[Il 12 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue l'esame degli emendamenti agli articoli del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Dobbiamo esaminare l'articolo 36:

«Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero».

A questo articolo sono stati presentati numerosi emendamenti.

L'onorevole Damiani ha proposto di sopprimerlo.

Ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

Damiani. L'articolo 1 della Costituzione dichiara solennemente: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Il lavoro quindi diventa la base granitica della nuova democrazia repubblicana italiana: il lavoro, che è potenza, progresso, conforto, valorizzazione razionale d'ogni energia, è anche pace, educazione, vita e gioia. Il lavoro è il sangue della nazione e del mondo: deve esso rigenerare tutti i tessuti distrutti e lacerati dalla guerra. All'articolo 1 si ricollega il Titolo III del progetto di Costituzione, che è tutto una esaltazione del lavoro e direi che può considerarsi l'apoteosi stessa del lavoro. In questo Titolo si dichiara: Lo Stato tutela il lavoro; lo Stato afferma il principio della solidarietà internazionale del lavoro; celebra il lavoro come diritto e come sacro dovere; difende ed eleva la dignità del lavoratore; assicura l'assistenza sociale per gli inabili e per il lavoratore colpito da infortunio, da malattia, da invalidità, da vecchiaia e da disoccupazione; sancisce la libertà delle organizzazioni sindacali; stabilisce il controllo del lavoro, della proprietà e di ogni altra fonte di ricchezza e di produzione, come pure coordina tutte le attività economiche; favorisce la cooperazione e i consigli di gestione. Quindi, con questo complesso di provvidenze noi vogliamo creare un moto di organizzazione economica e di benessere sociale tale da garantire ai lavoratori una vita conforme alla dignità umana.

Ora noi ci dobbiamo domandare: tutte queste promesse, tutte queste provvidenze lo Stato le realizzerà? Dobbiamo avere fiducia in tutti questi articoli?

Certo noi non possiamo da una parte creare un complesso di norme che suscitano, che generano fiducia e ottimismo, e da un'altra mettere in dubbio che ciò che si promette possa essere realizzato. Mentre tutti gli altri articoli sono esaltativi, costruitivi, incoraggianti e tranquillizzanti, mentre tutto serve a creare una situazione di piena soddisfazione per i lavoratori, non possiamo inserire, in questo insieme di norme positive, una norma depressiva che rappresenta un voto di sfiducia a tutto il resto. Quindi l'articolo 36, che parla del diritto di sciopero, non dovrebbe figurare nella Costituzione, perché lo sciopero non ha più ragione di essere se vengono realizzate tutte le provvidenze previste e promesse. Da tali provvidenze, infatti deriverà un positivo stato di cose che farà cessare le cause che possono determinare il malcontento e quindi lo sciopero. L'articolo 30 dice: «Lo Stato tutela il lavoro», quindi tutela gli interessi dei lavoratori. Questa affermazione è in evidente e stridente contrasto con quella dell'articolo 36 che, in sostanza, dice: «I lavoratori devono tutelare da loro stessi i propri diritti».

In Russia, disse l'onorevole Di Vittorio, non c'è più lo sciopero perché ne mancano le cause (Commenti). E allora perché noi, costituendo questo complesso di norme destinate a regolare il lavoro come fonte prima della vita della Nazione, come base granitica della Repubblica democratica, dobbiamo dire che, nonostante tutto, persisteranno le cause che determineranno gli scioperi, mentre in Russia non esistono più? (Commenti Interruzioni). Il diritto di sciopero io lo riconosco, non lo nego affatto: il diritto di sciopero deve essere mantenuto. Ma dico che esso non mi sembra di carattere costituzionale e penso che dovrebbe essere trasferito alla legislazione ordinaria, che può adattarlo alla situazione contingente che man mano si andrà creando, in modo che i lavoratori siano sempre tutelati, oltre che dai sindacati e dallo Stato, anche dall'esercizio di questo diritto.

Ma, dice l'onorevole Tonello, esiste una classe borghese, una classe che potrebbe tendere a non applicare le leggi dello Stato, così da creare ingiuste condizioni di trattamento, uno stato di disagio delle classi lavoratrici. Allora esse non hanno altra arma che lo sciopero. Se il diritto di sciopero viene sancito nella legislazione ordinaria, è una garanzia sufficiente perché il lavoratore se ne possa servire.

Noi non vogliamo creare una società in cui quello stato di disagio permanga, ma vogliamo lavorare e cooperare, perché siano assicurate ai lavoratori le migliori possibilità di elevazione materiale e morale.

Trasferiamo, dunque, l'articolo 36 alla legislazione ordinaria e la Costituzione guadagnerà in limpidezza, in forza e in armonia.

Presidente Terracini. Anche l'onorevole Rodi, assieme all'onorevole Colitto, ha proposto la soppressione dell'articolo.

L'onorevole Rodi ha facoltà di svolgere l'emendamento.

Rodi. La singolare situazione politica, in cui ci ha messo il dopoguerra, ha fatto sì che lo sciopero sia diventato in Italia un fatto estremamente importante. Ed è importante, sopratutto, nei riflessi della definizione teorica dello sciopero. Poiché sappiamo che lo sciopero è un'arma nelle mani del lavoratore per la tutela dei suoi interessi e della sua dignità, ove il datore di lavoro manifesti il proprio egoismo e contravvenga agli impegni assunti. Ma questa definizione — e l'esperienza lo insegna — si è tradotta in pratica in maniera molto diversa: cioè, in pratica, lo sciopero non è stato e non è un fatto economico e un fatto sociale, ma un fatto politico. Ed oggi, specialmente, possono esservi delle correnti, che sottolineano la necessità dello sciopero per fini politici. La nostra epoca è caratterizzata da una spiccata lotta di carattere sociale, nella quale sono contendenti la borghesia e il proletariato; e questa lotta sociale si spinge anche nel campo economico, poiché in questo campo i due contendenti sono il capitale e il lavoro, che sono in corrispondenza della borghesia e del proletariato. Se non che abbiamo avuto una crisi nel vecchio sistema liberale e per quanto questa crisi sia di carattere evoluzionistico, per quanto essa tenda ad adeguare l'economia liberale ai tempi, specialmente perché questi nostri tempi hanno scontato due grandi guerre, in questa crisi evoluzionistica si è introdotta una nuova ideologia politica, quella comunista, la quale tende a sostituirsi integralmente al vecchio regime liberale.

Senza dubbio, signori, l'idea comunista, se è guardata da un punto di vista ideale, è anch'essa un'idea morale, poiché sappiamo che questa corrente politica si propone la felicità degli uomini attraverso l'abolizione della proprietà e attraverso l'uguaglianza economica. Però questa felicità è pensata dal comunismo materialisticamente e quindi l'idea politica di questo partito è racchiusa tutta in un angusto angolo, che è appunto il presupposto economico.

Questa particolare veduta, questa particolare posizione occupata dal partito comunista, ha fatto sì che esso si trovasse di fronte ad ostacoli insormontabili, ostacoli che sono rappresentati da tutte le forze spirituali che il comunismo non riconosce. E quindi di fronte a questi ostacoli il comunismo ha creduto di poter adoperare la forza, cioè tutte quelle forme atte ad imporre in un modo o nell'altro una determinata ideologia.

Una voce a sinistra. Vi sbagliate in pieno.

Rodi. Può anche darsi che mi sbagli, ma non comprendo come si possa sbagliare, quando queste idee sono state ampiamente diffuse dagli stessi comunisti. (Interruzioni a sinistra).

Se il comunismo non fosse materialista, noi non capiremmo perché in Italia c'è una lotta fra destra e sinistra. (Interruzioni degli onorevoli Gavina e Tonello).

Comunque, ho voluto sottolineare che l'estrema sinistra, essendosi trovata di fronte ad ostacoli di varia natura, ha creduto opportuno ricorrere alla forza per imporre la sua ideologia. (Rumori a sinistra).

Farina. È il fascismo che ricorre alla forza.

Rodi. Qualunque partito che si prefigga di istaurare una dittatura, ricorre sempre alla violenza. (Commenti a sinistra).

Presidente Terracini. Onorevoli colleghi, non interrompano. L'onorevole Rodi espone il suo pensiero e ha diritto di proseguire nello svolgimento dell'emendamento.

Rodi. Siccome ho proposto la soppressione dell'articolo 36, volevo spiegare le ragioni che mi hanno portato a questa conclusione.

Dunque, dicevo, da questo modo di vedere la lotta politica si traggono due conseguenze importanti: la prima è che il Partito comunista ha sentito, naturalmente, la necessità di piantare le sue tende tra le così dette masse lavoratrici, arrogandosi il diritto... (Rumori a sinistra)

Una voce a sinistra. Sono le masse lavoratrici che cercano noi! (Commenti).

Giannini. E noi che cosa siamo, non siamo lavoratori?

Rodi. Io credo che se facciamo dei confronti, si accerterà che da questa parte siamo tutti indistintamente lavoratori, mentre dall'altra non so se si possa dire lo stesso. (Rumori a sinistra).

Qui tutti abbiamo un mestiere, una professione, che abbiamo esercitato e che continueremo ad esercitare. Non so se molti di loro possono dire lo stesso. (Rumori a sinistra Interruzioni).

Presidente Terracini. Onorevole Rodi, la prego di stare nel tema. Non siamo intenti a fare una inchiesta statistica delle professioni dei deputati.

Prego gli onorevoli colleghi di non interrompere.

Rodi. È strano che si debba sospettare che qualcuno di noi non abbia una professione o che non l'abbia sempre esercitata. E non capisco perché soltanto un partito si debba arrogare il diritto di essere il protettore delle masse lavoratrici. È facile capire che oggi nessuno può andare contro gli interessi delle masse lavoratrici. È possibile che voi non comprendiate che tutto il sistema economico, la vita politica stessa del giorno esige che tutti siano amici e tutori di queste masse lavoratrici? (Rumori a sinistra).

Il medio evo è trascorso da tanto tempo. Nessuno può arrogarsi il diritto di dire che le masse lavoratrici oggi abbiano un nemico, nessuno può arrogarsi il diritto di dire che queste masse oggi abbiano un padrone, poiché i congegni economici contemporanei, il progresso scientifico, il progresso del popolo stesso, ci ha messo nelle condizioni di formare ormai una classe unica tutta destinata a tutelare l'economia della Nazione. E quando voi dall'estrema sinistra sostenete che in Italia vi sono due classi e sostenete che queste classi sono in lotta fra loro, ebbene, signori, voi siete in errore. In Italia c'è una perfetta collaborazione di classi e siete voi che create l'ambiente e l'atmosfera per la lotta. (Applausi a destra Rumori a sinistra).

Presidente Terracini. Onorevole Rodi, forse è giunto il momento che lei ci parli dell'articolo di cui propone la soppressione. Son già passati dieci minuti.

Rodi. Chiedo scusa. Ad ogni modo avrei già finito se non fossi stato interrotto.

Dunque la seconda conseguenza è questa: che il Partito comunista sente la necessità di avere una supremazia nelle organizzazioni sindacali, appunto perché... (Interruzioni a sinistra).

Presidente Terracini. Onorevoli colleghi, lascino parlare l'onorevole Rodi. Sino a quando non lo lasceranno parlare egli non potrà esporre il suo punto di vista.

Rodi. Dicevo che è quello il partito che ha la necessità di avere la supremazia nell'organizzazione sindacale per imporre alla Nazione determinati movimenti, uno dei quali, uno dei più importanti, è lo sciopero che come ho già detto prima, non è né di natura sociale, né di natura economica, ma di natura strettamente politica. E del resto l'esperienza insegna che dopo il dissolvimento del sistema medioevale, cioè da molti secoli, queste forme di ribellione hanno avuto carattere politico. Ormai è comprovato che ogni fatto economico è, prima di tutto, fatto politico, ed è chiaro quindi che, attraverso lo sciopero, cui si vuol dare carattere particolare di rivendicazione economica, si deve raggiungere un determinato fine politico, in modo che il partito che si occupa e si preoccupa della costante organizzazione degli scioperi, evidentemente si propone un fine politico; e poiché in Italia questo partito organizzatore di scioperi è esattamente il partito comunista...

Roveda. Questo è falso; e si deve smetterla! Siete speculatori della fame dei lavoratori!

Presidente Terracini. Prosegua, onorevole Rodi.

Rodi. Col permesso del suo partito, onorevole Presidente. (Si ride).

Presidente Terracini. Lei chiama troppo in causa il partito comunista!

Una voce a sinistra. Sono i lavoratori che scioperano e non il partito che li fa scioperare.

Rodi. Comunque io torno ad asserire che il partito comunista è l'unico partito che organizzi gli scioperi, e sono i comunisti i maggiori sostenitori dello sciopero!

Pastore Raffaele. Ma sono i lavoratori stessi!

Presidente Terracini. Prosegua onorevole Rodi!

Roveda. Approfittate di tutte le occasioni per speculare e poi venite qui a fare i padri Zappata!

Rodi. Nessuno può negare che il partito comunista organizzi in Italia gli scioperi! (Rumori a sinistra).

Presidente Terracini. Onorevole Rodi, ciascuno può motivare, nel modo che ritiene più opportuno le proprie tesi, ma tuttavia occorre restare sempre nell'ambito del tema generale da svolgere. Sinora, per quanto lei a un certo momento abbia nominato lo sciopero, le assicuro che non ho compreso in qual modo volgerà a conclusione questa sua esposizione. Ci parli dello sciopero e non del partito comunista, che avrà anche tutte le colpe che a lei piace addebitargli, ma non è ora in discussione.

Rodi. Per me la questione dello sciopero è importante, perché se voi proponete l'instaurazione di una dittatura la quale... (Interruzione dell'onorevole Fedeli Armando).

Presidente Terracini. Onorevole Fedeli, la prego non interrompa. Onorevole Rodi, prosegua.

Rodi. Ad ogni modo, lo sciopero non è certamente di natura costituzionale ed io non vedo la ragione per la quale debba entrare nella Costituzione. Io suppongo che lo sciopero ormai non riguardi più i rapporti di lavoro, ma sia soltanto un mezzo ed un espediente politico. Ed in un Paese civile, quale è il nostro, i rapporti ed i conflitti di lavoro devono essere regolati dalla legge.

Per tutte queste ragioni, propongo la soppressione dell'articolo 36. (Applausi a destra Commenti a sinistra).

Presidente Terracini. L'onorevole Caccuri ha presentato i seguenti emendamenti:

«Sopprimerlo.

«Qualora la soppressione non sia approvata, sostituirlo col seguente:

«Tutti i lavoratori hanno, per motivi economici, diritto di sciopero, nei limiti stabiliti dalla legge».

Ha facoltà di svolgerlo.

Caccuri. Onorevoli colleghi, con il mio emendamento non intendo contestare in modo assoluto il diritto di sciopero, anche perché mi rendo conto che un divieto penale sarebbe incompatibile con il rinnovato clima di libertà a cui è pervenuto il nostro Paese. È innegabile, però, che il diritto di sciopero, così come è stato formulato nel breve, direi drastico articolo 36, che nella sua formulazione generica non consente alcuna limitazione né per quanto riguarda le condizioni di esercizio di tale diritto, né per quanto riguarda i settori di attività in cui può esercitarsi, non può essere accettato. È necessaria, cioè, una precisa regolamentazione, sia nei casi di sopruso, sia per conciliare il rispetto della libertà del cittadino, in materia del lavoro, con le legittime preoccupazioni del danno che da questa lotta profonda può venire.

Non bisogna dimenticare, onorevoli colleghi, che se in passato lo sciopero è stato un efficace strumento di rivendicazioni economiche, attraverso cui i lavoratori hanno progredito nelle loro condizioni di lavoro migliorandole, di fronte ad un regime capitalistico insensibile alle loro esigenze e ad uno Stato addirittura agnostico in materia di lavoro, spesso però è stato adoperato come un'arma politica, di notevole influenza sugli organi direttivi dello Stato. Ora, è evidente che in questa forma lo sciopero non assume più quella sua funzione economico-sociale, e non può trovare per conseguenza alcuna legittimazione. A mio avviso, non va in nessun caso consentito lo sciopero politico, poiché è evidente che in una società democratica, in cui tutte le rappresentanze già possono esprimere, attraverso gli organi costituzionali, la propria volontà, tale forma di sciopero esula dalla natura e dai compiti dell'azione sindacale. E ritengo altresì che non vadano neppure legittimate quelle altre forme degeneri del conflitto collettivo, che siano dirette a conseguire scopi affatto estranei ai patti del lavoro: gli scioperi, ad esempio, per impedire il licenziamento legittimo di un compagno o per imporre il licenziamento illegittimo di un capo non gradito; i cosiddetti scioperi cioè di solidarietà e di protesta.

Ma anche lo sciopero economico va regolato.

È risaputo, invero, che innanzi tutto lo sciopero, anche per soli motivi economici, può riguardare l'interpretazione di clausole o la modificazione di contratti in vigore; ed è evidente che quando il dibattito dalle condizioni di lavoro si inserisce nel corso di rapporti già in atto, e le parti, per sostenerlo, ricorrono alla astensione collettiva delle prestazioni, questa astensione non si può qualificare che come una grave forma d'inadempimento, che rende lo sciopero indubbiamente illegittimo.

Sostenere in questo caso il diritto illimitato di sciopero significherebbe sconvolgere ed abbattere l'edificio del diritto delle obbligazioni, significherebbe legittimare una scissione unilaterale dei contratti di lavoro e la violazione aperta della legge.

L'astensione dalla prestazione, dunque, può essere giuridicamente legittima soltanto se avviene durante il dibattito contrattuale per una nuova regolamentazione collettiva, per fissare cioè nuove condizioni di lavoro.

Sennonché, anche in questo caso, non bisogna dimenticare il danno che deriva ai terzi da questa forma di coazione contrattuale; non bisogna dimenticare il turbamento causato dallo sciopero sul ciclo produttivo. E questo è senza dubbio il lato più grave della questione, poiché è innegabile che l'arresto dell'attività produttiva non avviene mai senza che ne soffrano non solo i datori di lavoro, non solo e non tanto i produttori, quanto la Nazione intera.

Ora, è evidente, onorevoli colleghi, che di fronte alla gravità del danno che dallo sciopero può derivare alla collettività, bisogna esperimentare, prima, tutte le vie possibili per un accomodamento pacifico. E fra le soluzioni più idonee, per comporre i contrasti tra i fattori della produzione, è indubbiamente l'azione del pubblico potere, che non può starsene spettatore indifferente tra i conflitti del lavoro, e deve apprestare la formulazione giuridica dei rimedi nella elaborazione della legislazione, rimedi che tanto più vengono ad aumentare e a perfezionarsi, in modo da conferire allo sciopero il carattere di mezzo veramente eccezionale, quando si riconosce costituzionalmente — così come si è riconosciuto — l'importante funzione delle associazioni sindacali e si inserisce il contratto collettivo, con sostanza di norma giuridica, nell'ordinamento dello Stato.

Non si tratta pertanto, onorevoli colleghi, di negare il diritto di sciopero, ma di inquadrarlo nella realtà sociale e disciplinarlo secondo un criterio di solidarietà che deve impedire il sovrapporsi dell'interesse personale o di categoria a quello della collettività, secondo i principî fondamentali, affermati dallo stesso progetto in ordine al lavoro.

Non si tratta, ripeto, di negare il diritto di sciopero, né si tratta di paternalismo, come ha detto l'onorevole Di Vittorio, ma si tratta di far sì che, come bene è stato osservato, lo sciopero cessi dal costituire una esplosione violenta di forza per diventare l'esercizio legittimo di una facoltà disciplinata dall'ordinamento giuridico.

Né la regolamentazione del diritto di sciopero può suonare sfiducia verso la classe operaia, o costituire menomazione della libertà dei lavoratori, e non so proprio comprendere la diffidenza manifestata da alcuni verso l'intervento dello Stato nei rapporti sociali, dello Stato che detta norme in tutti i rapporti e che evidentemente non può e non deve rinunziare, come bene ebbe a rilevare l'onorevole Fanfani, alla sua funzione di coordinamento e di armonizzazione di tutti i fenomeni economici contraddittori.

Ritengo, perciò, che o non si debba far menzione nella Carta costituzionale del diritto di sciopero, così come si è praticato dalla maggior parte delle Costituzioni, e non si debba farne menzione anche per evitare che la disposizione possa essere interpretata come rinunzia della Repubblica a rendere giustizia a tutti in materia di lavoro; o se tale diritto di sciopero si vuol proclamare, sia stabilito almeno il rinvio esplicito ad una legge che ne regoli l'esercizio, perché, evidentemente, non può aversi una precisa regolamentazione nella Costituzione.

Si è detto, al riguardo, che fosse necessario inserire nella Costituzione il diritto di sciopero, perché, dopo un periodo ventennale, durante il quale lo sciopero è stato vietato con gravi sanzioni, ne appariva opportuna l'esplicita affermazione per sottolineare il ritorno all'antico diritto.

Ora, onorevoli colleghi, che sia opportuno non considerare lo sciopero come reato, possiamo essere tutti o quasi tutti d'accordo, ma tale esclusione ben si raggiunge con una norma che dica: «Lo sciopero non costituisce reato», e non con una affermazione del diritto di sciopero in sede costituzionale, che avrebbe un significato ben più vasto della semplice esclusione del reato nello sciopero stesso, poiché si verrebbe ad attribuire a tutti i lavoratori un diritto soggettivo, con rilevanti conseguenze giuridiche anche di diritto privato; un diritto che non potrebbe essere comunque limitato o sospeso, senza rendere il provvedimento incostituzionale, neppure se imposto da future situazioni impreviste, o da gravi contingenze particolari; un diritto che non solo renderebbe illecita qualsiasi convenzione individuale o collettiva che cercasse di limitarlo o di prevenirlo, ma che verrebbe a porre fuori della legge quelle varie forme di arbitrato per le controversie di lavoro, che vanno sempre più facendosi strada in tutti gli ordinamenti progrediti.

In una parola, onorevoli colleghi, l'astensione collettiva dal lavoro può costituire un diritto dell'individuo, nel senso cioè che il fatto non sia vietato da disposizioni di legge.

Presidente Terracini. Onorevole Caccuri, la prego: è trascorso il quarto d'ora regolamentare della lettura.

Caccuri. Ho finito, onorevole Presidente. Sembra però eccessiva l'inclusione di esso fra le norme giuridiche fondamentali dello Stato; fra quelle norme cioè che lo Stato pone a base del suo ordinamento e delle quali deve perseguire la realizzazione ed assicurare la rigorosa tutela.

Presidente Terracini. Segue l'emendamento dell'onorevole Zotta:

«Sopprimerlo.

«Subordinatamente, sostituirlo col seguente:

«L'esercizio del diritto di sciopero è subordinato all'esperimento dei mezzi di conciliazione o di arbitrato, che saranno stabiliti dalla legge.

«È vietato lo sciopero dei pubblici impiegati e degli addetti a pubblici servizi.

«Il diritto di sciopero potrà essere limitato quando sia necessario nel superiore interesse della collettività».

L'onorevole Zotta ha facoltà di svolgerlo.

Zotta. Ho chiesto in via principale la soppressione dell'articolo 36. Mi affretto a precisare che la soppressione non può significare per me l'abolizione, ma solo il rinvio alla legislazione ordinaria. La verità è che io vorrei trovare una formula la quale da una parte garantisca integralmente la tutela dei diritti del lavoro che oggi si affida allo sciopero, cioè ad un mezzo di autodifesa; dall'altra renda possibile la conservazione della pace sociale, alla quale naturalmente mira ogni convivenza civile.

Io vedrei distinta in tre fasi l'evoluzione dei diritti del lavoro.

Nella prima, il lavoratore si trova da solo a competere col datore di lavoro sul piano della libertà contrattuale, in condizioni cioè di inferiorità per la indiscussa preponderanza dell'altro contraente il quale, essendo l'unico detentore del capitale, finisce col diventare l'arbitro del rapporto contrattuale, con quelle sole variazioni che possono essere suggerite dalla legge economica relativa ai rapporti tra la domanda e l'offerta di lavoro.

È la fase questa della servitù del lavoro, ridotto a motivo di avvilimento e di degradazione. L'uomo è considerato come una macchina di consumo e di produzione, un complesso di muscoli e di nervi, da cui scaturisce una energia economicamente valutabile, una merce che, come tutte le merci, è sottoposta soltanto alla legge della domanda e dell'offerta.

Oggi noi siamo invece alla seconda fase, alla fase cioè dell'organizzazione del lavoro in categorie, alla fase della tutela dei diritti del lavoro ma, nel medesimo tempo, della lotta sociale. E il rapporto di forze adesso, di fronte alla prima fase, è indubbiamente mutato perché, in contrapposto alla potenza del capitale, vi è la potenza del numero, valorizzata attraverso la categoria e la possibilità di stipulazione del contratto collettivo. Sotto questo aspetto il diritto di sciopero rappresenta, come è stato osservato, un mezzo efficace di integrazione della dignità umana. Il lavoratore è persona umana, essere intelligente libero che ha tutta una vita spirituale accanto a quella materiale. Il lavoro è una forza, che procede essenzialmente dall'ordine morale. E poiché noi riteniamo che le cose umane, e quindi anche lo Stato, siano ordinate a vantaggio della persona, noi consideriamo questa evoluzione del concetto del lavoro, come la più idonea per l'affermazione della personalità umana nell'ordine voluto da Dio.

Sotto questo aspetto, abolire il diritto di sciopero costituisce una lesione della integrità della persona umana, un ritorno alla servitù del lavoro.

Ma, onorevoli colleghi, se questa seconda fase rappresenta indubbiamente una conquista nel campo del lavoro e della civiltà, non bisogna considerarla sub specie aeternitatis, come una posizione insuperabile, un progresso insuscettibile di miglioramenti.

Lo sciopero resta sempre un mezzo di autodifesa. Come ogni imposizione unilaterale e soggettiva di pretesa, specialmente quando è accompagnata, come suole avvenire nel nostro caso, da un apparato di forza e di coercizione, rappresenta un attentato alla sicurezza e all'ordine pubblico; e, se legittimata nell'ordinamento giuridico, un pericolo permanente per la tranquilla convivenza sociale.

Il diritto penale considera l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni come un reato. Nel campo del diritto privato, il passaggio dallo stato di barbarie a quello di civiltà è segnato precisamente dall'adozione obbligatoria del giudice.

Qui la questione si pone in questi termini: è possibile avere un giudice per codesti conflitti? Ma v'è un'altra domanda più importante, la cui risposta, se affermativa, può giovare ad eliminare molte perplessità. Possiamo cioè noi, per la composizione del collegio, rispecchiare — e questa è la nostra preoccupazione — fedelmente il rapporto attuale di forze tra l'elemento capitale e l'elemento lavoro, in maniera che vi sia quella dovuta rappresentanza nel collegio stesso che deve risultare quando si tiene presente che l'ordinamento giuridico che noi andiamo costituendo si fonda sul principio cardinale che la Repubblica è fondata sul lavoro?

A me sembra che possa rispondersi affermativamente all'una e all'altra domanda.

Onorevoli colleghi, nei primi articoli della nostra Costituzione noi abbiamo approvato un precetto elevatissimo: abbiamo detto che non vogliamo più far guerre con nessuno. Indubbiamente allora abbiamo pensato di risolvere ogni possibile conflitto in via conciliativa o a mezzo di arbitrati, e non con l'uso delle armi. E quando abbiamo detto questo, non l'abbiamo fatto soltanto in un momento di stanchezza, per un bisogno momentaneo di sosta dopo il lungo travaglio della guerra, ma per rispondere all'anelito insopprimibile del nostro popolo il quale, attratto da una luce superiore di amore e di pace, condanna le forme della violenza, lo spirito dell'odio e della lotta come forme deteriori, come espressione di inciviltà e di barbarie.

Ora, com'è che noi giungiamo a questa forma di perfezione massima da concepire la possibilità di dirimere ogni contesa internazionale, mentre legittimiamo nell'interno la lotta tra cittadini dello stesso Stato? Bandita la guerra fra i popoli, riconosciuta quella fra gli uomini? (Rumori a sinistraApplausi al centro).

E allora, pace fuori e guerra in casa? Non è possibile, onorevoli colleghi, trovare un giudice, un tribunale del lavoro costituito (io l'ho messo come premessa, questo) costituito in maniera da dare la dovuta rappresentanza a quei rapporti attuali di forza fra l'elemento capitale e l'elemento lavoro, e cioè come espressione genuina di un ordinamento giuridico, che si fonda sul lavoro?

Noi che abbiamo avuto fiducia in un giudice internazionale, la cui figura si confonde nella evanescenza di un sogno, non vogliamo avere fiducia in un giudice creato dalla realtà della nostra vita sociale giuridicamente organizzata e disciplinata?

Presidente Terracini. Onorevole Zotta, mi permetta di osservarle che ha trattato finora soltanto il primo punto del suo articolo sostitutivo ed ha tuttavia già superato il tempo regolamentare.

Zotta. Indubbiamente l'argomento è tale che richiederebbe molto sviluppo ed io mi accorgo di essere ancora sulla soglia.

Presidente Terracini. Veda di superarla. (Commenti).

Zotta. Intendevo superare questa soglia e un'altra ancora, onorevole Presidente. Comunque, io dicevo questo, onorevoli colleghi: io credo che si possa raggiungere l'accordo, dato il medesimo anelito che noi e voi abbiamo. Forse i tempi non sono ancora maturi. Ma non neghiamo questa possibilità di evoluzione per l'avvenire. Ecco perché io proponevo in linea principale che dello sciopero si parlasse nella legge ordinaria e non nella Costituzione, appunto per non cristallizzare un momento particolare, transeunte, direi patologico, in un documento che è destinato ad aver vita per decenni.

È questa la terza fase dell'evoluzione dei diritti del lavoro, la quale si concilia, armonizzandosi, con la pace sociale.

Mi affretto a spiegare i motivi dell'emendamento sostitutivo che io presento in forma subordinata ed accenno soltanto al primo comma rimettendomi per gli altri due a quello che dirà il mio amico, onorevole Gabrieli. Esso suona così: «L'esercizio del diritto di sciopero è subordinato all'esperimento dei mezzi di conciliazione o di arbitrato, che saranno stabiliti dalla legge».

Il raffronto con gli istituti giuridici internazionali, per noi che attendiamo al perfezionamento di un ordinamento costituzionale, ci può essere di guida, come lo è sempre lo studio del diritto internazionale nel campo della dottrina generale del diritto.

Noi siamo alla seconda fase: quella della lotta sociale. Come gli Stati nei rapporti internazionali; forse in un grado inferiore. Il diritto internazionale generale e particolare contempla mezzi di conciliazione e di arbitrato per evitare che i conflitti tra gli Stati abbiano a culminare nella lotta bellica. E quando, nonostante tutto, la guerra è scoppiata, circonda il conflitto con un complesso di norme giuridiche, le quali valgono e fra i belligeranti e fra i belligeranti e coloro che alla guerra non hanno aderito, cioè i neutrali.

Sotto questo aspetto si è detto che la guerra, per le cause che possono determinarla o per i rapporti che implica, è un istituto giuridico. Non si può dire altrettanto dello sciopero. Nessuna legge prevede una procedura di conciliazione e di arbitrato, disciplina lo svolgimento del conflitto, garantisce la libertà e la pace di coloro che non intendono partecipare alla lotta.

Quasi tutte le legislazioni si sono orientate sul principio che il diritto di sciopero e di serrata è sospeso per tutto il tempo che un conflitto collettivo del lavoro è sottoposto all'arbitrato o alla decisione di un tribunale del lavoro.

In questo senso dispongono le leggi: germanica, austriaca, boliviana, cilena, colombiana, cubana, danese, spagnola, finlandese, inglese, greca, ungherese, lettone, norvegese, neozelandese, polacca, romena, svedese, venezuelana.

Si è detto che noi stiamo formando la Costituzione del lavoro. Io direi che noi abbiamo dato mano alla Costituzione del lavoro e della pace. Noi abbiamo condannato la guerra in uno dei primi articoli della Costituzione per un bisogno di pace, di tranquillità, di ordine. Solo quando gli uomini si abituano ad una vita di reciproca comprensione e di pacifica convivenza nella propria casa, possono portare nei rapporti con le altre case il medesimo spirito di serenità e di amore. Ma se nell'interno la lotta si erige a sistema, si perpetuano per l'ordine interno e per i rapporti internazionali le cause psicologiche per nuovi squilibri e sconvolgimenti. È nella coscienza stessa di ogni convivenza sociale l'aspirazione alla pace. Tutti gli istituti, creati da qualunque ordinamento giuridico, mirano ad un fine: ne cives ad arma veniant. Vogliamo la pace? Eccola, nelle parole di S. Tommaso: «Tranquilla convivenza nell'ordine».

Convivenza nell'ordine, convivenza nella tranquillità.

Perché sia un ordinamento giuridico, che segni progresso e civiltà, questa deve essere effettivamente la Costituzione del lavoro e della pace. (Applausi).

Presidente Terracini. Gli onorevoli Quintieri Quinto e Corbino hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero e di serrata è riconosciuto e disciplinato dalla legge».

L'onorevole Quintieri ha facoltà di svolgere l'emendamento.

Quintieri Quinto. Questo emendamento ha un duplice scopo: il primo si potrebbe definire di equilibrio, oserei quasi dire di eleganza giuridica, perché non sembra giusto che quando si concede un diritto ad una delle parti contraenti all'altro contraente questi stessi diritti si neghino. Datore di lavoro e prestatore d'opera, per noi, sono due contraenti da mettere su piede di assoluta parità; sono per noi due lavoratori egualmente necessari alla produzione che vanno messi in condizione di svolgere nel modo migliore i loro compiti. Se l'uno di essi ha per legge il diritto di sospendere la prestazione liberamente pattuita, di sciogliersi dall'obbligo assunto, ci sembra non soltanto equo, ma anche conveniente nell'interesse collettivo, che l'altro pure in linea di massima abbia la stessa facoltà. Ammettiamo subito che le due posizioni, quella del datore di lavoro e del lavoratore, non sono uguali e riconosciamo egualmente che un diritto di serrata, interpretato così in astratto ed in forma indeterminata e generica non potrebbe assolutamente reggere. Perciò ci siamo riferiti ad una legge che disciplini con le modalità più opportune sia il diritto di sciopero che quello di serrata. C'è poi un secondo motivo che ci ha consigliato di proporre questo emendamento all'articolo 36. Infatti le condizioni di maggiore o minore vantaggio che si fanno ad una qualsiasi categoria di persone hanno immediatamente ed automaticamente, per noi, il loro correttivo economico. Se si peggiora sotto un dato aspetto la condizione del datore di lavoro, questi, almeno fino a quando si resta nel campo dell'iniziativa privata, si sforzerà di ricuperare da qualche altro lato lo svantaggio che gli si è arrecato. C'è un certo livello minimo il quale comprende tutto il complesso di risultati materiali e morali che il datore di lavoro può sperare dalla sua azione ed al disotto di questo minimo l'iniziativa privata si ferma e non funziona più.

Se si toglie all'imprenditore, al datore di lavoro, all'industriale, un mezzo di difesa, se lo si espone ad un rischio, occorre che egli trovi compenso a questo svantaggio in altri fattori di sicurezza o con utili maggiori. L'iniziativa privata per agire efficacemente, per sviluppare l'attività economica, ha bisogno di un insieme di allettamenti e di sicurezza. La condizione del prestatore d'opera, dell'operaio, del bracciante, dell'impiegato, sarà veramente buona quando ci saranno più offerte di impiego che lavoratori in cerca di occupazione: è ciò che in questo momento si sta verificando in molti paesi d'Europa ed è purtroppo una condizione che da oltre un ventennio — quasi dal '27 — i nostri lavoratori hanno dimenticato. Sono sempre in due a bussare ad un'unica porta. Questa è la disgrazia maggiore che possa capitare a chi domanda di lavorare, non solo per la umiliante e triste necessità di tentare tutte le strade al fine di trovare una occupazione, ma perché sarà sempre il lavoro di uno che dovrà dare da mangiare a due: e questo sarà inevitabile con qualunque sistema ed organizzazione economica. Tutto ciò che può incoraggiare, sviluppare la produzione ed assorbire queste forze di lavoro, da noi ancora così incompletamente utilizzate, ci pare sia di una importanza massima. Non riteniamo dunque che si possa impedire, con una disposizione di massima, la facoltà di sciopero da parte del lavoratore, né quella di serrata da parte dell'imprenditore, ma siamo convinti che queste facoltà vanno disciplinate, limitate e corrette dalla legge per evitare le conseguenze antisociali di tutti gli eccessi e di tutti gli abusi, eccessi ed abusi che finirebbero col discreditare agli occhi del paese il diritto stesso che si vuole tutelare. In questo senso abbiamo cercato di portare un correttivo alla formula troppo ampia ed indeterminata proposta dalla Commissione.

A noi pare che non sarebbe vantaggioso per la classe lavoratrice il mettere nella Costituzione un insieme di clausole, il cui valore dovesse mostrarsi, nell'avvenire, del tutto teorico e privo di valore pratico, ma che intanto, in un primo momento, possano costituire causa di arresto o di depressione dell'attività produttiva e della organizzazione del lavoro. (Applausi).

Presidente Terracini. L'onorevole Tumminelli ha proposto di sostituire l'articolo 36 col seguente:

«Il diritto di sciopero e di serrata è subordinato all'arbitrato di una Commissione paritetica presieduta da un magistrato».

L'onorevole Tumminelli ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

Tumminelli. Io voglio pensare per assurdo che veramente lo sciopero possa non essere un'arma politica. Voglio considerare lo sciopero esclusivamente come strumento di lotta tra capitale e lavoro. Vediamo quali cause possono determinare lo sciopero e quali le conseguenze.

È ovvio che lo sciopero costituisce l'ultimo momento del conflitto tra le parti in contesa ed ha conseguenze economiche che si ripercuotono non solo sulle classi lavoratrici, ma, in talune circostanze o contingenze (quando lo sciopero, come è accaduto molto spesso, è generale), su tutta la nazione.

Ed allora, se lo sciopero ha lo scopo di giungere all'appagamento d'una nuova esigenza del lavoro (in una determinata crisi della società o in un determinato momento, in cui il carovita o altri elementi possano determinare un mutamento delle condizioni precedentemente accettate), è ovvio che esso, quando non abbia prima sperimentato l'arbitrato, costituisce un danno reale ed è metodo in antitesi all'obiettivo che si propone. Per questo, prima di giungere alla frattura del rapporto di lavoro ed alla interruzione del lavoro, e quindi della produzione, che è fine ultimo e definitivo tanto del capitale che del lavoro, prima di giungere ad un trauma, che investe non soltanto la categoria diciamo, padronale, ma la stessa categoria operaia, bisogna ricorrere all'arbitrato; arbitrato costituito dai rappresentanti delle parti, sotto la presidenza d'un magistrato, o di un tribunale deliberatamente creato a questo scopo.

Ora, non si vede la ragione di rinunziare a quest'arma pacifica, che, peraltro, costituisce una tutela perenne della categoria lavoratrice, in quanto, in qualsiasi momento, ad ogni svolta del progresso, e quindi non soltanto nella contingenza d'una crisi occasionale, ma in tutte le fasi del progresso, è strumento vigile per l'aggiornamento delle condizioni economiche e del rapporto di lavoro.

Orbene, non soltanto per questo un tribunale arbitrale è utile, ma anche per il fatto che praticamente lo sciopero è arma d'una esclusiva categoria di lavoratori. Gli impiegati, i funzionari, i lavoratori del pensiero, soffrono gravi disagi economici e respingono lo sciopero, in quanto ripugna non soltanto alla loro educazione, ma anche alla loro forma mentale. Queste categorie di lavoratori intellettuali verrebbero veramente tutelati e difesi se i loro problemi potessero essere risoluti tempestivamente in sede di arbitrato.

Questa nostra Carta costituzionale si fonda su premesse implicite pessimistiche; di qui i vincoli, le limitazioni, le costrizioni. Nel caso dell'articolo 36 è prevista come prassi normale del rapporto di lavoro la violenza, mentre dovremmo preoccuparci di costruire qualche cosa di solido sull'amore.

L'arbitrato è conciliazione, appaga interamente le esigenze di tutela del lavoratore, tanto del braccio come del pensiero e, ad un tempo, evita alla Nazione disordini e speculazioni politiche.

Orbene, ammesso che questo arbitrato possa ad un certo punto fallire, ammessa anche questa ipotesi, allora si ricorrerà all'arma dello sciopero, e lo sciopero sarà giustificato e ammesso. Ma prima di ricorrere allo sciopero, prima di interrompere il lavoro, prima di venire ad una conclusione drastica del conflitto, si corrano tutte le strade della conciliazione che sono proprie dell'arbitrato. Ammesso infine che il diritto di sciopero debba essere sancito nella Carta costituzionale, non si vede la ragione perché non si debba sancire il diritto di serrata. I termini sono due. Quindi non si può accettare il diritto da una parte e negare il diritto dall'altra. Sono di avviso che questo articolo possa essere soppresso ed affidato il suo contenuto alla legislazione ordinaria. Così come è stato formulato esso può essere pregiudizievole ai futuri rapporti fra capitale e lavoro. Per questo, qualora venga respinta la soppressione dell'articolo, come è proposto da altri emendamenti, insisterò perché il mio emendamento sia posto in votazione.

[...]

Presidente Terracini. Riprendiamo la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

L'onorevole Gabrieli ha presentato il seguente emendamento.

«Sostituirlo col seguente:

«I lavoratori hanno diritto di sciopero nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge. Lo sciopero è vietato al personale addetto ai pubblici servizi».

Ha facoltà di svolgerlo.

Gabrieli. Onorevoli colleghi, brevemente dirò che la posizione del problema dello sciopero si riassume in tre termini: 1°) la Costituente deve decidere se in questa sede va dichiarato il diritto di sciopero; 2°) ammesso anche che il diritto di sciopero, come io ritengo, debba essere dichiarato in sede costituzionale, se deve essere rinviata alla futura legislazione la disciplina di esso; 3°) se tale diritto deve essere esteso a tutte le categorie dei cittadini, qualunque sia la loro funzione, oppure deve essere limitato per talune categorie che siano in rapporti diretti con lo Stato.

Signor Presidente, poiché i colleghi hanno già portato la loro esperienza sulla questione, cercherò brevemente di rispondere a questi quesiti.

Secondo me, il diritto di sciopero va dichiarato in sede di Costituzione. Questa Costituzione che sorge dopo due guerre sanguinose, che viene dopo un secolo che fu detto il secolo del lavoro — e da un grande scrittore, il secolo dello sciopero — non può passare sotto silenzio quell'arma di lotta attraverso la quale i lavoratori, e gli operai specialmente, hanno acquistato la coscienza della loro forza contro la classe padronale, che ha cessato di considerarli come merce e come macchine da lavoro. E le classi padronali si sono finalmente assise ad un comune tavolo per negoziare con loro in piena libertà e parità. Queste sono conquiste di indole morale, oltreché d'indole materiale, che non vanno taciute in una Costituzione, la quale, mentre dichiara che la Repubblica è fondata sul lavoro, mentre dichiara che il lavoro è la prima forza sociale, non deve tacere quale fu l'arma che portò il lavoratore a questo grado di civiltà e di emancipazione sociale.

Ed allora, o signori, se questo è, se lo sciopero, secondo la comune accezione giuridica e sociale, non è che la sospensione collettiva concertata del lavoro, ossia non è che l'esercizio di un diritto di libertà, noi, secondo questi postulati, siamo favorevoli, poiché sono favorevoli la morale cattolica e la morale cristiana. È di ieri lo scritto di un autorevole rappresentante della civiltà cattolica, il quale si afferma nettamente favorevole allo sciopero così concepito, come estrinsecazione, cioè, di un diritto sano del lavoro nelle forme civili.

Ed allora deve essere affermato il diritto di sciopero. Ma se deve essere affermato, onorevoli colleghi, deve essere lasciato in questa formula vaga, indeterminata, nella Costituzione, oppure si deve provvedere alla sua regolamentazione? Io ritengo che la futura regolamentazione dello sciopero debba essere prevista e rimandata al futuro legislatore, perché — onorevole Di Vittorio, non si scandalizzi — il legislatore ha sentito il diritto ed il dovere di regolare con delle norme nel Codice penale la legittima difesa, ossia l'azione di colui che respinge un ingiusto aggressore deve essere motivata in modo che possa prodursi la completa discriminazione davanti al diritto e davanti alla morale. Se questo è, se il diritto più sacro della persona, il diritto più naturale è soggetto ad una regolamentazione, qual è quella che riguarda la legittima difesa, anche il diritto di sciopero, inteso nel senso che ho chiarito, va rimandato al futuro legislatore per essere disciplinato.

E perché, o signori, deve essere fatto questo? Per tutelare la libertà del lavoro, di cui lo sciopero è una manifestazione morale, oltre che giuridica, di quelli che non vogliono aderire allo sciopero dei loro compagni. Così fu sancito nella tradizione e nella letteratura giuridica francese, inglese, italiana. La categoria dei lavoratori che non volesse aderire e partecipare allo sciopero che gli altri compagni hanno proclamato, ha diritto di veder rispettata questa autonomia. È quindi la libertà dei lavoratori che va garantita anche nei confronti delle classi padronali, perché il diritto del lavoratore si deve esprimere in forme pacifiche ed ordinate e non si deve permettere che la minaccia, la violenza morale, in occasione ed in vista dello sciopero, si possa esercitare a danno di chi non vuole scioperare.

Per queste ragioni dobbiamo preoccuparci sin d'ora degli sviluppi futuri dello sciopero, rimandando al futuro legislatore la legislazione e la disciplina di questa materia, perché sia regolata la libertà di lavoro degli altri lavoratori, che allo sciopero non vogliono partecipare.

Ed allora, possiamo dire che la libertà del lavoratore e il diritto di sciopero erano implicitamente riconosciuti, onorevoli colleghi, dalla legislazione che ci ha governato fino al 1922, cioè fino all'arrivo del fascismo. Io vorrei ricordare le parole del più grande criminalista italiano, Francesco Carrara, che proclamava, nel suo immortale «Programma», che era un merito del Codice Toscano aver abolito, tra gli altri delitti, quello dello sciopero; e quando il marchese di San Giuliano, nel 1884, per incarico del Governo, redasse una relazione che presentò alla Camera dei Deputati, per illustrare la cancellazione del delitto di sciopero, Francesco Carrara poteva proclamare che questa relazione era già stata anticipata dal Codice Toscano che egli in quelle pagine immortali ha in maniera così sublime commentato ed illustrato per tutti gli studiosi del mondo.

Il diritto di sciopero era quindi già implicitamente contenuto, amici dell'estrema destra, nella nostra legislazione e l'averlo oggi richiamato ha un significato morale, perché ratifica la conquista del lavoro italiano.

Un'ultima parola, signor Presidente, ed ho finito. Hanno, i pubblici impiegati, diritto di sciopero? Io ritengo di poter rispondere con serena coscienza che non hanno questo diritto.

Laconi. Non sono lavoratori anche quelli?

Gabrieli. Ipocrisie! I pubblici impiegati sono lo Stato stesso, così come fu detto alla Camera francese quando venne in discussione questa questione. Sono lo Stato e si identificano con esso: riproducono e detengono l'autorità dello Stato, e quindi se gli ordinamenti giudiziari e i pubblici poteri — prefetti e questori — dovessero scioperare, per dannata ipotesi, lo Stato sciopererebbe contro se stesso; suicidio morale oltre che giuridico. L'onorevole Di Vittorio ha detto: in Russia non c'è lo sciopero. Perché? Per ragioni giuridiche ovvie. I lavoratori sono lo Stato, disse, e lo Stato non può scioperare contro se stesso. Se domani non vi fossero più né dominatori, né dominati, non ci sarebbe più ragione di sciopero, perché i lavoratori si metterebbero in contrasto con se stessi. Questa tesi giuridica vale anche per gli impiegati dello Stato, perché scioperando contro lo Stato sciopererebbero contro se stessi.

E poi, i pubblici impiegati, non hanno di fronte un padrone o un'azienda che fa valere i suoi interessi di indole particolare, ma hanno di fronte uno Stato che agisce in nome collettivo e nell'interesse di tutti. Quindi, per questa ragione, chiedo che lo sciopero sia vietato nei pubblici servizi, anche per il danno sociale che ne deriverebbe, ove per un momento si arrestasse la vita della compagine sociale.

Ho finito. Se è vero che la democrazia non è una forma politica fissa e immutabile, ma è la possibilità concreta per le forze sociali di progredire verso elevazioni e perfezionamenti cui con moto incessante tende lo spirito umano, lo sciopero va riconosciuto in quella forma in cui ho detto e proclamato, perché è mezzo, speranza e divisa della nuova democrazia italiana. (Applausi).

[...]

Presidente Terracini. L'onorevole Caristia ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero tendente a risolvere le controversie economiche fra imprenditori e lavoratori è riconosciuto nei limiti consentiti dalla legge.

«Non è riconosciuto ai dipendenti dell'Amministrazione diretta o indiretta dello Stato (statali o parastatali). Le loro controversie verranno risolte da apposite Commissioni arbitrali, di cui essi saranno chiamati a far parte nelle proporzioni dalla legge indicate».

Ha facoltà di svolgerlo.

Caristia. Ritiro il mio emendamento.

Presidente Terracini. Segue l'emendamento, già svolto, dell'onorevole Belotti:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero è riconosciuto ai lavoratori nelle forme consentite e nei limiti stabiliti dalla legge.

«In ogni caso, l'astensione collettiva dal lavoro sarà decisa in base a votazione libera e segreta degli iscritti ai sindacati di categoria regolarmente registrati, a maggioranza di due terzi dei votanti, dopo l'esperimento di almeno un tentativo di conciliazione.

«Non è ammesso lo sciopero generale politico, né quello dei pubblici impiegati e degli addetti a pubblici servizi, le cui vertenze saranno sottoposte ad arbitrato obbligatorio».

Segue l'emendamento dell'onorevole Merlin Umberto:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano».

Ha facoltà di svolgerlo.

Merlin Umberto. Forse mi illudo, ma penso che il mio emendamento potrebbe evitare una grossa questione e soddisfare le varie correnti di pensiero politico-sociale, che si sono manifestate in questa Assemblea.

Col mio emendamento, l'articolo 36 verrebbe così formulato: «Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano».

Questo articolo non l'ho inventato io: esso è la copia della dichiarazione che si legge come preambolo nella Costituzione che il popolo francese si è già data il 27 ottobre 1946.

L'articolo accoglie il principio che lo sciopero da parte dei lavoratori è un diritto e su questo punto non ho sentito voci discordi nemmeno in questa Assemblea. Infatti non può essere contestato che, come è lecito al singolo negare la sua opera, se non gli viene corrisposta la retribuzione richiesta, altrettanto sia lecito organizzare questa astensione nel sindacato per farla diventare da individuale collettiva.

Su questo punto nulla da dire secondo me nemmeno dal punto di vista della morale più stretta, onde è giusto che la Carta costituzionale riconosca il diritto di sciopero anche per dare un frego a quegli articoli dal 502 al 507 del Codice penale Rocco che costituivano un anacronismo storico ed un ritorno a tempi superati.

La nostra Costituzione deve essere la Costituzione della libertà e perciò antifascista. Quindi è giusto che essa definisca diritto quello che il fascismo definiva a torto delitto.

Ma una volta riconosciuto ampiamente il diritto dei lavoratori, bisognerà pure che l'Assemblea si preoccupi di segnare i diritti di questo Stato democratico che stiamo con tanta cura costruendo.

Non sarebbe giusto che noi pensassimo a tutto ed a tutti e non ci preoccupassimo mai dello Stato, che è la casa comune, la casa di tutti, non la casa di un partito o di una classe. Ora, dar fondamenta solide a questa casa è un dovere ed una necessità per tutti.

Lo Stato è l'organizzazione giuridica della società e deve provvedere al bene comune.

Si potrà discutere sul contenuto di questa formula, che venne perfino definita fatale, ma a parte la sua ampiezza tutte le correnti politiche sono d'accordo che lo Stato, comunque organizzato, deve mirare alla utilità dei cittadini.

Ma, per provvedere a tale utilità, deve provvedere a determinate funzioni ed indispensabili servizi.

Anche qui le nostre concezioni potranno divergere, ma nessuno potrà negare una universalità di consensi, almeno su un minimo di tali funzioni (ordine pubblico — giustizia — sicurezza — finanze).

Tali funzioni sono senza eccezione funzioni pubbliche. Vi potrà essere disparità di pareri per altri servizi (come ad esempio i trasporti, le poste ecc.) perché in teoria questi servizi potrebbero essere esercitati anche da privati.

Ma quelle funzioni essenziali, pubbliche per antonomasia, sono tali perché nessun altro fuorché lo Stato può esercitarle. Ora io esorto anche coloro che si fanno fautori della più ampia libertà di sciopero a rispondere a questa mia domanda: ammettete lo sciopero anche degli agenti di polizia, dei carcerieri, dei magistrati, degli agenti delle imposte, con i quali lo Stato assicura le funzioni essenziali?

Se rispondete affermativamente, allora voi volete non lo Stato, ma il karakiri dello Stato; perché, mentre voi volete dare allo Stato la dovuta forza ed il dovuto prestigio, nello stesso tempo ne favorite il suicidio con le vostre stesse mani.

Voi fate le leggi e i magistrati non le applicano, voi comminate le pene e non potete farle espiare, voi votate le imposte e i funzionari non ve le riscuotono.

I funzionari delle imposte domandano aumenti di stipendio e contemporaneamente chiudono gli sportelli ed i cittadini gongolanti non vanno a pagare le tasse che sono necessarie per pagare gli stipendi.

Tanto è sentita questa contraddittorietà e questo contrasto che noi abbiamo ascoltato con molta attenzione il discorso dell'onorevole Di Vittorio, così misurato e prudente, col quale in sostanza si controbatte:

1°) che noi forziamo le situazioni portandole all'eccezionale ed al fantastico;

2°) che a moderare gli eccessi pensano gli stessi lavoratori.

Che noi non tendiamo ad esagerare i pericoli è dimostrato dalla dura realtà quotidiana. Mai in Italia si erano avuti scioperi dei magistrati ed invece oggi se ne è già avuto un primo assaggio e se ne sta tentando un secondo. Io do atto all'onorevole Di Vittorio dell'opera saggia che in molti casi anche recenti ha compiuto la C.G.I.L. e lo dico con piena soddisfazione, ma devo anche rilevare che gli scioperi si moltiplicano in modo impressionante e che in alcuni casi si sono dichiarati scioperi che la Confederazione non aveva affatto autorizzati.

Riconosco anche che per esempio, nel recente sciopero politico per i dolorosi fatti di Palermo, si è provveduto ad attenuarne le conseguenze, escludendo dallo sciopero gli addetti ai pubblici servizi; tutto ciò riconosco, ma è altrettanto vero che la Carta, che deve segnare i diritti e doveri dei cittadini, la deve dare l'Assemblea Costituente.

Questa Carta diventerà il Codice anche morale che deve regolare i rapporti fra i cittadini. Ora votare l'articolo che la Commissione propone noi assolutamente non possiamo.

La sua formulazione è così ampia che si corre il pericolo di lasciar via libera ai meno riflessivi, portando lo Stato a rovina.

L'onorevole Di Vittorio ha detto: abbiate fiducia nei lavoratori e noi rispondiamo: la abbiamo. Ma replichiamo anche ai lavoratori ed in particolare agli statali: abbiate fiducia nello Stato che è cosa vostra e del quale voi siete la spina dorsale.

V'è una presunzione assoluta che questo Stato non voglia sfruttarvi. Esso vi retribuisce come meglio può.

Ad ogni modo discuteremo di questo argomento con calma e libertà e regoleremo la materia con legge particolare.

Una regolamentazione ci vuole; non per limitare il diritto di nessuno, non per venire in nessuna maniera a togliere questo sacrosanto diritto di incrociare le braccia, quando le condizioni di lavoro non siano consentanee ai diritti dei lavoratori, ma unicamente perché questo Stato possa vivere bisogna che un regolamento avvenga e, se deve avvenire, facciamolo d'accordo con tranquillità e meditato studio.

Facciamolo con una legge separata in altra sede ed evitiamo, nell'affrettata regolamentazione di questo momento, che avvengano delle omissioni o delle norme poco chiare ed incomplete. Noi vogliamo sia riconosciuto il diritto sacrosanto dei lavoratori, ma vogliamo anche che sia riconosciuta la forza dello Stato e ne sia garantita in pieno la autorità. (Applausi al centro Molte congratulazioni).

Presidente Terracini. Segue l'emendamento già svolto dell'onorevole Cortese:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero è riconosciuto nell'ambito delle leggi che lo disciplinano».

Segue l'emendamento dell'onorevole Romano:

«Sostituirlo col seguente:

«I conflitti nascenti da contratti collettivi di lavoro sono regolati da arbitrati obbligatori emessi, previo il tentativo di conciliazione, da collegi composti da magistrati e rappresentanti delle categorie interessate in conformità a quanto sarà stabilito dalla legge».

L'onorevole Romano ha facoltà di svolgerlo.

Romano. Onorevoli colleghi, onorevole Presidente, lo scopo dell'emendamento da me proposto è quello di sostituire a un istituto, per me alquanto preoccupante, altro che ha già dato buona prova nel nostro ordinamento giuridico, intendo alludere all'arbitrato obbligatorio.

E che questo istituto abbia dato buona prova trova conferma anche nel giudizio di cultori di economia, i quali hanno sempre affermato come assioma indiscutibile l'inefficacia e, più ancora, il danno dello sciopero.

Adamo Smith, nel suo libro «Ricerche sulla natura e causa della ricchezza delle nazioni», così scriveva: «Gli operai assai di rado ricevono qualche vantaggio dalla violenza di quelle tumultuose combinazioni, le quali in generale non finiscono che con la punizione o la rovina dei capi, sia per l'intervento del magistrato, sia perché, il più delle volte, il maggior numero degli operai è costretto a sottomettersi per provvedere alla sussistenza sua e della propria famiglia».

Altri, come Carlo Regnault, ebbe a dire che gli scioperi non valgono a nulla e che bisogna con ogni mezzo eliminare questa fonte di mali.

Altri, pur deplorando i danni non trascurabili dell'arma dello sciopero, riconoscono in essa dei vantaggi per le classi operaie.

Distinguendo il duplice aspetto del problema economico dello sciopero, deve rilevarsi che, sotto un punto di vista, lo sciopero è una sottrazione di ricchezza, un lucrum cessans e conseguentemente una passività, che può talora assurgere a cifre incalcolabili. Sotto un altro punto di vista, nessuno può mettere in dubbio che lo sciopero è stato spesso utile agli operai per la tutela dei loro diritti e della loro dignità, difendendoli dalle piccole tirannie.

È opportuno in ogni modo tener presenti alcuni dati statistici: in base ad elementi raccolti presso la Direzione Generale di Statistica si ha che in media il 27,6 per cento degli scioperi è stato pienamente favorevole agli operai; il 33,4 per cento parzialmente favorevole; il 39 per cento sfavorevole.

Quanto alle cause, si hanno queste percentuali: 47,61 per cento per aumento di salario; 6,74 per cento per riduzione delle ore di lavoro; 12,31 per cento per reazione alla riduzione dei salari ed altri per motivi diversi.

Prima domanda: il diritto di sciopero costituisce materia da inserirsi nella Carta costituzionale? A questa domanda risposero negativamente anche i membri della terza Sottocommissione.

Invero non tranquillizza per nulla l'inserire nella Carta costituzionale un diritto con il cui esercizio non solo si possono violare clausole contrattuali, anche liberamente stipulate, ma arrestare anche lo svolgimento delle attività più essenziali della vita dei cittadini.

Che il comprendere il diritto di sciopero nella Carta costituzionale abbia preoccupato anche altri Paesi lo si vede da un fatto recente.

In Francia l'articolo 32 del primo progetto così diceva: Il diritto di sciopero è riconosciuto a tutti nell'ambito delle leggi che lo regolano. Il progetto fu respinto dal referendum del 5 maggio 1946 e la Costituzione approvata accolse il seguente principio: «Il diritto di sciopero viene esercitato nel quadro delle leggi che lo regolano». Con questa modifica non si volle affermare in modo assoluto il riconoscimento del diritto di sciopero. Anche in Inghilterra il Governo ha sentito il bisogno di prorogare le leggi di guerra fino al 1950, per quanto riguarda l'esercizio del diritto di sciopero.

Ora, fissati questi concetti, e leggendo il Titolo III, si domanda: questo diritto di sciopero è compatibile con tutte le altre norme comprese nel titolo stesso? In proposito rammento che Pasquale Stanislao Mancini, il quale, oltre ad essere un grande giurista, era anche musicista, ebbe a dire in un salotto berlinese che anche la norma giuridica ha la sua armonia.

Chi legge le norme comprese sotto il titolo terzo che precedono e seguono l'articolo 36, ha l'impressione di una larga tutela del lavoro sia sotto il profilo sociale, sia sotto il profilo economico: infatti la Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 30, comma 1°); riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto (art. 31); il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro ed in ogni caso adeguata alla necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia (articolo 32); il lavoratore ha diritto non rinunciabile al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite (art. 32, comma 2°); ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed alla assistenza sociale (articolo 34, comma 1°); i lavoratori in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia o disoccupazione involontaria (art. 34, comma 2°); i lavoratori hanno diritto di partecipare nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera (art. 33).

In mezzo a tutte queste disposizioni improntate alla giustizia ed alla dignità personale, nonché alla pace sociale, è lanciata come una miccia la norma contemplante il riconoscimento del diritto di sciopero.

Tutto questo fa pensare che con l'articolo 36 si sia voluto andare incontro esclusivamente ad esigenze politiche.

Quello che deve rilevarsi è che con l'articolo 36 si è tolto allo sciopero ogni limite di fatto e di diritto ed è rimasta invece in vita la illegittimità della serrata. In tal modo si è distrutta ogni parità di trattamento fra le parti contraenti, cioè fra prestatori d'opera e datori di lavoro, che per ragioni di giustizia dovrebbero tenersi su un unico piano di uguaglianza. In tal modo si accresce enormemente la forza del venditore di lavoro e si riduce quasi all'impotenza l'acquirente, che, di fronte alle eccessive richieste, non ha neppure la possibilità di salvare l'azienda con la serrata, dovendo rassegnarsi al fallimento.

Arbitrato obbligatorio. Io penso che per risolvere i contrasti tra gli agenti della produzione bisogna fare ricorso all'azione del pubblico potere.

Lo Stato non può tra i conflitti del lavoro starsene spettatore accidioso per lavarsene le mani in questioni così gravide di conseguenze.

Lo Stato rinunzierebbe alla sua ragione di essere, cesserebbe di essere custode dell'ordine e vindice di giustizia se non mirasse sia per via indiretta che con azione diretta ad essere artefice di pace tra i vari gruppi economici.

Bisogna prevenire il male con l'autorità delle leggi, rimuovendo a tempo le cause da cui si prevede possa nascere il contrasto.

A questi principî si uniformava la legge sui contratti collettivi del 1926, che dichiarava bensì reato lo sciopero e la serrata ma costruiva un sistema giuridico abbastanza bene congegnato in sostituzione dello sciopero e della serrata.

Le due figure principali di quella formulazione erano la conciliazione e l'arbitrato.

Con la conciliazione le parti o da sé stesse o per via di rappresentanti o di mediatori dichiarano le condizioni per le quali rinunzierebbero alla lotta; col secondo le parti devolvono ogni potere di deliberazione ad un terzo individuo o gruppo che gode la loro piena fiducia. L'idea dell'arbitrato obbligatorio è l'unico sistema veramente concludente che possa evitare, con l'utilità di tutti, molti scioperi.

I contrasti spesso scaturiscono dall'ignoranza dell'un contraente sulle condizioni e possibilità dell'altro. In questi casi l'opera dell'arbitrato è risolutiva.

Bisogna infine rilevare che, il più delle volte, lo sciopero è fomentato da agitatori i quali se ne servono come strumento intimidatorio nella loro azione politica.

L'istituto dello sciopero, così come è inserito nella Carta costituzionale, può passare facilmente dal campo economico a quello politico. Ed ogni Governo si trova in uno stato di inferiorità di fronte a qualsiasi confederazione del lavoro che ad un certo momento, per motivi esclusivamente politici, può arrestare la vita della Nazione e far cadere nel nulla l'autorità del Governo. (Applausi).

Presidente Terracini. Gli onorevoli Perrone Capano e Bellavista hanno presentato il seguente emendamento:

«Il diritto all'autodifesa sindacale è riconosciuto. Esso è regolato dalla legge».

L'onorevole Perrone Capano ha facoltà di svolgerlo.

Perrone Capano. Onorevoli colleghi, il mio emendamento, molto breve, si ispira alla finalità di permettere che il diritto di sciopero, anziché subire nella Costituzione — nel caso che l'articolo 36 vi sia mantenuto — una regolamentazione generica o unilaterale o tendenziosa come si propone col testo del progetto e con gli altri emendamenti, si possa al più presto inquadrare in un sano ed organico sistema di legislazione sindacale.

Come è noto a tutti, il diritto di sciopero — come mezzo estremo di difesa da parte dei lavoratori delle loro ragioni economiche — è una conquista che ai lavoratori stessi ha assicurato la legislazione liberale. Sennonché, come è ugualmente noto a tutti, per la dottrina liberale la libertà di sciopero costituisce una manifestazione particolare della libertà civile in genere ed è concepibile solo in un quadro nel quale altre libertà non meno essenziali, come la libertà di lavoro in coincidenza di sciopero e la libertà di serrata, siano ugualmente tutelate.

Ora, sembra a me che l'articolo 36 del progetto di Costituzione, nella sua laconicità, sia troppo lato ed equivoco. Esso va addirittura oltre (come è stato già osservato) il testo adottato al riguardo con molta chiarezza dalla Costituzione francese, la quale, nel preambolo, ha in poche parole sancito che «le droit de grève s'exerce dans le cadre des lois qui le réglementent».

In tal modo, vari problemi derivano dall'articolo in esame, così come esso è concepito. Innanzi tutto sorge il problema relativo alla definizione dell'espressione «lavoratore». Chi sono i lavoratori? Se è vero che l'articolo 1 della Costituzione afferma, come afferma, che la Repubblica è fondata sul lavoro, e se è vero altresì che l'articolo 31 definisce il lavoro «l'attività e la funzione che concorre allo sviluppo materiale e morale della società conformemente alle possibilità e alla scelta» di ciascuno, deve necessariamente e logicamente considerarsi lavoro anche l'attività produttiva, anche l'attività commerciale, anche l'attività professionale ecc.; e quindi in base al testo dell'articolo in oggetto si deve riconoscere che il diritto di sciopero dovrà essere ammesso anche a favore dei produttori, anche a favore dei commercianti, dei professionisti. Di conseguenza si dovrebbe considerare ammessa la serrata; e così anche lo sciopero dei militari, dei medici, degli ingegneri, delle levatrici, dei pubblici funzionari ecc.

La seconda questione che sorge dalla formulazione del testo dell'articolo 36 è questa: lo sciopero deve essere limitato al campo economico o deve considerarsi esteso anche al campo politico? L'articolo 36 tace intorno a ciò, e col suo silenzio lascia intendere che la Costituzione ammetta senz'altro lo sciopero politico. In sostanza, mentre il progetto di Costituzione nel campo economico si limita a fissare i principî generali o a gettare, come è stato detto, un seme, lasciando al futuro legislatore il compito di disciplinare in concreto gli istituti con adeguata latitudine, qui, a proposito del diritto di sciopero, sembra invece che con l'articolo 36 abbia risolto con un sol tratto di penna e in un determinato senso molto ampio e caotico tutti i problemi che al diritto di sciopero si ricollegano.

Questo evidentemente è alquanto eccessivo, e non può essere accettato, perché sono da respingere molte delle conseguenze che ho indicate poco prima, e perché vi sono principî ed istituti nel campo sindacale che si sono fatti una sicura strada fra le moderne legislazioni ed ai quali non può non farsi riferimento anche dalla nostra.

Non ho certamente l'intenzione di dilungarmi nella illustrazione di questo aspetto del problema. Ma non nuocerà ricordare, ad esempio, che l'Inghilterra ha prorogato fino al 1950 — e l'Inghilterra è retta da un governo laburista — il regime eccezionale di guerra. Come non sarà inutile ricordare che così l'Inghilterra, come gli Stati Uniti rendono le organizzazioni operaie civilmente responsabili dei danni arrecati dai loro iscritti quando essi, scioperando, abbiano violato i contratti di lavoro o commesso atti contrari all'altrui libertà di lavoro.

Il procedimento di ingiunzione che si applica negli Stati Uniti conferisce all'autorità giudiziaria in quel civilissimo paese il diritto di ordinare a chiunque di astenersi da qualsiasi atto che possa rappresentare un pericolo per l'interesse pubblico sotto pena di sanzioni pecuniarie per le organizzazioni e di pene restrittive della libertà per gli autori di quegli atti.

Oggi, non se ne dolgano i colleghi dell'estrema sinistra, si usa e si abusa dello sciopero. Se ne abusa innanzi tutto adoperandolo troppo frequentemente per fini esclusivamente politici, e in qualsiasi anche minima occasione di contrasti economici, con grave danno della comunità nazionale e anzitutto delle classi lavoratrici. Perché lo sciopero è un arresto di produzione e ogni arresto di produzione è una perdita di ricchezza. Nei giorni di sciopero non si produce e quando non si produce la somma integrale del reddito nazionale e tutti i cespiti che da esso derivano diminuiscono in proporzione. E la produzione diminuisce anche quando lo sciopero colpisce le cosiddette attività improduttive, come i telefoni, i trasporti ecc. perché dalla inattività dei telefoni o dei trasporti possono dipendere molteplici cause di svantaggio per la produzione e la pubblica economia. Vi ha di più: sono messi, con questa scioperomania, a rischio la vita stessa dello Stato e il fondamento della società nazionale che riposa appunto sulla produzione e sull'ordine pubblico.

È evidente che da ciò non deve derivare il divieto assoluto dello sciopero, ma scaturisce la necessità di attuare un civile e moderno sistema di risoluzione delle vertenze del lavoro che eviti il danno dei lavoratori, conflitti violenti e fastidi ai consumatori. È giusto che lo sciopero politico non sia consentito; e abbiamo visto che l'articolo 36 non solo non lo vieta, ma sembra esplicitamente autorizzarlo. L'onorevole Di Vittorio diceva l'altro ieri che molte vittorie della libertà sono state conseguite attraverso pronti e disciplinati scioperi. Non lo nego, ma bisogna riconoscere del pari che non a mezzo dello sciopero, bensì mediante la formazione di una salda coscienza politica e di un profondo attaccamento alla libertà, la società nazionale in genere e la classe lavoratrice in ispecie si devono premunire in sede politica contro i ritorni della tirannia. Lo sciopero economico deve essere subordinato sempre al dovere dell'esperimento della conciliazione e quindi all'arbitrato di una magistratura speciale o dello Stato e deve essere vietato per i pubblici funzionari ed i pubblici servizi, nei riguardi dei quali devono valere soltanto i mezzi ordinari che ho indicato or ora per la composizione delle vertenze sindacali. Ora, non potendo tutto questo risultare dalla Costituzione, e la dizione del progetto risultando equivoca, mi sembra che la formula idonea da adottarsi, per non pregiudicare e per perfezionare anzi le conquiste realizzate in questo campo, sia racchiusa nell'emendamento da me proposto secondo cui è senz'altro riconosciuta l'autodifesa sindacale ed è poi riservato alla successiva legislazione il compito di determinare le modalità ed i termini in base ai quali tale autodifesa dovrà esercitarsi. (Applausi a destra).

Presidente Terracini. L'onorevole Giannini ha presentato il seguente emendamento:.

«Sostituirlo col seguente:

«Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro sono regolati dalla legge».

Ha facoltà di svolgerlo.

Giannini. Signor Presidente, onorevoli colleghi, devo premettere la mia, la nostra protesta contro l'abbondanza dei temi che si trattano nella discussione del progetto di Costituzione. Gli onorevoli colleghi mi scuseranno se mi dimostro altrettanto insistente e seccatore quale fu un altro nostro onorevole collega che ci precedette in un Parlamento dell'antica a Roma e che ripeteva continuamente il suo concetto: delenda Carthago. Noi ripeteremo continuamente il nostro concetto: che nel progetto di Costituzione si discutono argomenti i quali non hanno nulla a che fare con il progetto di Costrizione.

Signor Presidente, non tema che io vada in lungo: sarò brevissimo. Nel Titolo III, secondo noi, ci sono 15 articoli di cui sono utili solamente parte del primo che è l'articolo 30, parte del 33, parte del 34, parte del 37 e il 39. Gli articoli 31, 32, 34, 35, 36, 39, 40, 41, 42, 43, 44, sono undici articoli perfettamente inutili e che avrebbero potuto benissimo far parte di una legge speciale sul lavoro da far discutere alla Camera dei Deputati che sarà regolarmente eletta a suo tempo.

Ciò premesso, vengo all'articolo 36. Secondo noi, un concetto rivoluzionario (badate, noi non siamo contrari alle rivoluzioni) non può scivolare per emendamento in una Costituzione. Alcuni anche della nostra parte si sono chiesti perché non è riconosciuta anche la libertà di serrata; noi respingiamo l'uno e l'altro concetto di libertà, perché non le riteniamo libertà. E così respingiamo anche il concetto di cercare una preventiva conciliazione prima di dichiarare lo sciopero; perché, per quanto avversari noi possiamo essere dei partiti di sinistra, non possiamo non ammettere che tutti gli scioperi seguono precisamente ad un tentativo di conciliazione, che è fallito; nessuno sciopero è dichiarato così per capriccio e senza una ragione, a meno che non si tratti di sciopero politico.

Noi riteniamo che non possa esistere la libertà di recare danno a terzi.

L'onorevole Di Vittorio ci ha spiegato che in Russia non c'è libertà di sciopero, perché gli operai in quel Paese sanno di non essere sfruttati.

Non credo che conti ciò che si sa, onorevole Di Vittorio, perché spesso si sa l'errore. Una volta si sapeva che la terra non era sferica e non si sapeva, per esempio, che la somma dei quadrati costruiti sui cateti è equivalente al quadrato costruito sull'ipotenusa (Si ride). Non si tratta di ciò che si sa. Il fatto è un altro.

Noi non ci perdiamo ad indagare perché è vietato; noi constatiamo che c'è il divieto. Perché è vietato?

Di Vittorio. Non è vero; non è vietato, esiste.

Giannini. È vietato, perché nel comunismo si pensa, e giustissimamente, che la collettività non deve essere danneggiata da un contrasto, anche giusto, tra interessi singoli.

Ed a questo punto, io forse farò stupire gli onorevoli colleghi dell'estrema sinistra, domandando: «Ma il comunismo c'è solamente in Russia?».

Io credo che il comunismo ci sia in tutte le società borghesi. Perché il comunismo non consiste unicamente in quel sogno, che la povera gente crede; il comunismo è una concezione statale, è un'idea di governo, è una idea economica, è un modo di mandare avanti quella grande azienda, che è un Paese. Ora, in qualunque convivenza, in una grande città, c'è necessariamente il comunismo, di moltissimi servizi: c'è il comunismo dei trams; non è possibile che ognuno abbia un tram per conto proprio.

Di Vittorio. Non è comunismo, è comunalismo.

Giannini. C'è il comunismo dei fornai: non sarebbe possibile a Roma che ciascuno avesse un forno per cuocere il suo pane. Quindi il comunismo è nella organizzazione della società moderna (Si ride). Io sono molto lieto della vostra ilarità; vuol dire che le mie osservazioni vi mettono in allegria.

Ma, badate che sono osservazioni serie (Commenti). Non è la prima volta che si ride delle cose serie. Si è riso del Galilei, si può ridere anche di me. (Ilarità).

Il certo è questo: che tutti i servizi pubblici, in una convivenza moderna, sono basati sul concetto comunistico.

Ora, noi riteniamo che una determinata categoria non abbia il diritto di privare la società della quota di lavoro che essa deve, perché sfrutta tutti gli altri servizi e vantaggi, semplicemente per difendere il proprio interesse particolare.

Solamente Robinson sulla sua isola ha questi diritti, perché insieme a questi diritti ha anche tutti i vantaggi e tutte le libertà, anche quella di fare il proprio pane, ma deve cominciare lui a seminare il proprio grano, a raccoglierlo, molirlo, quindi fare il pane e infornarlo. Prima di mangiare ha dovuto compiere tutta una serie di operazioni necessarie per quella che è la fabbricazione di un pezzo di pane.

Ora, è chiaro che lo sciopero, come la serrata, vulnerano l'interesse generale.

Io non sto qui a difendere una categoria o un'altra; sto qui a difendere l'Uomo qualunque. Noi abbiamo l'Uomo qualunque, il quale vive nella grande città. Perché è venuto nella grande città? Vi è venuto perché gli hanno detto: tu potrai abitare alla periferia, dalla periferia avrai un tram che ti porterà al centro; nel centro compirai il tuo lavoro.

Un giorno, per una ragione assolutamente estranea a lui, egli è privato del tram ed è costretto a fare due ore di cammino a piedi per recarsi a lavorare. Che cosa importa all'Uomo qualunque la differenza di opinione tra il tranviere e l'azienda tranviaria?

Una voce a sinistra. Vi è il tranviere qualunque. Il vero Uomo qualunque è solidale coi tranvieri.

Giannini. Lei prende uno dei più grandi equivoci della sua carriera politica. Non è affatto solidale, tanto è vero che sono qui. L'Uomo qualunque non è solamente il tranviere, è anche il tranviere, ma non c'è ragione per cui lo sciopero del tranviere debba bloccare l'avvocato, il marmista, l'impresario di pompe funebri.

Una voce a sinistra. Che mestiere fa l'Uomo qualunque?

Giannini. Che cosa importa a noi che ci sia un determinato conflitto fra due categorie ed un urto di interessi privati per cui la società non ha nessun dovere di intervenire e principalmente non ha nessun dovere di subirne le conseguenze? È chiaro dunque che noi giustifichiamo con questi argomenti, che sono argomenti del buonsenso (Si ride), la nostra avversione.

Onorevoli colleghi, di quella e di altre parti dell'Assemblea, mi onoro di dirvi che in materia di sfottetti, di interruzioni e di scherzi, posso tenere cattedra ai maestri dei vostri maestri.

Una voce a sinistra. Lo ha detto diverse volte. E noi le possiamo dare lezioni di politica.

Giannini. Quindi, se ci vogliamo mettere sul terreno dello sfottetto, basta che il Presidente me lo dica ed io comincio, ma non so dove arriveremo. Fino adesso non ho perduto mai terreno.

È logico che per queste ragioni di buonsenso noi siamo contro l'una e l'altra forma di sopraffazione particolare. Si dirà: ma come volete dirimere i conflitti di lavoro, i conflitti che pure ci sono? Avevo paura di dirvelo, credevo non lo dicesse nessuno, ma molti, prima di me, hanno parlato di tribunali del lavoro e bisognerà tornare...

Una voce a sinistra. Voi volete i tribunali speciali.

Giannini. Lei, al solito dice una cosa errata ed offende in me una persona che ha portato molto equilibrio in questa Assemblea e mi meraviglia che lei non se ne renda conto. La brutta figura la fa lei e non io. (Approvazione a destra).

Comunque, a noi non preoccupa il precedente fascista della Magistratura del Lavoro, come non preoccupa il precedente fascista dell'IRI, come non preoccupano tanti precedenti fascisti, come non ha preoccupato il precedente fascista della legge sulla cinematografia, dove noi e voi abbiamo combattuto insieme.

Quindi noi sosteniamo che bisogna vietare sia lo sciopero, sia la serrata, opponendosi alla violenza da qualunque parte venga, sia da parte padronale, sia da parte proletaria, e ci opponiamo perché la libertà di sciopero ammessa nella Costituzione, sancirebbe, sotto il mendace nome di libertà, la difesa violenta di un interesse particolare.

Ho finito, e adesso potete anche ridere. (Applausi a destra).

Presidente Terracini. L'onorevole Mazzei ha proposto di sostituire l'articolo col seguente:

«Il diritto di sciopero è riconosciuto ed è disciplinato dalla legge».

Ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

Mazzei. Onorevoli colleghi, avevo presentato un emendamento che, come avete udito, suonava così: «Il diritto di sciopero è riconosciuto ed è disciplinato dalla legge».

Dalle discussioni avute con amici del mio Gruppo è risultato che sarebbe stato meglio chiarire questa formula con un'altra che ora ho presentato in sostituzione della prima; la nuova formula da noi proposta dice: «Il diritto di sciopero è riconosciuto. La legge ne regolerà l'esercizio al fine di assicurare le funzioni essenziali della vita dello Stato».

Quale è la ragione della sostituzione dell'emendamento? Abbiamo voluto chiarire il criterio secondo il quale si potrà dal legislatore futuro stabilire dei limiti al diritto di sciopero.

Ma prima di parlare dei limiti del diritto di sciopero occorre innanzitutto intendersi bene su che cosa è il diritto di sciopero e il fenomeno stesso dello sciopero. Ho sentito poco fa dal collega onorevole Gabrieli che il diritto di sciopero sarebbe fondato sulla libertà del lavoro. Secondo questa concezione, il diritto di sciopero sarebbe, né più né meno, che la facoltà data a tutti di abbandonare il lavoro. Se così fosse, si avrebbe, a tacer d'altre, questa conseguenza: che il crumiraggio, a sciopero avvenuto, sarebbe altrettanto legittimo e sacrosanto — non solo da un punto di vista giuridico, ma anche da un punto di vista morale — quanto lo sciopero stesso. Poiché è chiaro che anche colui che invece di abbandonare il lavoro vuole continuare a lavorare, esercita il suo diritto di libertà del lavoro. La conseguenza assurda rende evidente che il diritto di sciopero ha ben altro fondamento.

Il diritto di sciopero non è un vero diritto di assentarsi dal lavoro. E non è neppure il diritto di rompere il contratto di lavoro legalmente stipulato. Ché, se fosse semplicemente questo, non si capirebbe perché mai in passato il diritto di sciopero sia stato tante volte vietato. Si tratta dunque di altro. La verità è che lo sciopero è un atto di violenza: la qual cosa peraltro non implica che lo sciopero non possa essere legittimo, come è legittima la violenza quando è fondata su giuste ragioni.

Che sia un atto di violenza, è chiaro dal fatto che in realtà uno sciopero tende a costringere l'altra parte contraente a modificare le condizioni di lavoro in modo favorevole a coloro che scioperano. Questa è la sostanza dello sciopero come fenomeno sociale e da qui bisogna partire per individuare il fondamento del diritto di sciopero. Si potrebbe domandare: se lo sciopero è una violenza, come mai può divenire diritto ed essere considerato persino, in certi casi, come un dovere sociale dei lavoratori? Il quesito è di estrema importanza e si capisce perché. Ci deve essere un presupposto da cui si parte nel giuridicizzare questo fenomeno, nel farne una libertà garantita, ossia un diritto. Il presupposto è la «diseguaglianza» dei contraenti nel contratto di lavoro, è il fatto che le categorie lavoratrici ritengono di essere e sono in condizioni di inferiorità rispetto all'altro contraente, rispetto alle categorie padronali.

Quando lo Stato riconosce il diritto di sciopero, ammette implicitamente che il contratto di lavoro, realizzato a tenore di Codice civile, non è di per se stesso fatalmente e necessariamente giusto. Se il contratto di lavoro fosse sempre giusto, per il fatto di essere liberamente consentito, è chiaro che a nessuna delle parti potrebbe essere data facoltà di servirsi di mezzi di pressione sociale per costringere l'altra a modificare le condizioni contrattualmente stabilite. Questo è il fondamento del diritto di sciopero, e non già la libertà del lavoro.

Così stando le cose, dalla stessa natura, dalla stessa funzionalità sociale del diritto di sciopero derivano limiti al diritto di sciopero. Non vi è nessun diritto che non incontri limiti. Tutti i diritti incontrano alcuni limiti; quanto meno incontrano i limiti che sono connaturati con la ragione per cui questi diritti esistono e vengono positivamente riconosciuti e sanciti. Ogni diritto ha una sua funzionalità sociale, ha dei presupposti sociali, per i quali nasce e si afferma come diritto. I limiti vengono dal fatto che questo diritto non può essere esercitato contro quella funzione sociale alla quale esso risponde.

Se la natura e il fondamento del diritto di sciopero son quelli da me avanti chiariti, ne discende logicamente che il diritto di sciopero non può competere a quelle categorie di lavoratori che non si trovano nella condizione di avere di fronte un datore di lavoro che ha interessi privati diametralmente opposti. Il contratto di lavoro è il risultato di uno sforzo che l'imprenditore da una parte e il salariato dall'altra parte fanno per ottenere ciascuno di più, per aver retribuito meglio il contributo che portano all'opera comune: la produzione. Questo accade nei contratti di lavoro fra operai ed imprese private, ma non può accadere o per lo meno non può accadere nei medesimi termini, fra lo Stato e i suoi dipendenti.

Non può accadere perché lo Stato non è che l'espressione autoritaria della collettività e se costituito, come Governo e come rappresentanza nazionale democraticamente, è evidentemente l'espressione della volontà generale. I lavoratori dipendenti dallo Stato e, in particolare, come vedremo appresso, quelli di loro che sono depositari e gestori del pubblico potere, non possono avere, in linea di massima, alcun motivo valido su cui fondare uno sciopero, se è vero che lo sciopero è legittimo in quanto salutare correttivo alla disparità iniziale dei contraenti nel contratto di lavoro.

Non ha senso, in un moderno Stato sociale, lo sciopero contro lo Stato. Lo Stato è un complesso di istituzioni e di organi che vengono espressi dalla collettività nazionale, ed è chiaro che la collettività nazionale, se organizzata democraticamente mediante rappresentanze scelte liberamente, le quali sono esse stesse la volontà generale, non può permettere che la volontà particolare di un gruppo o di una categoria tenti di esercitare pressioni e si contrapponga alla volontà generale. È bensì vero che questo ragionamento, in astratto ineccepibile, si scontra, nella realtà, con situazioni pratiche che possono smentire la validità del principio.

Vi sono infatti casi in cui lo Stato, non ancora pienamente democratizzato, non tutela adeguatamente tutte le categorie, e vi sono anche casi in cui lo Stato, per ragioni di squilibrio finanziario e di scarsezza di mezzi, finisce per sacrificare determinate categorie di suoi funzionari. Ma sono sempre casi di eccezione, perché lo Stato ha tutto l'interesse di pagar bene i suoi dipendenti.

Ci rendiamo peraltro conto che in Italia i dipendenti dello Stato da decenni stringono la cinghia e perciò non giungiamo alla conseguenza che a rigor di logica si dovrebbe trarre dai presupposti da cui sono partito: la punizione, come fatto illecito, dello sciopero dei dipendenti dallo Stato o da Enti gestori di pubblici servizi. Noi non diciamo di vietare l'atto dello sciopero e meno ancora punirlo penalmente: tanto meno punirlo, perché ritengo che la democrazia repubblicana non è ancora così perfettamente organizzata da creare in tutte le categorie quel senso unanime di pubblica fiducia nell'equo e costante rispetto delle esigenze sociali fondamentali di tutte le categorie di lavoratori.

Diciamo però che lo sciopero è assolutamente assurdo quando si tratta di detentori del pubblico potere. È chiaro che è assurdo lo sciopero dei carabinieri, come è assurdo lo sciopero delle guardie municipali, come è assurdo anche lo sciopero dei magistrati, come sarebbe assurdo lo sciopero dei prefetti e voi lo vedete subito che è assurdo. Perché un depositario del pubblico potere che sciopera, sciopera in sostanza contro il potere legislativo, perché è il legislativo che regola, in una corretta democrazia repubblicana, le condizioni di lavoro delle predette categorie.

Per le altre categorie di dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici o esercenti pubblici servizi, per le categorie di statali che sono — come dicono i francesi — agents de gestion e non già agents d'autorité, basterà stabilire l'arbitrato obbligatorio, che se affidato ad organi politicamente e tecnicamente efficienti garantirà efficacemente i diritti e gli interessi di dette categorie.

Ed allora, mi paiono chiariti i concetti essenziali che noi affermiamo. Il diritto di sciopero lo riconosciamo come un valido strumento di giustizia sociale perché il riconoscimento di esso ha avuto ed ha tanta parte nel progresso sociale moderno. Ma, affermando questo principio, noi diciamo che nello stesso diritto di sciopero, nella natura stessa del diritto di sciopero, risiedono limiti che vanno rispettati, se non si vuole che esso diventi un pericoloso privilegio e un fomite di disordine anziché di ordine giusto nella società del nostro tempo.

Non siamo noi a porre, arbitrariamente, limiti al diritto di sciopero; esso li pone da sé appena che sia riconosciuta la sua natura di mezzo di auto-tutela delle categorie. È tutta qui la ragione dello sciopero; è la categoria che si auto-tutela, e questa auto-tutela viene riconosciuta e ritenuta utile dallo Stato. Perché? Perché lo Stato ha la funzione d'armonizzare, e non già di soffocare, i contrasti sociali legittimi, ha la funzione di ordinare e ridurre ad unità di opere la vita sociale e non già di comprimerla e raggelarla in un immobile, sterile automatismo burocratico.

Nel comma secondo del nostro emendamento si chiarisce che il criterio essenziale dei limiti che il legislatore futuro positivamente fisserà all'esercizio del diritto di sciopero, deve essere quello di far sì che dall'esercizio di una libertà non venga un danno alla vita democratica dello Stato repubblicano, creando una carenza nei suoi organi ed attività fondamentali, come accadrebbe per esempio se scioperassero coloro che sono preposti all'ordine pubblico. Se, per esempio, scioperassero i secondini di un carcere, tutti qui protesterebbero, anche i più accesi sostenitori dello sciopero.

Stabilito questo criterio, per le norme di dettaglio si rinvia alla legge che risolverà anche altri problemi particolari che si pongono in materia di diritto di sciopero, come, ad esempio, la questione dell'opportunità o meno di stabilire dei termini di preavviso anche nei casi di sciopero che non siano quelli dei pubblici funzionari; come l'opportunità o meno di distinguere nella determinazione dei limiti all'esercizio del diritto, fra i detentori del potere pubblico e gli altri esercenti di pubbliche funzioni, di pubblici servizi, ecc. Tutte questioni che saranno trattate e risolte quando si verrà a regolare questa complessa materia, che è una materia fondamentale per lo Stato repubblicano, materia nella quale bisogna procedere con molta attenzione, perché ha una sua profonda drammaticità sociale. Infatti, molte volte, nell'esercizio del diritto di sciopero, si rischia di vedere menomata la libertà del lavoro in cittadini che si vedono costretti dal sindacato a scioperare, anche se non ravvisano tutti i motivi per arrivare allo sciopero. C'è una profonda drammaticità, che fu già notata da Pier Giuseppe Proudhon, quando rilevò l'antinomia che si prospetta, in materia di sciopero, tra l'esigenza della libertà del lavoro e l'altra non meno sacra e feconda della solidarietà operaia.

Per ora basti aver chiarito e fissato il fondamento e i limiti del diritto di sciopero, limiti — ripeto — non da noi arbitrariamente posti, ma connaturali all'essenza stessa della libertà di sciopero, alla sua funzionalità sociale. (Applausi).

Presidente Terracini. L'onorevole Foa ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere il seguente comma:

«La legge potrà regolare il diritto di sciopero dei dipendenti degli enti pubblici, unicamente in rapporto ai termini di preavviso ed alle procedure di consenso da parte della rappresentanza unitaria sindacale di tutti i lavoratori».

Ha facoltà di svolgerlo.

Foa. Pochissime parole basteranno per illustrare il mio emendamento che fu proposto nella ipotesi che questa Assemblea voglia rinviare alla legge la disciplina dello sciopero.

Io veramente ho timore che, se nell'atto in cui si afferma il diritto di sciopero, si rinvia genericamente la sua disciplina alla legge, si disciplina senza precisare l'orientamento ed i limiti dell'attività legislativa in questa materia, si venga a svuotare questo diritto non nei fatti, poiché esso è affidato alla coscienza democratica del paese, ma nella sua portata costituzionale. Io temo cioè che se si riconosce un diritto e, nell'atto stesso in cui lo si riconosce, si dice puramente e semplicemente che esso sarà disciplinato dalla legge, ciò equivalga a dire poco più di questo: che esiste un potere legislativo che potrà occuparsi di questa materia.

In realtà, quando noi, Assemblea Costituente, abbiamo dovuto regolare le libertà e i diritti in tema di rapporti civili e in tema di rapporti etico-sociali, mai ci siamo limitati a rinviare alla legge la disciplina della libertà o del diritto che noi affermavamo, ma precisavamo dei dettagli, precisavamo quali sarebbero stati i limiti e i vincoli di questa attività legislativa. Quando abbiamo fatto questo, non è stato per invadere la sfera di competenza dell'attività legislativa, ma è stato solamente per cautelarci contro lo svuotamento di un diritto, riconosciuto nella Costituzione, attraverso l'attività legislativa.

Noi abbiamo fatto tutti un'amara esperienza del modo come sono state conculcate, svuotate e compresse, attraverso l'attività legislativa, le libertà democratiche, pur restando esse formalmente ancora legate ad una Costituzione.

Io ritengo, perciò, che se la Costituzione deve rinviare, vuole rinviare alla legge la disciplina del diritto di sciopero, deve precisare entro quali limiti la legge lo regolerà, altrimenti credo veramente che sia più coerente la tesi sostenuta dall'onorevole Giannini, il quale dice: Noi vogliamo vietare lo sciopero. Ma se si vuole affermare il diritto di sciopero, dobbiamo preoccuparci che questo diritto non venga svuotato attraverso l'attività legislativa. In questa ipotesi, io mi domando se non sarebbe preferibile omettere del tutto la menzione di questo diritto nel testo costituzionale.

Ma qualora si voglia addivenire al rinvio alla legge, su questo punto l'emendamento che ho proposto implica una direttiva: in quale modo, con quali limiti la legge potrà regolare, disciplinare il diritto di sciopero? Io credo che la legge non deve interrompere quel processo di accrescimento di responsabilità delle classi lavoratrici, di cui si è parlato in quest'aula molto autorevolmente anche da parte dell'onorevole Merlin, perché questa esperienza di responsabilità è presente in tutti noi. Io credo che, se si vuole legare in qualche modo a delle procedure speciali, a delle garanzie speciali l'esercizio e la disciplina del diritto di sciopero, queste garanzie, queste cautele devono essere trovate nell'ambito e con il pieno rispetto della determinazione autonoma da parte dei lavoratori o degli organismi da essi espressi.

In altri termini, non penso che si possa e si debba sovrapporre una autorità esterna, fosse pure l'autorità statale, alla volontà ed alla determinazione responsabile dei lavoratori, quando noi abbiamo piena coscienza, dalla nostra esperienza politica e morale degli ultimi anni, di quale progressivo senso di responsabilità investa le classi lavoratrici nella loro condotta economica. Perciò penso che non si debba porre alcun limite, neppure per quello che riguarda i dipendenti degli enti pubblici o gli addetti ai servizi pubblici. Quando si è parlato di questa materia e si è accennato ai pericoli che ne possono derivare per l'arresto della produzione — che può danneggiare anche tutte le categorie lavoratrici — si è detta una cosa che può anche essere vera; ma penso che, appunto per questo, le classi lavoratrici sono le meglio qualificate, le organizzazioni sindacali sono le meglio qualificate a giudicare quando uno sciopero di dipendenti pubblici o di addetti a pubblici servizi danneggi loro stessi nella posizione di consumatori, di utenti di pubblici servizi, di produttori e associati al processo produttivo.

Io credo perciò che anche per i dipendenti dagli enti pubblici e per gli addetti a pubblici servizi, se la legge vorrà regolare il diritto di sciopero, vi sia una sola forma legittima di regolazione: quella di stabilire le forme di consenso necessarie per affermare la liceità degli scioperi di queste categorie, forme di consenso che debbano promanare democraticamente dalle rappresentanze unitarie di tutti i lavoratori.

Io sconsiglierei l'Assemblea Costituente di cercare altri elementi che non siano quelli fuori del mondo del lavoro stesso. È stato detto da parte dell'onorevole Zotta, a torto, per mio conto, che qui si vuole adottare nel sistema costituzionale la lotta e la guerra. Credo che questo sia inesatto.

Io credo che qui, nel sistema costituzionale, si voglia riconoscere il senso di responsabilità dei lavoratori; e che la coscienza democratica nel Paese sia abbastanza matura perché ci si possa affidare a questo senso di responsabilità, senza timori per l'avvenire. (Applausi).

Presidente Terracini. Gli onorevoli Clerici, Viale, Andreotti, Scoca, Ermini, Castelli Edgardo, Avanzini, Codacci Pisanelli, Bovetti, Bertone, Caccuri, Cotellessa, Schiratti, Coppi, Benvenuti, Notarianni, hanno presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere i seguenti commi:

«La legge ne regola le modalità di esercizio per quanto attiene:

a) alla democratica e libera procedura di proclamazione;

b) all'esperimento preventivo di tentativi di conciliazione;

c) al mantenimento dei servizi essenziali alla vita collettiva.

«L'assunzione di qualsiasi funzione pubblica implica rinunzia al diritto di sciopero. La legge istituisce Commissioni arbitrali che garantiscano l'equa risoluzione delle controversie professionali relative a tali funzionari».

L'onorevole Clerici ha facoltà di svolgerlo.

Clerici. Onorevoli colleghi, il mio emendamento è piuttosto complesso; ma siccome le discussioni si fanno per trovare una formula che corrisponda a quella che è la volontà della totalità, od almeno della più alta maggioranza possibile, io non insisto sulla prima parte del mio emendamento; la quale, in forma analitica, dice in sostanza quello che già, in forma sintetica, è detto dall'emendamento del collega ed amico onorevole Merlin.

Quella che a me pare sia invece una formula essenziale del mio emendamento e che dovrebbe per ciò passare nella legge è il punto in cui è detto: «L'assunzione di qualsiasi funzione pubblica implica rinunzia al diritto di sciopero». Io ritengo che una simile formula possa essere tranquillamente votata, vorrei dire all'unanimità, dall'Assemblea, cioè anche dalle estreme sinistre. Ad esse e particolarmente ai comunisti perciò mi rivolgo.

Che cosa vuol dire, infatti, la mia proposizione, la quale, del resto, è suscettibile di qualsiasi eventuale modificazione formale? Che cos'è una funzione pubblica? Secondo il nostro diritto pubblico, è portatore di una funzione pubblica colui che è incaricato di formare, o di concorrere a formare, con la sua volontà, manifestata in una data forma, sotto date condizioni e in una sfera determinata di competenza, la volontà di un ente pubblico diretta al conseguimento di un fine pubblico, o che rappresenta l'ente nell'esecuzione di tale volontà.

Chi dunque esercita una funzione pubblica è solamente — nella schiera enorme dei vari impiegati e funzionari pubblici — colui il quale esercita un diritto di sovranità, un jus imperii, colui il quale, rispetto al cittadino semplice, è, in quel momento, lo Stato.

Colui che può arrestarmi, colui che può detenermi nel carcere, colui che giudica che quell'arresto e quella detenzione sono legittimi — secondo quanto abbiamo noi stessi stabilito in questa Costituzione negli articoli sulla libertà individuale — colui che emette un mandato di cattura ed eroga una pena, o giudica in materia civile, in modo che io, cittadino, resti obbligato dalla sentenza; colui che può decidere non solo relativamente ai miei interessi economici, ma anche delle cose più gelose della mia persona, colui che può dichiararmi fallito, che può dichiararmi inabilitato o interdetto, che può togliermi i diritti sui miei figli e su mia moglie, colui che esercita queste funzioni supreme dello Stato, è lo Stato; e come tale, la persona fisica, che ha così tremendo e formidabile potere — a mio giudizio — deve essere considerata in modo particolare. Non può assolutamente essere considerata altrimenti.

Quindi la mia formula non pregiudica affatto ciò che il legislatore potrà stabilire nell'applicazione dell'altro principio, che rientra invece nella disciplina di cui parla l'emendamento dell'onorevole Merlin, circa la grande categoria dei funzionari e degli impiegati statali. Per essi potrà il legislatore stabilire se e chi eserciti funzioni essenziali alla vita della collettività. La legge futura esaminerà le diverse categorie, anche di coloro che appartengono alle gestioni dello Stato, ferrovieri, postelegrafonici e via dicendo, giù giù fino agli operai dei monopoli tabacchi (ed io capisco che coloro che fabbricano le sigarette sono un esempio di quelle categorie che possono anche tranquillamente scioperare come qualsiasi operaio privato). E con costoro si esamineranno tutte le grandi categorie dei pubblici impiegati senza pubblica funzione. Ma — sia ben chiaro — di tutti costoro il mio emendamento non si occupa affatto, perché nessuno di costoro esercita una funzione pubblica. Ora vediamo perché ho detto che il mio emendamento è accettabile dalle estreme, anche da quella comunista. Io mi metto — perché mi pare giustizia mettersi, e mi pare anche un buonsenso (con la «b» minuscola) — nei panni di coloro i quali la pensano diversamente da me. Per ciò capisco benissimo certe posizioni dei comunisti. Io non partecipo affatto all'opinione di coloro che hanno opposto ai comunisti ed ai marxisti in genere il fatto che nei Codici sovietici vi sia il divieto di sciopero per quelli che sono in Russia addetti agli uffici statali e alle imprese statali, mentre invece esso è libero per quelli che appartengono alle imprese private — alle poche imprese private — che vi sono. Io comprendo benissimo il punto di vista dei comunisti e dei socialisti: quello Stato, avendo, secondo quanto essi credono, abolito e distrutto l'antagonismo fra capitale e lavoro, e distrutto la lotta di classe, rappresenta un tale imperativo per il quale è logica l'obbedienza anche la più rigorosa. È un punto di vista che io e il mio gruppo certo non possiamo condividere, ma io comprendo benissimo la posizione dei comunisti in questo senso. Mi sia permesso dire che ciò ha qualche analogia con quello che dice un nostro grande e santo teologo: nel Paradiso non vi sarà più la fede, perché essa sarà trasformata in visione; non vi sarà più la speranza, perché essa sarà attuata; rimarranno solo l'amore, la carità. Così secondo voi nel regime bolscevico russo, avete esaudita ogni speranza, avete la certezza della perfezione; non vi è più che la vostra carità, il vostro ordine nuovo.

E così io capisco anche l'altra posizione delle estreme sinistre — e non solo delle estreme sinistre — in condizioni storiche completamente diverse, quella cioè dello sciopero sistematico, dello sciopero senza regola, e senza possibilità di accordo con uno Stato che sia capitalistico e borghese al punto da rappresentare costantemente un nemico inconciliabile con le aspirazioni e le necessità delle classi proletarie. Io capisco che in queste condizioni lo sciopero, tutti gli scioperi, e direi lo sciopero politico più degli altri, siano logici e coerenti. Ma, mi permetta l'onorevole Di Vittorio, siamo o non siamo noi in questo momento in uno Stato, che non è certamente il vostro Stato bolscevico, e non è neanche lo Stato marxista, ma non è neppure più quello Stato capitalista, quello Stato borghese, che fatalmente è — secondo le vostre dottrine — il nemico di ogni classe proletaria e contro il quale è giocoforza, è necessità cozzare sempre e con qualsiasi mezzo? Siamo invece — non potete non riconoscerlo — in un regime intermedio, siamo in uno stadio di «democrazia progressiva» (dite voi); tanto è vero che voi collaborate a questo Stato, alle sue leggi, al Governo; e potete anche collaborarvi, come fate in questo momento in Francia, stando alla opposizione, praticando quella tipica collaborazione democratica e parlamentare che è la collaborazione di Sua Maestà britannica. È rispetto a questo Stato repubblicano, democratico, progressista, che dovete considerare se sia lecito lo sciopero del funzionario pubblico, del magistrato, dell'agente della sicurezza pubblica, della finanza e via dicendo. E voi avete detto tante volte e tornerete a dire, allorquando si verrà a parlare di un Senato, che rappresenti in tutto o in parte le categorie, gli interessi, le corporazioni, chiamatele pure come volete: noi non vogliamo simile istituto, perché contro o oltre le categorie e le classi sta la totalità politica. Dunque a voi sta a cuore più che ad ogni altro lo Stato. Quello Stato in cui si concreta la volontà popolare, democraticamente espressa — attraverso le elezioni —, la volontà del popolo, che è il vero sovrano, e produce una Camera, che è la sovranità riflessa. Ora, proprio contro questo Stato, proprio contro questo Governo, proprio contro questo Parlamento, è assurdo che i pubblici funzionari, cioè coloro che sono altrettanti rappresentanti dello Stato, possano ribellarsi.

Né si dica che si tratta di una questione ipotetica; né ci obietti l'onorevole Di Vittorio che ciò non avverrà. Perché invece ciò è realtà, siamo proprio nel bel mezzo di un fatto enorme, lo sciopero dei magistrati. Io sono avvocato, ma non esito, criticando un'enormità, ad incorrere nel corruccio di qualche magistrato. Lo sciopero dei magistrati è sfuggito al controllo di qualsiasi sindacato e della stessa C.G.I.L., ed è stato fatto — a mio giudizio — da una piccola parte dei magistrati, contro la quale sta la grande maggioranza della nostra magistratura. Ma questo sciopero ha un significato gravissimo, come sintomo della dissoluzione dello Stato, della decadenza dello spinto civico, mentre riconosco che le classi proletarie, hanno avuto un contegno molte volte (non sempre, ma molte volte) riguardoso per la nostra situazione politica ed economica speciale. E mi spiace dire che è sfuggita a coloro che hanno promosso e mantenuto questo disgraziato sciopero l'enormità della cosa, sentita dal popolo, che avverte istintivamente che colui che manda in galera non può contemporaneamente diventare scioperante.

Di Vittorio. Bisognerebbe metterli in condizioni di non ricorrere a questo mezzo.

Clerici. Io comprendo pienamente, onorevole Di Vittorio, le giuste, le sacrosante ragioni dei magistrati, e più volte ho detto ed ora ripeto che il Governo deve riconoscere e soddisfare codeste legittime pretese. Di più comprendo, onorevole Di Vittorio, che siamo in un periodo di transizione e insieme di rivoluzione, in un periodo di formazione della Repubblica; e mentre si stanno costruendo le nuove istituzioni democratiche e repubblicane il terreno è ancora tutto ingombro dei ruderi, dei brutti ruderi, dell'antico regime.

Ed in questo stadio di transizione io comprendo ed anche giustifico e legittimo, in mancanza di leggi e di istituti specifici, questo sciopero della magistratura. Ma noi dobbiamo legiferare per l'avvenire, ed allora mi pare assurdo lo sciopero del magistrato, del pubblico ufficiale. Vediamo la legge considerare reato il rifiuto del pubblico ufficiale a compiere atti del suo ufficio, il fatto del giudice che nel caso singolo non renda la sentenza; dirò di più: il fatto del cittadino privato (di colui che occasionalmente riveste il carattere di esercente una funzione pubblica), che si rifiuta di dare man forte alla forza pubblica nel trarre in arresto un furfante in fuga o si rifiuta di prestare soccorso a chi versa in pericolo. E allora come mai il carabiniere, il soldato, l'agente di pubblica sicurezza, il magistrato, queste poche categorie che esercitano una così alta funzione pubblica, possono scioperare? Lo Stato può e deve trovare i mezzi, attraverso commissioni paritetiche, commissioni arbitrali, deve trovare le forme per soddisfare i legittimi desideri dei suoi funzionari, i quali, malgrado le funzioni pubbliche, sono uomini ed hanno bisogni e diritti. Soltanto i ministri ed i parlamentari hanno il privilegio e la caratteristica di risolvere da loro stessi le proprie difficoltà, giacché essi stabiliscono da loro stessi i propri emolumenti. Gli altri pubblici funzionari, che pure esercitano importanti funzioni nello Stato, non godono di un simile privilegio inerente alla sovranità. E allora bisognerà nel futuro stabilire delle commissioni arbitrali che diano a costoro delle garanzie, tutte le garanzie possibili: ma, a mio avviso, deve essere stabilito chiaramente il principio che gli organi dello Stato non possono andare contro lo Stato. E faccio osservare ai colleghi delle sinistre che non ammettere questo principio può essere pericoloso, particolarmente pericoloso per loro. Se ammettete che la magistratura, la polizia possano far sciopero, voi non solo venite ad infirmare la volontà del popolo sovrano che risiede, attraverso le votazioni, nel Parlamento; ma vi togliete, nell'eventualità della vostra famosa ascesa al potere, il diritto di contrastare a ipotetiche ma non impossibili resistenze proprio a codesto vostro governo futuro.

E spiego perché ho usato la frase «rinunzia al diritto di sciopero»; perché io faccio omaggio con ciò stesso al diritto di sciopero, che giustamente la Costituzione ammette e proclama. Ma le rinunzie ad un diritto garantito dalla legge sono ammesse e tutt'altro che rare. I Ministri e i Sottosegretari non rinunziano forse, in considerazione della loro carica, allo esercizio di qualsiasi arte, professione, commercio, industria, a qualsiasi funzione direttiva e amministrativa in società anonime e simili? Analogamente per i Deputati vi sono le incompatibilità parlamentari, per le quali i Deputati devono rinunziare a cariche, uffici; ed a questo proposito io dichiaro che vorrei che ci fossero maggiori incompatibilità in confronto del passato; che talune professioni, cominciando dalla mia, quella di avvocato, trovassero nella legge limitazioni più precise.

E veniamo ad altre rinunzie. Non abbiamo noi stabilito il diritto per qualsiasi cittadino di andare ovunque, e di porre ovunque egli creda il proprio domicilio e la propria residenza? Eppure quasi la metà dei cittadini italiani, tutte le donne sposate, rinunziano a questo diritto in forza dell'atto stesso del matrimonio, perché per norma di diritto civile la moglie deve seguire il marito ovunque egli stabilisca la sua residenza.

Dunque le rinunzie ad un diritto concreto sono possibili. Quindi mi pare che la rinunzia al diritto di sciopero possa essere tranquillamente accolta; ed in questo senso raccomando ai colleghi l'accettazione del mio emendamento. Esso, eventualmente, per la forma può essere coordinato con quello dell'onorevole Merlin e degli altri onorevoli colleghi che hanno fatto proposte analoghe. (Applausi).

Presidente Terracini. L'onorevole Caroleo ha facoltà di svolgere il seguente emendamento:

«Aggiungere il seguente comma:

«Questo è inteso come facoltà del prestatore di opera di astenersi in qualunque tempo del lavoro, e non si estende al personale addetto ai servizi essenziali per lo Stato, secondo le specificazioni della legge».

Caroleo. Poco resta da dire dopo quanto autorevolmente hanno esposto gli altri colleghi a proposito di questo tema che per me non ha tutta la delicatezza, che in esso si vorrebbe vedere. Avrei preferito che al posto del diritto di sciopero si dicesse che lo sciopero rientra nei diritti di libertà del lavoratore, perché anche la facoltà di incrociare le braccia, di fronte al datore di lavoro che non comprende, dovrebbe essere soltanto un aspetto di quella libertà del lavoratore, che in diversi articoli della nostra Costituzione è riconosciuta.

Dissento in questo dal collega Mazzei, il quale non fonderebbe lo sciopero sulla libertà del lavoro, ma lo farebbe consistere in un legittimo atto di violenza, che veramente io non so bene intendere perché mi pare che diritto e violenza siano termini inconciliabili.

La formulazione da me proposta ammette così, senza limitazione alcuna, il diritto del lavoratore di astenersi dalla prestazione d'opera in qualunque tempo nei confronti della classe padronale, senza ricercare per quale motivo questa astersione dal lavoro si determini. È troppo delicata la funzione del lavoratore — dell'uomo che si pone alle dipendenze della persona altrui — perché non si garantiscano tutte le manifestazioni dell'attività che all'altrui servizio viene prestata. E non può riconoscersi in via compensativa un uguale diritto ai datori di lavoro, perché non siamo sullo stesso piano di realtà giuridica. Se i datori di lavoro chiudono i propri stabilimenti, possono recare pregiudizio al proprio portafoglio limitando i profitti e recando anche danno alla collettività nazionale; ma quando gli stabilimenti chiudono in faccia a quelli che prestano l'opera loro, in sostanza, non fanno che avvalersi di quel tale strumento ricattatorio della fame, che non può essere consentito in uno Stato libero e democratico come si prepara ad essere l'Italia. C'è una limitazione nella mia formulazione, una limitazione che corrisponde su per giù a quella che è stata inserita in diversi emendamenti, con questo di differente, che per me non è nemmeno possibile ipotizzare lo sciopero degli impiegati dello Stato per tutte le ragioni che sono state dette da molti colleghi e molto autorevolmente dall'onorevole Merlin. I funzionari si identificano con lo Stato; i funzionari sono compartecipi della sovranità: quindi non possiamo fare l'ipotesi di reazione dello Stato a sé stesso. Nei confronti di tutti i lavoratori, lo Stato ha un diritto e un dovere di difesa per i casi di conflitto tra l'interesse pubblico e l'interesse privato. Indubbiamente in ogni contrasto fra questi due interessi deve prevalere, perché è preminente, l'interesse dello Stato a tutela della collettività stessa. Ed è per questo che nel mio emendamento si afferma che lo sciopero non si estende al personale addetto ai servizi essenziali per lo Stato. Non si distingue qui tra servizi privati o pubblici perché può accadere nella pratica che un servizio privato diventi, in un determinato momento, essenziale per lo Stato e che quindi tutti i dipendenti, nello svolgimento di questo servizio privato, non possano da un momento all'altro allontanarsi dal lavoro.

Mi spiego con un esempio. Se c'è una ferrovia privata, che soddisfa alle esigenze d'una società industriale, e in un determinato momento si arresta, per il tronco di quella ferrovia privata, il corrispondente servizio pubblico statale, ecco che si verifica la necessità essenziale per lo Stato di fare ricorso ai dipendenti di quella società privata, che, appunto perché in quel momento finiscono di servire interessi privati e vengono chiamati ad adempiere servizi di interesse pubblico, devono eccezionalmente rinunziare, in omaggio al dovere di solidarietà collettiva, a quello che è un diritto, che nella Costituzione è giusto sia riconosciuto.

Si dice che scioperano anche i magistrati, in questo delicato momento della vita del nostro Paese. E nessuno può essere toccato da così mortificante spettacolo come chi vive vicino a questa veramente egregia e benemerita categoria di funzionari dello Stato. Si tratta, per lo più, di vecchi uomini di legge, che hanno sacrificato tutto quello che avevano, per mantenere intatta e pura la propria coscienza; si tratta della categoria che è rimasta ed è al disopra di tutto l'illecito commercio e l'illecito baratto della coscienza, che si fa da parecchi membri della collettività nazionale. Ma hanno scioperato; e la ragione è stata esattamente rilevata da molti oratori e, mi pare, anche in una interruzione di qualche istante fa dell'onorevole Di Vittorio. Si tratta di momenti eccezionali: non possono andare oltre il limite, cui sono arrivati, questi eroici primi servitori dello Stato. E la ragione è nel fatto che non funziona quel tale potere legislativo, da cui tutti i funzionari d'ogni grado attendono il riconoscimento dei loro diritti. Non ha colpa nessuno o, perlomeno, è colpa di nessuno e di tutti, se l'Italia non può attualmente avere un potere legislativo, che liberamente si esprima. E assistiamo alla indifferenza del Governo segnalata anche con parole elevate ed accorate, qualche giorno addietro, dall'illustre onorevole Presidente, di fronte ad interpellanze, interrogazioni, e perfino mozioni, che da tutti i settori dell'Assemblea si sono presentate pure per quei tali pensionati, che rappresentano oggi in Italia lo spettacolo più avvilente della vita nazionale; perché c'è gente che, dopo aver servito lo Stato, muore di fame, mentre noi fondiamo la Repubblica sul lavoro ed assicuriamo tutto quello che andiamo assicurando ai lavoratori italiani.

Ma è momento eccezionale questo, durante il quale non si può nemmeno esercitare il controllo normale sulla vita governativa nazionale.

Noi dobbiamo augurarci che questo periodo venga presto a cessare e che lo stato giuridico dei funzionari pubblici, che deve provenire e proviene unicamente dalla legge, non possa essere considerato alla stregua dei contratti privati, dei contratti della classe padronale, che può pensare di sfruttare chi la serve, mentre lo Stato italiano è uno Stato democratico e a chi presta servizio alle sue dipendenze deve, con le proprie leggi, assicurare il diritto alla vita. (Applausi).

Presidente Terracini. Gli onorevoli Marina, Mazza, Tumminelli, Penna Ottavia, De Falco, Rognoni, Vilardi, Cicerone, Puoti, Trulli hanno presentato, il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«I conflitti del lavoro sono regolati dalla legge.

«Nell'interesse superiore della collettività lo sciopero e la serrata sono proibiti».

«Se questo testo fosse respinto, sostituirlo col seguente:

«I conflitti del lavoro devono essere sempre sottoposti all'arbitrato obbligatorio.

«Lo sciopero e la serrata sono riconosciuti e disciplinati dalla legge».

L'onorevole Marina ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

Marina. Aggiungerò brevi parole a quanto i precedenti oratori hanno già detto e saranno parole che scaturiscono dalla pratica del lavoro quotidiano, perché io dal 1920 a oggi, mi sono sempre interessato di questioni sindacali, poiché ho diretto aziende e dirigo tuttora aziende industriali. Ho visto nella mia pratica che, in effetti, con lo sciopero noi non riusciamo quasi mai a risolvere vantaggiosamente il problema che lo sciopero stesso propone e che in definitiva questo si risolve troppo spesso a danno dei prestatori d'opera.

Una volta che lo sciopero viene impostato, dobbiamo per risolverlo ritrovarci al tavolo della discussione e definire ancora amichevolmente attraverso un compromesso quel problema che con lo sciopero una delle parti intendeva risolvere colla forza. Cosicché abbiamo sempre sentito fin dai passati anni e ancora più in questi ultimi scorci di tempo, in cui gli scioperi sono all'ordine del giorno, la necessità di avere un organismo che intervenga come arbitro conciliatore nelle varie discussioni fra datori di lavoro e prestatori d'opera.

Anche ultimamente è stata posta sul tavolo delle controversie sindacali una discussione di una categoria industriale senza raggiungere l'accordo, cosicché abbiamo sentito e sentiamo la necessità che intervenga qualcuno a metterci d'accordo e pertanto ci rivolgiamo in questo momento al Ministero del lavoro. Il che dimostra che questa necessità dell'arbitrato è sentitissima; nella pratica corrente anziché arrivare allo sciopero si desidera, tanto dall'una che dall'altra parte, ottenere una conciliazione preventiva. Non si deve dimenticare che esiste anche il diritto di chi vuol lavorare, pur se alcuni compagni hanno dichiarato lo sciopero, e che deve esistere anche il diritto di serrata per i datori di lavoro per difendersi da alcune aberrazioni dello sciopero. Queste considerazioni spiegano l'emendamento da me proposto che è in parte modificativo ed in parte aggiuntivo all'emendamento proposto dall'onorevole Merlin, che sta riscuotendo la generalità dei consensi, perché i conflitti del lavoro, e non il solo sciopero, debbono essere regolati e sottoposti all'arbitrato obbligatorio e riconosciuti e disciplinati dalla legge. Ritengo che con una legge fatta d'accordo fra le parti dell'Assemblea, ben studiata e ben compulsata, si potrebbe risolvere interamente e praticamente il problema, perché i conflitti del lavoro non regolati dalle parti interessate non si esasperino e portino un danno alla produzione, che è bene comune e che rappresenta l'interesse generale ed il benessere della Nazione.

Presidente Terracini. Gli onorevoli Grassi, Bozzi, Vallone, Crispo, Fusco, Reale Vito, Nitti, Bergamini, Cifaldi, Molè, Paratore hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero è regolato dalla legge».

L'onorevole Grassi ha facoltà di svolgerlo.

Grassi. Egregi colleghi, dirò brevissime parole. Voglio ricordare all'Assemblea che la prima Sottocommissione, nell'affermare il diritto di sciopero, ha rilevato che un Paese libero non può non riconoscere tale diritto, fra tutti i diritti che accompagnano le organizzazioni dei lavoratori. Come abbiamo riconosciuto le libertà individuali e la libertà di organizzazione, dobbiamo anche riconoscere quelli che sono i diritti delle organizzazioni e quindi il diritto di sciopero. Soltanto il regime totalitario non ammette il diritto di sciopero, ma noi che vogliamo fondare in piena libertà il nostro ordinamento costituzionale non possiamo non riconoscere il diritto di sciopero. Su questo mi pare che siamo tutti d'accordo.

La prima Sottocommissione stabilì però alcuni limiti; e specialmente per quello che riguardava il preannuncio dello sciopero, in maniera che lo sciopero non venisse come una sorpresa per la collettività, dato che una categoria, anche se ha dei diritti, non può sopraffare e tanto meno andar contro gli interessi della collettività. E parlando della collettività, non parlo soltanto della collettività nazionale, perché abbiamo assistito durante l'ultimo sciopero americano ai gravi danni che detto sciopero, svoltosi in America, venne a produrre anche nel nostro continente. Quindi il preannuncio dello sciopero noi lo ritenemmo nella prima Sottocommissione come necessario; e stabilimmo anche il principio del tentativo di conciliazione, nel senso che questa questione deve essere regolata dalla legge.

È sempre opportuno esaminare la possibilità di evitare gli scioperi, che sono sempre un turbamento della vita sociale. Se è possibile contenerli e risolvere le controversie con accorgimenti previsti e regolati dalle leggi, si compie opera utile per la collettività.

Quindi il tentativo di conciliazione è uno degli altri elementi che la prima Sottocommissione stabilì come limite al diritto di sciopero.

Infine la prima Sottocommissione stabilì anche il principio che la legge doveva assicurare il funzionamento dei pubblici servizi.

Io non insisto su questi principî e non voglio fermare l'attenzione dell'Assemblea in questo momento su queste questioni di dettaglio.

Mi associo a tutte le idee ed a tutti i propositi che l'onorevole Merlin ha portato nello svolgimento del suo emendamento che, in fondo, non fa che riprodurre integralmente il testo francese, che oggi è nel preambolo di quella Costituzione e all'emendamento dell'onorevole Cortese che sostanzialmente afferma la stessa cosa. Quindi noi potremmo aderire, come pare che le altre parti dell'Assemblea vogliano aderire, all'ordine dei giorno Merlin Umberto, però vorremmo pregare l'onorevole Merlin e tutti gli altri presentatori dell'emendamento di considerare l'opportunità, dal punto di vista tecnico-giuridico, di una maggiore esattezza di espressione, perché col dire che il diritto di sciopero si esercita nell'ambito della legge che lo regola, non si fa che riprodurre testualmente la dizione francese. E preferibile, invece delle parole: «nell'ambito delle leggi che lo regolano», dire: «il diritto di sciopero è regolato dalla legge», perché nella legge c'è la regola. Quindi mi pare che possiamo esprimere con una formulazione più esatta gli stessi concetti e gli stessi propositi che hanno animato l'onorevole Merlin, e sui quali pare che tutta l'Assemblea voglia votare. Chiedo quindi che sia approvata una forma più chiara che dica che «il diritto di sciopero è regolato dalla legge».

Non ho altro da aggiungere e mi rimetto al voto dell'Assemblea.

Presidente Terracini. Sono stati così svolti tutti gli emendamenti all'articolo 36.

(La seduta, sospesa alle 20, è ripresa alle 21,15).

Presidente Terracini. Invito l'onorevole Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione, ad esprimere il suo avviso sugli emendamenti proposti.

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione. Onorevoli colleghi, io veramente ho poca volontà di parlare, come voi di ascoltarmi, e, quindi, pur dovendo interloquire su ben 22 emendamenti ed altrettante illustrazioni, confido di poter contenere il mio discorso nel giro di quattro o cinque minuti.

Gli emendamenti si possono suddividere in due categorie: vi sono emendamenti soppressivi e vi sono emendamenti modificativi della formula che è stata presentata dalla Commissione.

Per quanto riguarda gli emendamenti soppressivi, la tesi generalmente sostenuta è che il tema dello sciopero vada rimesso alla legislazione ordinaria. Invece la Commissione si è, fin dall'inizio, orientata nel senso che il tema debba essere incluso nella Carta costituzionale. La ragione di questa decisione ha carattere storico. Infatti, se è vero che lo sciopero è ormai penetrato nella coscienza civile di tutti i popoli, ed anche del popolo italiano, è anche vero che nei vent'anni del fascismo lo sciopero è stato negato, perseguitato e punito. Ciò non può essere dimenticato. Si tratta di un diritto fondamentale della classe lavoratrice, protagonista della nuova storia d'Italia, e quindi si è ritenuto opportuno consacrare questo diritto nella Costituzione. Ma, fra gli emendamenti soppressivi, ve n'è pure qualcuno che intende negare il diritto di sciopero.

Non mi soffermo a discutere minutamente le argomentazioni esposte a sostegno della tesi. Se avessi maggior tempo a disposizione e potessi abusare dello spirito di sopportazione dell'Assemblea, potrei dire all'onorevole Damiani non essere esatto che vi sia contrasto irrimediabile fra l'articolo 36, che sancisce il diritto di sciopero, e gli articoli che vanno dal 30 al 35, dove si enumerano gli istituti e le forme attraverso i quali si attua la tutela del lavoro da parte dello Stato, perché se è vero che lo Stato è chiamato a tutelare il lavoro, con ciò non si esclude che anche la classe lavoratrice possa tutelare essa pure direttamente il lavoro.

In sostanza una tutela si può accomunare all'altra, senza che l'una sia dall'altra esclusa o menomata.

Potrei osservare all'onorevole Rodi, firmatario di un altro emendamento soppressivo, non essere esatto che lo sciopero sia sempre un fatto politico. Ad esempio, lo sciopero inteso a regolare il salario ha carattere essenzialmente economico e non lo perde anche se per avventura vi si intrecciano elementi di natura politica.

All'onorevole Zotta, che accusa l'articolo 36 di autorizzare la guerra civile tra uomo e uomo, potrei rispondere che egli esagera e che non vi è nulla di incivile in un contrasto che tende a risolversi nella affermazione di un diritto. Non è vero che la lotta sia sempre un male; è anzi dalla lotta che si genera la vita ed è il contrasto che determina il progresso.

Debbo poi contestare un concetto espresso da diversi oratori che ravvisano nello sciopero un atto di violenza. Lo sciopero non è un atto di violenza. La resistenza non è violenza. Per violenza si deve intendere una attività positiva, non un'attività negativa. Il fatto puro e semplice della astensione dal lavoro potrà costituire bensì la rottura di un vincolo contrattuale o la sua sospensione; ma non in questo consiste la «violenza».

Pel Codice penale Zanardelli lo sciopero non era punito come tale, ma solo in quanto venisse esercitato mediante violenze o minacce. In altre parole, non considerava reato lo sciopero, ma la violenza o la minaccia: circostanze di fatto a quello estranee e contingenti. Dunque lo sciopero non è un atto di violenza.

Ed ora vengo a parlare degli emendamenti di carattere modificativo. Il primo è dell'onorevole Giannini, il quale propone, ponendoli sul medesimo piano, che siano vietati tanto lo sciopero che la serrata. Ma una distinzione si dovrà fare. Intanto mi limito ad una osservazione. L'emendamento dice: «Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro sono regolati dalla legge».

Dunque, se lo sciopero e la serrata sono vietati, dovranno essere anche puniti, perché, se fossero semplicemente vietati e non puniti, ci troveremmo davanti ad uno di quei sermoni dei quali ha parlato, criticando la Costituzione, l'onorevole Calamandrei. Non credo che a tanto voglia giungere l'onorevole Giannini.

L'onorevole Giannini ha affermato che molti degli articoli del titolo terzo sono inutili, e che inutile è anche l'articolo 36. Mi dispiace che non sia presente l'onorevole collega; ma se fosse presente gli vorrei dire che, se è inutile, doveva semplicemente proporne la soppressione non la sostituzione con altro: solamente così egli sarebbe stato logicamente coerente con se stesso.

Quale fondamento del suo emendamento che vieta lo sciopero, come la serrata, egli dice che non si può ammettere la libertà di recar danno agli altri. Ma l'onorevole Giannini non si accorge, che, negando il diritto di sciopero, si ammette la libertà di far subire ad altri il danno ingiusto di condizioni di lavoro inique.

Del resto, l'onorevole Giannini è isolato in questa pretesa, perché tutti gli altri riconoscono o il diritto di serrata e il diritto di sciopero insieme, oppure il solo diritto di sciopero, sia pure condizionato.

Non mi occupo della serrata, perché mi indugerei troppo a lungo e perché so che il pensiero e il sentimento dell'Assemblea sono tali da rendere superfluo esporre le ragioni per le quali sia la Commissione plenaria come le Sottocommissioni hanno, se non all'unanimità, con una maggioranza strabocchevole ritenuto che mentre si deve parlare del diritto di sciopero non si debba invece parlare anche di un diritto di serrata.

Se ci mettiamo su un piano filosofico, se consideriamo il diritto di serrata e il diritto di sciopero come attributi della libertà della persona, forse potrebbe permanere un dubbio, un'esitanza al riguardo. Ma se, invece, consideriamo le cose dal lato pratico, cioè dal lato della realtà, allora ci avvediamo che i due fenomeni esigono una valutazione assolutamente diversa. In generale la serrata è un atto di rappresaglia. Inoltre lo sciopero trova in se stesso le ragioni della sua limitazione. Il fatto che dei lavoratori si astengano dal lavoro e quindi dal percepire il salario che è l'unica fonte di vita per loro e per le loro famiglie, è già un motivo fortissimo perché lo sciopero non duri molto. Invece, data la condizione economica dell'industriale, la serrata si può anche protrarre a lungo.

Mentre lo sciopero non può avere — salvo il caso di sciopero politico — che il fine di migliorare il contratto di lavoro, invece le serrate possono avere finalità economiche che sono al di fuori del regolamento dei rapporti di lavoro e degli stessi rapporti fra capitale e lavoro. Infatti l'industriale può ricorrere alla serrata come ad una manovra per limitare la produzione, per rialzare i prezzi e così via.

Per tutte queste ragioni e per altre ancora che è inutile enumerare, la Commissione ha ritenuto potersi parlare del diritto di sciopero e non del diritto di serrata.

Quindi, limitando la disposizione al diritto di sciopero, avverto che gli emendamenti, sostanzialmente, si possono dividere così: in quelli che ammettono il diritto di sciopero, puramente e semplicemente, e in quelli che, ammettendolo a favore degli altri lavoratori, chiedono che sia vietato ai pubblici impiegati e in genere agli esercenti pubbliche funzioni e addetti a pubblici servizi. Particolarmente l'onorevole Clerici ha insistito perché il diritto di sciopero sia accompagnato da queste ed altre limitazioni.

Avverto subito, esprimendo il pensiero della Commissione, che queste limitazioni sono in pratica estremamente difficili. Infatti, quando parliamo di pubblici ufficiali o di funzionari pubblici, parliamo di un elemento che è estremamente fluido, cioè estremamente mutevole ed instabile. E ciò non soltanto perché le nozioni di pubblico ufficiale e di pubblica funzione sono molto varie in giurisprudenza e in dottrina, ma soprattutto perché andiamo creando uno Stato che accentra in sé una quantità di interventi, entrando, si può dire, in tutti i rapporti sociali, onde avviene che aumentano continuamente le pubbliche funzioni e i pubblici servizi. E anche nel caso che si volesse limitare il divieto a coloro che detengono una parte del potere sovrano, vi sarebbe pur sempre motivo di perplessità perché, fra l'altro, il potere sovrano del pubblico ufficiarle non appartiene soltanto ai dipendenti dello Stato e degli enti parastatali, ma anche a dipendenti di privati, come è, ad esempio, il caso dei messi esattoriali che dipendono da ditte appaltatrici private. Almeno nei confronti di costoro che sono abbandonati, per quanto riguarda il contratto di lavoro, all'iniziativa del privato speculatore, avremmo rimorso se li dovessimo lasciare completamente indifesi.

Per quanto poi riguarda i pubblici servizi, essenziali o meno, anche qui vi è motivo di incertezza, perché anche questa è materia mutevole e fluida. Si tratta adunque di limitazioni pericolose. Altri invece vorrebbe limitare il diritto di sciopero, subordinandolo ai mezzi di conciliazione, fra i quali annoverano anche l'arbitrato preventivo, non obbligatorio. Questa forma di arbitrato rappresenta, sì, un mezzo di conciliazione, ma si è giustamente osservato che è inutile inserire questi mezzi nella Carta costituzionale, per l'ovvia ragione che i lavoratori non scioperano per capriccio, o per il gusto di affamare se stessi e i loro figliuoli, ma perché versano in istato di necessità e quindi i mezzi di conciliazione sono sempre impiegati, senza bisogno di renderli obbligatori colla Costituzione.

Altri ha aggiunto l'arbitrato obbligatorio, vale a dire l'arbitrato vincolativo che, come tale, è la negazione della libertà di sciopero.

Posso anche aggiungere che in questi arbitrati ho poca fiducia, perché sarebbero costituiti — né può essere diversamente — in modo paritetico da datori e da prestatori di lavoro, sotto la presidenza di un Magistrato.

Ora, i giudici lavoratori e i giudici datori di lavoro sono troppo pregiudicati in partenza perché i loro personali interessi si identificano con quelli delle parti in contesa.

E nemmeno ho fiducia nel magistrato, non già perché dubiti della sua intelligenza o della sua rettitudine, ché anzi io professo una grandissima stima per il magistrato in genere, ma perché non credo nella sua capacità specifica. Perché egli possa decidere se abbiano ragione i lavoratori o non piuttosto i datori di lavoro, dovrebbe sopratutto conoscere non solo le condizioni di quel particolare ramo dell'industria ma anche di quella speciale azienda cui la vertenza si riferisce. Se queste condizioni sono ingiuste, anche il suo giudizio peccherà di astrattezza e potrà quindi essere ingiusto con danno delle parti e della stessa produzione. In sostanza, io credo che i giudici migliori siano gli stessi lavoratori, e tanto più lo saranno quanto più largamente saranno attuati i provvedimenti consacrati nella Costituzione. Ad esempio, una grande remora alla proclamazione dello sciopero deriverà da una più generalizzata stipulazione dei contratti collettivi mediante i quali saranno stipulate condizioni di lavoro più umane e più giuste; e mercé i consigli di gestione i lavoratori potranno conoscere le reali condizioni dell'azienda e quindi meglio ad esse adeguare le loro pretese. Oggi, troppe volte, gli scioperi sono fatti alla cieca.

È per questi motivi che riteniamo non accettabili le limitazioni che furono proposte.

Restano ancora pochi emendamenti, e avrò così finito. Ricordo quello dell'onorevole Caccuri, che vuole lo sciopero limitato ai motivi economici. Verrebbero in questa maniera esclusi gli scioperi di solidarietà e di protesta, sebbene tanto gli uni che gli altri possano avere la loro ragion d'essere in un motivo di carattere economico. Ma certamente sarebbe escluso lo sciopero politico.

Non voglio dissertare, tanto più che ho promesso di essere breve.

Indipendentemente dalla considerazione che lo sciopero politico è un atto rivoluzionario e che le rivoluzioni non si codificano, mi limito ad osservare che stiamo elaborando il Titolo III intitolato: «Dei rapporti economici». Ne consegue che il tema che dobbiamo trattare è solamente lo sciopero «economico». Delle altre specie non ci occupiamo e restano abbandonate al costume, alle condizioni, alle necessità dell'avvenire. Lo sciopero politico potrà essere un male o un bene, secondo i casi. Un certo sciopero, ricordato dall'onorevole Di Vittorio, fu un tempo la salvezza della Germania. Io ricordo, come altamente benemeriti della civiltà, gli scioperi di Genova e di Milano che affrettarono l'alba tanto auspicata della nostra liberazione.

Restano gli ordini del giorno Merlin, Cortese, Grassi e Foa che più si avvicinano al testo. Io qui sono soltanto l'interprete del pensiero della maggioranza della Commissione. L'onorevole Ruini dice che ne sono il notaio. Come tale dichiaro che la Commissione mantiene il suo testo. E lo mantiene per le ragioni che ho già detto, cioè per l'impossibilità, o la estrema difficoltà di fissare oggi per l'avvenire limiti e condizioni. Lo mantiene anche per una ragione storica, per noi importante: lo sciopero è stato per lunghi anni negato, perseguitato e punito. Ci sono cinque articoli nel Codice penale di Mussolini del 1930 che colpiscono lo sciopero. Bisognava rivendicare nel modo più solenne e lapidario questo diritto fondamentale del lavoratore. A base del diritto di sciopero stanno ragioni varie e diverse: lo stato di necessità; il vizio del consenso da parte del lavoratore che è in condizione deteriore di fronte al datore di lavoro ecc. Ma la ragione più vera, nella quale tutti consentiamo, è che la condizione economica e morale del lavoratore è troppo al disotto di quello che impongono l'equità e la giustizia. È questa la ragione fondamentale!

Né va dimenticata un'altra ragione. Il fatto che si enunci il diritto di sciopero puramente e semplicemente non vuol dire che tale diritto non possa essere regolato. Il diritto è limite. Non si può concepire un diritto senza un limite. Lo potrà quindi fissare, occorrendo, il legislatore futuro. Non vi è dunque motivo per cambiare il testo.

E vi è un'ultima ragione che induce la Commissione a non decampare dal testo ed è che la questione dello sciopero è stata lungamente e fortemente dibattuta prima nelle due Sottocommissioni e poi in seduta plenaria alla Commissione dei settantacinque dove sono stati discussi precisamente questi medesimi emendamenti.

Non disconosco che gli emendamenti degli onorevoli Foa, Merlin, Cortese e Grassi sono quelli che si avvicinano maggiormente al testo. Vedrà l'Assemblea nella sua alta coscienza se siano da preferire. Ma la Commissione ritiene suo dovere di mantenere il suo testo inalterato. (Applausi a sinistra).

Presidente Terracini. Chiederò agli onorevoli presentatori degli emendamenti se vi insistono. Onorevole Damiani, mantiene l'emendamento?

Damiani. Lo mantengo.

Presidente Terracini. Onorevole Colitto, mantiene l'emendamento?

Colitto. Lo mantengo.

Presidente Terracini. Onorevole Caccuri, mantiene gli emendamenti?

Caccuri. Mantengo l'emendamento soppressivo e subordinatamente aderisco a quello sostitutivo dell'onorevole Merlin Umberto.

Presidente Terracini. Lei ha firmato anche l'emendamento Clerici.

Caccuri. Ritiro la mia firma.

Presidente Terracini. Onorevole Zotta, mantiene i suoi emendamenti?

Zotta. Mantengo l'emendamento soppressivo, mentre ritiro quello formulato in via subordinata, aderendo alla formula dell'onorevole Merlin Umberto, nella fiducia che il legislatore ordinario abbia a circoscrivere e disciplinare l'esercizio del diritto di sciopero con norme giuridiche che ne facciano uno strumento di elevazione e non un mezzo di lotta sociale e politica.

Presidente Terracini. Onorevole Corbino, mantiene l'emendamento presentato con l'onorevole Quintieri Quinto?

Corbino. Ritiriamo l'emendamento perché nella sua parte essenziale corrisponde agli emendamenti degli onorevoli Merlin Umberto e Cortese. C'è solo una differenza: non abbiamo voluto dare nessun significato classista alla nostra proposta. A nostro giudizio, nella funzione dell'imprenditore c'è anche quella di coordinare i propri costi con quelli dei concorrenti all'interno e all'esterno. Se togliamo la possibilità di fare la coordinazione, potremo correre il rischio che l'imprenditore che fallisce, perché non avrà potuto fare la serrata, si rivolgerà allo Stato per avere il risarcimento degli oneri del fallimento.

Presidente Terracini. Poiché l'onorevole Tumminelli non è presente, l'emendamento s'intende decaduto.

Onorevole Gabrieli, mantiene il suo emendamento?

Gabrieli. Lo mantengo limitatamente al primo periodo.

Presidente Terracini. Onorevole Belotti, mantiene il suo emendamento?

Belotti. Lo ritiro.

Presidente Terracini. Onorevole Merlin, mantiene il suo emendamento?

Merlin Umberto. Lo mantengo.

Presidente Terracini. Onorevole Cortese, mantiene il suo emendamento?

Cortese. Poiché il mio emendamento è sostanzialmente uguale a quello dell'onorevole Merlin Umberto, per economia di tempo vi aderisco.

Presidente Terracini. Poiché l'onorevole Romano è assente, l'emendamento si intende decaduto.

Onorevole Perrone Capano, mantiene il suo emendamento?

Perrone Capano. Lo mantengo.

Presidente Terracini. Segue l'emendamento dell'onorevole Giannini.

Russo Perez. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Russo Perez. Dichiaro di far mio l'emendamento Giannini, che in questo momento non è nell'aula.

Presidente Terracini. Sta bene. Poiché l'onorevole Mazzei non è presente, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Foa, mantiene il suo emendamento?

Foa. Lo mantengo.

Presidente Terracini. L'onorevole Clerici ha presentato una seconda formulazione del suo emendamento, firmata anche dagli onorevoli Belotti, Dominedò, Benvenuti, Chatrian, Castelli Avolio, Biagioni, Cremaschi Carlo, Tosi, Balduzzi, Mortati, Bonomi Paolo:

«Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano.

«L'assunzione di qualsiasi funzione pubblica implica la rinunzia all'esercizio di tale diritto».

Quale delle due formulazioni mantiene?

Clerici. Rinunzio alla prima e mantengo la seconda.

Presidente Terracini. Onorevole Caroleo, mantiene il suo emendamento?

Caroleo. Aderisco all'emendamento dell'onorevole Merlin Umberto.

Presidente Terracini. Onorevole Marina, mantiene i suoi emendamenti?

Marina. Ritiro il primo e mantengo quello subordinato.

Presidente Terracini. Onorevole Grassi, mantiene il suo emendamento?

Grassi. Ringrazio l'onorevole Relatore di aver riconosciuto che la formula mia e dei miei colleghi è più semplice e più italiana; ma poiché l'onorevole Merlin Umberto mantiene il suo testo, che nella sostanza coincide con il nostro, vi aderisco.

Presidente Terracini. Passiamo ora alla votazione degli emendamenti. Fra di essi, si allontana di più dal testo della Commissione quello sostitutivo dell'onorevole Giannini, fatto proprio dall'onorevole Russo Perez, del seguente tenore:

«Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro sono regolati dalla legge».

Dovrò quindi mettere in votazione per primo questo emendamento.

Di Vittorio. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Di Vittorio. A nome del gruppo comunista dichiaro che voteremo contro l'emendamento dell'onorevole Giannini e contro gli emendamenti soppressivi presentati dal settore di destra dell'Assemblea. Per spiegare questo atteggiamento desidero richiamare l'attenzione dell'Assemblea sull'enorme importanza del voto che stiamo per dare e sulla grande aspettativa che vi è nel Paese per questo voto, non soltanto da parte della classe operaia, ma anche da parte di tutti gli strati dei lavoratori intellettuali, che sono enormemente interessati alla questione e verso i quali si appuntano le maggiori critiche e le maggiori riserve per quanto attiene al diritto di sciopero.

Alcuni colleghi hanno voluto drammatizzare lo sciopero paragonandolo ad uno stato di guerra; alcuni altri hanno parlato addirittura della «legge della foresta»; altri ancora hanno parlato della possibilità di una rottura permanente fra i lavoratori e lo Stato: una specie di rivolta permanente dei lavoratori contro lo Stato, contro la collettività, contro la società nazionale. Non vi è nulla di così drammatico. Lo sciopero, signori, è un prodotto della civiltà moderna. Quegli storici i quali si dilettano a ricercare nella storia antica degli esempi di sciopero perdono il loro tempo, poiché lo sciopero moderno è un prodotto della civiltà capitalistica e dello sviluppo dell'industria.

Una voce. Menenio Agrippa!

Di Vittorio. So anch'io del successo di curiosità che ha avuto il celebre apologo, il quale paragonava i diversi strati della società al corpo umano; si sarebbe potuto chiedere a quale strato della società corrispondessero quegli organi, di cui nessuno desidera ricevere l'attributo come un soprannome. (Si ride).

Lo sciopero, dunque, è un prodotto della civiltà moderna; e, lungi dall'essere la guerra permanente, la rottura di tutti i rapporti sociali, il cannibalismo, è stato obiettivamente nella storia d'Italia e di tutti i popoli d'Europa e d'America uno stimolo al progresso industriale ed al progresso economico, in generale.

Noi abbiamo avuto in Italia dei liberali, come l'onorevole Einaudi, che, a più riprese, in numerosi scritti, hanno riconosciuto che lo sciopero in Italia, come tutta l'azione del movimento sindacale italiano, dal suo inizio, è stato uno strumento di stimolo allo sviluppo, ha impedito ad alcuni industriali di adagiarsi sul profitto, che si poteva guadagnare mediante i bassi salari, mediante lo sfruttamento intenso dei lavoratori, mantenendo un'attrezzatura tecnica arretrata o superata.

Al momento della crisi, lo sciopero esprime una situazione di disagio, una rottura di equilibrio, determinatasi in un settore dell'attività economica e produttiva. Bisogna allora ristabilire un nuovo equilibrio. E qual è stato finora il fattore per ristabilire il nuovo equilibrio?

Poiché non era possibile adagiarsi su uno sfruttamento intenso dei lavoratori, poiché era necessario migliorare le loro condizioni di vita, sia aumentando i salari, sia diminuendo le ore di lavoro, bisognava ricorrere ad altro mezzo.

In via generale, questo mezzo era la modernizzazione degli impianti, una più razionale organizzazione del lavoro; e questo ha costituito lo stimolo al progresso.

In fondo, nella storia economica del nostro Paese, tutto il progresso industriale, che abbiamo avuto dal 1880 sino allo scoppio della prima guerra, è stato accompagnato dallo sviluppo del movimento della classe operaia italiana e dallo sviluppo e dalla intensità degli scioperi.

Quindi, non strumento di guerra, o di guerra civile, o di rottura di tutti i rapporti sociali, o di caos, ma strumento obiettivo di progresso.

Qui devo deplorare che un settore di questa Assemblea abbia sentito il bisogno, per mezzo dell'onorevole Giannini, di presentare un emendamento, col quale si chiede di vietare lo sciopero.

Giannini. Ed anche la serrata.

Di Vittorio. L'onorevole Giannini in un tempo recente ha creduto opportuno di aggiungere al nome del partito dei senza partito l'attributo di liberale ed anche di democratico.

L'onorevole Giannini può anche aggiungere altri nomi al fronte dell'«Uomo Qualunque», però con questo emendamento presentato, l'onorevole Giannini è obiettivamente portatore di una mentalità e di una concezione puramente fascista. (Commenti a destra).

Badate che in Italia il diritto di sciopero è stato conquistato dalle masse lavoratrici e riconosciuto da un Governo liberale presieduto dall'onorevole Giolitti. E da allora non vi è stato nessun liberale e meno ancora nessun democratico in Italia che abbia chiesto la soppressione del diritto di sciopero. Il divieto del diritto di sciopero è venuto in Italia col fascismo; è stato abolito questo divieto coll'abbattimento del fascismo.

Una voce a destra. In Russia?

Di Vittorio. Il diritto di sciopero è venuto in Italia con la democrazia e con essa il diritto di sciopero era morto in Italia. Oggi, la democrazia risorta deve riconoscere il diritto di sciopero come la espressione più ampia della sua rinascita contro la concezione fascista, di cui si è reso portatore l'onorevole Giannini col proporre di vietare il diritto di sciopero. (Applausi a sinistra Interruzioni a destra).

Anche altri oratori della destra si sono intrattenuti molto sui danni gravi che lo sciopero recherebbe alla società nazionale, alla collettività, ad altri lavoratori; ma da quel settore nessuno si è preoccupato del danno vero e grave che porta alla società il superprofitto speculativo dei monopoli economici e dei grandi trust capitalistici. (Applausi a sinistra).

Contro questi, voi non domandate nessuna misura; domandate invece le misure contro un diritto naturale. Ripeto la bella frase dell'onorevole Merlin: «Il diritto naturale del lavoratore a lavorare o a non lavorare a seconda della propria libera determinazione», a seconda cioè che siano riconosciuti o siano misconosciuti i propri diritti.

È vero che lo sciopero in determinate circostanze e per determinati servizi può recare danno alla società, o almeno a numerosi cittadini estranei alla contesa, ma questo fatto non è ignoto alle masse lavoratrici, le quali hanno dimostrato di avere un senso civico abbastanza elevato per evitare in tutti i limiti possibili che si ricorra allo sciopero nei servizi pubblici. Il fatto di riconoscere il diritto di sciopero che cosa implica? Implica che non soltanto i lavoratori debbono preoccuparsi di non creare difficoltà alla collettività nazionale, ma anche i dirigenti dei servizi pubblici e gli appaltatori, il Governo ed anche i singoli Ministri. La preoccupazione vi deve essere da ambo le parti e quando vi è da ambo le parti si può giungere a concludere l'accordo. (Rumori a destra).

Onorevole Presidente, potrei fare, secondo il regolamento, una dichiarazione per ogni emendamento...

Presidente Terracini. Per ogni votazione, prego, onorevole Di Vittorio, non per ogni emendamento!

Di Vittorio. Vorrei dimostrare agli onorevoli che hanno parlato contro lo sciopero, come essi si siano preoccupati dello sciopero dei funzionari che esercitano una autorità nello Stato, ma non hanno considerato con solidarietà ed umanità i lavoratori. Essi dimenticano che noi non perseguiamo lo scopo di scardinare lo Stato democratico e repubblicano (Commenti a destra). Noi abbiamo organizzato e diretto e condotto degli scioperi sotto il regime tedesco e sotto il regime fascista a rischio della nostra vita (Commenti); ma noi oggi cerchiamo di evitare al massimo, nella misura del possibile, degli scioperi in regime democratico e repubblicano, perché noi desideriamo concorrere, con tutte le nostre forze, a consolidare ed a sviluppare lo Stato democratico e repubblicano. (Rumori). Però bisogna che siano riconosciuti ai pubblici impiegati ed ai pubblici funzionari quei diritti minimi all'esistenza che sono indispensabili. Per esempio, si è molto deplorato in questa Assemblea la minaccia di sciopero da parte dei magistrati. Ebbene, l'Associazione nazionale dei magistrati, che non è aderente, fino ad oggi, alla Confederazione generale italiana del lavoro ed è quindi assolutamente indipendente, si è rivolta alla Costituente per il riconoscimento dei propri diritti ed è stata ricevuta da una Commissione della nostra Assemblea. Questa Commissione ha riconosciuto fondate le rivendicazioni dei magistrati italiani e, malgrado questo riconoscimento dell'Assemblea Costituente, i signori magistrati non hanno ottenuto l'accoglimento delle rivendicazioni minime che sono indispensabili per assicurare non solo un tenore di vita tollerabile, ma anche per preservare la dignità della loro funzione. (Applausi a sinistra Rumori e commenti al centro e a destra).

Noi quindi siamo favorevoli al diritto di sciopero senza limitazioni. (Rumori).

Presidente Terracini. Onorevole Di Vittorio, la prego di concludere. Invito, d'altra parte, gli onorevoli colleghi ad ascoltare in silenzio le dichiarazioni di voto.

Di Vittorio. Concludo rapidamente. Noi siamo favorevoli al diritto di sciopero senza limitazioni per tutti i lavoratori, all'articolo cioè formulato nel progetto di Costituzione ed approvato dalla Commissione dei settantacinque; però non vogliamo chiuderci in una intransigenza assoluta e cieca. Noi, come in tante altre occasioni e su tanti altri punti del progetto di Costituzione, ricerchiamo l'accordo con altri gruppi che rappresentano non soltanto larghi strati del popolo, ma le grandi correnti sindacali che sono unite nella Confederazione generale italiana del lavoro, per cercare di votare d'accordo un emendamento sostitutivo che possa essere approvato dalla grande maggioranza dell'Assemblea, e che possa esercitare una funzione di unificazione di larghi strati del popolo intorno a quest'articolo. Perciò noi, se gli altri gruppi sono d'accordo, voteremo, con le spiegazioni che ho dato, l'emendamento sostitutivo dell'onorevole Merlin Umberto.

Cingolani. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Cingolani. Vorrei dapprima chiedere un consiglio ed esprimere un mio modesto parere. Per evitare che gli onorevoli colleghi chiedano di parlare per dichiarazione di voto sui singoli emendamenti, non sarebbe forse opportuno, come per esempio nel mio caso, che brevissimamente si dichiarasse il modo come il Gruppo, che si ha l'onore di rappresentare, voterà di fronte ai singoli emendamenti?

Naturalmente, incomincio subito col dichiarare che voteremo contro l'emendamento presentato dall'onorevole Giannini.

Giannini. Ah, ah, cattivo! (Si ride).

Cingolani. Non riesco ad entrare nelle grazie dell'onorevole Giannini, e ne sono desolatissimo. La verità è che lei, onorevole Giannini, mi pare che sia un po' fuori tempo e fuori storia. Amerei vederla un po' atteggiato nei vestiti romantici del nostro antico e saggio romanticismo, che chi sa quante volte lei avrà raffigurato nelle sue commedie e nei suoi film. Ma, come si fa a dire che si deve proibire lo sciopero? Come si fa oggi a negare la realtà? Mi pare di sentire, così lontani, i raccontini della nonna che ci narrava come agli inizi del risveglio della classe lavoratrice questa, quando tentava di incrociare le braccia, era accusata di aver commesso un delitto contro lo Stato e contro la legge. Tutto questo è codificato.

Priolo. Il Codice Rocco lo ha codificato.

Jervolino. Un questore interrompe: quis custodiet custodes? (Si ride).

Cingolani. Votando quindi contro l'emendamento Giannini noi affermiamo che non vogliamo, in nessun modo, ritornare ad un tempo ormai superato, alla durezza delle antiche lotte sociali. Chi fra di noi era allora in battaglia potrà ricordare le lotte della Lunigiana e della Sicilia.

Questa non è storia, perché storia è una parola troppo solenne: è cronaca di un tempo tormentoso e sanguinoso, per sempre tramontato in Italia. Per quanto riguarda gli emendamenti soppressivi, onorevoli colleghi (e sia detto senza ironia verso di voi), ho avuto un po' l'impressione dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia: ma credete voi che, non nominando affatto il fenomeno sciopero (che è un fenomeno sociale ed economico con proiezioni politiche), voi in qualche modo contribuite sul serio al riequilibrio delle forze sociali dando un senso di una più ampia giustizia di quella che non sia oggi realizzata nei rapporti fra gli uomini? Ma no! È talmente imponente il fenomeno sciopero, nella storia ultima del Paese nostro (e non parlo della preistoria, ma dei tempi della giovinezza nostra, della nostra maturità, ed anche della vecchiaia per qualcuno di noi, e ci sono barbe bianche solenni che mi possono dare ragione), che io non posso non riconoscere come questo sia un fenomeno che ha riempito di sé la vita politica italiana.

Ma io non posso concordare in tutto con l'onorevole Di Vittorio, quando afferma che soltanto lo sciopero sia stato quello che abbia determinato la spinta e il progresso della produzione e della classe lavoratrice italiana. Ha contribuito certamente, ha rappresentato la sua parte di utilità nel campo anche della produzione, ha eccitato l'attività produttiva italiana ed ha pure servito come mezzo educativo delle masse lavoratrici italiane. Chiunque di noi, che sia stato un po' mescolato da ragazzo, o che abbia sentito parlare degli scioperi come per esempio di quello di Ranica, nel Bergamasco, quando le nostre tessitrici e filatrici hanno combattuto una meravigliosa battaglia per il riconoscimento della libertà e del diritto di organizzazione, sa come ci sia stata tutta una evoluzione in meglio da allora ad oggi. Ci sono stati anche molti episodi che ci ammoniscono però come sia stata una cosa grave talvolta e delicata quest'arma in mano al proletariato, perché questa è un'arma di guerra, non possiamo nascondercelo, tanto è vero che quando possiamo impedire uno sciopero, quando sappiamo di avere impedito uno sciopero, ne siamo lieti, ed io mi vanto di avere, come Ministro dell'aeronautica, composto uno sciopero in Alta Italia, raccogliendo attorno al mio tavolino i rappresentanti delle categorie in contrasto e riuscendo in tal modo a comporre il conflitto; il che dimostra che quando noi possiamo evitare uno sciopero ce ne vantiamo, come di una vittoria civile.

Ma non possiamo trattare un problema così importante con faciloneria; e ciò senza mancanza di rispetto per gli onorevoli colleghi della Commissione. Una dizione così semplice, che rischia di essere semplicistica, come quella che la Commissione ha adoperato, non può ottenere i nostri suffragi. Tutti i diritti che abbiamo affermato, li abbiamo fatti tutti sboccare in una codificazione di legge per il domani. Noi abbiamo fissato dei cardini, dei punti fondamentali, abbiamo illuminato delle verità, abbiamo fatto non un lavoro inutile che non dobbiamo denigrare; abbiamo affermato nella nostra Costituzione alcune idee centrali e dei principî fondamentali. Toccherà poi all'Assemblea legislativa, anche in questa materia, di legiferare su quello che è il grandioso fenomeno dello sciopero anche perché (ed ho ancora all'orecchio il discorso dell'onorevole Della Seta) uomini non sospetti possono temere qualche inquinamento politico, qualche volta possibile anche negli scioperi schiettamente economici. Per tutto questo sarà bene che la legge parli. Ecco perché aderiamo all'emendamento dell'onorevole Merlin, perché riteniamo che nell'emendamento Merlin siano contenute tutte le possibilità di sviluppo legislativo, le regolamentazioni legislative dello sciopero. Questo lo dico anche per il mio caro collega e amico fraterno onorevole Clerici, la cui passione democratica non metto in dubbio perché lo conosco da moltissimi anni e so con quale e con quanto ardore si sia sempre dedicato alla elevazione del proletariato. D'altra parte io vorrei pregarlo di unirsi a questa che mi auguro possa essere una manifestazione unanime dell'Assemblea. Questa affermazione, così come è stata presentata dall'onorevole Merlin, ed alla quale ha aderito l'onorevole Di Vittorio, ha certamente una grande funzione disciplinatrice di questo importantissimo e grave fenomeno sociale ed economico e tende appunto ad inquadrarlo in manifestazioni di carattere puramente economico e sociale, evitando quegli scogli politici che tutti dobbiamo superare perché non vogliamo che il regime democratico repubblicano possa diventare il regime della violenza e del mitra. In regime democratico e repubblicano è la legge la sovrana che regola l'attività delle organizzazioni e dei cittadini singoli.

Per questi motivi, voteremo l'emendamento Merlin, invitando i colleghi a ritirare i loro emendamenti, e pregando anche l'amico Clerici di rinunziare al suo. Finisco dichiarando che votando per questo emendamento e respingendo tutti gli altri, ci auguriamo che il proletariato italiano prosegua ancora la sua marcia ascensionale nella tranquillità, nell'ordine, nella giustizia per arrivare ad un regime nel quale possa trionfare una superiore più umana fraternità. (Vivi applausi al centro).

Giannini. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Giannini. Signor Presidente e onorevoli colleghi, io potrei parlare per vari motivi e, innanzitutto, per fatto personale; ma me ne astengo. A che serve? Parlerò quindi per una breve dichiarazione di voto e mi affretto a dirvi subito che voterò a favore dell'ordine del giorno del mio amico intimo Giannini, con il quale non posso non andare d'accordo. (Si ride).

In ogni modo, desidero ringraziare l'onorevole Di Vittorio che, nel suo discorso, non si è mai servito dell'espressione «classe lavoratrice», bensì dell'espressione «classe operaia». Su questa espressione noi possiamo concordare perfettamente, perché effettivamente esiste una classe operaia; non possiamo concordare con l'espressione «classe lavoratrice» perché noi neghiamo, e la realtà nega con noi, che il lavoro sia la pena riservata ad una sola classe.

La Rocca. Onorevole Giannini, non esiste una classe lavoratrice, esistono le classi lavoratrici.

Giannini. Perché m'interrompe? Io prego sempre i miei amici di non interrompermi. Perché vogliamo trasformare la nostra discussione in alterco? È inutile, non avremo un voto di più.

L'espressione «classe lavoratrice» — adoperata, ad onor del vero, non soltanto dal settore comunista, ma da tanti altri settori che, spesso, mi stupiscono per le loro formulazioni — è un errore; è un errore, collega Di Vittorio. Tutti lavorano: lavora il bambino non ancora nato, nel ventre della mamma. (Commenti Ilarità). Va bene, voi ridete. A Napoli si dice: «Fatemi quattro soldi di risate». Io cerco di insegnarvi qualche cosa, se volete starmi a sentire. (Ilarità a sinistra). Lavora il bambino nel ventre della madre, perché, quando non è ancora nato, quando c'è solamente presunzione della sua prossima futura nascita, già egli fornisce la sua quantità di lavoro che è necessaria per i corredini, la culla, il medico, la levatrice e le altre piccole spese che si fanno. (Commenti Ilarità a sinistra). Non è vero che non mi capite: non siete stupidi, avete capito.

Fornisce la sua parte di lavoro anche l'uomo che è morto. (Commenti Ilarità a sinistra). Voi volete che si allunghi la mia dichiarazione di voto, voi volete che si perda del tempo: ma che ci guadagniamo?

L'uomo che è morto fornisce infatti, con la sua morte, lavoro a tutti coloro che fanno il mestiere di occuparsi dei morti. Quindi una vera e propria classe lavoratrice, ossia una categoria di gente che lavora, in confronto ad una categoria di gente che non lavora, non esiste. (Commenti a sinistra).

Presidente Terracini. Onorevoli colleghi, lascino parlare l'oratore.

Giannini. Ma perché? Ho offeso qualcuno di voi? Qualcuno di voi forse fa il becchino? Dopo di che, desidero dire all'onorevole Di Vittorio e ai suoi amici che noi non crediamo, perché non riteniamo vero, che lo sciopero o la serrata — intendiamoci, perché noi non dividiamo un fenomeno dall'altro e li condanniamo tutti e due — possano in alcun modo modificare, accelerare o ritardare quella che è la marcia del progresso.

Il progresso, onorevoli colleghi, è di origine divina: non si arresta mai. Il progresso procede per intima forza. (Commenti a sinistra). Non c'è sciopero, non c'è serrata, che possano sbarrargli il passo: non c'è che il genio umano, il quale ne carpisce i segreti e ne fa dono a tutta l'umanità.

Ci si accusa di fascismo, e non posso non rilevare la cortesia formale dell'onorevole Di Vittorio, il quale ha detto che io, svolgendo il mio emendamento, ho sostenuto dei criteri fascisti. Io credo che molti dei deputati dell'estrema sinistra e di altri settori conoscano la mia posizione politica: in ogni modo, non sono qui per me e non me ne importa assolutamente niente.

Voglio dire soltanto che questa accusa di fascismo è facile, come è facile dire che tutti gli avvocati sono imbroglioni, che tutti i medici sono degli assassini, che tutti i parlamentari sono degli ipocriti. Vorrei che non si ricorresse a questi mezzi polemici, onorevole Di Vittorio, che non cavano un ragno dal buco.

In realtà, nel sostenere che sia lo sciopero, sia la serrata, che sono entrambi attentati al diritto della collettività di essere servita dai singoli, non debbono essere combattuti, non è il caso di tirare in ballo questo argomento del fascismo. Lei ha molti altri argomenti molto più fondati, onorevole Di Vittorio.

Di Vittorio. Permetta, onorevole Giannini...

Presidente Terracini. No, onorevole Di Vittorio: l'onorevole Giannini non ha niente da permettere, ed in quanto a lei, la prego di tacere.

Giannini. Io spero che lei non avrà da lagnarsi della mia cortesia nei suoi confronti. Posso dire che noi partiamo da un principio modernissimo, in quanto riteniamo che la società moderna sia un blocco nel quale non c'è nessuna attività che non sia necessaria.

È in base a questa convinzione che intendiamo vietare a qualcuno dei membri di questa società di esercitare il suo pur giusto diritto a danno della collettività, e contro la collettività. Ed ecco la ragione per cui reclamiamo la creazione di istituti che possano riconoscere questo diritto, difenderlo, proteggerlo. Se la topografia dell'Assemblea in regime di proporzionale significasse ancora qualche cosa, onorevole Di Vittorio, io dovrei farmi costruire un settore a destra del suo per molte cose.

Ed ecco la ragione per cui noi voteremo l'emendamento che sinceramente e in piena coscienza e con la sicurezza di servire il Paese, abbiamo presentato all'articolo 36. (Applausi a destra).

Crispo. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Crispo. Dichiariamo anche noi di votare contro l'emendamento Giannini, soprattutto perché noi rivendichiamo l'affermazione del diritto di sciopero delle classi lavoratrici a quel movimento liberale che, in intima connessione col movimento operaio, comprese e cercò di realizzare le esigenze tutte della giustizia sociale; che fu non soltanto, come è stato ricordato dall'onorevole Di Vittorio — del che gli rendiamo grazie — un'affermazione ideale, ma bensì, fin dal 1889, una realizzazione legislativa. Opportunamente l'onorevole Priolo ha ricordato il Codice Rocco. Il Codice Rocco fu la negazione dei principî liberali ai quali era stato informato il Codice penale del 1889, nel quale era già il riconoscimento del diritto di sciopero dei lavoratori. (Commenti Interruzioni).

Quel diritto fu, dunque, rivendicato da uomini di fede liberale, dapprima in quel Codice Zanardelli che fu gloria della civiltà liberale italiana e più tardi nella legislazione sociale propugnata da Giovanni Giolitti. (Applausi).

Mi preme avvertire, per altro, che, riconoscendo il diritto di sciopero, noi lo intendiamo come uso legittimo d'un potere, e non come abuso di esso, come un mezzo di difesa e di rivendicazione economica, e non come un'arma di lotta e di oppressione politica.

In questo senso voteremo a favore dell'emendamento Merlin.

D'Aragona. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

D'Aragona. Onorevoli colleghi, permettete ad un uomo il quale ha partecipato alle lotte per la conquista del diritto di sciopero di esprimere il proprio pensiero.

Lo sciopero è una conquista che è costata sangue e galera alle classi lavoratrici italiane. Mi dispiace di dare questo dispiacere al collega Giannini, ma io non accetto la sua filosofia e continuo a considerare l'esistenza delle classi lavoratrici.

Abbiamo lottato per molti anni prima di poter avere onestamente il diritto di sciopero. È vero: la legge Zanardelli ha codificato il diritto di sciopero, ma il diritto vero, di fatto, noi lo abbiamo conquistato nel 1900. Nel 1886 i contadini del Mantovano hanno fatto uno sciopero durato parecchi mesi, che ebbe come conseguenza un grande processo svoltosi a Venezia, dove molti di quei contadini, che per la prima volta si permettevano di agitarsi per uscire dallo stato di miseria in cui si trovavano, vennero condannati ad anni ed anni di galera, ma influirono a convincere i legislatori di allora a codificare il diritto di sciopero.

Questo diritto è stato conquistato quindi con lo sforzo, la fatica, il sacrificio della classe lavoratrice e questa non può perderlo! Se voi votaste un emendamento il quale arrivasse a vietare lo sciopero, determinereste in Italia una lotta accanita fra la classe lavoratrice e lo Stato. La classe lavoratrice non può rinunciare a questo mezzo di battaglia e di lotta, perché è effettivamente un mezzo di battaglia e di lotta; è uno strumento che la classe lavoratrice ha bisogno di avere per poter difendere e tutelare i propri interessi. Del resto, proibite voi ai negozianti e agli industriali di vendere o di non vendere la propria merce? Perché lo dovete proibire alla classe lavoratrice, la quale non ha altro da vendere che la forza del proprio lavoro? (Applausi a sinistra).

Si parla di limitare. Ma quali limiti potete porre? Stabilirete delle sanzioni? Quali sanzioni? Il giorno che gli operai, i ferrovieri, i tranvieri, gli addetti ai servizi pubblici, faranno uno sciopero, quale sanzione voi applicherete a questi lavoratori? Li metterete in galera? Ma voi avrete arrestato il servizio pubblico all'infinito! Applicherete delle multe? Ma voi determinerete una nuova agitazione per non pagare la multa!

Se voi volete sul serio limitare il numero degli scioperi, bisogna arrivare ad ottenere due cose: in primo luogo una maggiore comprensione da parte dei datori di lavoro dei diritti della classe lavoratrice. Non crediate che gli operai e i lavoratori in genere facciano lo sciopero per il gusto di fare lo sciopero. Gli operai ed i lavoratori in genere sanno che lo sciopero è un sacrificio ed un pericolo e prima di usare questa arma pensano quali possono essere le conseguenze; ma sono obbligati molte volte...

Giannini. Lo so, sono obbligati. Ma chi li obbliga?

D'Aragona. ...perché non hanno altro mezzo! Io sono passato in Italia per essere l'uomo che cercava di impedire le agitazioni e gli scioperi, il pompiere. È vero. Finché è stato possibile ho cercato di richiamare i lavoratori a limitare al massimo l'uso dello sciopero.

Ma molte volte i lavoratori sono obbligati a fare lo sciopero perché si trovano di fronte a resistenze che non hanno nessuna ragion d'essere, nessuna giustificazione. E allora che cosa deve fare il lavoratore? Quale strumento deve adoperare?

Ecco perché, dico, bisogna che i datori di lavoro tengano conto, più di quello che non facciano, dei bisogni della classe lavoratrice.

Non si possono in questa materia ottenere risultati con delle imposizioni. Bisogna correggere il costume, bisogna creare gli organi che possano impedire gli scioperi. Ma questi organi devono sorgere per necessità direttamente sentita da parte della classe lavoratrice. Ne volete un esempio? Quando in Italia si costituirono le commissioni per l'equo trattamento che dovevano risolvere le vertenze dei ferrotranvieri, dei telefonici, ecc., ebbene, questi strumenti, che non furono imposti dalla legge, che non furono imposti dallo Stato, ma che scaturirono dalla volontà della classe lavoratrice, effettivamente diminuirono il numero degli scioperi; e ancor oggi avete quelle categorie che reclamano quegli organi perché essi rispondevano allora e possono ancora rispondere alle esigenze della loro battaglia, perché in essi avevano trovato la possibilità di ottenere i propri miglioramenti, un avvenire meno disastroso, senza il bisogno di ricorrere allo sciopero.

Bisogna che a poco a poco sorgano questi strumenti. Ma bisogna che ci sia un costume, un'educazione, che si lavori per ottenerli: bisogna che ci sia la convinzione da parte di tutti che questi strumenti possono essere efficaci per la tutela degli interessi della classe lavoratrice.

Soltanto così potrete arrivare a diminuire il numero degli scioperi.

Ma, del resto, qual è il Paese dove lo sciopero è proibito?

In nessun Paese del mondo. Soltanto nell'Australia si sono creati degli strumenti per volontà delle organizzazioni sindacali, e soltanto per ciò essi hanno efficacia e valore. Perché, se invece di essere sorti per volontà delle organizzazioni sindacali, fossero stati imposti obbligatoriamente, quegli strumenti non avrebbero servito. Così si può arrivare alla soluzione del problema.

D'altro canto ho sentito accennare agli scioperi politici o non politici. Ricorderò ai colleghi che l'Italia deve ad uno sciopero il cambiamento della propria politica. Chi non ricorda lo sciopero generale del 1900? Fu quello a contribuire a determinare il cambiamento della politica del nostro Paese. Si abbandonò allora la politica dei Pelloux e simili, per cominciare a dare al nostro Paese la vera politica democratica. (Vivi applausi a sinistra).

Cosa vuol dire questo? Indubbiamente lo sciopero generale può essere uno strumento rivoluzionario. Sì, è vero. Ma se è uno strumento rivoluzionario come potete voi proibirlo? Se domani c'è una situazione politica che sente il bisogno di una trasformazione, di un cambiamento; se la classe lavoratrice ha la convinzione che in quel momento un atto suo può determinare un mutamento nella politica del nostro Paese, come potete impedire che ciò si verifichi? L'abbiamo visto. Quando gli operai del Nord hanno fatto il loro sciopero, hanno incominciato l'azione rivoluzionaria che ha sbarazzato il nostro Paese dal regime fascista. E quello è stato un altro gesto meritorio per l'Italia.

Lei, onorevole Giannini, prega il Signore, mi pare. Ma se lei fosse informato saprebbe che nelle città del Nord il primo gesto che ha risvegliato l'opinione pubblica, perché sentisse la nausea del regime fascista, è stato proprio lo sciopero dei lavoratori.

Giannini. Le posso dare la mia parola d'onore che non ho mai promosso quello sciopero.

D'Aragona. Chi ha la direzione del movimento sindacale deve avere il senso della responsabilità e non abusare di questi strumenti e di questi mezzi. È necessario che questi ultimi, che sono veramente una grande forza, non siano sciupati attraverso una serie di scioperi, qualche volta inutili e dannosi; ma, quando è necessario, sono strumenti santi che servono non solo per la difesa della classe lavoratrice ma anche per consentire uno sbalzo in avanti alla civiltà del nostro Paese. (Applausi).

Bellavista. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Bellavista. Dichiaro che voterò sia contro gli emendamenti soppressivi, dell'articolo 36, sia contro quelli modificativi di detto articolo, nel senso che vietino, implicitamente o esplicitamente, il diritto di sciopero; ma voterò anche contro l'emendamento Merlin per i medesimi motivi. Non è il caso di ritornare, dopo l'esaltazione che con bel garbo ha fatto l'onorevole Di Vittorio, su quelli che sono i motivi intrinsecamente liberali di questa irrinunciabile conquista, che è lo sciopero, ma devo far rilevare e all'onorevole Merlin e alla Commissione che si è espressa così bene per bocca dell'onorevole Ghidini, che il progetto di Costituzione, in fatto di liberalismo, è rimasto a mezza strada, perché del liberalismo ha ignorato il canone dei canoni, che è il principio della dialettica dei contrari, ammettendo il diritto di sciopero e negando il diritto di serrata. Ora, il principio della dialettica dei contrari non si ha soltanto nel campo politico, ma anche nel campo economico. E come si può far ricorso a Giolitti e ai santi principî del liberalismo quando in questa battaglia si offre a una parte lo sciopero, che dalla parola così competente e autorevole dell'onorevole D'Aragona è stato riconosciuto come efficace strumento di lotta, e si pone uno degli avversari in condizioni di offendere e travolgere l'altro completamente disarmato? Io so bene che si dice che anche l'altro è armato. Ma di che cosa è armato? Dell'indifferenza legislativa e del piccolissimo numero dei suoi componenti che lo condanna a soggiacere di fronte alla strapotenza delle forze organizzate del lavoro? (Commenti).

Nessun paese al mondo del resto vieta lo sciopero. La nostra legislazione, lo ha ricordato il Presidente, si macchiò del delitto di codificare un diritto come reato. Ma qui si è dimenticato che questa vituperata legislazione si macchiò dello stesso delitto nei confronti della serrata. Gli articoli del Codice penale parlano dell'uno e dell'altra e per fini economici e per fini politici. Io mi domando ancora in quale Paese del mondo si vieti la serrata, ammettendo il diritto di sciopero?

In quali Paesi democratici e liberali del mondo la serrata, come strumento di battaglia del capitale, è stata mai vietata nella lotta fatale e costante col lavoro? (Interruzioni — Commenti).

Io penso, perciò, che, se si vuole essere aderenti alla disciplina ed all'insegnamento liberale non bisogna fermarsi a mezza strada ma arrivare alle estreme conseguenze, riconoscendo la libertà di tutti e di ognuno.

Camangi. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Camangi. Per noi repubblicani il diritto di sciopero era ed è, naturalmente, fuori discussione, come tutti i diritti di libertà.

Per ragioni che ritengo superfluo ripetere, bastando il richiamo ai nostri precedenti, alla storia ed alla tradizione del nostro partito, che nacque praticamente dalle gloriose società operaie affratellate, dichiaro che con la presentazione dell'emendamento del collega Mazzei noi avevamo voluto soltanto esprimere la nostra preoccupazione circa la salvaguardia del regolare funzionamento dell'attività dello Stato repubblicano, il quale è aperto, peraltro, a tutte le conquiste sociali.

L'emendamento Merlin tranquillizza la nostra preoccupazione ed è per questo che noi voteremo favorevolmente.

Mariani. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Mariani. Il gruppo parlamentare del Partito socialista italiano dichiara che voterà l'articolo 36, respingendo tutti gli emendamenti.

Foa. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Foa. A nome dei miei colleghi di Gruppo dichiaro che noi, naturalmente, voteremo contro gli emendamenti soppressivi dell'articolo 36 e contro gli emendamenti, che tendono a vietare lo sciopero e la serrata.

Noi voteremo, invece, pur con qualche preoccupazione e con qualche titubanza, l'emendamento Merlin, rinunziando all'emendamento da me presentato e che più si avvicinava al testo della Commissione.

Le ragioni di questa preoccupazione e titubanza sono quelle da me dette precedentemente, cioè che l'emendamento Merlin, col richiamo alla legge, non prevede alcuna limitazione, alcun orientamento, alcun indirizzo sul modo come la legislazione ordinaria dovrà regolare e disciplinare il diritto di sciopero.

Pur tuttavia le dichiarazioni, così degne, dell'onorevole Merlin, al quale si sono associati quasi tutti gli altri settori dell'Assemblea, hanno toccato il nostro animo; e noi pensiamo che l'impronta, con la quale il diritto di sciopero rinasce nella legislazione italiana, dopo tanti anni di divieto, la solennità colla quale rinasce è tale, il senso di misura ed il senso di fiducia, risultati da questa discussione, sono tali, che noi possiamo augurarci che questo senso di misura e di fiducia presiedano all'esercizio del diritto di sciopero negli anni futuri.

Con questo spirito e con questa fiducia noi voteremo l'emendamento Merlin.

Presidente Terracini. Pongo in votazione per primo l'emendamento sostitutivo presentato dall'onorevole Giannini:

«Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro sono regolati dalla legge».

(Non è approvato).

Pongo adesso in votazione le proposte soppressive dell'articolo 36, fatte dagli onorevoli Damiani, Rodi e Colitto, Caccuri, Zotta. Per questa votazione è stato chiesto lo scrutinio segreto dagli onorevoli Damiani, Colitto, Puoti, Rodi, Abozzi, De Falco, Cannizzo, Rodinò Mario, Monterisi, Mastrojanni, Cicerone, Corbino, Perugi, De Maria, Caccuri, Gabrieli, Recca, Vilardi, Arcaini, Firrao, Russo Perez, Capua, Ayroldi, Miccolis, Selvaggi, Siles, Tumminelli, Condorelli, Fabbri, Perrone Capano, Colonna, Quintieri Quinto, Bonino, Giannini, Mazza, Bencivenga.

Chiedo ai sottoscrittori di questa richiesta se la mantengono.

Giannini. Per quanto riguarda i firmatari del nostro Gruppo, rinunziamo. (Applausi).

Corbino. Anche noi rinunziamo.

Presidente Terracini. Pongo allora in votazione per alzata e seduta la soppressione dell'articolo 36.

(Non è approvata).

Pongo adesso in votazione l'emendamento dell'onorevole Merlin Umberto, il quale fa il richiamo più generico alla legge senza entrare in particolari che sono invece contenuti in tutte le altre proposte sostitutive. L'emendamento è del seguente tenore:

«Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano».

Ricordo che la Commissione si è rimessa all'Assemblea ed altri colleghi, che avevano presentato emendamenti dello stesso contenuto, per quanto di forma diversa, hanno dichiarato di aderire all'emendamento Merlin.

Giannini. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Giannini. Signor Presidente, onorevoli colleghi, dopo il suffragio ottenuto dai nostri emendamenti, noi dovremmo votare logicamente contro questo emendamento; però volendo fare insieme un gesto di solidarietà ed anche un atto di rispetto, noi voteremo in favore dello stesso. (Ilarità).

Una voce a sinistra. Di rispetto o di dispetto?

(L'emendamento è approvato).

Presidente Terracini. Restano così assorbiti gli emendamenti degli onorevoli Gabrieli, Perrone Capano, Foa, Clerici, Marina.

L'articolo 36 risulta, nel suo complesso, così approvato:

«Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano».

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti