[Il 3 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Malvestiti. [...] Le condizioni del diritto sono tali — e non vedo come potrebbero mutare nell'attuale organizzazione sociale — che il contratto liberamente stipulato fra i datori di lavoro e lavoratori ha forza di legge per i contraenti. La norma giuridica sostanziate non è stabilita dalla legge dello Stato, ma dalla volontà dei contraenti: lo Stato può garantire non la giustizia, ma la sola legalità della transazione. Meno che meno lo Stato può imporre indefinitamente alle imprese una condotta economica irrazionale, come sarebbe quella che incidesse sui costi in maniera insopportabile, o per l'altezza dei salari nei confronti del mercato mondiale del lavoro, o per l'occupazione di un numero superfluo di lavoratori.

Siamo, in sostanza, al grave problema di una politica economica, che d'altra parte noi non possiamo risolvere da soli: il fenomeno economico è universale, e non può essere disciplinato che da norme ugualmente universali. Inutile quindi soffermarci sul dilemma fra liberismo od economia regolata, disciplinata, pianificata: dobbiamo tenerci all'immediato ed al concreto.

E vi è, qui, una verità solare, che deve restare come un memento dei nostri spiriti: che non c'è risoluzione sociologica che possa ignorare l'obiettiva base economica; che il problema centrale dell'economia è un problema di produzione; che l'Italia possiede pur sempre una ricchezza incalcolabile: l'ingegno dei suoi figli.

Se siamo convinti — come non possiamo non esserlo, perché è la realtà — che la grande forza edonistica umana è un fattore fondamentale, di ricchezza, si tratta di dirigerla, proprio nel senso della vera libertà economica.

La fase patologica del capitalismo è contrassegnata da una costante e sempre più grave offesa alla libertà: il capitalismo sopprime puramente e semplicemente la libertà economica.

La scoperta più grande di Marx è che il capitalismo trasforma i rapporti tra gli uomini in rapporti fra cose: non c'è, cioè; una realtà economica sostanziale e perciò tutte le categorie economiche non sono che categorie storiche e non principî eterni come li professava l'economia borghese e classista: ma tutto ciò contraddice proprio il materialismo.

Bisogna liberare l'uomo, che è ingegno, volontà, lavoro, vita: l'attività implica un principio spirituale, e solo un principio spirituale garantisce l'attività.

Mi si permetta perciò di credere che la coordinazione delle attività economiche da parte dello Stato, di cui si parla all'articolo 40, non è utile e feconda se non a due condizioni: che si tratti di difendersi contro la formazione di egemonie monopolistiche, o che, in determinate condizioni di tempo e di luogo, venga in questo modo garantita l'economicità della produzione.

Bisogna, invece, puntare risolutamente sulla trasformazione, direi meglio, sul superamento dell'economia capitalistica: perciò il solo diritto, sancito dall'articolo 43, di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende mi sembra del tutto inefficace ed illusorio.

Io resto convinto che, agli effetti stessi della produzione e del giusto prezzo, il sistema della concorrenza è ancora il modo meno imperfetto di scegliere gli uomini: la casta chiusa della aristocrazia denuncia ormai una sproporzione insopportabile fra il privilegio e il servizio reso alla collettività. Il diritto di proprietà segna ormai un ritardo, una vischiosità nei confronti dell'economia, che è quanto dire della vita. Ridiamo perciò al diritto di proprietà la sua funzione sociale nell'articolo 38.

Ora, l'articolo 43 immette i lavoratori nella gestione delle aziende; ma, pure ammesso che tutto ciò debba portare un contributo notevole alla produzione, c'è sempre una domanda da farsi, una riserva da proporsi: a profitto di chi? Si può dire, genericamente, «a profitto della produzione»; ma questa è una parola.

Si tratta, concretamente, di modificare la ripartizione del profitto, senza danneggiare il normale funzionamento di un sistema produttivo che ha pur fatto delle grandi prove; si tratta di conservare quanto c'è di buono nel sistema, indirizzandolo verso un'evoluzione in cui l'imperativo sociale diventerà sempre più dominante; si tratta di toglier di mezzo lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo senza sostituirvi l'ancor più atroce sfruttamento dello Stato su l'uomo. Si tratta, in sostanza, di creare una vera e vitale democrazia economica.

E allora, bisogna avere il coraggio di andare più in là; bisogna avere il coraggio di dire: i lavoratori hanno diritto alla compartecipazione, regolata dalla legge, agli utili, al capitale e alla gestione dell'impresa di tipo capitalistico. La legge riconoscerà il diritto al lavoro di essere rappresentato nei consigli di amministrazione delle società per azioni, a prescindere da qualsiasi partecipazione azionaria.

Soltanto così, noi diamo ai lavoratori quello che i lavoratori aspettano da noi; restituiamo al lavoro la sua nobiltà e la sua gioia; liberiamo il volto dell'uomo dandogli la scienza della vita, la serenità della vita, l'onore della vita. (Applausi al centro).

[...]

Cortese. [...] V'è poi l'articolo 37, a proposito del quale vorrei notare che il primo comma è parso stupefacente per la sua inutilità, perché dire quello che si è scritto qui, a mio modo di vedere, significa dire una cosa banale ed ovvia: «Ogni attività economica, privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo». Mi sembra che si sia fatta una scoperta inutile, perché un tale fine è evidente soprattutto poi se riferito all'attività pubblica. Vorrei vedere un'attività pubblica che non si debba preoccupare di soddisfare ai bisogni e al benessere della collettività. È come dire che la Magistratura amministra la giustizia, è come dire che la forza pubblica deve garantire l'ordine pubblico. Non comprendo perché in una Costituzione si debbano scrivere cose del genere.

V'è poi il secondo comma che mi pare pleonastico, e (voglio essere sincero), pericoloso: pleonastico in rapporto all'articolo 39, dove in sostanza già si dicono le stesse cose. Il comma dice: «La legge determina le norme e i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali». In questa formulazione si nasconde un pericolo.

Io ho segnalato che vi è una esigenza, quella di dare una certa sicurezza all'iniziativa privata. Stabilite pure un limite, stabilite un confine; ma introdurre delle norme le quali, mentre riconoscono che la vita economica della Nazione fa perno sulla iniziativa privata, disconoscono che siamo ancora, o dovremo essere in una economia di mercato, e stabilire d'altra parte dei limiti elastici, delle riserve vaghe e minacciose d'interventi statali, di controlli e coordinamenti, significa perpetuare nel testo costituzionale quella situazione di incertezza cui ho fatto cenno, significa mantenere nel mondo economico un interrogativo che inaridisce le fonti della produzione, che trattiene la iniziativa privata, che paralizza il capitale, determinandosi in conseguenza una minore produzione di beni con danno della collettività.

[...]

Nell'articolo 39, vi è, a proposito della iniziativa privata, lo stesso concetto espresso nell'articolo 37, ma più rigorosamente contenuto e circoscritto, perché l'articolo 39 dice: «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Ecco dunque stabiliti con una certa precisione quei limiti all'iniziativa privata alla quale però si dà tuttavia libero respiro. A proposito dell'iniziativa privata e di questo articolo, voglio soffermarmi un attimo sull'emendamento aggiuntivo che ho proposto. L'oratore che mi ha preceduto si è scagliato contro i monopoli, contro queste degenerazioni dell'economia di mercato. Io ritengo che se v'è davvero una rivoluzione liberale da compiere, questa rivoluzione liberale nel campo dell'economia è proprio la rivoluzione diretta a ristabilire l'economia di mercato contro le degenerazioni capitalistiche, contro i cartelli, contro i trusts, contro i pools, contro i monopoli, e contro le sopravvivenze corporativistiche.

Ma non basta, diciamo noi, facendo un passo avanti oltre quello che è stato fatto dai relatori: non basta intervenire per reprimere con l'articolo 40; bisogna prevenire, bisogna impedire che si formino le situazioni monopolistiche. Come? Non potete certo attendervi, o amici e colleghi comunisti, che io dica «collettivizzando»; non sarei più liberale. D'altra parte, collettivizzando faremmo il più grande dei monopoli: l'unico monopolio statale. Noi diciamo: ispirando non solo la politica economica e sociale, ma anche la legislazione nel campo economico, a questa lotta; perché monopoli e cartelli, trusts e pools si formano sempre all'ombra di privilegi legali. Se noi volgeremo la nostra legislazione economica a questa finalità, di sopprimere questi privilegi, di impedire che all'ombra di questi privilegi, di questi protezionismi, mediante monopoli, trusts, brevetti a catena, si possano costituire concentrazioni che, manovrando artificialmente le condizioni del mercato, determinino soprattutto il danno del consumatore, noi potremo ricondurre l'economia di mercato alle sue norme fondamentali; correggendo le degenerazioni del capitalismo, riaffermeremo la economia di concorrenza, e nello stesso tempo non saremo passati ad un'altra concezione economica che non condividiamo.

E vi è anche un aspetto politico: noi diciamo e affermiamo ogni giorno che la libertà economica è collegata più che non si creda alla libertà politica, perché attraverso l'economia controllata e statizzata ci si avvia, per inevitabile necessità, alla dittatura politica, diciamo anche che queste degenerazioni capitalistiche, questo formarsi di feudalismi industriali, incidono sulla libertà politica, perché anche qui si forma una dittatura economica che diventa una dittatura politica. E come il feudalismo medioevale dovette cedere di fronte alla monarchia assoluta, noi affermiamo che se il feudalismo industriale non ritornerà alle leggi della libera concorrenza, esso si piegherà alla monarchia del collettivismo centralizzato.

Ho perciò presentato il seguente emendamento aggiuntivo all'articolo 39: «La legge regola l'esercizio dell'attività economica al fine di difendere gli interessi e la libertà del consumatore». Il che significa vigilare ed intervenire, prevenire e reprimere, attraverso una legislazione antiprotezionistica e antimonopolistica, affinché la vita economica, fondata sull'iniziativa privata, si svolga nel rispetto della legge della concorrenza e dei principî che sono propri all'economia di mercato.

[...]

Colitto. [...] Iniziativa ed impresa privata. — Il progetto di Costituzione riconosce e garantisce la privata iniziativa. Esattamente. Perché, se noi teniamo presente quello che pulsa non nelle formule teoriche, ma nelle aziende, nelle officine, nelle fattorie, nei laboratori, nei porti, nei mercati, là dove l'economia è lotta, rischio, conquista, se alla vita noi domandiamo l'ispirazione dei programmi, e non ai programmi l'ispirazione per la vita, dobbiamo riconoscere che, se c'è una cosa veramente meravigliosa in Italia, la sola forse che ci consenta di dire che l'Italia faticosamente, ma con tenace volontà, risorge dal disastro di una disfatta, questa cosa è l'ammirabile capacità rinnovatrice del popolo, che, come ha detto l'onorevole De Gasperi giorni fa, ha vivamente stupito e stupisce gli stranieri; se c'è una cosa, che in Italia veramente possa darci fiducia, essa è quel fermento individuale, quella volontà di potenza, quella forza motrice della cellula produttiva in cui si riassume, in cui si concreta appunto la privata iniziativa, vero fondamento della dinamica economica e, quindi, sociale.

«L'iniziativa economica privata è libera», dispone l'articolo 39, che così prosegue: «Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale od in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Io ho proposto che l'articolo sia diversamente formulato. Penso che sia opportuno da un lato mettere in rilievo anche l'impresa, alla quale il progetto solo indirettamente accenna, e dall'altro sottolineare, in relazione alla iniziativa privata, l'attività armonizzatrice e coordinatrice dello Stato, di cui è parola nel successivo articolo 37, che, quindi, non avrebbe più ragione di essere anche per la prima parte, che a me sembra del tutto pleonastica. La nuova formulazione è la seguente: «La iniziativa e la impresa privata sono libere, nei limiti che lo Stato stabilisce per coordinare e dirigere le attività economiche ai fini di aumento della produzione e del benessere sociale».

Sembrami questa una formula scientificamente più esatta di quella inserita negli articoli 37 e 39 del progetto. Parmi anche — mi si consenta dirlo — più moderna. Ed inoltre — questo anche giova affermare — parlandosi in essa di iniziativa e di impresa privata, dandosi a queste la maggiore ampiezza di respiro ed insieme consentendosi programmazioni, nell'attuazione delle quali sarà possibile coordinare e dirigere senza espropriare, mi sembra anche una formula che non spaventi nessuno, né in Italia, né all'estero; e noi abbiamo sommamente bisogno che nessuno, che in Italia abbia voglia di muoversi, si spaventi, e che guardino altresì a noi senza timori i paesi, dai quali ci vengono il grano, il petrolio, il carbone, i minerali di ferro, i crediti, tutto ciò, insomma, che ci aiuta a vivere ed a riprendere il nostro posto fra i paesi civili.

[...]

Maffioli. [...] Il titolo III del progetto della nuova Costituzione tende, in sostanza, a risolvere la questione sociale secondo i dogmi e i preconcetti che sono propri dei sistemi totalitari e statolatri. (Commenti a sinistra).

Nelle sue linee essenziali e fondamentali, infatti, il titolo III tende ad accentrare nello Stato tutte quelle facoltà che per diritto naturale spetterebbero all'individuo in rapporto alla proprietà privata e alla libera iniziativa economica privata. Pur proclamando, in teoria, la legittimità della proprietà privata (articolo 38), e pur riconoscendo e anzi garantendo la libertà dell'iniziativa economica privata (articolo 38 e 39), in realtà ne prevede e ne suggerisce tante e tali limitazioni che, in definitiva, non si saprebbe ben comprendere che cosa potrebbe restare più di codesti due concetti essenziali ad ogni civile convivenza.

Così, ad esempio, dopo aver affermato la legittimità della proprietà privata e dell'iniziativa privata (articolo 38 e 39 citati) il progetto si affretta tosto a soggiungere che la legge determina i modi di godimento ed i limiti della proprietà allo scopo di assicurare la sua funzione sociale, e di renderla accessibile a tutti.

Dunque non si può più parlare di libera iniziativa economica privata, ma al più di iniziativa controllata o pianificata, quando la proprietà privata di cui la libera iniziativa è l'attributo essenziale, sia limitata ad ogni momento dallo Stato nel suo modo di acquisto e di godimento.

Una proprietà privata, che nel contempo ha una funzione che viene considerata eminentemente «sociale», cioè «comune», è in definitiva regolata dal potere centrale, a suo esclusivo piacere anche nel modo di godimento.

Del resto già coll'articolo 37 precedente, ci si era dati cura di precisare previamente che «la legge determina» le norme e i controlli — cioè gli ulteriori limiti — perché le attività economiche private possano essere «armonizzate ai fini sociali», fini sociali che costituiscono una vera idea fissa che domina l'intero titolo III.

Quasi non bastasse ancora, nell'articolo 39 si ribadisce poi nuovamente che l'esercizio dell'iniziativa privata non può rivolgersi in contrasto con l'utilità sociale. (Quale poi?).

Nell'ultimo comma di tale articolo, si sanziona il diritto dello Stato d'espropriare — sia pure salvo indennizzo — la proprietà privata per il solito motivo di quell'araba fenice che si chiama «comune interesse» (interesse che, come tutti sanno, è poi sempre quello della cricca dominante).

Né basta. Nell'articolo 40 si riconferma per l'ennesima volta il diritto dello Stato di espropriare ciò che meglio creda in fatto di imprese singole o addirittura di categorie di imprese.

Ma gli ultimi colpi di grazia veri e propri all'istituto di quella proprietà e di quella privata iniziativa, di cui poco dianzi si era proclamata la legittimità e di cui si era anzi assunta la garanzia, sono dati dagli articoli 38[i], terzo comma, 41 e 43.

L'articolo 41 non si limita, come sarebbe ragionevole, a proclamare l'abolizione del latifondo, ma suggerisce fin d'ora una legge che fissi i limiti di estensione della proprietà privata (limiti che, notisi bene, potrebbero essere pure inferiori alle poche dessiatine riconosciute dal codice russo ai propri contadini...). Si suggerisce quindi anche una legge che abbia a fissare i limiti delle successioni testamentarie, nonché, si badi bene, i diritti dello Stato sulla eredità (articolo 38, terzo comma). Viene quindi il conclusivo articolo 43, che sancisce il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende, sanzionando così il demagogico slogan «la fabbrica è nostra» con cui si sogliono imbottire i crani degli operai. (Interruzioni a sinistra).

Si potrebbe chiedere, dopo tanto scempio, che cosa resti più dell'affermato e, notisi, garantito istituto della proprietà e dell'iniziativa privata, e se il riconoscimento della loro legittimità non sia fatto per burla.

Con tante riserve esplicite ed implicite, dirette e indirette, formali e sostanziali, con gli ultimi emendamenti perentori che dispongono la limitazione quantitativa della proprietà terriera, nonché la limitazione delle successioni, nonché il diritto dello Stato di scacciare l'erede autentico, per carpirgli l'eredità, e infine il diritto delle cosiddette masse di subentrare nella amministrazione delle aziende che non sono di loro proprietà (Interruzioni a sinistra), come si potrà più parlare seriamente di proprietà privata, di libero esercizio dei diritti inerenti a tale proprietà, in codesto Stato-piovra, che si riserva di controllare e di sfruttare, secondo il capriccio della cricca imperante, persino le secrezioni sebacee di singoli cittadini?

È innegabile che il titolo III del progetto in esame ha posto nel più esplicito dei modi tutti i presupposti etico-giuridici per l'attuazione di un ordinamento totalitario, affermando teoricamente che c'è la proprietà privata, ma in pratica sopprimendo pur anche le tracce della proprietà privata e dell'iniziativa economica privata, e sanzionando la più sfacciata sopraffazione dello Stato in ogni campo della vita pubblica e privata, sì da creare il presupposto statutario di uno schiavismo statale che lo stesso fascismo non aveva osato e saputo concepire. (Rumori a sinistra).

Riconosciamo la necessità di apportare limitazioni all'incondizionato godimento del diritto di proprietà, nonché all'esercizio dei diritti che le sono inerenti, ma tali limitazioni debbono essere atte a impedire la formazione del supercapitalismo privato, che è altrettanto nefasto per la libertà individuale quanto il supercapitalismo di Stato; oppure atte a meglio far fronte alle ineluttabili esigenze della Nazione durante determinati periodi di emergenza tassativamente previsti e regolati da norme eccezionali.

A questi due tipici casi affatto eccezionali, vogliamo da ultimo aggiungere il caso di espropriazione per causa di vera ed evidente pubblica utilità e contro congruo indennizzo; ma anche in questa terza ipotesi l'eccezionale limitazione dovrà essere disciplinata da rigorose norme legislative che difendano il privato cittadino dall'arbitrio del potere centrale, l'esproprio dovrà essere condizionato all'evidenza della pubblica utilità, ma intesa nel senso obiettivo della parola, nonché alla obiettiva equivalenza del corrispettivo della espropriazione; il tutto da esercitare sotto la tutela della Magistratura, garante della giustizia.

All'infuori di codesti pochi e ben individuati casi, la proprietà privata e la libera iniziativa economica non possono trovare — a pena di non essere più — altro limite all'infuori di quelli imposti dei codici comuni, essendo evidente che il diritto di proprietà, come la libertà, o sono o non sono: o si ammettono o si negano; e se si ammettono non debbono subire altri limiti che quelli imposti dalla stessa necessità di preservarle contro tutte le sopraffazioni e i tentativi di spoliazione.

[...]

Dominedò. [...] Ora, in relazione a questa seconda parte del Titolo, vorrei limitarmi ad una constatazione centrale. Non sembra esatto quanto è stato affermato oggi stesso in questa aula, cioè a dire che il testo costituzionale, nel riconoscerne alcuni diritti della personalità umana — il diritto di proprietà sotto il profilo statico e il diritto di libera iniziativa sotto il profilo dinamico — li abbia ad un tempo mutilati per il fatto di aver posto in evidenza così l'inscindibile funzione sociale legata alla proprietà privata come l'inscindibile finalità di pubblico interesse connessa all'iniziativa economica.

Desidero precisare che in tanto noi consideriamo aderente alle esigenze di tutela della personalità umana il riconoscimento del diritto di proprietà e del diritto di libera iniziativa, in quanto queste espressioni della forza creatrice del singolo risultino ad un tempo a vantaggio e al servigio di quella collettività, della quale la personalità fa parte viva, inscindibile e integrale. Lo spirito di questa parte del Titolo finisce, quindi, per essere precisamente quello di determinare un contemperamento fra le esigenze della proprietà e della socialità, dell'individualità e della collettività. Anche le norme sui controlli vogliono ispirarsi a questo concetto fondamentale; anche le norme sul partecipazionismo sono da esso permeate; anche le norme sulla socializzazione e sull'eliminazione dei monopoli finiscono per far capo al criterio, in forza del quale, nel caso in cui l'iniziativa individuale sia inadeguata, verrebbe fatto di ricordare la frase del laburista Morrison, il quale diceva: «Faccia l'iniziativa finché può; intervenga lo Stato quando essa più non può».

Abbia, quindi, l'intervento dello Stato una tale finalità suppletiva o correttiva, acciocché la ragione in vista della quale opera il riconoscimento dei diritti di proprietà e dei diritti di iniziativa sia sempre viva e operante. Poiché, se venisse meno quella ragione, allora, e solo allora, si spiegherebbe un intervento integrativo, rivolto a mantener fermo quel dualismo di tutela, quella contemporanea esigenza di preservare, in modo inscindibile ed organico, i diritti della persona e i diritti della collettività, per giungere a un più equo processo di distribuzione dei beni e ad una più alta giustizia sociale.

Sotto questo angolo visuale, potremmo dire che il progetto di Costituzione finisca per mirare, almeno negli intendimenti — si vedrà in quale modo la lettera risponda allo spirito ovvero sia suscettibile di modificazioni — a una finalità centrale. Nella contesa secolare fra i diritti dell'io e della collettività, si tratta di non dare un riconoscimento esclusivo né all'uno né all'altra, bensì di mirare ad una sintesi unitaria, nel corpo vivo della quale, fuor di ogni sincretismo, sia possibile comporre in armonia i primi e i secondi, potenziando gli uni e gli altri, allo scopo di trarre i maggiori vantaggi possibili, così dal fermento dell'iniziativa come dal senso della socialità. (Approvazioni).

 


 

[i] Il resoconto stenografico riporta erroneamente «30» invece di «38».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti