[Il 6 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Cassiani. [...] L'articolo 41 regola i rapporti e i vincoli da imporre alla proprietà terriera privata. Sono forse questi i principî più significativi fra quanti ne contiene il Titolo III. Si profilano nell'articolo 41 gli elementi di quella riforma agraria che dovrà realizzarsi in un domani — che noi ci auguriamo sia prossimo — attraverso istituti di diritto pubblico. L'articolo 41 ha un significato non dubbio, onorevoli colleghi: esso dice che lo Stato, nel momento in cui sorge, tende l'orecchio alle istanze delle classi meno abbienti, dal cui confuso tumulto partono voci che indicano problemi sociali da affrontare e da risolvere.

Quando l'Italia avrà varato la sua riforma agraria, io penso che avrà fatto sempre meno di quel che hanno fatto i Paesi più progrediti di Europa. In Italia si sono sempre colpite la piccola e la media proprietà terriera e si è lasciata insoluta, attraverso una forma strana di tenacia abulica, il problema della grande proprietà terriera. Fuori di questa Aula, contro le norme delle quali ci occupiamo, si sono avanzate critiche aspre, qualche volta dettate dal timore del peggio, tal'altra da uno stato che dirò di paura opaca, tal'altra ancora da preoccupazioni legittime in rapporto a quello che può essere il processo produttivo. Preoccupazioni, queste ultime, che lo smembramento delle grandi fortune sia causa di rallentamento e di disgregazione del processo produttivo.

Evidentemente nella visione panoramica del problema, che è così vasto e ha radici così profonde, io penso che qualche volta si confonde l'aspetto giuridico con l'aspetto economico del problema, si confonde la proprietà dei beni con la gestione di essi, e, d'altro canto, si dimentica che non c'è un tipo di azienda preferibile in senso assoluto, in rapporto all'estensione ed all'organizzazione, sotto l'aspetto sociale ed economico. Certo è che lo sviluppo dell'attività trasformatrice dei prodotti agricoli non è riservato alle grandi aziende, pur essendo ad esse legato in parte il processo produttivo. Ma, dicevo, nell'esame panoramico del problema mi pare si confonda assai spesso l'aspetto giuridico con quello economico. Qui, infatti, non si tratta di tagliuzzare ciecamente la terra e distribuirla a pezzi: qui si tratta di stabilire una serie di rapporti nuovi che vadano dalla proprietà alla gestione fino alle forme più avanzate della compartecipazione. In questo è la complessità del problema ed è questa la difficoltà della soluzione.

Aggiungo che c'è un problema sussidiario che diventa, per così dire, primario, nella materia dell'articolo 41. Perché il latifondo si abolisca, perché la proprietà terriera subisca una modifica, che cosa è necessario? È necessaria un'opera di trasformazione fondiaria, una legislazione che riconosca e renda possibile, direi fisicamente possibile, la vita associata del lavoro e del capitale, tutte le volte che questo sia utile al processo produttivo e quindi all'economia nazionale. Questi due concetti potranno essere enunciati, con la collaborazione dell'Assemblea, attraverso gli articoli 41 e 42 del progetto, dicendo all'articolo 41 che «il latifondo, comunque condotto e coltivato è suscettibile di utili trasformazioni fondiarie e di appoderamento e che la trasformazione e l'appoderamento sono obbligatori»; e dicendo all'articolo 42 che «lo Stato riconosce la libera vita associata del lavoro».

Per quanto riguarda l'articolo 41, all'osservatore, anche il più disattento, si presentano domande che reclamano una risposta e dubbi che attendono di essere placati. Che cosa vuol dire abolizione del latifondo? E ancora: si avanzano dubbi sul significato della parola. Non è chi non sappia che nel linguaggio tecnico ed economico la parola latifondo non vuol dire una qualunque estensione di terra, ma vuol dire invece un'estensione di terra che sia in istato di arretratezza dal punto di vista della cultura e in rapporto alla possibilità di trasformazione fondiaria di essa, tanto che si arriva a questa conclusione: che può essere latifondo la media estensione di terra e può non esserlo la vasta estensione di terra.

L'interrogativo potrà avere una certa risposta e il dubbio potrà essere placato soltanto a patto di una specificazione dell'articolo 41 e anche, a mio parere, di un ampio respiro, dirò così, di interpretazione dell'articolo 42, il quale contiene principî che concorrono a rendere efficienti i principî dell'articolo 41 il significato — cioè — di una cooperazione che nasca e si sviluppi liberamente, come ha detto l'altro ieri in quest'Aula il collega Dominedò: liberamente, ma su alcune premesse di vita, che io chiamerò fisica, premesse di vita che lo Stato deve costituire. Perché non bisogna dimenticare, onorevoli colleghi, che la cooperazione non è certo la forma dei popoli più poveri e meno progrediti: è, al contrario, la cooperazione, espressione naturale, direi quasi istintiva, dei popoli che non sono poveri e che sono anche istruiti.

Ebbene, in Italia c'è un esempio che è sotto gli occhi di tutti: la differenza enorme tra la cooperazione nell'Italia Settentrionale e nell'Italia Meridionale. Dimentichiamo per un momento, onorevoli colleghi, gli sforzi dei nostri partiti: quella è un'altra cosa; ma la cooperazione, nei tempi che potremmo chiamare prefascisti, nell'Italia Settentrionale era sviluppatissima, mentre nell'Italia Meridionale languiva anche nelle sue forme più semplici, più elementari, anche nei casi di cooperative di consumo o di cooperative costituite perché i contadini avessero potuto vendere i prodotti della propria terra.

Non si può pensare seriamente, onorevoli colleghi, che con le leggi con cui si enuncia il principio — non certamente nuovo — della quotizzazione del latifondo, si possono creare meccanicamente, dirò così, coltivatori diretti o liberi cooperatori. È forse opera troppo lenta attendere la redenzione agraria di un Paese come l'Italia dall'associazione di capitali, che tante volte non ci sono, di coscienze offuscate dalla povertà o dall'ignoranza, se lo Stato, senza iugulare — beninteso — in qualunque modo la libertà della cooperazione, non si rendesse vigile promotore nella Costituzione di quelle che io poc'anzi ho chiamato le premesse di vita fisica, perché la cooperazione nasca e si sviluppi.

Solo una grande riforma economica può preservare l'Italia sociale e l'Italia politica.

Chi sa che non si possa riprendere, in omaggio all'articolo 41 e in omaggio all'articolo 42, con le opportune modifiche, quel vecchio progetto che l'onorevole Maggiorino Ferraris sostenne fin dal 1900, con altezza di pensiero e magistero di parola, secondo il quale sarebbero costituite le unioni agrarie mandamentali collegate in unioni regionali e queste in una unione nazionale, con vita autonoma, sorretta dalle eccedenze delle casse postali, avente la funzione del credito in natura ai piccoli e medi agricoltori, che potrebbero, perciò, riunirsi in cooperative di produzione avendo la sicurezza della base sulla quale muoversi.

Chi sa che non sia il caso di imitare, più semplicemente, quelle casse regionali di credito agrario mutuo che nella Repubblica francese operarono tanto bene a vantaggio della piccola e della media proprietà terriera: anche la istituzione di quelle casse potrebbe essere collegata allo sviluppo di una rete di cooperative di produzione e contribuire, perciò, a rendere efficiente e non soltanto teorico il contenuto degli articolo 41 e 42 del progetto di Costituzione.

Potrebbero contribuire questi o altri mezzi, questi o altri accorgimenti, a non rendere teorico il contenuto degli articoli 41 e 42.

Chi sa che non sia giunto il momento di affrontare con serietà — attraverso l'idea lanciata da Maggiorino Ferraris o attraverso il modello francese o attraverso, come dicevo, quelle altre vie che il legislatore di domani potrà indicare — il problema della terra nell'Italia Meridionale, che in tanto può essere risolto in quanto si affronti il problema della vita collettiva del lavoro.

Suggerendo le modifiche all'articolo 41, io non posso non pensare, onorevoli colleghi, al mio Mezzogiorno — né con ciò io evado, onorevole Presidente, dal chiuso ambito del tema che mi sono imposto. Non evado: il latifondo è una piaga dell'Italia Meridionale e, più precisamente, del centro-meridione. È quindi l'esperienza di vita del Mezzogiorno che mi suggerisce i provvedimenti che ho proposto.

Suggerendo quelle modifiche, io debbo dire che, quando si parla del latifondo dell'Italia Meridionale, si suole pensare a terre che diventeranno opime nel momento stesso della quotizzazione. Ebbene: non c'è niente di più inesatto, non c'è niente di più lontano dalla realtà obiettiva. Si tratta spesso di rocce, qualche volta di sabbia, tal'altra di acquitrini.

Per rendere possibile la bonifica agraria, premessa indispensabile allo spezzettamento e all'appoderamento del latifondo, occorre modificare la natura stessa del terreno, ricorrendo ad opere costose e complesse, nelle quali lo Stato potrà concorrere solo a patto che venga sorretto da speciali cooperative di produzione. Opinioni erronee sono quelle di coloro i quali persistono a credere i lavoratori del Mezzogiorno, agricoltori e braccianti, tutti neghittosi, tutti incapaci di trarre dalla loro terra — che sarebbe, secondo questi osservatori superficiali, un vero eden quei copiosi frutti che il sole del Mezzogiorno dovrebbe consentire (anche quando non piove per dieci mesi e il periodo della vegetazione diventa più breve in Basilicata e in Calabria che non nella nordica Scandinavia). Si presenta quindi, evidentemente, un problema complesso di trasformazione fondiaria, per la quale io propongo che lo Stato si impegni nella Costituzione, ma propongo altresì che si impegnino i privati, mettendoli dinanzi allo spettro dell'espropriazione.

L'impegno da parte dei privati proprietari dei latifondi a me pare indispensabile non solo per un'evidente ragione di principio, che non è il caso di illustrare ad un'Assemblea come questa, ma anche perché mai come oggi le condizioni dello Stato italiano si sono trovate ad essere così poco idonee all'estensione e all'accrescimento della produzione delle desolate plaghe del Mezzogiorno, di quelle plaghe, cioè, per cui dovrebbe in definitiva trovare applicazione il principio sancito nell'articolo 42.

L'Italia soffre, sì, del travaglio di una crisi che forse è priva di precedenti storici, ma soffre anche a cagione della crescente, naturale pressione di una grandissima minoranza di cittadini, i cui interessi non dico che siano in contrasto, ma sono certo diversi e lontani dagli interessi dall'enorme maggioranza dei cittadini, che è costituita dai lavoratori della terra (Applausi).

[...]

Cairo. [...] E corro per questo all'articolo 42. Noto in esso una lacuna grave. In questo articolo si parla della cooperazione, ma non della mutualità, che della cooperazione è uno degli elementi intrinseci o per lo meno coadiuvanti.

[...]

Bosi. [...] Certo, nell'Italia meridionale, insieme a questa particolare forma di proprietà, c'è anche un particolare ambiente.

Parlare di cooperative nell'Italia meridionale, nel senso inteso nel Nord, è certamente cosa che esce dalla mentalità degli stessi contadini meridionali. Abituati a vivere in un ambiente, dove domina l'egoismo più assoluto, essi non possono avere piena cognizione della cooperazione, cioè della solidarietà, nel senso dell'azione in comune. Quando si istituiscono cooperative nell'Italia meridionale, si assegnano loro le terre e queste vengono spezzettate, evidentemente ciò significa che non si apprezza il lavoro in comune. È già qualche cosa se quei soci comprano collettivamente le sementi e i concimi; è una forma iniziale di solidarietà che si manifesta. Sta in noi aiutarla, ed è bene che qualche articolo della Costituzione parli di aiuto alle cooperative.

Non credo che si debba porre il problema di sostituire le grandi imprese con le cooperative; andremmo fuori della realtà umana. Ci sono gli uomini che creano; è nostro dovere educarli e mettere a loro disposizione i mezzi, perché essi possano comprendere la forza dell'azione in comune. Non possiamo, naturalmente, pretendere, che dall'oggi al domani, con un decreto legge, essi cambino mentalità.

In altre regioni le cooperative potranno sostituire con vantaggio le grandi proprietà attuali. Ma il problema del latifondo va affrontato nel senso realistico: non si può paternalisticamente imporre all'uomo quello che egli non è in grado di comprendere.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti