[Il 20 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Amendola. Onorevoli colleghi, credo che, al punto in cui siamo giunti in questo nostro dibattito sulle disposizioni generali del progetto di Costituzione, la brevità sia d'obbligo, non solo per rispettare il tempo consentitoci dal nostro Presidente, ma anche perché, dopo che da una parte e dall'altra molteplici argomenti sono stati portati a sostegno delle varie tesi, conviene ormai cercare di trarre dalla discussione le conclusioni che si impongono.
Io non starò quindi a riprendere gli argomenti sostenuti con molta autorità dai colleghi che mi hanno preceduto, dall'onorevole Marchesi, dall'onorevole Ravagnan, dall'onorevole Targetti, dall'onorevole Basso, dall'onorevole Mancini e da altri a favore dell'emendamento proposto dall'onorevole Togliatti nella prima Commissione al primo capoverso del primo articolo e per il quale questo dovrebbe essere così formulato: «L'Italia è una Repubblica democratica di lavoratori». Mi limiterò invece ad esaminare più modestamente le obiezioni e le critiche che a questo emendamento sono state opposte dagli oratori di alcune parti di questa Assemblea.
Le obiezioni, le critiche, e anche le esitazioni e le preoccupazioni che sono state avanzate, si possono dividere in due gruppi: quelle mosse da oratori di parte liberale e qualunquista, e che sono obiezioni di merito, che contestano non solo il nostro emendamento, ma anche il terzo capoverso del primo articolo; e quelle espresse da altri colleghi di parte democristiana, che approvano il terzo capoverso, ed hanno anche presentato un emendamento per cui la Repubblica democratica dovrebbe essere «fondata sul lavoro», ma che esitano ad accettare l'emendamento da noi proposto nella forma chiara e semplice di «Repubblica democratica di lavoratori».
Dirò che le obiezioni più sostanziali, di merito che ci sono state opposte dagli oratori di parte liberale e qualunquista non mi hanno sorpreso. Non si può andare d'accordo con tutti. In certi casi, si deve anzi non andare d'accordo, quando si parte da presupposti così lontani e diversi.
Questa opposizione ci fornisce anzi la controprova della giustezza della nostra tesi, ci prova, ancora una volta, la necessità da noi avvertita che fin dal primo articolo sia espresso, in modo chiaro, semplice e popolare, e nello stesso tempo solenne e lapidario, il carattere della nuova Costituzione, il carattere che la precisa politicamente e storicamente, il carattere popolare e antifascista che essa deve avere, dopo la tragica esperienza vissuta dall'Italia nell'ultimo ventennio.
Gli argomenti opposti dai colleghi liberali e qualunquisti, in sede di Commissione ed anche qui, sono tolti dal bagaglio dottrinario del vecchio liberalismo, per il quale ogni limitazione delle libertà economiche dei singoli appare anche come una limitazione delle libertà politiche, e per il quale ogni concreta specificazione storica e sociale del concetto di democrazia appare non come un arricchimento della democrazia, ma come una sua limitazione.
Com'è melanconico ricordare oggi, di fronte a queste posizioni, i propositi espressi da molti amici liberali negli anni della cospirazione, quando essi riorganizzarono nuovamente il loro partito e quando, nelle lunghe discussioni che hanno intessuto la nostra vita di cospiratori, si affannavano a precisare che il loro non era un ritorno al vecchio liberalismo, ma l'affermazione di un nuovo liberalismo che si alimentava di nuove concezioni sociali; che il liberalismo non voleva dire necessariamente liberismo, libertà politica non voleva dire libertà per i monopoli, ed il liberalismo poteva essere accompagnato da una politica di solidarietà sociale.
Non so se gli amici di allora, che in questo modo difendevano la linea di un nuovo liberalismo, se ne siano andati o siano ancora rimasti in quello che si chiama ancora il partito liberale.
Certo è che di queste affermazioni e di queste ansie sincere, che ho conosciuto allora in molti amici liberali, oggi non appaiono più tracce in questo ritorno alle concezioni dottrinarie del vecchio liberalismo.
Non voglio riprendere in questa sede una discussione che altri, con molta autorità, hanno già svolta, né riprendere una polemica che per venti anni, quando il fascismo ci toglieva la possibilità di agire apertamente, ci ha sufficientemente occupati. La polemica interna dell'antifascismo in venti anni è stata, infatti, sempre in questa contrapposizione fra comunismo e liberalismo, tra socialismo e liberalismo; e ci sembrava, in quel dibattito, essere arrivati a conclusioni, che avrebbero potuto permetterci, pur nella differenza di posizioni ideologiche, di lavorare insieme alla ricostruzione democratica del nostro Paese.
Ma queste discussioni sono oggi cosa vecchia, perché oggi, in fondo, dietro a questa ripresa dottrinaria degli argomenti del vecchio liberalismo c'è la sostanza politica della nuova situazione italiana e della funzione che in essa si è accinto ad assolvere il partito liberale. Vi è, infatti, in questa opposizione al nostro emendamento, in questa opposizione anche al terzo capoverso del primo articolo ed all'affermazione che la base della Repubblica è il lavoro, non tanto l'eco di preoccupazioni dottrinarie, quanto l'eco di preoccupazioni ben più concrete, le preoccupazioni di quei ceti che vedono come da questa formulazione apposta all'inizio della Costituzione dovrebbero derivare per essi delle conseguenze pratiche che li colpirebbero nei loro reali interessi privilegiati.
Vi è in questa posizione non tanto l'eco delle vecchie posizioni dottrinarie, quanto l'eco delle preoccupazioni dei grandi proprietari agrari che temono le riforme agrarie, dei grandi monopolisti che temono la riforma industriale, le nazionalizzazioni ed i consigli di gestione; l'eco delle preoccupazioni dei grandi affaristi e degli speculatori che temono che una Costituzione che si inizia con le parole chiare e precise di «Repubblica democratica di lavoratori» sia una Costituzione che apre la via a quel rinnovamento sociale ed economico che essi non vogliono, perché colpirebbe i loro interessi privilegiati, le basi delle loro posizioni egemoniche da essi occupate nella vita del Paese.
Questa è la sostanza politica che sta alla base del dibattito sull'articolo 1, ed essa si collega con quanto sta avvenendo nel Paese. Cresce nel Paese, e si fa ogni giorno più chiara e consapevole nelle grandi masse popolari, la preoccupazione di una possibile rinascita del fascismo.
I lavoratori sono sorpresi, inquieti, sdegnati di fronte all'impudenza e al cinismo col quale i responsabili della catastrofe hanno osato tornare sulla ribalta della vita italiana e, giorno per giorno, col denaro accumulato durante il ventennio, cercano di riconquistare nuove posizioni e di corrompere, di sabotare, di impedire che la ripresa democratica del Paese abbia libero corso.
Una grande collera sale dal cuore del popolo. Questa collera è una cosa di cui bisogna tener conto, o signori. Non scherzate col fuoco! (Interruzione dell'onorevole Capua). Il popolo ci domanda che la Costituzione italiana sia una Costituzione che possa impedire ogni ritorno di fascismo, sia una Costituzione che dia all'italiano garanzie di piena e sicura libertà. (Interruzione dell'onorevole Capua).
Presidente Terracini. Onorevole Capua, non interrompa.
Amendola. La sola garanzia valida che può essere data al popolo italiano, giustamente indignato e preoccupato, la sola garanzia seria di libertà e di democrazia può essere fornita da quelle misure che impediranno che nella vita del Paese i gruppi privilegiati che ieri hanno dominato possano continuare a dominare; e queste misure concrete — riforma agraria, riforma industriale, piano economico, consigli di gestione — trovano il loro presupposto nella formula che noi domandiamo sia proclamata all'inizio della Costituzione, quale orientamento del nostro lavoro, come guida ed orientamento per la nuova via che il popolo italiano dovrà seguire, per la nuova via che sarà aperta dalla Costituzione che stiamo elaborando.
Oltre questo gruppo di opposizioni e di critiche, altre obiezioni ci sono mosse dai colleghi della Democrazia cristiana. Molti di questi hanno sentito con noi che ormai, di fronte all'esperienza vissuta nell'ultimo ventennio, i diritti della persona umana non possono essere garantiti soltanto sul piano politico, ma vanno garantiti anche sul piano economico e sociale. Essi quindi comprendono la necessità che il nuovo ordinamento democratico sia basato sul lavoro e riconosca i nuovi diritti del lavoro.
Tuttavia, pur partendo da queste premesse, essi esitano ad arrivare alle stesse conclusioni. E in sede di Commissione si sono pronunziati contro l'emendamento da noi proposto. Non mi sembra fondato il timore che è stato espresso, che la specificazione «di lavoratori» possa conferire un carattere classista alla Costituzione.
Infatti, l'articolo 29[i] del progetto definisce l'obbligo del lavoro in modo da abbracciare tutti coloro che compiono un lavoro socialmente necessario, manuale o intellettuale che sia. L'obbligo del lavoro è dunque «l'obbligo di svolgere un'attività o una funzione idonee allo sviluppo materiale e spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità ed alla propria scelta».
Né da questa affermazione deriva l'obbligo, per lo Stato democratico, di separare, di distinguere completamente i lavoratori dai non lavoratori. Questo obbligo ci sarebbe stato, se fosse stata accolta una proposta avanzata in sede di Commissione dai democristiani, per cui i non lavoratori avrebbero dovuto venire esclusi dal diritto di voto. Io non mi nascondo le difficoltà pratiche che, nelle attuali condizioni economiche e sociali dell'Italia, deriverebbero da una norma simile, anche dando alla parola «lavoratori» il significato più generale che noi le abbiamo conferito. Ma i colleghi democristiani non hanno insistito su questa loro proposta.
La scelta quindi non la fa lo Stato, ma il singolo cittadino il quale, nella sua coscienza, sente se è un lavoratore o se un parassita, se è uno che dà il suo contributo allo sviluppo sociale del suo Paese, o se vive invece da parassita sui frutti del lavoro compiuto da altri. In realtà, dalla dichiarazione possono sentirsi colpiti solo coloro che sono, direi, consapevoli di questo loro stato di parassiti, coloro che passano sapendo di non lasciare tracce della loro oziosa esistenza, quelli che per ciò stesso si escludono dalla vita della Nazione. Perché, che cosa è la vita della Nazione se non la storia di coloro che lavorano e fanno col loro lavoro, col loro ingegno, che l'Italia sia il Paese che è, col suo volto cesellato da innumeri generazioni, il Paese che noi abitiamo, con le terre lavorate e le città e i monumenti e le fabbriche, tutto frutto del lavoro e dell'ingegno italiano?
Perché dunque, amici della Democrazia cristiana, questa esitazione? Perché questa perplessità di arrivare alle conseguenze logiche, dalle premesse da cui siete pure partiti? Io vedo in questa esitazione, in questa incertezza, un altro episodio, un altro esempio, di quello che io chiamerei lo stile democristiano, il carattere della vostra azione politica, il carattere dell'azione politica di un grande partito sul quale pesano tante gravi responsabilità e dal quale dipende invece tanta parte dell'incertezza e delle difficoltà stesse in cui si travaglia la nuova democrazia italiana.
Un grande partito che afferma alla base del suo programma le aspirazioni dei lavoratori ad un profondo rinnovamento sociale, ma che, quando si tratta di passare ai fatti che queste premesse comandano, allora esita, si arresta, fa un passo avanti e poi due in dietro. (Commenti al centro).
Ve ne ho dato la prova: ed è in questo primo articolo. Perché non venite con noi alle conclusioni che derivano delle premesse da cui dite di partire? Voi create così quello stato di incertezza e di malessere in cui si dibatte attualmente la democrazia italiana nel nostro Paese, e togliete al nostro Paese quella prospettiva, quella certezza, quell'entusiasmo, di cui esso avrebbe bisogno in questo periodo di difficile ricostruzione democratica, perché non si possono vincere le grandi battaglie politiche ed economiche che ci attendono, se tutta la democrazia italiana non è pervasa da una grande sicurezza, da una grande fede, da un grande entusiasmo nel suo avvenire. Voi quest'entusiasmo lo spegnete con la vostra esitazione, con la vostra perplessità, e causate in questo modo quell'arresto, quella paralisi, che noi dobbiamo superare, se vogliamo che la democrazia italiana possa vivere e prosperare. (Interruzioni — Commenti al centro).
Cingolani. Non siamo in comizio!
Amendola. Non abbiate paura, colleghi, e se credete veramente che il lavoro è il fondamento della Repubblica, non nascondete, vergognosamente, pudicamente, questa affermazione nelle pieghe di un capoverso che pochi leggeranno (Commenti al centro), ma proclamatelo solennemente, direi orgogliosamente, nella prima riga della Costituzione, in una dichiarazione che tutti gli italiani conosceranno e che dia a tutti i lavoratori la certezza o la fede nell'avvenire democratico del nostro Paese. (Interruzioni al centro).
E io credo che una nostra affermazione concorde — che è possibile — su questo primo articolo, avrebbe un grande significato e illuminerebbe i nostri lavori; permetterebbe di affrontare insieme le difficoltà che incontreremo nei prossimi articoli. Affrontiamo e superiamo insieme questa superabile difficoltà che ci troviamo davanti al primo articolo, e potremo fare della buona strada anche negli altri articoli.
Questa discussione sul primo articolo non è accademica; esprime politicamente il significato dei nostri lavori e segna l'indirizzo generale che noi vogliamo dare alla nostra Carta costituzionale. C'è stato in Italia, in questi ultimi anni, un grande rivolgimento politico e sociale, si è iniziato un grande processo rivoluzionario. Il nostro compito è di creare una Costituzione che permetta a questo processo rivoluzionario di svolgersi sul terreno della legalità democratica, per operare nel rispetto della legalità le necessarie modifiche della nostra struttura sociale.
Nello sviluppo di questo processo rivoluzionario abbiamo già vissuto due momenti essenziali, che non dobbiamo dimenticare: il momento della rivolta popolare contro il vecchio ordine di cose, e il momento in cui una nuova classe dirigente, uscita dal popolo, è apparsa nel fuoco di questa lotta popolare. Oggi viviamo faticosamente un altro momento, un momento in cui dobbiamo, nelle particolari ed originali difficoltà della nostra situazione, creare il nuovo e più giusto ordinamento da sostituire al vecchio che è caduto. Il primo momento — non dimentichiamolo — è quello della rivolta popolare. Sembra storia lontana, remota; ed è storia recente. Tra un mese, il 25 aprile, avremo compiuto due anni dalla data di quella insurrezione che ha concluso vittoriosamente il movimento nazionale che si era iniziato a Napoli, insurrezione nazionale alla quale hanno partecipato milioni di italiani, che vi hanno dato il loro contributo — contributo di opere, di eroismo, di sangue — e nella quale centinaia di migliaia di italiani hanno preso le armi. Mai nella storia italiana un movimento popolare ha abbracciato masse di italiani così ingenti ed ha richiesto ad uomini del nostro Paese così grandi sacrifici. E questo movimento, questa rivolta, questa lotta non erano solamente per cacciare dal nostro Paese lo straniero, il fascista; ma erano anche per dare all'Italia un nuovo ordinamento politico e sociale. Non lo dimentichiamo! Chi c'è stato si interroghi, ricordi quello che esso pensava, che cosa pensava che dovesse essere l'Italia che doveva uscire da questo tormento, che cosa speravano i compagni di lotta, quelli che non ci sono più. Chi non c'è stato compulsi i giornali clandestini dell'epoca, studi i documenti dell'epoca, i primi atti del Comitato di liberazione, gli atti del C.L.N.A.I., gli atti di quel nuovo potere popolare che nasceva nel corso della lotta, e che esprimeva in ogni sua affermazione questa volontà di rinnovamento politico, economico e sociale.
Oggi, questa aspirazione consacrata dal sangue di tanti caduti, che hanno voluto che dal fascismo, dalle rovine del fascismo e della guerra, nascesse un'Italia nuova più grande e più giusta, non deve essere dimenticata. Sarebbe una dimenticanza fatale! In quello stesso tormento rivoluzionario si è verificato un fatto nuovo: l'apparizione nella vita politica italiana di una nuova classe dirigente, uscita dal popolo, preparatasi nel lungo ventennio e che ha dimostrato in quegli anni e in quelle difficoltà le sue autentiche capacità, la sua tempra morale, la sua intelligenza politica. Oggi è di moda irridere la nuova classe dirigente antifascista. La cosa non ci sorprende. Ogni volta che un Paese vive un rivolgimento sociale, la vecchia classe dirigente sorride alla nuova classe dirigente che avanza, a queste nuove forze che avanzano, ma di fronte alle quali essa deve finire col cedere il passo. E così si tenta di irridere oggi alla nuova classe dirigente, maturatasi in carcere e nella lotta insurrezionale, una classe dirigente che non ha avuto la possibilità di un apprendistato democratico e che si è dovuta formare da sola, in condizioni di grandi difficoltà, ma che ha dimostrato di essere dotata di quelle qualità che sono necessarie perché una classe dirigente possa guidare un Paese. Questa classe dirigente ha dimostrato di avere una dedizione assoluta alla causa del popolo, ed un legame vivo ed operante col popolo, che gli permette di esprimere i bisogni del popolo e di difenderli in ogni occasione.
Quello che ha fatto, quando ha potuto agire liberamente questa classe dirigente e le pagine che ha scritto durante la lotta degli anni difficili, sono tra le migliori pagine della vita eroica del nostro Paese. Sono le pagine che hanno saputo scrivere i partigiani, e quelle scritte dai Comitati di liberazione, nella loro azione di governo e di amministrazione pagine che onorano la nuova classe dirigente e che è bene siano ricordate qui. Molti di quegli uomini di primissimo ordine, molti di coloro che parteciparono al movimento del Comitato di liberazione, non si trovano in questa Assemblea perché le loro stesse qualità, il loro disinteresse e la loro modestia, hanno spesso impedito loro, a liberazione avvenuta, di conservare nei diversi partiti le posizioni tenute nell'ora del combattimento. Ma io credo che noi sentiamo in questa Assemblea la mancanza della loro concretezza, della loro aderenza ai bisogni del popolo. Molti di questi uomini, che hanno dimostrato in quel momento e in quelle difficoltà la loro capacità, le dimostrano ancora oggi, anche al di fuori di qui, nei municipi, nei sindacati, nelle cooperative, nelle associazioni popolari, in quel movimento democratico popolare che è il fatto nuovo che colora l'attuale situazione politica.
Perché sta avvenendo nel nostro popolo qualche cosa di nuovo: è il processo rivoluzionario che continua, ed è un fenomeno che forse sfugge a qualche osservatore superficiale: oggi le masse popolari hanno cominciato a partecipare alla vita politica del Paese ed alla soluzione dei problemi nazionali. Si sta compiendo così quella che è stata la più grande aspirazione dei democratici sinceri, che hanno combattuto in altri momenti della vita italiana ed arriva a compimento il grande moto unitario iniziatosi col Risorgimento. Anche nel nostro Mezzogiorno, tormentato e dolorante, i lavoratori, scuotendo finalmente le catene della loro oppressione, sono usciti finalmente alla luce della lotta politica cosciente e consapevole, sono usciti dall'isolamento, si sono uniti e organizzati, e lottano per strappare la terra ai proprietari latifondisti e per crearsi possibilità di vita più umane.
Non chiudete gli occhi, o signori, su questo fenomeno, su questo movimento, su questa entrata delle masse popolari nella vita politica della nazione. Questo è un fatto ormai permanente della nostra vita nazionale, il fatto rivoluzionario che è la base incrollabile della nuova democrazia che abbiamo costruito e che stiamo rafforzando. Uomini, donne, giovani, lavoratori si uniscono nelle loro organizzazioni sindacali, professionali, culturali, discutono i loro problemi, partecipano giorno per giorno alla soluzione dei loro problemi particolari e dei più generali problemi nazionali e danno finalmente allo Stato democratico italiano quel consenso, quel legame col popolo, che è mancato nel 1922 e la cui mancanza fu, appunto, una delle cause della nostra catastrofe.
Diamo a questo popolo di lavoratori fiducia nello Stato democratico, facciamo sì che lo Stato — che ad essi è apparso sempre come un nemico — appaia loro come uno Stato nel quale essi potranno democraticamente far trionfare le loro aspirazioni.
Questo è il mezzo per rafforzare veramente con la fiducia del popolo il nuovo Stato e per evitare gravi crisi sociali al nostro Paese.
Sul frontone dell'edificio che stiamo costruendo scriviamo la parola «Repubblica democratica di lavoratori», dimostrando così subito al popolo che la casa che stiamo costruendo è veramente la sua casa. I lavoratori italiani lavoreranno uniti per farla più forte e più sicura e per difenderla contro ogni minaccia, e saranno il presidio della nostra indipendenza e della nostra libertà. (Vivi applausi a sinistra).
[...]
Rodinò Mario. Onorevoli colleghi. La prima delle disposizioni che abbiamo in esame risente della preoccupazione di affermare decisamente e sin dall'inizio la democraticità del nuovo Stato italiano. «L'Italia è una Repubblica democratica», si proclama al primo comma. «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva dei lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese», si dichiara nel secondo capoverso. «La sovranità emana dal popolo», aggiunge l'ultimo periodo.
Sì, certo, è innegabile che è sulla democrazia che si vuole fondare la nuova Repubblica italiana, ma a noi interessa di stabilire qui, sin dal primissimo rigo di questo primissimo articolo, su quale genere di democrazia avremo il diritto di contare, e la definizione di Repubblica democratica non mi sembra sufficiente ad assegnare e garantire al nuovo Stato italiano quel preciso carattere di democrazia parlamentare che è nel ricordo e nell'attesa del popolo italiano.
La tradizione della democrazia parlamentare italiana trova le sue radici e i suoi titoli di nobiltà nell'entusiasmo e nella probità degli uomini che fecero l'Italia, e l'apice della sua affermazione nel periodo precedente la guerra del 1914; quando la chiarezza e l'onestà delle istituzioni parlamentari italiane permisero che a lungo la nostra moneta, indice della sanità nazionale e della fiducia internazionale, battesse in tutte le Borse e su tutti i mercati del mondo il prezzo ed il valore dell'oro. Il fascismo, irridendo alla meritata sensibilità politica dei nostri avi e rovesciando la libertà e l'indipendenza degli istituti parlamentari, apre la via della rovina alla Patria. Orbene, noi crediamo che per ricostruire questa Patria occorra riattivare l'antica onestà politica e riportare gli istituti parlamentari più che mai aperti ed accessibili ad ogni lavoratore e ad ogni cittadino volenteroso e capace, allo splendore e alla trasparenza di un tempo.
Invero: la migliore tutela degli interessi del popolo scaturisce, naturale e insostituibile, dalla legittima concorrenza esistente fra una maggioranza interessata a bene amministrare per conservarsi il favore popolare, ed una minoranza interessata a rilevare ogni suo errore ed inadempienza allo scopo di carpirle detto favore e sostituirsi ad essa.
L'istituto parlamentare, rispondendo alla doppia funzione di tutelare l'affermazione ed il Governo della maggioranza e l'azione dei diritti delle minoranze, è la sola forma che renda possibile lo svolgimento regolare, nell'interesse del popolo, di questo perenne antagonismo, di questo leale conflitto, di questo giuoco di prestazioni e di controlli.
Perciò, se Repubblica deve significare «Governo di popolo», e quindi, «Governo creato e costituito nell'interesse del popolo», noi abbiamo ragione e diritto di esigere che si specifichi chiaramente e fin dal principio della legge costituzionale che è la democrazia parlamentare, quella che darà forma e vita alla Repubblica italiana. Non è la protezione della maggioranza quella che preoccupa: una maggioranza, se veramente omogenea e concorde (e se non lo è, non è maggioranza), sa tutelarsi da sé.
È la protezione delle minoranze quella che interessa ed è di questo che noi dobbiamo principalmente preoccuparci, affrontando chiaramente e tempestivamente il problema e ricordando la tattica dei comunisti, che guardano alla democrazia come ad un mezzo di conquista e non come ad un fine da conquistare.
Noi, qualunquisti, non possiamo dimenticare che nel discorso pubblicato nell'Unità del 12 gennaio, l'onorevole Togliatti ha dichiarato che democrazia per i comunisti più che tranquillo ed autorevole Governo parlamentare, significa: attività delle masse, delle classi popolari e del popolo ad opera di elementi di avanguardia organizzati dal partito di avanguardia della classe operaia!
Con questo genere di democrazia, attivissima ed organizzata, si giunge precipitosamente a trasferire le decisioni delle libere e serene discussioni del Parlamento, alla corale proclamazione dei sì e dei no, delle adunate obbligatorie e oceaniche.
La differenza fra noi ed i comunisti, nei riguardi dell'istituto democratico, è nel fatto che noi vogliamo basarli, consolidarli e garantirli, questi istituti, per poterli pensare eterni e sicuri, mentre, ad essi, basta crearli ed utilizzarli per quel tanto che serve ai loro fini e non più.
Oggi, come minoranza, anche essi hanno tutto l'interesse di appoggiare ed approvare la nostra democrazia, che alla loro minoranza apre e garantisce tutte le porte, tutto il rispetto e tutte le libertà, e rende possibile la partecipazione al potere ed ogni legittima forma di propaganda e di consolidamento.
Domani, ligi alle teorie marxiste e al loro credo politico, con ragionamenti democraticamente progressivi o progressivamente democratici, potrebbero denunciare la inutilità della permanenza dell'istituto parlamentare, divenuto non producente per essi, e sopprimere, di conseguenza, ogni forma legale di opposizione e di controllo.
L'onorevole Togliatti, nel suo ultimo discorso ci ha preannunciato l'avvento al potere di una nuova classe dirigente.
Non abbiamo nulla in contrario, perché sappiamo che queste sostituzioni sono nelle regole del giuoco democratico, ma crediamo di avere il diritto di sorvegliare ed esigere che l'avvento e la successiva permanenza al potere di questa nuova classe si svolga col pieno e costante rispetto delle formule della democrazia parlamentare e sotto la tutela dell'articolo 50, che riconosce al cittadino il diritto e il dovere di insorgere contro coloro che limitano la sua libertà e i diritti garantitigli dalla Costituzione.
«Il problema della Costituzione è questo: bisogna che quanto è accaduto una volta non possa ripetersi più; il Paese non deve essere più in balìa dei gruppi che dominano, perché detengono i mezzi di produzione, ha dichiarato l'onorevole Togliatti, «ecco perché», ha aggiunto: «si deve formulare una Costituzione antifascista». Anche qui d'accordo; siamo qui per aiutarlo, ma vogliamo ricordargli che il miglior modo di fare una Costituzione antifascista è quello di fare una Costituzione veramente democratica, anche se questa è, anche e inevitabilmente, una Costituzione anticomunista. Costituzione democratica e antifascista significa necessariamente libertà di pensiero, di parola, di stampa, libertà di riunione e di associazione; rispetto assoluto e indiscusso dei diritti delle minoranze che devono sempre conservare il diritto legale di opporsi alla maggioranza e di fare tutto quanto è legalmente possibile per divenire, a loro volta, maggioranza e prendere il potere. Se su questo siete d'accordo, se potete garantirci che alle riforme per il benessere sociale, che prospettate ai lavoratori, intendete giungere attraverso le tranquille vie della democrazia e della giustizia piena ed eguale per tutti, realizzate da uomini competenti ed onesti, noi siamo qui, decisi a non procurarvi il benché minimo intralcio, disposti a collaborare e anche a scomparire, perché, come già è stato autorevolmente dichiarato da questo settore, nessuno più di noi ha a cuore la sorte futura e i legittimi miglioramenti dei lavoratori italiani, nessuno più di noi mira a risolvere la questione sociale, raggiungendo una più equa distribuzione dei beni concessi da Dio, nessuno più di noi, al di sopra dei propri interessi e della propria persona, pone l'interesse e l'amore per la Patria e per il popolo. Ma, per queste stesse ragioni, nessuno più di noi combatterà strenuamente ogni qualvolta ci sembrerà che, con la violenza e con l'astuzia, voi cercherete di silurare ogni inizio di ripresa, di fiducia e di calma e indebolire l'integrità e l'efficienza delle forme e delle manifestazioni democratiche che sono e rimangono, per noi e per tutti, la sola e naturale difesa della nostra riconquistata dignità di uomini liberi.
È stato dichiarato che la sconfitta è un disastro dovuto alla politica di una determinata classe dirigente che, per egoismo, avrebbe portato il Paese verso la tragedia e il fallimento, di una classe dirigente che non ha saputo vedere e provvedere, anche quando vedere e provvedere doveva. Ora a me sembra che questa classe dirigente che ha fallito, non può essere identificata, come l'onorevole Togliatti fa, con la borghesia, la quale fu sempre considerata da Mussolini come una classe diversa e avversa alla classe dirigente fascista.
La verità è che si pensa e si tenta di sostituire la classe dirigente borghese, che ha fatto l'Italia e che, nella ultima guerra, nonostante la follia del capo e dei gerarchi e la carenza di mezzi e risorse, ha saputo per tre anni resistere ai più potenti imperi del mondo, dichiarandola espressione egoistica del capitalismo privato, e ci si preoccupa di sostituirla, in un momento così difficile, con una classe nuova senza precedenti e senza esperienza, che non è rappresentata da lavoratori, ma da altri borghesi decisi a sfruttare, nel nome dei lavoratori, un capitalismo mostruoso, cento volte più egoista e cento volte più incontrollabile del capitalismo privato: il capitalismo di Stato!
Nella relazione che accompagna il progetto di Costituzione, il Presidente della Commissione dichiara che molti avrebbero desiderato di definire, subito e all'inizio del progetto, l'Italia «Repubblica di lavoratori», e che a tanto si è rinunziato soltanto per non creare parallelismi con altre Costituzioni che hanno forme di economia diverse da quella italiana. A me non sembra che ci sia una gran differenza tra il definire l'Italia, a similitudine della Repubblica sovietica, «Repubblica di lavoratori» come si sarebbe voluto fare, o definirla: «Repubblica che ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese», come si è fatto nel primo articolo delle disposizioni generali. Questa definizione premessa a quella della sovranità popolare, quasi si tratti di affermazione che preesista e superi i poteri di questa stessa sovranità (che, pure, è la base naturale di ogni democrazia), a me sembra ispirata da equivoche formalità demagogiche ed in evidente contraddizione con la precedente affermazione di democraticità della Repubblica, la quale importa e comporta la completa eguaglianza di tutti i cittadini nel diritto di partecipare alla direzione della cosa pubblica.
È di suprema utilità ed interessa specificare esattamente ed individuare, fin dal principio, la portata e la finalità delle affermazioni di questo progetto di Costituzione, ad evitare l'impostazione ufficiale di piani inclinati, che ignoriamo (o, meglio, non ignoriamo) a che cosa potrebbero condurci.
È noto che i testi marxisti e i partiti e le masse marxiste danno alla parola «lavoro» e «lavoratori» un significato molto più stretto e limitato di quello comune del vocabolario. La dizione, dunque, può prestarsi a doppie ed ambigue interpretazioni che, in una legge costituzionale, vanno evitate senza altro.
Gli italiani sono, per definizione tradizionale: «lavoratori»; tutta la loro storia è frutto delle loro braccia e del loro ingegno; tutta la loro terra ed infinite altre terre sono intrise del sudore della loro fronte; tutto il progresso della umanità, in ogni campo e in ogni settore, è legato al lavoro italiano.
Se per «lavoro», come è stato già detto qui dentro, deve intendersi e non può non intendersi, al disopra di ogni accezione di lavoro manuale, ogni azione ed ogni attività intese a procurare col braccio e con la mente un guadagno o una soddisfazione all'individuo ed un contributo materiale, intellettuale e morale alla vita comune, io, mi domando: chi è che non lavora in Italia? Tutti lavorano in Italia, o, meglio, tutti aspirano a lavorare, e, forse, il lavoro più degno è quello di coloro che si affaticano a creare ed ampliare ogni attività di lavoro per gli altri, e il più commovente è quello di tanti che lavorano disperatamente a cercare un lavoro, che per tutti non c'è.
Se dunque il lavoro, inteso nel senso ampio e lato di questa nobile parola, è già base e fondamento, e anzi la sola base e la sola speranza della vita italiana; e se la percentuale di quelli che vogliono non lavorare in Italia e che possono permettersi il lusso di avere questa volontà, ammesso che ve ne siano, è talmente irrisoria e trascurabile da non poter formare oggetto di particolari provvedimenti e individuazioni in tema di legge costituzionale, perché dare proprio all'inizio della nostra Costituzione la sensazione di un possibile conflitto e in ogni caso di una differenziazione fra popolo e lavoratori, quando, come già è stato detto, il popolo italiano è un popolo di lavoratori?
A conti fatti, se porre alla base della Costituzione la santità e la indispensabilità del lavoro, unica speranza e unica sostanza di vita per la Repubblica, è doverosamente sacro, la proclamazione di una non identificata classe di lavoratori, privilegiata nei confronti del laborioso popolo italiano, non ha e non può avere che uno scopo demagogico ed elettorale, quello di giocare sull'equivoco e di permettere a qualcuno di dire, basandosi sulla assonanza di nomi fatti — repubblica di lavoratori, partito di lavoratori, camera dei lavoratori: — «Ecco abbiamo già riservato i posti; di qui e solamente di qui si passa in base alla nuova Costituzione; solamente di qui si entra per partecipare alla organizzazione e alla vita del Paese!». (Commenti).
Dopo avere, e giustamente, affermato che il lavoro è il fondamento della Repubblica, più serio e più onesto sarebbe stato di preoccuparsi del problema di procurare il lavoro ai lavoratori italiani, anziché di quello, tanto più facile, di assicurare loro la partecipazione politica, che non potrebbe mai loro mancare in una repubblica ordinata democraticamente e secondo i principî della sovranità popolare.
A me sembra che, dopo aver proclamato la necessità del lavoro, unica e vera fonte della rinascita della Patria, troppo nel progetto in esame e con troppa sorprendente facilità si parla di assegnazioni di lavoro, di possibilità di lavoro, di benefici derivanti da una sempre più diffusa attività di lavoro, dimenticando che l'impiego di tutte le braccia e di tutti gli intelletti disponibili rimane per tutti i paesi in genere, e per il nostro in ispecie, il problema dei problemi.
Dopo le fandonie del fascismo, i cittadini hanno sete di sincerità ed è obbligo della democrazia, e quindi obbligo nostro, di rispondere a questa precipua e legittima esigenza.
Le manovre equivoche continuano. Durante le ultime elezioni fu affermata e diffusa una falsità: la Costituente vi darà pane e lavoro. Nelle prossime si darà vita ad una altra: la Costituzione ha assicurato a tutti il lavoro.
Non è giusto; consci della nostra responsabilità nei confronti del popolo, e assolutamente indifferenti alle sorti dei prossimi ludi elettorali, noi desideriamo che la Costituzione non rappresenti un inganno per nessuno e che i cittadini sappiano che tutti i provvedimenti derivanti dal lavoro italiano, privo di materie prime, sono e rimangono intimamente connessi e legati alla realizzazione di una sempre più vasta collaborazione economica internazionale. Come nell'articolo 4 di queste disposizioni generali è sancito e praticamente dichiarato che l'Italia, più che sulla forza delle sue armi, che non ha e che non può avere, conta, per i problemi della difesa e delle aggressioni, sull'esistenza di un'organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia ai popoli, così, anche per quanto riguarda i problemi del lavoro, occorrerebbe dichiarare in questa Costituzione, che il popolo italiano, per soddisfare le sue sempre crescenti necessità di lavoro, conta sul progressivo incremento di una collaborazione internazionale che renda possibile, nel nome di una superiore giustizia, lo scambio di materie prime con prodotti finiti.
Nessuno Stato, per quanto ricco e attrezzato, può infatti illudersi di vivere rinchiuso in se stesso, separato dalla comunità internazionale. Le follie dell'autarchia ci fanno oggi sorridere.
Mettere il lavoro quale fondamento della nuova Repubblica, va bene; ma le fondamenta, per rispondere alle funzioni di sostegno, debbono a loro volta essere ben poggiate e basate e non è possibile non domandarsi su che cosa poggeremo noi questo «lavoro-fondamento» che figura garantito a tutti i cittadini e sul quale ci affrettiamo ad imporre tutto l'edificio della nuova Repubblica. Il problema del lavoro, considerato soltanto come problema di carattere interno e nazionale, è del tutto irreale e insolubile, e malamente è stato posto a perno principale dell'organizzazione costituzionale.
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Ora, quello che noi desideriamo dalla Costituzione, e che la Costituzione è necessario che ci dia, è un complesso di norme generiche che garantiscano a tutti i cittadini di qualsiasi opinione politica, categoria economica e condizione sociale a cui essi appartengano la sicurezza dei diritti e l'esercizio della libertà.
E questa garanzia ci occorre principalissimamente contro lo Stato. La sicurezza e la difesa della personalità e indipendenza del cittadino affidate alla discrezione dello Stato non ci ispirano alcuna fiducia, perché crediamo che il nuovo Stato italiano, o qualunque altro, non agiranno mai nei confronti dei cittadini con modi e spirito sostanzialmente diversi da quelli con cui agirono, agiscono ed agiranno tutti gli Stati che, autorizzati ad esorbitare dalle semplici funzioni amministrative, hanno, con tutto il loro complesso di uffici e di personale, un solo principalissimo obiettivo, che supera di gran lunga qualsiasi preoccupazione di salvaguardare l'autonomia e la dignità dei cittadini: quello di comandare il Paese e i cittadini nel modo più sicuro e più spiccio, e di continuare a comandarli anche quando non ci sono più le iniziali approvazioni e consensi.
In dipendenza di tutte queste gravi e concrete preoccupazioni, l'amico onorevole Coppa ed io abbiamo presentato il seguente emendamento all'articolo 1°:
«Lo Stato italiano ha ordinamento repubblicano, democratico, parlamentare, antitotalitario.
«Suo fondamento è l'unità nazionale; sua meta la giustizia sociale; sua norma la libertà nella solidarietà umana».
A cura di Fabrizio Calzaretti