[Il 6 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Cairo. [...] E venendo all'articolo 37 mi pare si sia di fronte ad una di quelle tali definizioni giuridiche che sono sempre pericolose. Non dobbiamo cercare di creare imbarazzi all'organo futuro che dovrà legiferare. Quando ripetiamo una definizione come questa: «ogni attività economica, privata o pubblica, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo», definiamo l'economia in modo... lapalissiano, — dirò io che non sono un economista. Ogni attività economica che sia degna di questo nome, non può tendere che al soddisfacimento di un bisogno, vuoi individuale, vuoi pubblico. E per il concetto che si è voluto esprimere nell'articolo stesso, secondo me, basterebbe esprimerlo così: «la legge determina i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate ai fini sociali».

[...]

All'articolo 37, e perdonatemi se ritorno ancora sui miei passi, è detto che «ogni attività economica, privata o pubblica, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo». Si riproduce, anzi si anticipa in forma positiva il principio che è già stabilito nell'articolo 39, dove si dice che «l'iniziativa privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Ma, questi due concetti rappresentano due forme di un concetto unico, cioè il concetto che l'iniziativa economica non può mai contrastare con l'utilità sociale. Ora basta affermarlo in un punto solo, sia pure nella forma negativa che è la forma proibitiva; quindi solamente all'articolo 39, a mio avviso, dovrebbe rimanere questa espressione.

[...]

Montagnana Mario. [...] Quello, però, che non posso fare a meno di rilevare parlando su questo argomento, si è che l'insieme delle riforme strutturali che il Progetto prevede, e la stessa istituzione, pur così importante, dei Consigli di Gestione, non potrebbero assolvere pienamente ai loro scopi — e mi riferisco soprattutto agli scopi di carattere nazionale ai quali ho or ora accennato — se la stessa Costituzione non stabilisse la necessità dell'«intervento dello Stato per coordinare e dirigere l'attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che dia il massimo di rendimento per la collettività».

E, del resto, senza un tale intervento e senza un tale piano, il diritto di lavoro per tutti, vale a dire la eliminazione del tragico problema della disoccupazione, continuerebbe ad essere, inevitabilmente, soltanto una vana promessa, continuerebbe ad essere null'altro che una vera e propria chimera.

Accettare il principio delle riforme strutturali della nostra economia e la creazione dei Consigli di gestione, e respingere l'intervento dello Stato nell'attività produttiva dei singoli, e un suo piano d'insieme per quanto si riferisce alla produzione, mi sembra quasi un non senso e in ogni caso una grave contraddizione.

Riconosciuto — come di fatto è riconosciuto nel Titolo III del progetto di Costituzione — che devono essere considerati come superati, con l'evolversi della società, tanto la vecchia concezione del diritto romano di proprietà quanto i principî del liberalismo che a questa concezione, in sostanza, aderiscono; riconosciuto questo, come è possibile negare allo Stato — espressione della collettività, espressione di tutto il popolo — il diritto di intervenire per controllare e coordinare, secondo un piano, le iniziative dei singoli, nell'interesse della collettività, nell'interesse di tutto il popolo?

Non si tratta qui di una realizzazione di carattere socialista, anche se tutte le proposte avanzate da noi comunisti, su questo terreno, nella prima Sottocommissione, si muovono, come ha rilevato lo stesso onorevole Togliatti nella sua relazione sull'argomento, nella direzione generale di una trasformazione economica socialista.

Altre Costituzioni, di paesi tutt'altro che socialisti, e misure pratiche già realizzate o in via di realizzazione, in questi stessi paesi — basti pensare a quanto avviene in Francia e Inghilterra — rappresentano dei passi ben più audaci e ben più grandi di quello che noi proponiamo, per quanto riguarda l'intervento dello Stato nella produzione e in generale, nella vita economica del Paese.

L'intervento dello Stato nel campo produttivo, sulla base di un piano, quale noi lo proponiamo, non abolisce, non distrugge, non riduce neppure entro limiti ristretti l'iniziativa dei privati, e tanto meno il loro diritto di proprietà.

Noi vogliamo che la proprietà personale dei cittadini — purché non venga usata in modo contrario all'interesse sociale — sia, assieme al risparmio, tutelata dalla legge, e vogliamo pure che l'iniziativa dei privati — purché venga indirizzata nell'interesse della Nazione — sia aiutata e sollecitata.

Ma tra queste affermazioni e l'affermazione della necessità di un piano economico, non esiste contraddizione alcuna, né formale né sostanziale, poiché le une e l'altra affermazione tendono in sostanza ad un unico scopo: assicurare il benessere e l'indipendenza economica del Paese con l'aumento della produzione.

Ogni giorno maggiormente il popolo sente nella sua carne, sente attraverso le proprie sofferenze le conseguenze funeste di una economia in gran parte abbandonata a se stessa, il che provoca lo sperpero e la inutilizzazione di ricchezze immense e di immense energie.

Basta pensare alle quantità enormi di generi voluttuari, superflui che vengono prodotti, mentre milioni di italiani mancano dello stretto necessario. Basta pensare ai capitali che vengono investiti per degli scopi di pura speculazione, mentre manca il danaro per la ricostruzione. Basta pensare, soprattutto, ai milioni di disoccupati, ai milioni di braccia inutilizzate, mentre il paese ha tanto bisogno di lavoro per ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto.

Nessuno ha mai protestato — perché sarebbe stato assurdo protestare — contro l'intervento dello Stato nel campo della produzione in tempo di guerra. Si è sempre riconosciuto questo intervento come un intervento giusto, perché inevitabile. Ognuno ha compreso, in tempo di guerra — e non mi riferisco soltanto all'ultima guerra — che l'abbandonare completamente la produzione all'arbitrio dei singoli, senza un piano, senza un controllo e senza una coordinazione, avrebbe significato andare incontro ad una sicura disfatta.

E perché dunque dovremmo respingere l'intervento dello Stato, ed un suo piano economico, ora che il nostro Paese è chiamato a combattere e a vincere un'aspra, dura e lunga battaglia, sul terreno della ricostruzione e per la conquista del benessere e della indipendenza economica?

Osservate chi sono coloro che si oppongono a tale intervento, coloro che si scandalizzano al sentire parlare di un piano economico. Quasi sempre voi riconoscerete in essi — anche se si tratta di persone oneste e in buona fede, anche se si tratta di luminari della scienza e della politica — degli elementi su cui pesa la responsabilità di non aver saputo o voluto impedire l'ascesa al potere del fascismo.

Noi possiamo avere e abbiamo realmente per alcuni almeno di questi uomini, il rispetto, cui essi hanno diritto per la loro dirittura personale e anche per la loro età veneranda.

Ma non possiamo ascoltare i loro consigli, i loro funesti presagi e i loro anatemi.

Possiamo avere per alcuni di essi rispetto e considerazione, ma diciamo loro: «Non sbarrate la strada alle nuove energie e ai nuovi metodi che sono i soli che corrispondano alle necessità dell'attuale periodo. Siamo nell'anno 1947, e quello che poteva forse essere giusto 40 o 50 anni or sono è ora profondamente sbagliato. Voi credete, sostenendo le vostre vecchie teorie, di difendere gli interessi del Paese, ma in realtà quello che difendete oggi, anche se non ne avete coscienza, è l'interesse di un pugno di plutocrati e di speculatori, contro gli interessi del popolo e contro gli interessi della Patria. Lasciate perciò libero il cammino alle giovani forze, alle forze del lavoro che avanzano e che rappresentano l'avvenire dell'Italia».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti