[Il 17 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Froggio. Onorevoli colleghi, il nostro compito fondamentale, quali rappresentanti e in nome del popolo, è di dare la Costituzione al nostro Paese. Il mandato a noi conferito non è però un mandato generico: noi non possiamo dare una qualsiasi Costituzione, perché il popolo ha espresso in modo chiaro e preciso la sua volontà, specificandola in due direzioni. Ha dato un ordine quanto alla forma istituzionale: deve essere repubblica; ha dato un ordine quanto alla sostanza: deve essere democrazia.
E a me pare che queste due direttive abbiano uguale nobiltà e siano state circondate da uguale solennità. Hanno avuto entrambe pari solennità perché, se è vero che, quanto alla forma istituzionale, il popolo ha risposto con la solennità della manifestazione diretta del referendum, è pur vero, però, che, quanto alla sostanza, si è avuta l'unanimità assoluta.
Si è avuta unanimità assoluta, perché tutti i partiti si sono proclamati democratici ed hanno manifestato la volontà di costruire un sistema democratico. Il popolo dunque ha detto: do a voi, miei rappresentanti, la mia fiducia, perché voi facciate una democrazia.
E noi abbiamo sentito, e lo ha sentito la Commissione, che queste erano e sono le volontà fondamentali del popolo; lo ha sentito a tal punto che le ha segnate nelle prime parole di questo progetto della Carta costituzionale quando, nell'articolo primo, ha affermato e scritto: l'Italia è una Repubblica democratica.
[...]
Valiani. Onorevoli colleghi, parlo per motivare le ragioni per cui il Partito d'azione vota in favore dell'emendamento proposto dagli onorevoli Nenni e Togliatti, che vuole, come primo articolo del progetto di Costituzione, la seguente dizione: «L'Italia è Repubblica democratica di lavoratori». Per quale ragione noi voteremo questo emendamento? Fondamentalmente, perché, a differenza delle parti successive del medesimo articolo 1, che pone invece postulati etici e sociali, i quali meglio avrebbero il loro posto in un preambolo, questa dizione «Repubblica democratica di lavoratori» pone un principio politico, il quale ha la sua storia politica ed è anche suscettibile di conseguenze giuridiche tali da doversi iscrivere in una Costituzione.
La Repubblica democratica dei lavoratori ha una storia nelle lotte politiche condotte dalle organizzazioni operaie, dai movimenti popolari, dai partiti di sinistra in tutti i Paesi europei dal 1848 fino ai nostri giorni. Dovunque la democrazia abbia fatto dei progressi, dovunque il movimento dei lavoratori, ed in generale i democratici-repubblicani conseguenti, si siano affermati come una forza politica, essi hanno posto questa esigenza di caratterizzare lo Stato democratico più coerente, cioè la Repubblica che poggia sui lavoratori.
Se guardiamo le battaglie che sostennero i democratici conseguenti in Francia, ancora alla fine del secolo scorso, poi in Spagna, in Italia stessa, se guardiamo alle tradizioni, alla lotta del movimento operaio per la democrazia, ancora prima del 1914 e successivamente, se guardiamo alla Germania e all'Austria, ai Paesi dell'Europa centrale, dappertutto questa idea politica della Repubblica democratica dei lavoratori o della Repubblica popolare, come in alcune Costituzioni dall'altro dopoguerra si espresse, è stata affermata.
Questa è un'idea politica, non un vago postulato etico, ma è necessario anche che sia tradotta in conseguenze giuridiche. Nel nostro progetto di Costituzione non si è immesso ancora — come a mio giudizio si deve immettere — questa dizione nella impostazione di alcuni degli organi, di alcune delle istituzioni della Repubblica stessa. Per esempio, per la seconda Camera si verrà ad una formulazione diversa di coloro che sono eleggibili a seconda che si sancisca o non si sancisca questo principio. Quando poi si verrà a discutere degli articoli relativi alla proprietà privata, alle sue garanzie, ai limiti che essa incontra nell'interesse generale della società, questa dizione di Repubblica democratica dei lavoratori sarà, o non sarà, il filo che ci dovrà orientare; significherà una presa di posizione all'inizio della Costituzione che può caratterizzare una parte notevole del resto della Costituzione medesima. Perciò, pur essendo ostili, come più tardi dirò, a varie affermazioni etiche che non trovano posto in un documento di diritto pubblico, quale deve essere fondamentalmente una Costituzione, noi difenderemo questa nozione preliminare e, per così dire, giudizio politico, preliminare, che l'Assemblea dà sul carattere, sugli scopi, sulla natura politica della nuova Repubblica e sulle forze che possono dirigerla, e domanderemo, come domandiamo a tutti i repubblicani coerenti, a qualsiasi partito appartengano, di votare a favore di questa dizione.
L'onorevole Togliatti ha notato come l'onorevole Orlando cercasse nella Costituzione qualche cosa che visibilmente mancava, cioè il soggetto, il sovrano. Io credo che la preoccupazione dell'onorevole Orlando fosse giusta. Nelle Costituzioni è implicito, è sottinteso un soggetto e, mentre nella monarchia costituzionale questo soggetto è evidentemente il sovrano per grazia di Dio e per volontà del popolo, nella Repubblica democratica invece soggetto può essere soltanto la forza politica che ha voluto la Repubblica e che è disposta a difenderla ad oltranza contro ogni e qualsiasi tentativo di restaurazione. Questa forza politica è nella dizione «Repubblica democratica dei lavoratori». Non basta in proposito richiamarsi alla volontà popolare, perché la volontà popolare caratterizza qualsiasi forma di Stato costituzionale, dalla monarchia costituzionale alla Repubblica conservatrice e alla Repubblica democratica.
Bisogna scegliere tra le varie forme di Stato costituzionale che si presentano davanti agli occhi nostri. La Repubblica democratica dei lavoratori qualifica una di queste forme; non è detto che la Repubblica democratica dei lavoratori debba necessariamente — come temono molti che avrebbero ragione di temerla, se questo fosse il pericolo che incombe su di noi — significare Governo di Assemblea. Io sarei contrario al Governo puro e semplice di Assemblea; soprattutto per l'incapacità sua di dare un reggimento durevole allo Stato. Le esperienze fatte col Governo di Assemblea non sono state mai felici in alcuna parte; tanto è vero che tale Governo non ha mai retto durevolmente.
Ma la Repubblica democratica dei lavoratori può essere costruita anche su un altro presupposto. Qualsiasi democrazia organizzata, anche il tipo di democrazia che corrisponde alla repubblica presidenziale (che sarà la proposta che noi faremo più in là), può entrare ed entra nel quadro della Repubblica democratica dei lavoratori.
Un esecutivo forte — quale che ne sia il modo di elezione — è possibile in una Repubblica democratica dei lavoratori, purché nelle autonomie popolari, che limitano ed insieme controllano l'esecutivo stesso e fissano la divisione dei poteri rispetto all'esecutivo, si garantisca la partecipazione del popolo lavoratore.
Perciò, mi pare che tutti i repubblicani coerenti, anche gli amici del partito repubblicano storico, i quali giustamente si preoccupano di non cadere sotto il cosiddetto «cesarismo di Parlamento», e vogliono larghe autonomie locali, possano, anzi credo, che debbano votare a favore di questo articolo. Perché la Repubblica democratica dei lavoratori ha questo significato, nel momento politico che attraversiamo: che non ci accontentiamo di istituire la Repubblica sulla carta, ma ci proponiamo di organizzare la Repubblica con le forze schieratesi a suo favore.
Si parla molto della inefficienza dei Governi tripartiti. In particolare, gli amici del partito repubblicano storico sono stati tra i primi a criticare la paralisi dei Governi di coalizione dopo la caduta del fascismo. Se pure si uscirà dai Governi di coalizione, come quello attuale, ibrido, il quale riunisce elementi che non sono stati ancora conciliati (lo possono essere, ma non lo sono stati ancora), non si uscirà da questo sistema, se non gli si contrapporrà un altro sistema, un altro schieramento politico, uno schieramento delle sinistre democratiche. Questo schieramento politico delle sinistre ha il suo presupposto nel voto che dobbiamo dare a favore della dizione «Repubblica democratica di lavoratori».
Un grande democratico, Jaurès, uomo di sinistra — la cui figura può essere rivendicata dai socialisti di tutte le tendenze, dal movimento operaio nel suo insieme, ma anche dai democratici repubblicani puri, perché l'obiettivo della sua vita era di conciliare il movimento repubblicano col movimento operaio; figura che può essere non antipatica alla parte repubblicana della Democrazia cristiana, perché, pur socialista, egli seppe valorizzare l'elemento cristiano, che esiste in fondo al movimento socialista dei lavoratori — Jaurès dunque, quando pose in Francia per la prima volta il problema del fronte delle sinistre per le elezioni del 1893, che dettero, con la vittoria delle sinistre, alla Repubblica il suo vero carattere democratico, diceva: «Checché se ne possa dire, oggi non si tratta tanto di difendere la Repubblica, ma di dirigerla e di organizzarla».
Mi pare che questo sia anche il nostro compito.
Se ci limitiamo semplicemente a difendere la Repubblica, con leggi di difesa, giuste, ma insufficienti — perché non è mai con un provvedimento di polizia che si risolve il problema d'un nuovo Stato — se ci limitiamo a difenderla, la perdiamo. Perché tutte le volte che le repubbliche democratiche si sono poste in posizione difensiva, sono state, alla fine, travolte.
Bisogna che la Repubblica si organizzi, ed a tale scopo bisogna che abbia una direzione bene identificata. Bisogna identificarne il principio nella Costituzione medesima, qualificandola come Repubblica democratica dei lavoratori.
Amici repubblicani storici e amici democristiani, se voi rifiutate questa direzione, vi mettete su un terreno sul quale soltanto la polizia sarà a vostra disposizione per la difesa dello Stato.
Se volete difendere la democrazia, dovete identificare lo Stato con le forze sociali qualificate in questo emendamento.
E vorrei invitare gli amici repubblicani storici e quelli che sono repubblicani nella Democrazia cristiana a tener presente che soltanto in questo modo, con questo voto, noi possiamo chiudere il capitolo della lotta antifascista, la quale si chiuderà soltanto allorché saremo riusciti a creare su basi solide il nuovo Stato. Altrimenti ci troveremo sempre davanti al pericolo di ricadere nel passato regime dispotico.
Si chiuderà la lotta antifascista soltanto quando le masse lavoratrici, che hanno combattuto nel modo più efficace, avranno la sensazione che il nuovo Stato è il loro Stato, non più quello della democrazia liberale. Questo aveva anch'esso i suoi pregi, i suoi meriti, che non disprezzeremo perché noi ne siamo figli; ma fu travolto dal fascismo. Non voglio cercare ora le responsabilità. Tutti i Paesi d'Europa furono travolti.
Se vogliamo creare un nuovo Stato che non si senta sempre in pericolo di essere travolto, dobbiamo dare ad esso un contenuto e delle garanzie giuridiche: innanzi tutto un principio ideale che lo metta al disopra, al di là della pura antitesi con la reazione e il fascismo, su un terreno su cui si possa costruire un solido edificio sociale.
Preso il problema da questo punto di vista, che è più importante e più elevato di quello che abbiamo dovuto adottare quando la nostra lotta era rivolta solo ad estirpare il fascismo, io credo che i deputati sinceramente repubblicani, a qualsiasi partito appartengano, dovrebbero votare secondo coscienza e non secondo le istruzioni del loro partito.
Benedetto Croce notava qui come sia importante che si voti secondo coscienza, in questo momento. Noi non chiederemo certamente all'onorevole Croce, che rappresenta un'altra forma di Stato, di votare per la Repubblica democratica dei lavoratori; ma possiamo chiederlo a tutti gli altri, ai democratici di tutti i banchi, e se essi lo voteranno, allora, sì, potremo uscire dalla coalizione ibrida di oggi, potremo creare una nuova coalizione, in cui possa avere la sua parte anche la Democrazia cristiana in quanto repubblicana (Commenti al centro).
Una nuova coalizione, dico, nella quale la Democrazia cristiana, o la parte repubblicana di essa si volga verso sinistra, come aveva preannunziato nel suo Consiglio nazionale del 1945, e come purtroppo non ha saputo affermarsi nei due anni successivi.
Mentre dunque noi voteremo per la dizione dell'emendamento presentato dagli amici del partito socialista italiano e di quello comunista e chiediamo a tutti i repubblicani di votare in questo senso, debbo criticare il capoverso successivo dell'articolo 1, il quale suona così: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Per questo secondo capoverso, debbo confessare che condivido gli argomenti degli avversari monarchici che lo prendono in giro e credo a ragione. Il lavoro è infatti il fondamento di ogni vita; e a tanto maggior ragione è il fondamento di ogni vita sociale, di ogni Stato, sia esso dispotico, repubblicano, monarchico o quello che volete.
Se voi volete fare un preambolo, si potrà trovare il modo di mettervi al centro quella che si chiama la filosofia del lavoro; ma, nell'articolo 1, questa dizione genera solo confusione.
E ancora vi dirò che la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, che è invece un'esigenza giusta e concreta, non trova, a mio parere, posto in questo articolo 1, perché non costituisce un principio giuridico e politico, ma è un obiettivo sociale concreto. Quando verremo a discutere dei consigli di gestione, per i quali noi voteremo, là evidentemente questa volontà di far partecipare tutti i lavoratori alla realtà economica del Paese potrà essere affermata.
Per il resto, questo è l'obiettivo che si possono porre i partiti politici che hanno l'ambizione di organizzare le masse lavoratrici e di portarle alla vita pubblica: quando è garantita la libertà di propaganda; la libertà di stampa, la libertà di organizzazione, quando, in seno alla fabbrica, è garantito il consiglio di fabbrica, il resto non dipende che dalla volontà pratica e dal successo che questa politica ha nella classe lavoratrice stessa.
Quindi, approvata la dizione «L'Italia è una Repubblica democratica dei lavoratori», il successivo capoverso diventa pleonastico.
Non faccio qui una questione secondaria; almeno non mi pare. Credo che uno dei difetti fondamentali dell'antifascismo — difetto che noi scontiamo amaramente — fosse e sia quello di non aver tenuto e di non tenere presente l'importanza della chiara formulazione giuridica. Se l'epurazione è fallita, se l'amnistia ha dato risultati diversi da quelli di pacificazione che da essa ci si ripromettevano, ciò si deve, sì, a ragioni sociali e politiche complesse, che sono essenzialmente quelle di non aver potuto portare a termine in Italia la rivoluzione popolare, ma si deve anche alle incongruenze giuridiche di queste leggi stesse.
Io vi esorto perciò a non fare formulazioni incongruenti nella Carta costituzionale italiana.
Nell'articolo 6 — anch'esso formulato in modo confuso, ma che tuttavia esprime un principio generale giusto, cioè che la libertà e la dignità della persona umana, nonché l'interesse generale della società, dello Stato, sono principî filosofici ai quali si richiama la nuova Costituzione in questo articolo — sono comprese implicitamente, e si possono rendere più esplicite, le esigenze che hanno mosso i redattori del secondo capoverso dell'articolo primo. Rifacciamo l'articolo 6, in modo che sia chiaro che l'interesse generale della società è superiore ad ogni altro interesse particolaristico; e allora avremo dato alla Costituzione il suo nerbo.
[...]
Mancini. [...] Un secondo principio si è affermato in questi sette articoli: quello della sovranità popolare. Dobbiamo intenderci sulla parola sovranità e sulla parola popolo. Si tratta di due parole, che si sorprendono sulle labbra di tutti, come si sorprende sulle labbra di tutti la parola coscienza, mentre tanta gente volta spesso le spalle alla medesima. La parola sovranità in se stessa e nei rapporti dell'odierna vita reale racchiude un concetto di potenza. Il popolo oggi è il solo sovrano rispettato e temuto.
Ed a buon diritto, perché da solo si è conquistato il potere. Il popolo ha tolto agli usurpatori, cioè alla monarchia dei Sabaudi e a Palazzo Venezia, dove avea asilo la tirannia, la sovranità e l'ha fatta sua. Sovranità significa potere. Onde si dice bene quando si scrive, come si è scritto: il potere emana dal popolo, cioè «appartiene al popolo». Questo potere, nella nostra Costituzione, reclama due requisiti: un limite nelle forme della Costituzione e della legge; ed una sostanza concreta. Infatti il popolo lo esercita partecipando effettivamente all'organizzazione economica, sociale e politica del suo Paese.
Per noi «popolo» non vuol dire agglomerato indistinto e indifferenziato di gente povera o di gente da nulla: Popolo significa classe, qualificata dal lavoro, dal lavoro che solleva tutto il popolo e lo fa diventare l'artefice insonne del proprio destino.
La vecchia classe dirigente italiana storicamente è decaduta insieme con il fascismo, perché essa creò il fascismo, lo portò al Governo e ve lo mantenne per 20 anni fino alla disfatta. Onde oggi non ha più il diritto di rimanere al suo posto; ma il dovere indiscutibile di lasciare libero il passo alle nuove energie del lavoro, che si avanzano impavide per assumere la direzione dello Stato.
Se volessi ricordare e parafrasare un noto e storico motto di un Abate francese, direi che il quarto stato è niente. Ma sarà tutto domani con la partecipazione effettiva alla organizzazione politica, sociale ed economica dello Stato.
Sottolineo la parola: «effettiva».
[...]
Da queste premesse, onorevoli colleghi, discendono tre conseguenze: la prima inficia il nome di disposizioni generali. Non si può intitolare questo capitolo «Disposizioni generali». La parola «disposizione» sa troppo di Codice, e la Costituzione non è un Codice.
Tutti i tecnici giuridici si mettano l'anima in pace. Questa Costituzione è la legge delle leggi, è la legge fondamentale, e basilare, che supera tutte le leggi. È una norma, cioè un comandamento. In quanto nella norma è compreso il principio e la disposizione, il diritto e la morale, il presente e l'avvenire. Credo perciò che questo capitolo debba essere intitolato «Norme generali», e la Repubblica definita: «Repubblica di lavoratori». Io non capisco perché tutti gli oppositori, che pur così eloquentemente hanno esaltato il lavoro, si sono poi tanto preoccupati di questa specificazione. Sospetto che si spaventino del significato politico del nome. Orbene, se essi davvero sentono nel profondo dell'animo la bellezza umana del lavoro, non dovrebbero spaventarsi nemmeno del suo significato politico.
Anzi, questa Italia, la cui economia si basa sul lavoro, questa grande proletaria, che non ha avuto e non ha altra forza se non quella delle braccia dei suoi figli e dell'intelletto dei suoi geni, che da Melchiorre Gioia ad Alessandro Volta crearono la civiltà nel mondo, quando finalmente può scegliersi liberamente una Costituzione ed un regime di popolo non può battezzarlo che con il nome che le viene dal passato, che le impone l'avvenire: quello di chi la onora e l'ha sempre onorata: il lavoratore.
A cura di Fabrizio Calzaretti