore di ciò che essi hanno depositato allora si è ridotto al 3,5 per cento, meno di quanto si è ridotta la somma depositata dai primi risparmiatori, ma pur sempre in proporzione ragguardevolissima.

Coloro i quali hanno depositato somme, nell'intervallo fra le due guerre, cioè dal 1° luglio 1922 al 31 dicembre 1938, hanno depositato 38.078 milioni di lire. Questa somma si è ridotta al 2,9 per cento del valore di acquisto che aveva nel momento in cui è stata depositata.

Infine, coloro i quali hanno fatto depositi dal 1° gennaio 1939 al 31 dicembre 1946, durante il periodo della guerra, coloro i quali si sarebbero dovuti ritenere meglio salvaguardati perché più vicini al momento attuale, depositarono 432.268 milioni di lire. Questa somma oggi ha una potenza di acquisto uguale al 21,5 per cento di quella che aveva nel momento in cui essa è stata depositata.

Non posso dire, perché i calcoli iniziati non sono stati ancora terminati, quale sia il valore che avrebbero i depositi se si facesse un'ulteriore ipotesi la quale avrebbe per scopo di sapere quali sarebbero le somme che i depositanti possederebbero oggi se non soltanto avessero depositato una somma originaria ma avessero lasciato invariato il deposito, senza ritirare l'ammontare degli interessi che ad essi nel frattempo fosse stato accreditato. Anche questa ipotesi, che i depositanti dall'origine del 1914 ad oggi non avessero mai ritirato nulla, né dei capitali né degli interessi composti accumulatisi nel frattempo, anche questa ipotesi da un calcolo approssimativo non rifinito ci autorizzerebbe a concludere che essi oggi non possederebbero più di un 15-16 per cento delle somme che essi avevano depositato originariamente, aumentate dei rispettivi frutti composti.

Questa è una tragedia: è la tragedia del risparmiatore italiano, non solo di coloro che hanno depositato somme in Banca, ma di molti altri risparmiatori, di tutti quelli che ha ricordato l'onorevole Nobile, di tutti quelli che credevano di essersi assicurata la vita e che oggi ricevono delle somme, quando scade il momento del pagamento delle indennità, le quali hanno una potenza di acquisto molto inferiore a quella su cui avevano fatto assegnamento per la vita della loro famiglia e per l'educazione dei loro figli in caso di premorienza; la tragedia, insomma, di coloro che si sono visti sfumare tra le mani il risparmio.

Non basta che sia sancita nella Costituzione una norma generica nel senso che sia tutelato il risparmio, e non basta la formula tanto più solenne dell'articolo 31 dello Statuto per cui ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile. È necessario dare un contenuto concreto alla norma generale, alla promessa verbale, tante volte fatta e non mantenuta, di serbare fede agli impegni contrattuali. Anche Mussolini aveva promesso nel discorso di Pesaro di difendere la lira sino all'ultimo sangue; e tanti altri nei secoli avevano anticipato la promessa. Parole e promesse che il vento disperde. Quando si ha il diritto di pagare in unità monetarie nominali quelle sono promesse vane. Il solo contenuto concreto consiste nel consentire che i singoli risparmiatori, che tutti coloro che entrano in rapporto di credito verso privati, verso istituti o verso lo Stato, possano garantirsi contro il pericolo della svalutazione. La garanzia non può darsi, non può aversi se non scrivendo nella Costituzione il principio da me enunciato, ossia che la legge non possa mettere nel nulla la clausola oro, quando essa sia spontaneamente e volontariamente convenuta tra le parti.

È un articolo permissivo, è una disposizione non coattiva che io propongo. La propongo non solo a tutela dei risparmiatori, ma dell'intera società. Richiamo su questo punto l'attenzione di tutti coloro i quali vorrebbero ridurre la rimunerazione del capitale. Per ridurre la rimunerazione del capitale vi è soltanto un mezzo effettivo: quello di garantire il rispetto delle norme e degli impegni che si assumono verso il capitale. Quanto più si rende difficile l'adempimento di quegli impegni, tanto meno si ottiene il risultato di ridurre il compenso del capitale.

In passato, e specialmente nel medio evo, la lotta contro il capitale, contro il pagamento degli interessi, si conduceva proibendo il pagamento o ponendo limiti al pagamento dell'interesse. Molti credono anche oggi che il mezzo più sicuro per aumentare la quota dovuta al lavoro a danno della quota dovuta al capitale, che il mezzo più efficace per combattere la servitù dei lavoratori verso il capitale, sia quello di combattere e di vincolare il capitale. Errore grave e funesto. Tutti vogliono ridurre il saggio dell'interesse. Ma su questa via della riduzione del saggio di interesse noi avevamo fatto passi giganteschi dal 1814 in poi, quando si riteneva che si dovesse avere rispetto per i patti convenuti; quando non si scoraggiava la formazione del risparmio. In Italia il saggio di interesse si era ridotto, con la ricordata convenzione del 1906, al 3,5 per cento. In Inghilterra si era andati ancora più avanti, e si sarebbe andati più avanti anche da noi; in Inghilterra, con successive conversioni di debito pubblico, il saggio era stato ridotto fin dal 1885 al 2,5 per cento nominale; 2,5 per cento, che, a causa dell'imposta sul reddito, gravante su tutti i titoli di stato, si riduceva all'uno e tre quarti ed anche all'uno e mezzo per cento. Era una tendenza che, se non fossero intervenute le due grandi guerre mondiali, e la inversione conseguente verificatasi nella curva storica del saggio di interesse, avrebbe portato ad una ulteriore riduzione verso l'uno per cento ed anche al 0,50 per cento.

Quando il saggio di interesse si riducesse nuovamente, come ai tempi di vero rispetto verso il risparmio, verso gli impegni presi con i risparmiatori, all'uno o al mezzo per cento, il fatto quale significato avrebbe? Avrebbe un solo netto significato: che la quota parte del reddito nazionale, dell'intero prodotto sociale ottenuto dalla collettività, finirebbe di essere ridotta a quella che si può dire la «porzione congrua».

Ecco la ragione per la quale ritengo che un emendamento il quale sancisca il rispetto della clausola oro nella Costituzione possa di nuovo incamminarci verso il ritorno ai tempi in cui il saggio di interesse andava riducendosi, con beneficio di tutte le classi sociali e massimamente della classe lavoratrice. Occorre non solo ritornare, ma andare avanti su questa via, alla fine della quale vi è quello che io anni fa, durante il regime passato, ho intitolato il «principio del capitalista servo sciocco». Al risparmiatore è necessario lisciare il pelo per il suo verso e non per il verso contrario. Non sono perciò d'accordo con gli emendamenti i quali vogliono tutelare soltanto il piccolo risparmio, il risparmio dovuto al lavoro, il risparmio di una specie e non quello d'un'altra specie. Se noi invero diciamo in una norma costituzionale che si tutela soltanto una parte del risparmio, tutti i risparmiatori si spaventano e fuggono e, quando fuggono, vuol dire che il saggio di interesse aumenta. Ricordiamo che il saggio di interesse, ossia il prezzo della merce risparmio, non è dato dalle dosi di risparmio che ci sarebbero anche senza compenso, ma dalle dosi marginali delle ultime occorrenti per equilibrare il mercato; e sono queste quelle che sono più incerte se restare o andare, se fermarsi o camminare. Noi non dobbiamo pregiudicare con incerte promesse ed ancor più incerte minacce il risparmio, dobbiamo mantenere i nostri impegni verso tutti i risparmiatori indistintamente. Se noi lisciamo il pelo per il suo verso al capitalista, l'effetto che si ottiene (che è il vero effetto che noi vogliamo ottenere) è quello della riduzione del saggio di interesse, cioè della quota parte che dell'intero prodotto sociale spetta ai risparmiatori.

Prima di finire, devo ricordare che questa clausola implica quello che a taluni potrà sembrare un pericolo per lo Stato. È necessario affrontare chiaramente anche questo problema.

La clausola permissiva che io propongo sia introdotta nella Costituzione non impone nulla allo Stato. Dice soltanto che i creditori che vorranno, col consenso dei debitori, giovarsi della clausola oro, potranno pattuire che i loro crediti siano alla scadenza rimborsati in una certa moneta aurea, in un certo peso di oro ad un dato titolo. È una clausola puramente permissiva. Ma, pur essendo una clausola permissiva, non ci possiamo nascondere, non ci vogliamo nascondere le sue conseguenze. Essa sarà un esempio per lo Stato; e sarà ben difficile che, una volta che essa si sia generalizzata, ci possano ancora essere privati, enti o lo Stato stesso, che possano sottrarsi all'obbligo morale di sottoporsi alla clausola permissiva. Il risultato dell'osservanza generalizzata della clausola sarà che i rapporti di credito e di debito istituiti entro di essa condurranno ad un saggio di interesse notevolmente minore del saggio di interesse per gli altri rapporti di debito e di credito istituiti in moneta nominale. Là dove per i contratti stipulati in moneta nominale si paghi il 5 per cento, per l'altra si pagherà il 3 per cento; ove per la prima si paghi il 3 o il 2 per cento per l'altra si pagherà l'uno per cento o meno.

E potrà darsi che anche lo Stato non possa o non ritenga più conveniente di contrarre prestiti se non entro questa clausola. Sarà lo Stato medesimo che, per suo atto di volontà e reputando di ottenere con ciò un vantaggio, prometterà ai suoi creditori di pagare nella moneta nominale permutabile, a volontà del creditore, in un determinato peso di oro ad un determinato titolo. Ora è certo che potrà darsi in avvenire che lo Stato si trovi di fronte all'impossibilità di osservare l'impegno contratto. Non dobbiamo nasconderci questa eventualità, che cioè noi in avvenire, a cagione di nuove guerre, di nuovi fatti straordinari, ci troviamo ad avere il bilancio dello Stato in tali condizioni per cui l'osservanza degli impegni contratti colla clausola oro sia impossibile, anche se essa sia stata volontariamente accolta, anche se lo Stato l'abbia sancita volontariamente, nel suo interesse, allo scopo di fruire di un saggio di interesse notevolmente più basso di quello che dovrebbe altrimenti pagare.

Potrebbe accadere cioè che lo Stato si trovasse di fronte all'impossibilità di osservare l'impegno assunto. Qual valore avrà in allora la norma costituzionale che io propongo? Può infatti lo Stato sottrarsi, in quei casi straordinari che noi ci auguriamo non vengano mai, ma possono tuttavia verificarsi, all'osservanza della sua parola? Salus publica suprema lex esto.

Riconosciamo lo stato di necessità e chiediamoci: in quel momento quale delle due alternative gioverà meglio alla cosa pubblica? L'avere scritto nella Carta costituzionale il semplice impegno di tutelare il risparmio, la dichiarazione di inviolabilità di ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori — come ha detto l'onorevole Persico — ovvero, come propongo io, avere assunto l'impegno di pagare in oro? Questo è il dilemma.

Pur essendo vano pretendere di osservare quello che è giocoforza non potere osservare, io dico che è bene essere leali. Col primo corno del dilemma, lo Stato dice: Io ti do le cinque lire che mi sono impegnato a pagare; dunque ho mantenuto fede ai miei impegni. Ma se queste cinque lire valgono però la decima o la ventesima parte di ciò che valevano all'atto in cui è avvenuta la promessa da parte dello Stato, è evidente che lo Stato solo per forma mantiene gli impegni suoi ed in realtà li viola. Non è assai preferibile invece che lo Stato apertamente dichiari che non è per il momento in condizioni di far fronte? Il debitore di mala fede perde credito e solo il debitore onesto, anche se impotente, conserva onore e credito. Allora soltanto lo Stato sarà un debitore onorato e i creditori serberanno fiducia in lui, predisponendosi ad attendere il tempo necessario perché lo Stato possa riprendere i suoi pagamenti, quando essi vedono che egli non si trincera dietro l'ipocrita formula del valor nominale, ma lealmente dichiara il debito e chiede moratoria durante il tempo della difficoltà. Rinunciando alla clausola oro, noi pretendiamo di far fronte ai nostri impegni e in questo modo screditiamo lo Stato, mentre invece, quando lo Stato, in casi straordinari, dirà apertamente di non poter far fronte a tutti i suoi impegni e ne spiegherà le ragioni, lo Stato non perderà credito ma ne acquisterà.

Perciò l'introduzione di una clausola oro permissiva nella Costituzione è conforme agli interessi fondamentali dello Stato. (Applausi).

Presidente Terracini. Invito l'onorevole Ruini a esprimere il parere della Commissione sugli emendamenti.

Ruini, Presidente della Commissione. Ho ascoltato con molto interesse le dotte discussioni che sono state fatte in quest'Aula. Noi, in realtà, assistiamo ora ad una specie di rassegna di tutti i grandi problemi nazionali, il che può essere anche utile. Si tratta infatti di una specie di esame di coscienza che fa il Paese, in un momento così grave come questo in cui esso si accinge a darsi una nuova Costituzione.

Ma, per la verità, è difficile che temi così ardui possano essere decisi in una mezz'ora. Mi pare che noi ci siamo messi su una via pericolosa, perché solleviamo tutti i problemi e crediamo di poterli risolvere in un attimo, senza tenerne presente la vastità.

Quando il maggiore economista italiano, l'onorevole Einaudi, ha posto, così, mi perdoni la parola, di straforo, una questione non semplice né facile, non posso dimenticare che egli era fra i sostenitori della tesi che la Costituzione dovesse attenersi a poche grandi linee, a poche grandi norme, e non entrare in tanti problemi che richiederebbero un tempo infinito.

Cercherò di rispondere a quanto è stato osservato sopra questo articolo. L'articolo 44 non ha nessuna proposta di soppressione totale. Se vi fosse, non ne sarei personalmente malcontento. Vi è stata una fioritura di nuovi articoli. Uno per la montagna; ed io non ho dimenticato di avere per primo sollevato, quarant'anni fa, il problema della montagna accanto a quello del Mezzogiorno: problema di altitudine, dicevo allora, accanto a quello di latitudine; ho scritto un libro, ho presieduto il Comitato parlamentare dei deputati montanari; ma insomma non mi posso persuadere che questo sia argomento costituzionale. Poi è venuto un articolo per l'artigianato: sono stato io solo, credo, a votare contro, non perché non apprezzi questo ceto così operoso e così italiano, ma perché non mi posso persuadere che una categoria, per essere stimata, debba aver posto nella Costituzione. Altri articoli sono piovuti; potrei moltiplicarne gli esempi; e la Costituzione rischia di diventare un memorandum ed un elenco. Ecco perché acconsentirei a togliere di mezzo anche quest'articolo 44, che non è assolutamente necessario, ma ha però un suo motivo di essere; e debbo dare ragione del modo con cui venne formulato.

Non rispondo all'onorevole Nobile, che avrebbe potuto e dovuto parlare, a suo piacimento, di questo articolo, in sede di Commissione dei settantacinque. Ed aggiungo che, se quest'ultima non si riunisce più ed ha delegato i suoi poteri alla Commissione dei diciotto, ciò è stato fatto unicamente allo scopo di guadagnar tempo.

L'articolo 44 considera pro tempore il risparmio ed il credito congiunti fra loro, e li mette in un piano, per così dire, tecnico, senza entrare in altre fasi anteriori o posteriori del processo economico, come sarebbero la formazione del risparmio e gli investimenti di capitale. Le norme dettate sui momenti considerati sono sintetiche ed incisive; di stile costituzionale.

Circa il risparmio basta il principio della tutela; se si entrasse in dettagli, su forme più raccomandabili di investimenti, non si potrebbe essere completi né efficaci. La Commissione non ha voluto fare un codice del risparmio o bancario o un prontuario d'affari. Pel credito si è limitata a tre funzioni essenziali dello Stato, che deve dettare le norme generali sugli istituti di banca, coordinarli e controllarne l'azione. C'è tutto, e non c'è di troppo. Vorrei mettere l'accento specialmente sul «coordina». Io che sono sempre stato antifascista, ho detto però, e la frase ha avuto una certa fortuna, che non si possono buttar giù i ponti sul Tevere che ha fabbricati il fascismo. In tema di credito il fascismo ha fabbricato un buon ponte: il Comitato e l'Ispettorato del credito. Vennero aboliti ed ora, sembra, si vogliano rimettere. Non conosco la proposta, e non entro in dettagli. Ma questo è necessario: in Italia, dove (sono dati dell'onorevole Einaudi) più dell'85 per cento dei depositi a risparmio è presso istituti bancari in mano dello Stato, è mancata una politica creditizia, che appare ora indispensabile. L'articolo 44 vi accenna, con l'espressione «coordina», nella forma sobria ed implicita che si addice alle norme costituzionali. S'intende che la politica creditizia non deve soffocare le iniziative e l'attività degli istituti; deve limitarsi all'indirizzo ed ai criteri direttivi.

Non entro, ripeto, in dettagli. Desidero sottolineare la semplicità strutturale dell'articolo, che meriterebbe per questo, se non altro, il vostro consenso.

Vediamo ora rapidamente gli emendamenti.

L'onorevole Colitto ha un'aggiunta: «incoraggia il risparmio». E sia pure; ma è inutile; ed abbiamo già abusato, in questa Costituzione, della parola incoraggiamento. Sarebbe meglio, dal punto di vista tecnico, limitarsi alla tutela del risparmio.

L'onorevole Colitto aggiunge poi: «sugli istituti bancari». Io ho avuto la preziosa collaborazione dell'onorevole Colitto nella Commissione e so che egli vuole andare alla radice di ogni questione e di ogni parola; ma ritengo superfluo aggiungere «sugli istituti bancari» perché, trattandosi dell'esercizio del credito, è ovvio che si tratta anche di istituti bancari.

Poi l'onorevole Colitto dice: «con un organo di coordinamento stabilito per legge». È un'esigenza implicita nel nostro «coordina»; e non è il caso di entrare in particolari indicazioni che non hanno (lo ripeto ancora una volta, ed è il mio compito, per così dire, di tecnico della Costituzione), non hanno carattere costituzionale.

La risposta data all'onorevole Colitto vale anche per l'emendamento dell'onorevole Cortese che aggiunge: «favorisce» in luogo di «incoraggia» il risparmio.

L'onorevole Zerbi, che mostra molta competenza in questa materia, ha proposto un emendamento interessante. Egli considera particolarmente il risparmio popolare, e vuole incanalarne l'investimento (la sua proposta parla, non felicemente, di accesso) come investimento reale, e più singolarmente ancora in tre sole forme: abitazione, proprietà diretta coltivatrice, investimento nei grandi complessi azionari del Paese.

Sono ottimi scopi, ma dobbiamo limitare l'incoraggiamento dello Stato soltanto a queste forme di investimenti? Non lo credo. In questo momento, in cui noi avremo bisogno di chiedere anche ai piccoli risparmiatori il loro aiuto per potere — con prestiti ed operazioni di Tesoro — salvare, arginare la moneta, dobbiamo noi limitarci soltanto alle tre forme d'investimento indicate dall'onorevole Zerbi? Se si indicano solo determinati investimenti, e si porta la luce su essi, si getta la tenebra sugli altri, che sono, se non sconsigliati, messi in un secondo piano.

L'onorevole Zerbi insiste, e pone l'accento sugli investimenti reali; ma è opportuno, in questi momenti in cui ci troviamo sotto l'incubo della svalutazione della lira, e si svolge sotto gli occhi nostri quella corsa agli investimenti reali che tutti sanno, e che influisce sull'aumento dei prezzi, che la Costituzione predichi e faccia come un dovere di questa specie d'investimenti?

Non disconosciamo i criteri che ispirano il proponente e che si riallacciano ad un orientamento di studi e direttive per l'elevazione del popolo mediante il risparmio e la destinazione di questo ad investimenti in una casa, in un pezzo di terra, in un pezzo di fabbrica attraverso le azioni. È una bella concezione; ma non è tema costituzionale; guasta la linea semplice e completa dell'articolo 44; si limita a suggerire alcuni, non tutti gli investimenti desiderabili; e non è — l'invocazione ad acquistare beni reali — opportuna in questi momenti. Ecco perché non possiamo accogliere l'emendamento Zerbi.

Viene poi l'emendamento Nobile. Di fronte al ciclone della svalutazione, che ha colpito tutti, egli vuole che lo Stato provveda a riparare i danni e restaurare il valore della lira soltanto per il piccolo risparmiatore. È un principio umano; ma gli altri? Il lavoratore che non ha risparmi, non soffre forse più di ogni altro della svalutazione della lira, che gli volatilizza il salario? Vi sono poi delle considerazioni pratiche. Qual è la proporzione del piccolo risparmio rispetto al grande risparmio? È possibile impedire che un grosso risparmiatore divida i suoi depositi in una serie di minuscoli libretti? Quale sarebbe l'onere che lo Stato dovrebbe sostenere riconoscendo ai piccoli risparmi il valore d'un tempo? Quanto richiede l'onorevole Nobile non è realizzabile.

L'emendamento dell'onorevole Salerno vuole che si tuteli soltanto il risparmio che trae origine dal lavoro. Lasciamo stare le questioni teoriche sull'origine del risparmio. Comprendiamo la motivazione dell'onorevole Salerno, che ha nobili intenti. Ma restiamo anche qui sul terreno pratico. Come si può distinguere, di fatto, quanto c'è nel risparmio di lavoro o di qualcosa d'altro, ad esempio un guadagno alla Sisal? Come si può, nel segreto bancario, indagare ed accertare se il risparmio che c'è in un libretto deriva dal lavoro, ed in un altro no? La proposta, di alta ispirazione, dell'onorevole Salerno non è realizzabile.

L'onorevole Mazza parla di favorire le piccole e medie aziende di credito, e così pure l'onorevole Adonnino. Le medie e piccole aziende meritano certamente la considerazione e l'aiuto dello Stato; ma anche le grandi, che sono del resto quasi tutte in mano dello Stato, non debbono essere trascurate; né mi sembra buon canone di politica bancaria curare soltanto i minori organismi.

Una categoria di piccole e medie aziende trovano già il loro posto ed un doveroso sostegno, come cooperative di credito, nell'articolo che riguarda appunto la cooperazione. È a queste forme, io credo, che pensano soprattutto gli onorevoli Mazza ed Adonnino; e potranno pertanto ritirare i loro emendamenti.

Viene poi l'emendamento dell'onorevole Persico. Il primo comma riguarda i tributi e dovrà quindi essere rinviato a quando saranno svolti gli altri articoli aggiuntivi sopra i tributi. Il secondo dice: «ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile». Echeggia qui una disposizione dello Statuto albertino, che aveva più particolari e forti ragioni in tempi meno lontani da quelli in cui il disconoscimento degli impegni pei debiti pubblici non era infrequente, per colpa di Governi. Oggi non è più così; anche se vi possono essere, ma raramente, cause superiori alla volontà dei Governi. L'onorevole Persico ha, con grande competenza, ricordato una serie di provvedimenti che nella nostra legislazione presidiano e garantiscono il pagamento dei debiti pubblici. È necessario mettere un'affermazione generica nella Costituzione? Decida l'Assemblea. Essa conosce il mio desiderio che la nostra Carta non sia appesantita e gonfia, come purtroppo tende ad uscire da questa discussione.

Veniamo alla proposta dell'onorevole Einaudi, che vuole sia rispettata la clausola «oro». Mi consenta un piccolo rilievo formale. La clausola «oro» non è la sola delle clausole di «valori riferimento». Vi sono anche quelle dell'«option de change», del riferimento a «numeri indici» ed altre ancora. Sono esse comprese nell'emendamento dell'onorevole Einaudi.

La clausola oro ha due campi di applicazione: i rapporti dello Stato verso i suoi creditori; ed i rapporti fra privati. Nei due casi la proposta Einaudi è permissiva; si tratterebbe di rispettare impegni liberamente assunti.

Nessun dubbio che debbano essere rispettati; il principio non può essere, in linea generale, disconosciuto; ma si sono verificati e si possono verificare casi in cui l'affermazione solenne del «rispetto» rischia di essere vuota di contenuto.

L'onorevole Einaudi mi può insegnare le vicende della legislazione italiana, specialmente dopo il 1927 ed il 1936, e le oscillazioni della giurisprudenza e della dottrina, ora che son venuti meno i presupposti delle leggi 1936-39 (non abrogate formalmente); ma si possono determinare anche altre situazioni che non possono essere ignorate.

Questo della clausola oro è tema da lasciare alle leggi, o da collocare in un maestoso articolo della Costituzione? Quale valore può avere una clausola oro in termini assoluti e senza limite nel tempo? Che si debba far di tutto per rispettarla quando è liberamente assunta, dallo Stato o dai privati, è fuori di dubbio; nessuno lo sente più di me, ed è più di me d'accordo con l'onorevole Einaudi. Ma egli ben sa che possono avvenire frane e sconvolgimenti superiori ad ogni buona volontà. Lo ha sperimentato l'America di Roosevelt. Vi sono casi nei quali lo Stato non può mantenere i suoi impegni, ed allora come fa ad imporre il rispetto della clausola negli impegni privati? È in ogni e qualunque senso utile irrigidire situazioni di disastri, impedendo automatici adattamenti per il risanamento del mercato? Non sono problemi che possano risolversi in sede costituzionale, con una norma che dovrebbe essere immutevole.

Ascoltando l'onorevole Einaudi ed altri oratori, mi è parso di ritornare ai buoni, agli aurei tempi antichi, quando era facile e sicuro il rispetto dei prestiti; e la lira era ben salda; in un clima fecondo di pace; si poteva allora accogliere la proposta Einaudi; ma in realtà della clausola oro non c'era bisogno. Il mondo era in pace; non si erano scatenate le bufere di guerre universali e di sovvertimenti economici. Non è la clausola oro che può arginare o riparare a questi flagelli. La svalutazione della lira, di cui oggi soffriamo, non dipende soltanto dall'azione italiana, e dalla carta emessa dal nostro Tesoro. Noi oggi sopportiamo le conseguenze anche della lira tedesca, della lira alleata, emesse sul nostro suolo, sul quale è passata la guerra. Avremmo potuto e possiamo, con un articolo di Costituzione, impedire il fatale corso degli avvenimenti?

L'onorevole Einaudi, la cui rettitudine è pari alla altezza scientifica, ha finito per riconoscere questa impossibilità; e mi ha fornito così la più valida arma contro la sua proposta. Ha detto che vi possono essere casi, nei quali lo Stato è costretto a confessare che non può mantenere il rispetto alla clausola oro. È stato esplicito in questa dichiarazione. Ma allora: perché inserire nella Costituzione una clausola che si sa potrà essere in dati casi violata?

Lasciamo alla legge di stabilire le norme necessarie. Se lo Stato lo crede, stipuli prestiti con la clausola oro; e faccia di tutto per osservarla. Se lo credono i privati, ricorrano anch'essi alla clausola oro. Ma non si sancisca costituzionalmente l'impossibile.

Aggiungo un ultimo rilievo. L'onorevole Einaudi ha detto che contro i pericoli della svalutazione dobbiamo tutelare il capitale. Ma non possiamo dimenticare che vi sono altri danneggiati, ed ancora di più, dalla svalutazione: gli impiegati, gli operai, che hanno ridotto il potere d'acquisto della loro retribuzione e patiscono la fame. Una proposta come quella dell'onorevole Einaudi, si presta ad interpretazioni che non credo siano nell'animo suo.

Noi dobbiamo reagire in tutti i modi, dedicarci con tutti gli sforzi a vincere lo spettro della svalutazione e ad ancorare la nostra moneta. Concordo con l'onorevole Quintieri: vorrei personalmente accogliere la sua aggiunta: «la Repubblica tutela il valore della moneta nazionale...». Ma è proprio necessaria? Che cosa vuol dire? Che si devono fare tutti gli sforzi possibili per non svalutare la lira?

Siamo d'accordo; ma perché metterlo nella Costituzione? Alcuni trovano che, quando abbiamo assistito ad indeprecabili svalutazioni, la affermazione della «tutela» potrebbe apparire vana. La Commissione prega l'onorevole Quintieri di non insistere.

Ahimè! Per essere logici — e non è una boutade, è un'amara conclusione di tutta questa discussione e dell'anelito che abbiamo alla salvezza della lira — dovremmo mettere nella Costituzione: «La Repubblica impedisce, proibisce e severamente punisce la svalutazione della moneta». Le altre proposte sono eufemismi di questo assurdo enunciato.

Da questa stessa discussione dobbiamo trarre l'impulso a fare tutto ciò che è possibile, tutti d'accordo qui, tutti d'accordo gli italiani per salvare la lira. Ma ciò non si ottiene con dichiarazioni vane e con parole messe nella Costituzione; si ottiene con sforzi effettivi, con la concordia, con un programma d'azione organico e preciso, con un Governo capace di attuarlo, con la fiducia all'interno ed all'estero. Ecco ciò che dobbiamo volere pel nostro paese. (Vivi applausi).

Nobile. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Nobile. Desidero chiedere all'onorevole Presidente della Commissione per la Costituzione perché non ha risposto alla mia proposta soppressiva.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ho esposto le ragioni, per cui la Commissione è addivenuta alla sua formula e la mantiene; in quanto i due momenti del credito e del risparmio sono collegati; o si rinuncia a parlare dell'uno e dell'altro, o si parla di tutte due. Non comprendo perché l'onorevole Nobile, che vuol garantire il piccolo credito, non voglia parlare di risparmio. Ad ogni modo il nostro concetto e la nostra formula-binomio sono sintetici e chiari.

Presidente Terracini. Chiedo ora ai colleghi presentatori di emendamenti, se li mantengono. Onorevole Colitto, mantiene il suo emendamento?

Colitto. No, lo ritiro.

Presidente Terracini. Onorevole Cortese, mantiene il suo emendamento?

Cortese. Aderisco all'emendamento dell'onorevole Einaudi.

Presidente Terracini. Non essendo presente l'onorevole Marina, il suo emendamento si intende decaduto.

L'onorevole Zerbi ha così modificato il suo emendamento:

«La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme e favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice, al diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

«La Repubblica disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito».

A questa nuova formulazione dell'onorevole Zerbi hanno dato la loro adesione gli onorevoli Malvestiti, Canevari, Gasparotto, Magrini e Della Seta.

Chiedo il parere della Commissione su questo emendamento.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Emendando il suo emendamento, l'onorevole Zerbi toglie la parola «reale» di cui egli stesso sente il pericolo. È un miglioramento, sebbene i tre investimenti, pei quali insiste, siano tutti reali. Restano le altre osservazioni che ho testé fatto. La Commissione non ha ritenuto opportuno entrare in specificazione sull'una o sull'altra forma di investimento. Non sono autorizzato a mutare la prima decisione della Commissione; anche perché l'emendamento appesantirebbe il testo semplice e lineare dell'articolo; e bisognerebbe in ogni caso procedere ad una revisione ortopedica, in sede di redazione definitiva.

Decida l'Assemblea. Riconosco che la nuova dizione è comunque un miglioramento di fronte a quanto si era proposto prima.

Presidente Terracini. Onorevole Zerbi, mantiene il suo emendamento?

Zerbi. Lo mantengo.

Presidente Terracini. Onorevole Nobile, mantiene il suo emendamento?

Nobile. La proposta, che avevo presentata in via principale, di sopprimere la frase: «La Repubblica tutela il risparmio» più che altro aveva il significato di una protesta fatta a nome dei piccoli risparmiatori; ma, poiché vedo che l'Assemblea non intende rinunziare a parlare nella Costituzione di questa penosa questione ritiro la proposta. Mantengo però l'emendamento subordinato, che è formulato così: «La Repubblica tutela il piccolo risparmio, e a tal fine la legge emana i provvedimenti opportuni per riparare i danni ad esso causati da eventuali inflazioni monetarie».

Mi sembra superfluo aggiungere che quando parlo di «piccolo risparmio» intendo parlare di risparmio che trae origine dal lavoro.

Presidente Terracini. Onorevole Quintieri, mantiene il suo emendamento?

Quintieri Quinto. Lo mantengo, perché l'emissione della moneta costituisce una prerogativa della sovranità dello Stato e non credo che si possa rinunziare a parlarne nella Costituzione.

Presidente Terracini. Onorevole Salerno, mantiene il suo emendamento?

Salerno. Lo integro con quello dell'onorevole Nobile.

Presidente Terracini. Onorevole Mazza, mantiene il suo emendamento?

Mazza. Lo mantengo, chiedendo scusa all'onorevole Ruini.

Presidente Terracini. Onorevole Adonnino, mantiene il suo emendamento?

Adonnino. Lo mantengo.

Presidente Terracini. Onorevole Persico, mantiene il suo emendamento?

Persico. Mantengo il secondo comma dell'emendamento: il primo va con la materia tributaria.

Presidente Terracini. Onorevole Einaudi, mantiene il suo emendamento?

Einaudi. Lo mantengo.

Presidente Terracini. Passiamo alle votazioni.

Il testo proposto dalla Commissione nella prima parte suona così: «La Repubblica tutela il risparmio».

L'onorevole Zerbi ha proposto: «La Repubblica incoraggia e tutela».

Pongo prima in votazione il testo della Commissione:

«La Repubblica tutela il risparmio».

(È approvato).

Pongo ora in votazione la proposta dell'onorevole Zerbi di aggiungere, dopo le parole «La Repubblica» le altre

«incoraggia e».

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Il concetto della parola: «incoraggia» si intende compreso nel «tutela».

Taviani. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Taviani. Noi voteremo la formula: «incoraggia e tutela» per quanto avremmo preferito la formula: «favorisce».

(La proposta Zerbi è approvata).

Presidente Terracini. Pongo in votazione la espressione dell'emendamento Zerbi, che è la più ampia:

«in tutte le sue forme».

Taviani. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Taviani. Noi votiamo a favore della formula Zerbi, intendendo che la formula del piccolo risparmio e particolarmente quella del risparmio che trae origine dal lavoro, sono implicite nell'accesso al risparmio popolare, contenute nell'emendamento Zerbi.

(L'Assemblea approva la formula Zerbi).

Presidente Terracini. Pongo in votazione la seconda parte dell'emendamento Zerbi:

«favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice, al diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».

Zerbi. Chiedo di parlare, per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Zerbi. Noi presentatori dell'emendamento — Canevari, io e gli altri — insistiamo per la formula dianzi letta, nonostante le osservazioni del Presidente della Commissione. Dal tutto originariamente proposto abbiamo tolta la locuzione: «investimento reale» perché questa poteva prestarsi ad interpretazioni non volute. Quanto alle osservazioni fatte dal Presidente della Commissione, teniamo a sottolineare che l'elencazione da noi proposta non è limitativa, bensì esemplificativa, delle più consuete forme d'investimento del risparmio popolare oppure di quelle forme alle quali particolarmente si pensa. Quanto alla osservazione dell'onorevole Ruini, il quale ritiene poco tempestivo l'inserire nella Carta costituzionale un finalismo come quello enunciato nel nostro emendamento, mi permetto di fare osservare che non ignoriamo che la Nazione italiana ha tuttora ed avrà per parecchi anni necessità di rastrellare molta parte del risparmio monetario dei cittadini attraverso forme d'investimento che non rientrano nell'esemplificazione da noi sollecitata. Debbo inoltre segnalare che l'emendamento da noi proposto contiene una affermazione finalistica, che non esige necessariamente applicazione immediata e radicale ma lascia alle leggi future il compito di trovare forme adatte a favore del risparmio popolare. In secondo luogo, con riferimento alla situazione contingente io, e, credo, anche gli altri colleghi sottoscrittori dell'emendamento, non possiamo esimerci dal sottolineare che proprio le masse operaie e impiegatizie contribuiscono largamente specie in via indiretta al finanziamento dello Stato, anche nell'attuale momento: vi contribuiscono attraverso i contributi assicurativi obbligatori che vanno ad alimentare largamente le necessità dello Stato. Infatti in tali contribuzioni si concreta anche una forma di risparmio obbligatorio attinto al teorico fondo salari ed in decurtazione di un virtuale maggior salario diretto. Se mai — in ordine all'accennata questione — il nostro emendamento contiene implicita l'esigenza di una migliore giustizia distributiva fra tutte le classi dei cittadini dell'onere di concorrere al finanziamento dello Stato sia attraverso le forme dirette che attraverso le forme indirette del risparmio obbligatorio e del portafoglio degli istituti previdenziali.

(Segue la votazione per alzata di mano).

Presidente Terracini. Poiché l'esito della votazione è incerto, procediamo alla votazione per divisione.

(La formula Zerbi è approvata).

Passiamo all'emendamento aggiuntivo proposto dall'onorevole Nobile:

«A tal fine la legge emana i provvedimenti opportuni per riparare i danni ad esso causati da eventuali inflazioni monetarie».

Tale emendamento è analogo a quelli presentati dall'onorevole Quintieri e dall'onorevoli Einaudi. Ciascuno di questi tre emendamenti si preoccupa di tutelare gli interessi dei prestatori, assicurando la stabilità della moneta o, quanto meno, la stabilità della moneta data in prestito. Comunque, l'emendamento Nobile, che si riferisce alla legge genericamente per le misure che debbono essere prese a questo scopo, deve essere votato per primo. Quindi, lo pongo in votazione.

Taviani. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Taviani. Noi votiamo contro l'emendamento Nobile non perché non ne comprendiamo l'alta finalità, ma perché ci sembra che tenga presente una situazione contingente che non sia necessario inserire nella Costituzione.

Laconi. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Laconi. Noi continueremo a non votare gli emendamenti presentati a questo articolo, come non abbiamo votato gli emendamenti precedenti. Per quanto siamo genericamente d'accordo con lo spirito che ha dettato questi emendamenti, riteniamo che la materia, che in ciascuno di essi è trattata, non sia materia di Costituzione.

(L'emendamento non è approvato).

Presidente Terracini. Pongo in votazione l'emendamento dell'onorevole Quintieri Quinto:

«Alle parole: La Repubblica tutela il risparmio, sostituire le altre: La Repubblica tutela il valore della moneta nazionale ed il risparmio».

Taviani. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Taviani. Dichiaro che noi votiamo contro l'emendamento Quintieri per la medesima ragione accennata dall'onorevole Laconi nella sua dichiarazione di astensione. Siamo unanimi nel ritenere, cioè, che la Repubblica debba tutelare il valore della moneta nazionale, ma ci sembra di sminuire questo concetto inserendolo nella Costituzione.

(L'emendamento non è approvato).

Presidente Terracini. Passiamo alla votazione dell'emendamento proposto dall'onorevole Einaudi ed altri:

«Aggiungere il seguente comma:

«A tal fine è garantito il rispetto della clausola oro».

Einaudi. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Einaudi. Io desidero soltanto osservare, in merito alle considerazioni fatte dal Presidente della Commissione per la Costituzione, che il mio emendamento era unicamente permissivo, non obbligatorio. Esso ha per iscopo di consentire ai risparmiatori dell'avvenire di convenire una certa modalità di pagamento dei loro crediti in modo che essi siano tutelati contro il pericolo della svalutazione. La clausola non impone, permette.

Quanto al dubbio che io stesso avevo sollevato, e che cioè lo Stato possa in avvenire trovarsi nella impossibilità di adempiere ai suoi impegni, dichiaro ancora una volta che una affermazione lealmente esplicita da parte dello Stato di non poter momentaneamente mantenere i suoi impegni è cosa che fa onore al debitore e non turba affatto il suo credito. Vorrei ricordare un esempio, un fatto che è già avvenuto in Italia: nel 1894, in condizioni gravissime per la finanza italiana, il Ministro Sonnino, Ministro del tesoro di allora, propose di aumentare la imposta di ricchezza mobile dal 13,20 al 20 per cento, contravvenendo apertamente ad una disposizione della legge fondamentale del debito pubblico la quale vietava di fare qualsiasi discriminazione di trattamento tributario fra i titoli del debito pubblico e qualsiasi altro credito. La proposta del Ministro Sonnino violava apertamente siffatta disposizione; ciò nonostante, il Parlamento votò l'aumento dell'imposta. Invece di un danno al credito pubblico, venne dall'inasprita imposta, ed inasprita contro la legge fondamentale del debito pubblico, un grande beneficio per i titoli medesimi, che mentre prima erano caduti sotto alla pari, un po' per volta superarono la pari. In quell'occasione il Ministro Sonnino ebbe a dichiarare che la salute pubblica richiedeva di ridurre l'interesse del debito pubblico. Quanto più leale questa condotta di quell'altra condotta ipocrita che si ha affermando di voler pagare, ed in realtà pagando in una moneta di dimensioni reali minori di quella convenuta! (Approvazioni).

Arcaini. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Arcaini. Pur comprendendo le preoccupazioni dell'onorevole Einaudi, noi voteremo contro l'emendamento da lui illustrato. Pare a noi che metteremmo nella Costituzione un principio che, se riesce a tutelare la consistenza dei grossi patrimoni e le transazioni tra i più avveduti, non ha efficacia concreta per i modesti patrimoni, frutto del lavoro, che noi principalmente ci proponiamo di tutelare. È inoltre indubbio che la formula del rispetto della clausola oro fisserebbe il principio estremamente pericoloso della insufficienza della lira come misura di valore, proprio nel momento in cui più urgenti sono le istanze per il suo consolidamento. Infine noi non vediamo l'opportunità di mettere nella Costituzione una norma che sostanzialmente e formalmente, significa aprioristica sfiducia nella stabilità della moneta. Il problema è di una gravità eccezionale, e le conseguenze sarebbero incalcolabili qualora i cittadini, nei confronti dello Stato, chiedessero l'applicazione e il rispetto della clausola oro. Lo stesso onorevole Einaudi ha dovuto ammettere che, in casi eccezionali, lo Stato potrebbe superare la norma costituzionale.

Ed allora quale efficacia ha una clausola cui si potrebbe venir meno proprio nel momento in cui in parole semplici la moneta più rapidamente si svaluta?

Sinceramente non ci sentiamo di girare la posizione che va posta in altra sede nei suoi termini: stabilizzare la moneta.

Fabbri. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Fabbri. È con vero dispiacere che dichiaro di non poter votare l'emendamento Einaudi, benché l'affermazione in esso contenuta corrisponda completamente ad un indirizzo ideologico a cui io accedo del tutto. Nel caso particolare bisogna tuttavia riflettere su una circostanza: nella nostra Costituzione si è creduto opportuno da parte della maggioranza di mettere insieme una quantità di norme che sono state chiamate «tendenziali.», in quanto avrebbero dato l'avvio al legislatore futuro e su questo criterio, in genere, non consento perché ritengo dette norme estranee ad una Costituzione; in ogni modo vi sono state messe e non tocca a me censurare la maggioranza degli onorevoli componenti questa Costituente. Accanto alle norme tendenziali in discorso ve ne sono altre che hanno invece un carattere dispositivo immediato e queste sono certo di diritto positivo, confacenti ad una Costituzione e debbono essere osservate.

L'emendamento dell'onorevole Einaudi non è di carattere tendenziale, ma stabilisce una riforma precisa di carattere attuale, cioè di immediata applicazione, obbligatoria per il giudice. Ed allora mi permetto di far osservare che nessuna disposizione del nostro diritto vigente sancisce la nullità della così detta «clausola oro» e, fino a quando l'economia del Paese lo ha permesso, la giurisprudenza ha accettato la piena validità di questa clausola oro. Non sono tuttavia mancate eleganti e sottili disquisizioni per escluderne in parte gli effetti; fu, ad esempio, sostenuto che la lira oro dell'epoca fascista surrogava la lira oro dell'anteguerra, e i debitori pretendevano di aver integralmente rispettato la clausola della lira oro, il che, evidentemente, era un allegro sofisma. Ma, indipendentemente da ciò, sta di fatto che detta clausola della lira oro non è stata dichiarata nulla da una legge e vi sono tuttora una quantità di contratti, anche non scaduti, in cui la lira oro è contemplata e vi sono una quantità di contratti...

Una voce a sinistra. Ma la Cassazione è contraria.

Fabbri. ...con riferimenti precisi ad una forma di pagamento con valori reali, cioè ancorati indirettamente alla cosiddetta clausola oro.

Ora, nessuno più di me si augura che la economia del Paese possa essere riportata dalla politica in condizioni tali che in futuro la precisa osservanza dei patti contratti dai debitori verso i creditori possa venire garantita. Ma oggi, purtroppo, non è così. Tutto il nostro indirizzo legislativo un po' per necessità di cose, un po' per l'indirizzo politico prevalente si svolge in sostanza a vantaggio dei debitori e a svantaggio dei creditori seguendo la linea della minor resistenza.

Anche chi avesse fatto un modestissimo investimento di risparmio in forma reale comprando, per esempio, un piccolo appartamento, si vede oggi in mano invece dell'adeguato canone qualche cosa che è molto simile a un pugno di mosche; coloro che hanno prestato allo Stato, nonostante la pretesa inviolabilità degli impegni da questo assunti, si vedono oggi colpiti dalla futura imposta proporzionale progressiva sul patrimonio, nonostante tutte le falcidie subite nel valore delle lire a suo tempo prestate, cui ha accennato l'onorevole Einaudi, non ostante le dichiarazioni che, al momento dell'accensione del debito, sono state fatte dallo Stato circa l'esenzione da imposte presenti e future. Si cerca di nascondere la cosa con la distinzione fra imposta reale e imposta personale, il che, per la generalità dei prestatori, è un allegro sofisma.

Ora, in sostanza, se tutta la legislazione del nostro Paese oggi è indirizzata, per una dolorosa necessità di cose, alla difesa del debitore e contro il creditore, mi pare che proprio nel momento in cui i debitori sono esanimi e versano in difficoltà, sia difficile invitarli ad una corsa che sarebbe una maratona. Bisognerà cercare con la politica futura di andare progressivamente verso questo ideale, quale è presentato dall'emendamento Einaudi. Nel momento attuale questo rappresenterebbe uno sconquasso nei rapporti di tutti i debitori di fronte a creditori che sono portatori di contratti perfetti, regolari, con la clausola oro. Né mi pare sia possibile dire che l'emendamento dell'onorevole Einaudi avrebbe valore solo per l'avvenire. No; esso avrebbe valore anche per il passato, perché nessun testo di legge attualmente dichiara che la clausola oro sia nulla ed il nuovo testo proposto dall'onorevole Einaudi, se inserito nella Costituzione, finirebbe per aver valore interpretativo, poiché la tendenza dottrinaria e giurisprudenziale è stata, fino a quando fu possibile, di difendere la validità della clausola oro.

Un bel giorno, che rimase celebre fra i frequentatori della Cassazione a Roma — perché normalmente la difformità fra le conclusioni del pubblico ministero e quelle delle sentenze pronunciate dalla Corte si verifica solo in una lievissima percentuale di casi — un bel giorno dunque accadde che tutte le sentenze della Cassazione furono difformi dalle conclusioni del pubblico ministero perché, contrariamente alle sue richieste, furono dichiarate nulle tutte le sentenze che avevano ammesso la validità della clausola oro e valide invece tutte quelle che l'avevano misconosciuta. Questa attuale giurisprudenza dovrebbe ex novo capovolgersi con l'approvazione eventuale dell'emendamento Einaudi e sarebbe quindi, come dico, una vera rivoluzione, perché non ci sarebbe un'adeguata preparazione da parte del ceto dei debitori di fronte ai creditori.

Presidente Terracini. Pongo in votazione l'emendamento Einaudi testé letto.

(Non è approvato).

Passiamo ora alla seconda parte del testo della Commissione:

«... disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito».

(È approvata).

Vi sono ora i seguenti due emendamenti aggiuntivi. Il primo è dell'onorevole Mazza:

«Dopo la parola: credito, aggiungere: Favorisce piccole e medie aziende».

Il secondo è dell'onorevole Adonnino e altri:

«Dopo la parola: credito, aggiungere: e ne agevola i piccoli e medi istituti».

Taviani. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Taviani. Noi comprendiamo benissimo i motivi che hanno mosso gli amici onorevoli Mazza e Adonnino a presentare questi emendamenti; ma riteniamo che, se si entra nella parte analitica ed esplicativa della seconda parte dell'articolo, si dovrebbe di conseguenza procedere anche oltre e fare altre specificazioni.

Preghiamo quindi gli amici proponenti di ritirare i loro emendamenti: in caso contrario, voteremo contro.

Presidente Terracini. Onorevole Adonnino, mantiene il suo emendamento?

Adonnino. Lo ritiro.

Presidente Terracini. Onorevole Mazza, lo ritira anche lei?

Mazza. Lo ritiro anch'io, dando esempio al mio collega democristiano di una maggiore cristianità. (Si ride).

Presidente Terracini. L'onorevole Persico ha mantenuto soltanto il secondo comma del suo emendamento aggiuntivo:

«Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile».

Lo pongo in votazione.

Dominedò. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Dominedò. Dichiaro che, per quanto concerne la formulazione dell'emendamento, la quale a nostro avviso già rientra nel sistema generale del diritto, noi, considerandola superflua o addirittura equivocabile, voteremo contro.

(L'emendamento non è approvato).

Presidente Terracini. L'emendamento Salerno, il quale aveva chiesto di integrarlo con quello Nobile, si intende assorbito.

L'articolo 44, nel suo complesso, risulta dunque così approvato:

«La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice, al diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti