[Il 27 maggio 1947 l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale del Titolo quinto della Parte seconda del progetto di Costituzione: «Le Regioni e i Comuni».]
Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Esaurito l'esame e l'approvazione degli articoli contenuti nella prima parte, ci troviamo oggi a dover iniziare la discussione del Progetto per quanto si riferisce alla parte seconda, dedicata all'ordinamento della Repubblica.
Come i colleghi rammentano, è già stato dall'Assemblea deciso di anticipare l'esame del Titolo V: «Le Regioni e i Comuni».
Rubilli. Chiedo di parlare.
Presidente Terracini. Ne ha facoltà.
Rubilli. Ho presentato il seguente ordine del giorno.
«L'Assemblea Costituente,
considerato che l'istituzione dell'Ente Regione non risponde ad alcuna necessità che si sia realmente manifestata, e non può seriamente ritenersi in alcun modo richiesta o reclamata dal popolo italiano;
che i giusti ed opportuni criteri di decentramento potranno essere attuati indipendentemente dalla creazione di enti regionali;
che ad ogni modo, per ora almeno, una grande riforma come quella che si prospetta per le Regioni non appare, anche secondo il progetto, ben ponderata nelle sue non lievi conseguenze dal punto di vista politico, amministrativo e specialmente finanziario, sicché non sembra possibile, di fronte alle enormi difficoltà del periodo che si attraversa, lanciarsi con leggerezza incontro ad incognite preoccupanti e pericolose;
delibera, anche senza affermazioni vaghe e generiche, le quali potrebbero rappresentare inopportuni ed affrettati vincoli, che sia rinviato senz'altro alla Camera legislativa l'esame di pratici, concreti e completi progetti di legge, sia pure di carattere costituzionale, per un oculato decentramento, che giunga, se possibile, anche ad una riforma regionale, ed intanto sia stralciato dalla Costituzione in esame l'intero Titolo V, relativo alle Regioni e ai Comuni».
Ritengo che quest'ordine del giorno abbia carattere pregiudiziale e chiedo di poterlo svolgere senz'altro.
Abozzi. Chiedo di parlare.
Presidente Terracini. Ne ha facoltà.
Abozzi. Ho presentato un emendamento al Titolo terzo, sezione seconda, che afferma la esigenza di un vasto decentramento amministrativo e che implica la soppressione dell'intero Titolo V relativo alle regioni; esso ha quindi un evidente carattere pregiudiziale ed è per questa ragione che dichiaro di appoggiare l'ordine del giorno dell'onorevole Rubilli.
Presidente Terracini. L'onorevole Rubilli, di fatto, ha presentato una mozione d'ordine, a tenore della quale dovremmo in questo momento, anziché affrontare la discussione generale del Titolo dedicato alle regioni, prendere in esame l'ordine del giorno che lo stesso onorevole Rubilli ha presentato, e che conclude praticamente con la rinunzia alla discussione generale, che dovremmo iniziare ora, del Titolo V.
L'onorevole Abozzi ha dichiarato di aderire a questa richiesta dell'onorevole Rubilli. Come gli onorevoli colleghi sanno, sulle mozioni d'ordine possono prendere la parola tutti coloro che intendono accettarle o respingerle.
L'onorevole Rubilli ha facoltà di parlare.
Rubilli. Onorevoli colleghi, dichiaro che non si tratta di una mozione mia personale, perché è fatta anche a nome e per conto del partito liberale, al quale mi onoro di essere iscritto. (Interruzioni — Commenti).
Allorché, signor Presidente, l'altro giorno invocai un breve periodo di sospensione (non di vacanze, ma di sospensione), io non avevo certo il desiderio di darmi un po' di bel tempo; perché sempre, quando risiedo a Roma, non fo che star qui a Montecitorio, come sanno tutti i colleghi. Non ho, né so dove andare, e mi fermo, come mi sono fermato in questi giorni, esclusivamente a Montecitorio per compiere ogni mio dovere. Chiesi qualche giorno di sospensione per una ragione ben diversa; perché io prevedevo, come poi si è verificato, il travaglio dei partiti su questo argomento, ed occorreva dar tempo perché questo travaglio potesse svolgersi e arrivare ad una conclusione che fino ad ora potrebbe ritenersi, dal punto di vista dei vari aggruppamenti politici, completamente definita. Di fatti, in questi giorni, onorevoli colleghi, non ho sentito parlare d'altro: per il salone, per i corridoi, non si parlava di nessun altro argomento. (Commenti).
Una voce. E della crisi?
Rubilli. Persino quella era passata in seconda linea. (Commenti). E forse se ne parlava meno, anche perché non si vede ancora spuntare un raggio di sole. Ma ad ogni modo solo fugacemente la crisi richiamava la nostra attenzione. Io ho sentito discutere, e spesso in forma anche animata, specialmente del grave problema della regione e sono stato informato che tutti quanti i gruppi — nessuno escluso — dai maggiori ai minori hanno tenuto ampie e ripetute riunioni proprio su questo problema per decidere la linea che volevano seguire.
Sicché, a mio avviso, non è che se venga accolta la mozione che ho l'onore di svolgere in questo momento possa essere diminuito il valore della discussione, perché della riforma sulle regioni si è già parlato, ed ampiamente anche, nella discussione generale o generalissima, come si volle appellarla.
Ora, quattro oratori dovrebbero sempre discuterne ancora, e poi attraverso le dichiarazioni di voto che il Presidente, se crede, data l'importanza dell'argomento, potrà consentire anche con una certa ampiezza, vi sarà sempre il modo che ciascun deputato e ciascun partito possa esprimere il proprio pensiero.
Posso essere breve, relativamente, perché, in fondo, in gran parte, mi sono occupato, e con ampia argomentazione, di questa grande riforma a proposito della parte generale; potrei forse anche riportarmi a quello che già dissi in quell'occasione.
Brevemente quindi...
Lussu. Signor Presidente, io credo che l'onorevole Rubilli non abbia il diritto di parlare sul merito del suo ordine del giorno. (Commenti).
Presidente Terracini. L'onorevole Rubilli è molto abile e cerca di giungere all'argomento attraverso un giro di frasi, che non ci consentono ancora di capire che cosa intende dire.
Rubilli. Il pensiero mio e del mio partito è questo: noi siamo stati e ci siamo dichiarati contrari alla riforma delle regioni.
Voci. Non è vero.
Rubilli. Come non è vero? Sono state anche pubblicate le deliberazioni recenti ed unanimi prese dal Partito liberale su questo argomento. Ed io non posso indagare se qualche dissenso o qualche opinione isolata possano rintracciarsi nelle numerosissime sedute della Commissione.
Vi sono persino componenti della Commissione e di altri Partiti, non del Partito liberale, i quali, checché abbiano detto nella Commissione, ora presentano ordini del giorno eguali a quello che ho presentato io contro la riforma regionale. Dunque il dibattito vero e completo ha luogo qui, nell'ambito dell'Assemblea. Così ricordo che espressi allora nella discussione generale quello che poteva essere il nostro pensiero a proposito della riforma regionale ed insisto nel riassumere e nel ripetere che, secondo il nostro avviso, essa non risponde a nessuna delle esigenze attuali, né nel campo politico, né nel campo amministrativo. Devo però chiarire ancora, in conformità di quello che dissi nel mio precedente discorso, che non intendo affatto che possa un eventuale voto dell'Assemblea, in questo momento, influire sulle autonomie che sono state già concesse.
La mia opinione al riguardo non è mutata.
Le autonomie che sono state consentite non possono essere né discreditate, né tanto meno eliminate. Ritengo che per necessità di cose si dovettero fare quelle concessioni di fronte agli avvenimenti che si erano verificati in conseguenza della guerra.
Presidente Terracini. Onorevole Rubilli, la prego, non entri nel merito.
Rubilli. Io credevo di poter rapidamente e brevemente svolgere idee le quali influissero sul merito. Di che argomento posso allora parlare, se non della riforma delle regioni?
Presidente Terracini. Onorevole Rubilli, lei sta in questo momento parlando per rivendicare il diritto di parlare poi nel merito. Lei deve giustificare questo diritto di parlare nel merito ed è questo il tema che deve svolgere, cioè la mozione d'ordine.
Rubilli. Precisamente, verrà un momento in cui potrò poi dar conto della mozione che ho presentata.
Presidente Terracini. Se l'Assemblea accetta la sua mozione d'ordine, lei darà conto del suo ordine del giorno.
Rubilli. Dovrò solamente dimostrare che è pregiudiziale? Devo limitarmi a questo? Naturalmente, se il Presidente dice che non è questo il momento opportuno per una discussione di merito, io devo fermarmi a dichiarare la pregiudizialità della mozione. E, francamente, non mi attardavo su questo, perché mi sembrava evidente (Rumori — Interruzioni). Devo persuadere i colleghi che si tratta di una mozione di carattere pregiudiziale? Scusate; ma se si domanda che sia stralciato dalla Costituzione l'intero Titolo V e rimandato alla Camera legislativa, vi può essere una richiesta più pregiudiziale di questa? Io credevo di dover svolgere sin da ora la mozione e quindi mi accingevo a spiegarne i motivi, brevemente, e senza naturalmente abusare della bontà del Presidente e dei colleghi. Ma, giacché si dice che io devo rimandare ad altro tempo ciò che stavo dicendo, e che devo solo dimostrare la pregiudizialità della mia mozione, allora posso solo aggiungere che forse quelli che chiedono ancora un chiarimento sul carattere pregiudiziale del mio ordine del giorno non hanno letto ciò che io ho scritto. In conclusione io domando che sia stralciato l'intero Titolo V della legge costituzionale e rinviato per l'esame e per la decisione a relativi progetti di legge, sia pure di carattere costituzionale, da parte della prossima Camera legislativa. Mi pare che non vi potrebbe essere una maggiore pregiudizialità.
E, dopo questo, credo di non avere altro da aggiungere in questo momento.
Lussu. Chiedo di parlare.
Presidente Terracini. Ne ha facoltà.
Lussu. Ho l'impressione che il collega onorevole Rubilli, nel presentare questa mozione, non parli esattamente a nome di tutto il Partito liberale che è rappresentato in questa Assemblea, perché altrimenti penso che ci sarebbero qui anche altre firme oltre la sua. Ricordo che il collega onorevole Einaudi, il quale ha quasi sempre presenziato con me alle sedute della seconda Sottocommissione e del Comitato speciale per le autonomie, esprimeva allora opinioni diverse da quelle manifestate oggi dall'onorevole Rubilli. Ma, a parte questa questione formale, c'è un'altra questione, di forma e di sostanza al tempo stesso; sulla questione delle autonomie ci eravamo preparati a discutere, secondo le previsioni, il 5 maggio. Si era stabilito concordemente che il primo problema che avremmo affrontato dopo la discussione generale, sarebbe stato quello delle autonomie. Tutti concordemente ritenemmo che questa questione fosse fondamentale per la nuova Carta Costituzionale dello Stato Repubblicano e democratico. Ed improvvisamente, dopo lunga preparazione, e dopo la sospensione chiesta in questa Aula l'altro giorno, per essere meglio preparati e poter meglio sviluppare i contatti tra partito e partito, improvvisamente l'onorevole Rubilli presenta una mozione d'ordine di carattere pregiudiziale. Questa non è questione pregiudiziale, ma è, a mio parere, una questione arbitraria. Quale avvenimento è successo in Italia per impedire che questo problema sia, come è stato promesso a questa Assemblea ed al Paese, affrontato discusso e risolto? Quale catastrofe nazionale è scoppiata?... (Rumori — Ilarità). Che cosa è successo? Nulla. È successo solamente questo: che l'onorevole Rubilli, girando per i corridoi durante una crisi, della cui risoluzione probabilmente non ritiene di dover essere il protagonista (Si ride), si è accorto improvvisamente che questa questione, oggi così interessante, deve essere rinviata! Non è successo un bel nulla!
Ecco perché ritengo che l'onorevole collega Rubilli non abbia diritto di svolgere questa sua mozione d'ordine, perché, se avesse un tale diritto su questa questione così importante, ciascuno di noi avrebbe l'eguale diritto in tante altre questioni, e si impedirebbe così qualunque discussione. Infatti possiamo accordarci e presentare duecento mozioni d'ordine, domani o questa sera stessa! (Rumori). Io credo invece che questa questione rientri nei poteri discretizionali del Presidente che può concedere e non concedere; ma, se ritiene che si debba affrontare la mozione presentata dall'onorevole Rubilli, dovrebbe prima interpellare l'Assemblea.
Presidente Terracini. L'onorevole Nobili Tito Oro ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L'Assemblea, visto il Titolo V della Parte II del progetto di Costituzione (articoli 106-131), rileva che la creazione dell'ente regione è ancora immatura nella coscienza del popolo; ritiene che, comunque, essa non debba essere proclamata prima di aver fatto tesoro dei risultati degli esperimenti in corso per le autonomie regionali già deliberate dal Governo.
«Ma, riaffermando, fin d'ora, che è compito della Repubblica riordinare l'Amministrazione in via legislativa sulla base delle autonomie locali e di un razionale decentramento, approva l'articolo 106 del progetto, come garenzia della osservanza di tale indirizzo».
L'onorevole Nobili ha facoltà di parlare.
Nobili Tito Oro. Onorevole Presidente, ho chiesto la parola come presentatore di un ordine del giorno, che può parere analogo a quello presentato dall'onorevole Rubilli, ma per il quale io non sostengo il carattere di pregiudizialità. Evidentemente qui il collega Rubilli è caduto in un equivoco che attiene alla interpretazione del regolamento: l'ordine del giorno mio, come del resto il suo, è stato presentato in funzione di quello contemplato dall'articolo 87 del Regolamento e non come pregiudiziale ai sensi dell'articolo 93; dovrà quindi essere preceduto dalla discussione generale. Si potrebbe anche osservare, e non dovrebbe parere sottigliezza, che l'Assemblea, come corpo deliberante, non ha preso ancora cognizione del testo e della portata del titolo quinto della parte seconda del progetto di Costituzione; né a ciò contraddice il fatto che personalmente ciascuno di noi ne ha invece conoscenza. Quel che conta, ripeto, è che l'Assemblea, come corpo deliberante, non ha ancora esaminato e discusso il progetto di costituzione per quanto riguarda il titolo V. (Commenti). Ed in tali condizioni evidentemente non si può dare per conosciuto quello che non è conosciuto. (Interruzioni). Il mio ordine del giorno, per precisione, reca l'espressione: «Visto il titolo V della parte seconda del progetto di Costituzione...» e con ciò chiaramente presuppone la discussione generale. Avranno invece carattere preliminare il mio ordine del giorno e quello dell'onorevole Rubilli rispetto all'esame degli articoli, in quanto prima di passare a questo, cioè alla fine della discussione generale, dovranno essere esaminate le proposte in essi contenute che hanno carattere preclusivo della ulteriore discussione.
Ho dovuto prendere la parola non per contraddire al pensiero del collega Rubilli, ma perché il mio ordine del giorno conservi il diritto di essere esaminato alla fine della discussione generale.
Presidente Terracini. Mi pare che si sia abbastanza chiarita la questione; si tratta di vedere se l'ordine del giorno presentato dall'onorevole Rubilli, debba considerare questioni pregiudiziali o meno. L'onorevole Rubilli avrebbe potuto molto facilmente dare egli stesso questo carattere alla sua proposta, se, anziché come ordine del giorno, l'avesse presentato come questione pregiudiziale.
La questione pregiudiziale non pregiudica la discussione dell'argomento in esame; mira ad impedirne la discussione, ai termini dell'articolo 93 del Regolamento. D'altra parte, ogni progetto di legge è conosciuto dall'Assemblea nel momento in cui il testo è distribuito e non quando è discusso, e questo testo è stato già distribuito molto tempo fa. Comunque, poiché l'onorevole Rubilli non ha dato un carattere pregiudiziale alla sua proposta, essa dovrebbe essere accettata con questa interpretazione. Chiedo all'Assemblea se ritenga che l'ordine del giorno Rubilli debba essere considerato come una questione pregiudiziale.
Rubilli. Chiedo di parlare.
Presidente Terracini. Ne ha facoltà.
Rubilli. Non insisto; giacché, come parmi d'intravedere, sorge il sospetto ed il dubbio che io voglia impedire una discussione da cui su questa grande riforma possano venire altri chiarimenti pur desiderati e sempre bene accetti, per conto mio non insisto.
Io credevo che la mia proposta avesse un carattere pregiudiziale, e senza dubbio lo ha, ma non ho nessun interesse ad ostacolare il desiderio della più ampia discussione.
Presidente Terracini. È superato in questa maniera il piccolo ostacolo procedurale e possiamo iniziare la discussione sul Titolo V del progetto di Costituzione dedicato alla regione ed ai comuni.
Nobile. Chiedo di parlare.
Presidente Terracini. Ne ha facoltà.
Nobile. Ho presentato il seguente ordine del giorno il quale, a mio avviso, costituisce veramente una pregiudiziale:
«L'Assemblea Costituente,
considerato che la questione dell'ordinamento regionale per la sua gravità imporrebbe non solo la più ampia discussione generale, ma anche un esame approfondito, sia tecnico che politico, di ognuno dei singoli articoli che costituiscono il Titolo V del progetto di Costituzione;
considerata l'opportunità di affrettare i propri lavori,
delibera:
di abolire il Titolo V e di inserire nel progetto un articolo che rinvii l'ordinamento regionale ad una legge avente valore costituzionale da discutersi ed approvarsi dal futuro Parlamento».
Presidente Terracini. Onorevole Nobile, ritengo che le considerazioni che ho fatto sull'ordine del giorno Rubilli debbano chiarirle la impossibilità di considerare senz'altro il suo ordine del giorno come una pregiudiziale.
Nobile. Ma mi permetto osservare, onorevole Presidente, che col mio ordine del giorno non entro nel merito della questione, non mi occupo della bontà o dei difetti dell'ordinamento regionale: faccio solo una questione di tempo. A me parrebbe che esso in tutti i casi abbia veramente il valore di una pregiudiziale; forse fra quelli presentati è l'unico che costituisce veramente una pregiudiziale. Perciò chiedo che mi sia consentito di svolgerlo.
Presidente Terracini. Lei desidera rifare la discussione già fatta per la richiesta dell'onorevole Rubilli? Possiamo farla. Ma le faccio presente che la sua richiesta si presenta come un ordine del giorno che, dopo una motivazione, giunge a proposte concrete, le quali non sono di sospensione o di rinvio, ma di abolizione del Titolo V, inserendo un articolo di un determinato tenore.
Questa non è quindi una pregiudiziale. È un modo diverso di presentare la questione e di chiederne la conclusione.
Nobile. La pregiudiziale sta nel secondo considerando, nel quale si dice: «Considerata l'opportunità di affrettare i lavori ecc.».
Presidente Terracini. È ben chiaro che l'Assemblea non è in questo ordine di idee.
Nobile. La mia conclusione era questa: che, a mio avviso, per una discussione seria di questo Titolo occorrono due mesi, ed altri due, almeno, occorrono per i restanti Titoli della seconda parte. Non potremmo, quindi, terminare i nostri lavori prima dell'autunno. Come sarebbe allora possibile fare le elezioni in autunno, come si dice di voler fare? È necessario affrettare la conclusione dei lavori, ma questo non si può ottenere con lo strozzare la discussione su un argomento così grave, qual è l'ordinamento regionale. Donde, tenuto conto che niente impedisce di rinviare per qualche tempo l'attuazione della riforma, l'opportunità di rimandarne l'esame al futuro Parlamento.
La mia richiesta, dunque, costituiva una pregiudiziale vera e propria. Non discutendola adesso, ma alla fine della discussione generale del Titolo V, essa viene a mancare al suo scopo, che era appunto quello di evitare che la discussione generale abbia luogo ora. Ad ogni modo non insisto.
Presidente Terracini. Ritengo che possiamo iniziare la discussione generale del Titolo V. Desidero rendere noto ai colleghi che vi sono 82 iscritti e pertanto coloro che avranno la parola non perdano di vista la necessità di raggiungere prima dei quattro mesi previsti dall'onorevole Nobile la conclusione della nostra discussione.
È iscritto a parlare l'onorevole Tessitori. Ne ha facoltà.
Tessitori. Onorevoli colleghi, poco fa l'onorevole Rubilli affermava che questa riforma, così come proposta, non risponde a nessuna esigenza né di carattere amministrativo né di carattere politico.
Ora, io brevemente cercherò di dirvi, invece, quali, secondo me, sono i motivi che richiedono che questa riforma sia non solo discussa ma soprattutto attuata.
È questa la parte del progetto di nuovo ordinamento dello Stato che indubbiamente è destinata ad avere le più larghe ripercussioni, donde la necessità di una discussione ampia e serena, se si è convinti che la struttura dello Stato debba essere modificata e profondamente riformata; se vogliamo che nel nostro Paese siano fissate le basi per un regime veramente democratico.
La riforma, quale è disegnata nel progetto, si inspira alla concezione autonomistica dell'attività degli enti locali, di cui afferma la funzione insostituibile e il più possibilmente libera da impacci burocratici e da strettoie derivanti dal potere centrale.
Quando noi affermiamo questo principio — ed io che ho l'onore di essere il primo a prendere la parola non posso dirvi, ed è questo il compito che mi son prefisso, se non quelle che sono le ragioni sostanziali e fondamentali, disegnare la cornice del quadro, perché gli interventi successivi esamineranno i singoli problemi che la riforma proposta impone alla Camera — quando noi affermiamo la necessità di questa riforma, noi crediamo di rispondere a delle esigenze che sono vive nel Paese.
E in primo luogo ogni corrente politica, che qui dentro e nel Paese agisce, deve proporsi il problema se quello che afferma e sostiene, risponde alla tradizione del proprio pensiero politico. Ora, l'affermazione e la rivendicazione dell'autonomia degli enti locali è viva fino dal primo sorgere del pensiero democristiano in Italia.
E sarebbe strano che, dopo tutto quello che è avvenuto, mentre siamo qui a predisporre la Carta Costituzionale del Paese, a gettare i pilastri di quella che dovrà essere la futura attività dello Stato, la corrente democristiana dimenticasse uno dei capisaldi del proprio pensiero tradizionale.
Per noi, l'autonomia degli enti locali rappresenta un'esigenza basilare di uno stato veramente democratico. Questa esigenza si è rivelata in tutta la letteratura, che proviene dai nostri uomini migliori, fin dalla fine del secolo scorso. Io non voglio tediare la Camera ricorrendo ad argomenti d'autorità, ma gli onorevoli colleghi vorranno consentire due soli ricordi: l'uno che riporta in quest'Aula il nome venerato di Filippo Meda, il secondo che ricorda un altro dei nostri uomini eminenti, don Luigi Sturzo.
Quando, nel 1900, la Camera dei deputati discusse la legge Daneo-Credaro, la quale investiva il problema dell'autonomia dei Comuni — perché allora non si parlava ancora di una riforma strutturale completa dello Stato — si trovarono in disaccordo due uomini illustri del Parlamento e precisamente Filippo Meda e il collega Ivanoe Bonomi, ambedue membri del Consiglio direttivo dell'Associazione dei comuni italiani, rappresentanti di due correnti, di due diverse ideologie politiche.
E poiché Filippo Meda ritenne che, dato questo disaccordo, fosse incompatibile la sua permanenza, insieme con Ivanoe Bonomi, in seno al Consiglio direttivo dell'Associazione dei Comuni italiani, presieduta dal senatore Greppi, sindaco di Milano e vicepresieduta da don Luigi Sturzo, ritenne di dover presentare le dimissioni, spinto da quella squisita sensibilità politica che gli era propria e che è nota a tutti. E allora, prima di decidere sull'accettare o sul respingere le dimissioni, il Presidente e il Vicepresidente ritennero opportuno convocare il Consiglio direttivo perché si procedesse ad un'ampia discussione sul problema dell'autonomia dei Comuni.
La discussione si svolse in Campidoglio il 5 dicembre 1910; ed è opportuno che noi risaliamo a queste fonti per giustificare il nostro atteggiamento attuale, che non è un atteggiamento sorto oggi ma è tale che affonda le sue radici nelle lontane origini del nostro pensiero e della nostra evoluzione politica, onde non può e non deve meravigliare se noi combattiamo acché questa riforma sia finalmente attuata.
Nel 1910, dunque, Filippo Meda presentava una mozione in seno al Consiglio direttivo dell'Associazione dei Comuni italiani. E, strano caso, se voi rileggete l'ordine del giorno Piccioni del 1° agosto 1946, che fu approvato quasi all'unanimità dalla seconda Sottocommissione per la Costituzione, vedrete che esso riecheggia in qualche modo, fin nelle parole, i concetti che Filippo Meda esprimeva fin dal 1910.
Che cosa è l'autonomia? Ecco il problema che veniva posto allora e che anche oggi è in discussione.
E Meda rispondeva:
1°) che l'autonomia comunale è il riconoscimento della somma di attività storiche e attuali che costituiscono il Comune come centro di interessi morali ed economici, non subordinati, ma coordinati a quello dello Stato;
2°) istituzionalmente il Comune autonomo deve tendere a conservare e a rivendicare gli uffici tutti della vita civile, in quanto non spettino necessariamente allo Stato;
3°) funzionalmente il Comune deve tendere alla gestione libera da tutele della propria azienda.
L'ingerenza dello Stato — continua la mozione — offende l'autonomia ogni qual volta non è determinata dalle supreme ragioni della difesa politica. Essa perciò deve contenersi nella vigilanza sull'adempimento delle leggi. Infine lo Stato ha il diritto di esigere dal Comune un'azione corrispondente agli interessi generali del Paese, ma ha il dovere di fornire i mezzi ordinari e straordinari perché tale azione si renda possibile.
Questa mozione non fu approvata. Ma i concetti in essa dichiarati furono da noi sempre mantenuti fermi come concetti basilari e fondamentali; e, ripeto, se voi rileggete l'ordine del giorno Piccioni in confronto a quella mozione del 1910, non vi trovate se non la ripetizione, sul piano regionalistico, di quello che Filippo Meda sosteneva sul piano dell'autonomia comunale.
Tonello. Altro è l'autonomia comunale e altro è l'autonomia regionale!
Tessitori. I principî che reggono l'una e l'altra autonomia, collega Tonello, sono identici, sia che noi guardiamo all'ente Comune, sia che guardiamo all'ente Regione.
Ivanoe Bonomi proponeva invece un ordine del giorno nel quale si concludeva di ritenere sufficiente e pratico ai fini dell'Associazione che la vita comunale si rafforzi si sviluppi sul terreno che le è proprio con mezzi adeguati, con maggiore volontà d'azione e compatibilmente col necessario coordinamento di tutti gli organi della vita nazionale.
Io parlo per la prima volta in quest'Assemblea, benché, giovanissimo ancora, vi abbia fatto parte nel 1921; e non vorrei che i colleghi pensassero che io voglia assumere atteggiamenti polemici o, peggio, da maestro nei confronti di colleghi che sono tanto superiori a me. Ma, tuttavia, vorrei far presente all'onorevole collega Bonomi che l'identica posizione, che egli assunse, di rinvio, di tardigrado, nel lontano 1910, è quella che assume ora, come risulta da un suo articolo pubblicato domenica passata sul Corriere della Sera sull'ordinamento regionale. (Interruzione dell'onorevole Russo Perez).
Sì, onorevole Russo Perez, anche in quello scritto l'onorevole Bonomi dice: «Ma state attenti, noi corriamo forse il pericolo di fare un salto nel vuoto, un salto nel buio. È bene attendere e vedere quali risultati potranno dare gli esperimenti autonomistici che sono già in attuazione o che sono di imminente attuazione nelle quattro contrade dello Stato italiano che ormai, nessuno più discute, hanno diritto di avere la sistemazione autonomistica».
È la stessa posizione mentale! Ora, io dico e penso che codeste posizioni mentali, che ci promettono per l'indomani l'esaurimento di una esigenza che noi pensiamo debba essere soddisfatta oggi, codesti atteggiamenti sono per noi sospetti e ad essi non possiamo aderire.
Ed un'altra parola autorevole volevo ricordare ed è quella di Don Luigi Sturzo. Non voglio tediare con le letture. Ho sott'occhio un discorso da lui pronunciato nel 1921 al Teatro della Pergola a Firenze, là dove parla della crisi dello Stato. Mi limito a leggervene un solo periodo, ed è questo: «Lo Stato coordina, normalizza, integra gli enti locali e le loro iniziative; sorveglia e tutela i rapporti coi privati e l'erogazione del pubblico danaro. Lo Stato deve tenere in amministrazione solo quello che è nazionalmente indivisibile o inscindibile nella sua struttura economica o nella sua ragione politica, come sono le grandi linee di comunicazione, le linee strategiche, gli empori portuali e i demani nazionali».
Detto questo, a quasi legittimazione del nostro atteggiamento risoluto nella difesa della concezione autonomistica degli enti locali, aggiungo che uomini appartenenti a qualsiasi corrente politica, se obiettivamente esaminano talune esigenze proposte dalla nostra vita nazionale, dovrebbero concludere per l'attuazione di questa riforma. E le esigenze sono tre: la prima si è la necessità urgente di liberarci dall'accentramento burocratico statale; la seconda è che in determinati settori è impossibile una legislazione uniforme ed efficace; infine si prospetta un problema di carattere squisitamente politico ed è la necessità che siano forniti gli strumenti necessari perché venga stimolata la coscienza civica del nostro popolo ed attraverso l'esperienza nelle amministrazioni locali sia avviata, quanto meno, la formazione di una larga e capace classe politica dirigente.
Questo dello strapotere della burocrazia, della sua lentezza talvolta torturante, della quotidiana pervicace ricerca di sempre nuove invenzioni per complicare i servizi (vi parla uno che è in mezzo alle amministrazioni comunali) è una piaga che, io penso, non ha bisogno di avere una dimostrazione a traverso i fatti, che tutti voi più o meno conoscete, perché tutti siamo a quotidiano contatto col popolo, il quale dalla burocrazia esige e attende invano siano soddisfatte le esigenze più elementari.
Mi limito a citare un fatto solo, che traggo da una pubblicazione di un collega, l'onorevole Piemonte. Ognuno parla dei fatti che avvengono nella sua terra. Così l'amico Piemonte, così io, non possiamo parlare se non di episodi, se non di cose che avvengono nel nostro Friuli.
Vi fu colà una vertenza per il pagamento del salario a seicento operai friulani, che emigrarono in Austria. Il salario doveva essere corrisposto mediante consegna al Governo italiano di una certa quantità di cemento equivalente all'importo complessivo dei salari. Il cemento non fu consegnato. Gli operai finirono il lavoro; ritornarono a casa loro, ma senza avere ricevuto nemmeno in parte il salario. Si aprì la vertenza e, per risolverla, il Ministero nominò ben 19 commissioni.
Ora io non sono tra quelli che gridano contro la burocrazia per sfogare un proprio stato d'animo. La burocrazia è una necessità. Nessuno Stato può far senza burocrazia, perché, come diceva Enrico Persico, essa è il potere occulto e permanente di qualsiasi regime. Però, noi vorremmo che essa fosse resa uno strumento più pronto, più snello, al servizio del Paese, non una macchina pesante e mortificante; e pensiamo che, per raggiungere questo scopo, non basti il semplice decentramento amministrativo. È questa la formula che ci si fa balenare davanti agli occhi da tutte le correnti politiche che avversano le autonomie: Basta, esse dicono, il decentramento amministrativo! Questo sarebbe il toccasana contro il centralismo, attuale burocratico e funzionale, dello Stato.
Di decentramento amministrativo le cronache parlamentari parlano fin dal 1860. Tutti ne sentivano la necessità. In tutte le discussioni di bilanci in questa Assemblea, oratori hanno parlato dell'opportunità e dell'urgenza di risolvere il problema del centralismo burocratico.
Finora, però, nonostante tutte queste declamazioni, tutte queste invocazioni, non se n'è fatto nulla. L'accentramento è andato crescendo sempre più; ha raggiunto il culmine col fascismo e continua tuttora quasi per forza d'inerzia. Del resto, io vi vorrei citare un caso cospicuo di decentramento amministrativo in Italia e che è indicato ad esempio in tutti i trattati di diritto amministrativo e di diritto costituzionale; è il Magistrato alle Acque per il Veneto e la provincia di Mantova. Il Magistrato alle acque, del quale io non disconosco i meriti.
Tonello. È un istituto secolare.
Tessitori. Onorevole Tonello (lei dovrebbe essermi testimone che non dico cosa inesatta), quando recentemente abbiamo domandato che si istituisse una sezione della Corte dei conti presso il Magistrato stesso onde accelerare i lavori pubblici, l'abbiamo ottenuta, ma lo sperato acceleramento non è venuto ed anzi si sono avuti maggiori intralci e ritardi. Così il più cospicuo esempio di decentramento amministrativo ha dimostrato che codesta formula non può essere accettata da chi effettivamente voglia una riforma dello Stato, che sveltisca i servizi e ci liberi da quella che è, ormai, la cappa di piombo del potere centrale e della burocrazia centrale. Io non so da che cosa dipenda tutto questo; non so se noi italiani abbiamo nelle vene come un congenito male burocratico di cui non riusciamo a liberarci. Basta pensare all'ultimo modulo per il razionamento annonario compilato dall'Alto Commissariato per l'alimentazione; io sono assessore per l'Annona del comune di Udine e so che cosa ha significato e significa quel modulo; e vedo con piacere, che vari colleghi che fanno parte di amministrazioni comunali, mi fanno segno di assenso. Quel complicatissimo modulo non può essere compilato direttamente che dal 5 per cento, forse, dei capi-famiglia: tali e tanti sono i quesiti e le domande ivi, contenuti. Da che cosa dipende tutto questo? Non so; io constato un fatto e lo constata soprattutto il nostro popolo con le conseguenze che voi potete immaginare. Ora noi dobbiamo aderire a quella che è la sensibilità popolare.
Costantini. Il popolo non ha chiesto mai la Regione.
Tessitori. Non l'ha chiesta nei modi in cui voi vorreste la chiedesse.
Micheli. Non ha chiesto neppure la Costituzione.
Tessitori. Il popolo nostro però è stanco di codesto continuo risalire dagli uffici burocratici periferici a quelli centrali di un quasi enorme rigurgito cartaceo; e ciò perché la caratteristica di tutto il funzionamento amministrativo, centralizzato si è che nessun grado gerarchico, nessun piano burocratico vuole assumersi la responsabilità di decisioni che non siano quelle dove o non vi è o sia minima la responsabilità. Per tutto questo noi riteniamo che la formula del decentramento amministrativo non sia sufficiente; e che abbia già dato prova di non riuscire allo scopo che vogliamo raggiungere. Anche noi vogliamo, sì, il decentramento amministrativo, ma come conseguenza e in funzione delle autonomie degli enti locali.
La seconda necessità, che postula una riforma in senso autonomistico discende dal fatto che il nostro Paese è così formato, che in molti campi, in ordine a molte materie, non è possibile una uniformità legislativa, quanto meno in ordine alla esecuzione ed alla attuazione delle norme generali. Basta pensare alla varietà del nostro Paese; che dipende dalla sua situazione geografica e dal processo storico formativo delle varie regioni. Basta pensare che lo stesso Codice civile, in determinate materie, specialmente in ordine alle servitù prediali, alla proprietà, agli usi mercantili deve continuamente riferirsi agli usi e consuetudini locali; usi e consuetudini locali che, circa i rapporti commerciali, sono abbandonati ad una legislazione empirica, che era data ieri dai Consigli provinciali dell'economia ed oggi dalle Camere di commercio.
Questa varietà di condizioni e di sviluppo del nostro Paese, dicevo, rende impossibile una uniformità legislativa dal centro.
Basta pensare ai problemi dell'agricoltura, per cui è necessario che noi cerchiamo di risolvere il problema legislativo, adattandole alle condizioni locali; e questo adattamento non può avvenire, se non attraverso una facoltà legislativa, ed io non entro nei particolari del progetto, perché questa è materia della discussione successiva, ed io non devo tracciare che un disegno della nostra posizione, in ordine alla riforma. La realtà è, però, che molte disposizioni legislative non trovano e non possono trovare efficacia sul terreno pratico, per il semplice motivo che di fronte ad esse resistono le condizioni locali.
Non è una novità quello che dico. Lo diceva 50 anni fa un uomo, che non apparteneva certo alla corrente democratica cristiana, ma che tutti voi, indubbiamente, conoscete, attraverso le sue opere, Giustino Fortunato, quando scriveva della questione del Meridione. Ad un certo momento egli afferma che una delle difficoltà per la soluzione di quel problema sta nel fatto del voler mantenere una uniformità legislativa in tutti i campi, uniformità cui resistono le condizioni ambientali.
«L'erroneo principio — egli scrive in una opera relativa alla questione meridionale e alla riforma tributaria — della uniforme soluzione di problemi legislativi connessi a condizioni intrinsecamente diverse venne, quindi, ciecamente adottato nella sua interezza. Caso tipico, la legge forestale del 1877, che dando di penna alla savia legge napoletana del 1826, obbligò al mantenimento della terra boschiva non oltre la zona del castagno, la quale, se molto bassa nelle Alpi, è assai alta in tutto l'Appennino meridionale; ché, anzi sino a poco fa, il preconcetto d'una completa uguaglianza di fatto, non mai apertamente contradetto, fu regola a tutta l'azione del governo e del Parlamento».
Voce del passato che concorda con la diagnosi, che noi, aderenti all'idea autonomistica, stiamo facendo nel Paese da tempo e che oggi deve essere affrontata ed esaminata dall'Assemblea Costituente; diagnosi esatta, la quale ci porta a ritenere che il rimedio non può essere se non questo, e cioè che nelle singole Regioni la legislazione di carattere generale, le direttive fondamentali, perché possano avere efficacia, e riuscire a buon risultato, debbono trovare un adattamento attraverso la sensibilità di organi legislativi che conoscano i bisogni e le esigenze locali.
L'ultima necessità, quella che io definivo e che definisco di carattere squisitamente politico, nel senso più alto della parola, discende dalla constatazione di un fatto, constatazione che mi pare sia fuor di discussione, almeno stando alla poca letteratura che io ho letto. La constatazione è che il nostro popolo, in confronto di altri popoli, è in notevole arretrato nello sviluppo della sua coscienza civica e che presso di noi è quanto meno scarsa e inefficiente la classe politica dirigente. Ed allora, se è vera questa constatazione di fatto, abbiamo il dovere di esaminare se e quali possono essere i rimedi.
La deficiente coscienza civica e la minorità politica è una conseguenza dell'essere stato il nostro popolo tenuto eccessivamente lontano dalle sue aziende più vicine, e che egli sente più vivamente: i Comuni, le Province, le regioni. Bisogna riportare il popolo ad esse e cointeressarlo alla loro vita e alla loro attività.
Negli archivi del mio Friuli esistono tuttora i verbali, che risalgono al medio evo, dei Consigli dei Comuni.
Gente spesso analfabeta, che si riuniva parecchie volte all'anno a discutere e risolvere i problemi del proprio comune e li risolveva con saggezza e con serenità, senza bisogno di tutela, o di Giunte provinciali amministrative.
Io parto da un presupposto, caro amico Costantini, da un presupposto di fede. Sono un ottimista; ho fiducia nel nostro popolo; so che il nostro popolo ha tante e tali energie per cui saprà adoperare lo strumento autonomistico, se noi saremo in grado di darglielo. (Applausi).
Io non ho paura del salto nel vuoto, come hanno paura taluni degli oppositori, dei quali discorreremo subito, così, familiarmente e alla buona.
Gli oppositori si dividono apparentemente in due categorie; ma queste sostanzialmente si riducono ad una sola, ed è la categoria degli uomini paurosi. Si ha paura di un salto nel vuoto. Aspettiamo — si dice — l'esperimento di Sicilia ed intanto già si comincia a criticare a tutto spiano la prima seduta della Assemblea regionale siciliana, tanto per debilitare il primo atto esperimentativo delle autonomie.
Si sussurra che nella Val d'Aosta, le cose non vanno bene. Ma tuttavia aspettiamo. Fino a quando dovremo aspettare?
Io non so se sia anche l'amico Tonello fra gli aspettanti.
Costoro mi danno l'immagine di quelli che vogliono contrarre matrimonio ma non vogliono contrarlo se non hanno la garanzia e la certezza assoluta di avere la base economica per il mantenimento della famiglia. E in attesa di questa certezza, il matrimonio non si fa.
Ho ammirato la sincerità del collega Rubilli, il quale non ha voluto nascondere dietro le pieghe del suo pensiero oppositore nulla, perché con la sua pregiudiziale egli è entrato a vele spiegate nel merito.
Ne leggo l'ultimo comma: «Delibera, anche senza affermazioni vaghe e generiche, le quali potrebbero rappresentare inopportuni ed affrettati vincoli, che sia rinviato senz'altro alla Camera legislativa, l'esame di pratici concreti e completi progetti di legge sia pure di carattere costituzionale». Io non so come mai la Camera futura possa prendere provvedimenti di carattere costituzionale.
«Per un oculato decentramento». Quell'aggettivo è tutto un poema. L'«oculato» lo vedranno i figli dei nostri figli, evidentemente. «Che giunga, se possibile, anche ad una riforma regionale». C'è tutto quanto un sistema difensivo e offensivo contro questa riforma; c'è una evidente manovra ostruzionistica alla quale noi dovremmo ingenuamente adattarci.
E, dicevo, il collega Rubilli, quanto meno, è stato sincero, ed io per questo lo ammiro.
Più sospetto invece mi è l'ordine del giorno Nobili e l'ordine del giorno, o meglio emendamento, proposto da Rozzi e Grassi, perché tutti e due questi documenti contengono la parola «autonomia».
L'onorevole Nobili dice che è compito della Repubblica riordinare l'Amministrazione in via legislativa sulla base delle autonomie locali e di un razionale decentramento. E di autonomie parla anche l'emendamento Bozzi-Grassi, autonomie che ci vengono buttate là in un documento cartaceo e delle quali si dovrebbe discutere in seguito, chi sa quando!
Allo stesso modo, in un articolo di giornale, l'onorevole Bonomi ci dice: «Rinviamo; il momento è così grave nel nostro Paese; tanti altri problemi urgono, problemi più seri, problemi contingenti; abbiamo alle porte la fame; abbiamo i disordini». Si è bensì concessa l'autonomia alla Sicilia, ma perché la Sicilia l'ha chiesta, si è chiaramente rivelata e anche in forma ribelle. Talché io dico, bisognerà attendere che anche le altre Regioni d'Italia chiedano l'autonomia nei modi e con i sistemi siciliani? Il compito nostro è affrontare questo problema senza aspettare simili manifestazioni, perché il Paese attende e non è vero che sia insensibile a questo problema. Il problema è stato discusso per esempio nel mio Friuli ed io vorrei che voi provaste quale è la sensibilità di quelle popolazioni.
D'accordo che in una campagna di questo genere, in una battaglia di questa natura, elementi deficienti, deteriori, inconvenienti sorgono; spinte campanilistiche, e ragioni di interesse si ravvivano; ma sarebbe strano che il legislatore si fermasse di fronte ad una riforma che ritenesse necessaria sol perché c'è gente che non la comprende, c'è gente che la sfigura, c'è gente che la svisa. Noi dobbiamo filare diritti verso il nostro scopo, incuranti delle male interpretazioni, dovute a buona o a mala fede.
La seconda categoria di oppositori è egualmente, secondo me, vittima di una prospettiva errata. Essi dicono: voi con questa riforma ponete il Paese su un piano inclinato, lo fate scivolare verso il federalismo!
È una affermazione da non trascurarsi ed una preoccupazione legittima. Lo sgretolamento del Paese, che dopo secoli, e con tanti sacrifici ha conquistata la sua unità sarebbe una sciagura. Noi vogliamo in ogni modo evitare questa preoccupazione. Ci turba che l'obiezione venga da uomini di larghissima cultura e di larga esperienza, e per questa ragione ci soffermiamo e ci chiediamo se per avventura essi non abbiano ragione e se la riforma non sia un passo falso e non comprometta, dopo tante sciagure, l'avvenire del Paese.
Ma io mi pongo una prima domanda, onorevoli colleghi: è possibile che il senso dell'unità politica e morale del nostro Paese, cementato in quasi un secolo di dolori e gioie comuni, sia una cosa così fragile che abbia bisogno, per essere sostenuta e rafforzata, di mantenere e di rafforzare il centralismo statale e contemporaneamente di soffocare la vitalità e l'energia degli enti locali? E d'altra parte, se ci sono uomini di grande coltura e di vasta esperienza — che io rispetto — i quali sono dubbiosi di fronte alla riforma, abbiamo altre schiere di uomini, di eguale se non superiore esperienza, di patriottismo insospettato ed insospettabile, che invece puntano sulla riforma autonomistica. E non mi rifaccio agli albori del nostro Risorgimento perché, a parte i particolari ed i dettagli, la concezione essenziale e generale che avevano Cavour, Minghetti e Farini, che aveva il nostro eminente friulano Pacifico Valussi — che scrisse un'opera per la riforma dello Stato, invocando l'autonomia regionale, stampata a Udine nel 1868 — tutti uomini che hanno partecipato alla grande opera del nostro Risorgimento, ai dolori, alle ansie, alle speranze del Risorgimento, è possibile — mi domando — che se tali uomini non temevano per l'unità del Paese, allora, quando gli elementi di disgregazione erano attuali e vicini, quando così vive erano le nostalgie per i regimi passati (ricordiamo il brigantaggio del napoletano), è possibile che l'unità del Paese sia in pericolo ora, se nel 1860, nel 1870, nel 1878, le menti più illuminate non avevano tale preoccupazione ed invocavano le autonomie ed un largo respiro di vita agli enti locali? Sentivamo in un discorso pronunciato di recente qui dentro dall'uomo che rappresenta come l'ideale anello di congiunzione tra il passato e il presente — Vittorio Emanuele Orlando — accennare all'autonomia regionale, e senza risolvere il problema, né dire la sua opinione, lasciare trasparire a traverso un accenno storico quale fosse il suo pensiero. Forse, egli diceva (questo è il concetto, non le parole), un sistema federalistico all'inizio unitario d'Italia sarebbe stato più consono al temperamento e alle esigenze del nostro Paese. Il fatto solo che quest'uomo si ponga ancora simile problema sta a rappresentare per me un raggio di luce che rafforza la convinzione che domani il nostro Paese, attraverso la riforma autonomista, se la sapremo preparare così come le esigenze del Paese richiedono, avrà la sua base granitica per una vera e solida ricostruzione democratica.
Abituato come avvocato penalista a tentare la disamina della psicologia di coloro che son chiamato a difendere vorrei tentare analogo procedimento ora. E così gli oppositori all'attuale progetto di riforma mi appaiono non diversi da quegli elettori italiani che il 2 giugno votarono per la monarchia per un solo motivo e con una sola preoccupazione: che cioè la monarchia rappresentasse ancora nel Paese un elemento di coesione unitaria e che sparendo questo istituto si potesse provocare il disgregamento della vita nazionale. Così oggi si confonde l'unità politica con il centralismo burocratico e funzionale dello Stato; ed è codesta confusione che genera l'equivoco, e che ci fa schierare contro uomini di così varie correnti politiche. Noi da questi banchi (e credo di interpretare il pensiero dei miei colleghi del gruppo democristiano) diciamo una cosa sola: affermiamo la nostra fede profonda che, se una Costituzione si deve dare all'Italia non può essere, sotto altra forma, la ripetizione dello Statuto albertino, perché il Paese attende una radicale riforma nella struttura organizzativa ed amministrativa dello Stato. Non so se vinceremo la battaglia; so però una cosa: che se saremo perdenti continueremo la lotta. (Applausi al centro — Molte congratulazioni).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Preti. Ne ha facoltà.
Preti. L'onorevole Tessitori ha testé detto che apprezza ed incoraggia i giovani che non si preoccupano soverchiamente della propria posizione economica quando devono decidersi al matrimonio; io invece sono tra coloro che ritengono che questi giovani debbano avere prudenza. E del pari ritengo che noi dobbiamo avere molta prudenza, quando affrontiamo questo gravissimo problema delle autonomie regionali. Così pronunciandomi, preciso che non intendo qui parlare ufficialmente a nome del mio gruppo, anche se interpreto il pensiero di molti miei colleghi.
Dal Rinascimento in poi, e cioè fin dalle origini dello Stato moderno, la tradizione statale italiana si è sempre più affermata nel senso del decentramento gerarchico, così come del resto la tradizione di tutta l'Europa latina in genere, al contrario di quella di altre Nazioni, specialmente di stirpe germanica, che si è affermata nel senso del decentramento autarchico e dell'autonomia. Lo Stato ha concentrato in sé una somma sempre più ampia di poteri, provvedendo all'amministrazione attraverso propri organi periferici e relativi funzionari statali. Solo il comune, cellula insopprimibile della vita civica, è sempre rimasto in piedi a rappresentare l'esigenza dell'autonomia, sulla base del decentramento autarchico.
La circoscrizione fondamentale su cui faceva perno il decentramento gerarchico dello Stato era in molte regioni italiane, già fin dai tempi dell'assolutismo illuminato, l'attuale provincia, qualunque ne fosse il nome. E cito la Toscana, la Lombardia, il Regno di Napoli. La Rivoluzione francese generalizzò questo ordinamento; e se la Restaurazione ovunque lo rispettò, questo significa che la riforma francese non era un astratto adattamento di formule straniere che non tenesse conto della realtà sociale, ma rispondeva ad esigenze profondamente sentite, che certi governi, evidentemente non molto illuminati, non avevano prima avuto il coraggio di realizzare.
Pertanto non è il caso di affermare, con una leggerezza degna di miglior causa, che le circoscrizioni provinciali sono state inventate dagli unificatori del Regno. Si trattò tutt'al più di cambiare il nome del governatore, divenuto prefetto.
Certo è invece che la provincia, come ente autarchico, è un frutto molto più tardo, che solo una minoranza degli ex Stati conosceva prima del 1861. Si tratta di un ente che man mano si rafforzò dopo la unificazione, allargando progressivamente i suoi compiti; tanto che anche in periodo recente, gli furono attribuite nuove competenze, come quelle riguardanti la lotta antitubercolare e la protezione della maternità ed infanzia.
La progressiva silenziosa affermazione dell'ente autarchico provincia non ha però certamente influito nel senso di modificare in Italia l'indirizzo prevalente. Lo Stato italiano fino ad oggi si è retto soprattutto, nel campo amministrativo, sulle basi di dicasteri centralizzati e di prefetture dotate di vastissimi poteri.
Ora, nessuno qui intende negare che tale ordinamento abbia messo in luce molte lacune e dato luogo a un legittimo malcontento. I nostri Ministeri infatti sono scivolati verso quella ipertrofia burocratica, di cui oggi è diventato così di moda parlare (anzi è l'argomento più di moda che esista oggi in Italia), e le troppo autoritarie prefetture hanno oppresso la vita locale anche in regioni che, come quelle del Nord, sarebbero da tempo mature per l'autogoverno amministrativo.
È pertanto senza dubbio legittima l'esigenza di una riforma in questo momento. Ma il male è che la riforma che ci ha ammannito la Commissione dei Settantacinque per merito principale dell'onorevole Ambrosini tiene assai poco conto dei presupposti storici e, in certi punti, attinge addirittura — mi si perdoni la parola — il paradossale.
Il decentramento gerarchico, che da molto tempo è il cardine della vita amministrativa italiana, perde, oggi, colla scomparsa della prefettura, il suo perno fondamentale. E sta bene, perché io non sono qui per parlare a favore del prefetto! Ma il grave è che, mentre si passa all'opposto criterio del decentramento autarchico, con un secondo atto rivoluzionario si abbandona il piano provinciale per portarsi, senza una precedente esperienza, a quello regionale.
Ora, non se ne abbiano a male i colleghi democristiani, che sono tanto accesi fautori di questa riforma, se io esprimo il dubbio che essi, i quali sono pure così zelanti amici di quel prefetto in sottana che è il vescovo, tanto che direi che il prefetto sia stato modellato su di esso... (Commenti).
Una voce al centro. Spiritoso! Questa è una trovata da «Don Basilio».
Preti... dimentichino che proprio in un paese cattolico, dove il centralismo autoritario delle gerarchie ecclesiastiche ha fatto sì che mai nascesse una tradizione autonomistica, non si può creare, lì per lì, una mentalità protestante. (Interruzioni al centro).
È la Riforma protestante che ha creato in Europa la vera tradizione autonomistica. E poiché la Riforma in Italia non c'è stata, non dico già che da noi non si possa procedere nel campo delle autonomie, ma affermo che non si deve avanzare con eccessiva faciloneria su un terreno così scottante.
È davvero imprudente, a mio avviso, creare oggi un sistema amministrativo del tutto nuovo, fondandolo sull'ente regione, il quale, come ho detto prima, non ha precedenti storici in Italia, e di cui neppure la recente esperienza ha dimostrato la vitalità.
Voi potrete dire che questa che vengo a fare è un'osservazione sciocca...
Una voce al centro. Non è vero: intelligentissima! (Si ride).
Preti. ...eppure io affermo che nel recente periodo dei Comitati di Liberazione Nazionale, quando l'organismo dello Stato praticamente non c'era più, quando ovunque si agiva di iniziativa, quando i C.L.N. provinciali funzionavano in pieno e assumevano su di sé tanti imprevisti incarichi, al pari dei C.L.N. comunali, i C.L.N. regionali invece non sono esistiti che sulla carta. (Interruzioni a destra e al centro — Commenti).
Taviani. Chi lo dice?. Non è esatto. (Rumori).
Preti. Questo che cosa significa? Che evidentemente le esigenze regionali non si facevano sentire; mentre in un momento come quello, in cui le funzioni creavano nuovi organi, se le esigenze regionali fossero esistite, si sarebbero tradotte nella realtà.
In sede di progetto si è pertanto mancato di senso della misura: il che forse non sarebbe accaduto, se la seconda Sottocommissione fosse stata composta in maniera diversa. Perché bisogna anche tener conto di questo fatto: che sono stati assegnati alla seconda Sottocommissione nove deputati tra siciliani, sardi e valdostani (i quali ovviamente non potevano essere che ultra-regionalisti); in più dei quattro repubblicani che erano nella Commissione dei 75, tre sono stati assegnati alla seconda Sottocommissione; e infine certi partiti hanno proprio assegnato a questa Sottocommissione quei deputati che nell'interno del gruppo erano conosciuti come i più accesi sostenitori delle autonomie regionali, a cominciare dall'onorevole Piccioni e dall'onorevole Ambrosini.
Ambrosini, Relatore. Siamo stati obiettivi in modo assoluto.
Preti. Io direi che la seconda Sottocommissione praticamente non fotografava l'opinione del Parlamento in ordine al problema delle autonomie regionali; e aggiungo che non sono convinto in particolare che gli stessi deputati democratici cristiani in complesso siano così accesi zelatori del regionalismo come, ad esempio, l'onorevole Piccioni e l'onorevole Ambrosini.
Ambrosini, Relatore. Ma se mi dicono che li ho raffrenati!
Preti. Eccoci così improvvisamente di fronte ad un progetto di Costituzione, il quale comincia con l'attribuire alla Regione la potestà legislativa. Vi è una legislazione esclusiva, e vi sono due tipi di legislazione concorrente con quella dello Stato: e qui non voglio scendere ad un esame particolare. Mi basta però notare questo — e credo sia sufficiente — che l'attribuzione della potestà legislativa alla Regione porta di per sé il Paese sull'orlo del federalismo, o, perlomeno, crea una pericolosissima forza centrifuga. Larga o stretta che sia la sfera di competenza legislativa della regione, poco importa. Né certo io oserei dire che molto vasta sia la competenza legislativa che il progetto riconosce alla regione stessa; onde mi parrebbe del tutto fuori strada colui il quale credesse che restringendo la competenza legislativa regionale ci si possa garantire dal pericolo federalistico e anti-unitario. Non è questione di materie da assegnare o da non assegnare alla competenza legislativa della regione: è la stessa potestà legislativa della regione che qui entra in causa.
Ora, ripeto, la sola esistenza di una qualsiasi potestà legislativa regionale, con la implicita possibilità di creare conflitti tra la legislazione dello Stato e la legislazione della regione, conflitti che finirebbero inevitabilmente per impostarsi sopra uno sfondo politico, basta a porre in essere la possibilità di slittamento centrifugo e federalistico.
Si dirà che, come Don Chisciotte, noi creiamo immaginari mulini a vento, visto che questa secondo noi così possente e antiunitaria regione sottopone le sue leggi al visto di un'autorità amministrativa locale (e cioè al visto del Commissario governativo della regione), ed è costretta pure a sottoporre tutti i propri atti amministrativi, anche quelli che riguardano le materie di sua esclusiva competenza, al controllo dello Stato che si esplica attraverso un apposito organo centrale.
Questo potrà voler dire che i compilatori del progetto non si sono accorti dell'assurdità di sottoporre un ente che ha la potestà legislativa a forme di controllo da legge comunale provinciale; onde, semmai, si può dire che ne nascerebbe un permanente dissidio tra regione e autorità statali. Ma i pericoli derivanti dall'attribuzione della potestà legislativa rimarrebbero lo stesso.
Il particolarismo anti-unitario di cui inevitabilmente, se non tutte, almeno moltissime regioni (e forse proprio le meno progredite) darebbero prova per effetto dell'introduzione di una qualunque potestà legislativa si rivelerebbe deleterio, sopratutto nel campo economico. Quando io penso, ad esempio, che l'Emilia lunense, così cara all'onorevole Micheli, reclama il porto della Spezia per avere uno sbocco al mare e che la stessa provincia della Spezia in questi giorni ha inviato a noi deputati addirittura quattro opuscoli per sostenere la medesima tesi; quando leggo nello Statuto siciliano che la Sicilia riserva ai propri usi le valute estere ricavate dalle proprie esportazioni e si esonera dai diritti di dogana in materia di determinate importazioni; quando leggo in giornali d'informazione economica, come ad esempio Il Globo, che già in regime di alto commissariato la Sicilia e la Sardegna sono riuscite ad imporre certi divieti d'importazione e di esportazione che contrastano addirittura con lo spirito dell'articolo 113 del progetto; allora io non posso fare a meno di pensare che l'introduzione della regione potrebbe farci andare a ritroso nel campo economico. Mentre vediamo che perfino i governi cantonali della Federazione Svizzera (e parlo della Svizzera!) abdicano progressivamente ad ogni potere di regolamentazione nel campo economico a favore dello Stato, posto che l'allargarsi dei mercati e la maggiore frequenza delle comunicazioni postulano oggi unità territoriali sempre più vaste.
Il mondo marcia verso una sempre più uniforme legislazione, specie per ciò che riflette il campo economico; e noi in questo momento rischieremmo di procedere in senso inverso. Né si dirà che, quando alla Regione si riconosce da un lato la potestà legislativa e dall'altro lato l'autonomia finanziaria (perché anche di questa parla il progetto), questi timori siano infondati!
L'autonomia finanziaria costituisce il secondo fondamentale errore. E chi abbia fatto solo un esame dello Statuto siciliano può facilmente rendersi conto dove essa ci possa portare in materia di particolarismo. Con l'autonomia finanziaria prevista dall'articolo 113 accadrebbe in particolare che una minima aliquota del reddito delle regioni più ricche andrebbe a beneficio delle regioni più povere, onde lo squilibrio tra nord e sud tenderebbe ad aumentare, venendosi con ciò automaticamente ad ostacolare la soluzione del problema meridionale. In questa materia le cose infatti stanno assai diversamente da come crede qualche siciliano o qualche sardo, i quali ritengono che le loro terre dall'unificazione in poi siano state sfruttate dai settentrionali. Che il Governo dell'Italia unificata abbia avuto il grave torto di lasciare insoluto il problema meridionale è fuori discussione; ma ciò non toglie che in 80 e più anni di vita unitaria i contribuenti delle più ricche regioni del nord abbiano sostenuto la massima parte dell'onere delle imposte statali, e perciò abbiano pagato, in parte, anche per le regioni più povere dell'Italia.
Si parla nel progetto di Costituzione di ripartizione dei tributi; cioè si afferma che, per assolvere le loro funzioni essenziali, le regioni più povere avrebbero il diritto di chiedere allo Stato delle sovvenzioni, onde praticamente le regioni più ricche dovrebbero dare allo Stato e lo Stato a sua volta dare alle regioni più povere. Io credo che in questa maniera si creerebbero dei pericoli gravissimi; e veramente vedremmo sorgere quella acuta rivalità fra certe regioni del nord ed altre regioni del sud che, praticamente, fino ad oggi è sempre rimasta sopita.
In relazione al problema meridionale, vale anche la pena di preoccuparsi dei riflessi squisitamente politici che deriverebbero dalla istituzione di una regione, qual è quella prevista dal progetto. Come si potrà impedire, ad esempio, domani che, nel meridione, dei governi regionali a tendenza nettamente conservatrice, espressione, come si suol dire, di cricche locali, ostacolino in ogni maniera l'azione del governo centrale? E ciò non tanto per i poteri che abbiano, quanto per il solo fatto che si chiamano governi e che hanno l'orgoglio di essere tali! E come si avrebbe la certezza che l'ordine pubblico rimarrebbe garantito nel caso in cui si verificassero in queste regioni gravi fatti del tipo di quelli del primo maggio in Sicilia? Sarebbero in grado i questori, col nuovo ordinamento, di far fronte alla situazione? Se è vero, come dicono, che il Ministro degli interni Scelba pensava con preoccupazione al giorno in cui avrebbe dovuto ritirare i prefetti dalla sua Sicilia, nonostante le sue convinzioni regionalistiche, è lecito allora non essere eccessivamente ottimisti in materia.
A questo punto mi domando se valga la pena di dare alla regione un così alto viatico, quale il progetto vorrebbe, quando poi il primo fine che ci si proponeva attraverso la sua istituzione, e cioè la sburocratizzazione, lo smantellamento della troppo pesante amministrazione statale non si raggiunge affatto.
Uno dei maggiori cultori di diritto amministrativo in Italia, e per di più regionalista, il professor Guicciardi, dall'esame del progetto trae la conclusione che «quando si sarà costituita la nuova organizzazione amministrativa regionale, si constaterà che poco o nulla sarà venuto meno dall'enorme complesso degli uffici dell'amministrazione centrale.
«Ciò è evidente per le materie elencate nell'articolo 110 per le quali lo Stato, mantenendo una sua potestà legislativa sia pure di massima, conserverà naturalmente anche i corrispondenti uffici amministrativi; ma lo è anche per le materie elencate all'art. 109, che, seppure sono demandate alla competenza esclusiva della regione, sono così frammentarie e di così poco momento che al più il loro trapasso alla regione potrebbe portare alla soppressione di qualche divisioncella ministeriale».
Del resto non ci facciamo illusioni che l'apparato burocratico statale sia facilmente smontabile attribuendone le funzioni ad enti autarchici, anche perché spesso la burocrazia che più fa strillare l'uomo della strada è proprio oggi la burocrazia delle branche economiche. Ma evidentemente nel campo economico non si pone il problema del decentramento, bensì quello di aggiornare seriamente l'organismo statale con le esigenze moderne dell'economia controllata.
Per quanto poi concerne tutti i settori in genere dell'amministrazione centrale il rimedio migliore alla lentezza burocratica lo avremo trovato quando avremo saputo porre fine a questo stato di disorganizzazione che ancora travaglia lo Stato e quando saremo soprattutto nuovamente riusciti ad assicurare ai funzionari il pane quotidiano.
Sinceramente, in vista dei risultati piuttosto modesti — molto modesti — che si possono ottenere attraverso la regione in materia di decentramento dell'amministrazione centrale dello Stato (ed è soprattutto su questo punto che insistono i fautori della regione), io riterrei assai pericoloso dar vita ad un ente quale la regione del progetto, che ci pone di fronte a tante incognite. Il giuoco non vale la posta. È per questo che io ritengo che la maggioranza di questa Assemblea si rifiuterà di votare la regione imposta dall'onorevole Ambrosini alla II Sottocommissione.
Si può profilare invece la possibilità di una diversa regione, quella ad esempio prevista dal progetto del collega Lami Starnuti. Questa regione, sprovvista anzitutto di potestà legislativa, è atta, secondo molti, a soddisfare le esigenze degli autonomisti senza mettere in pericolo la unità nazionale come la regione del progetto Ambrosini. Ma (e qui esprimo un mio personale parere) anche questa meno pretenziosa regione non la si può certo costruire attribuendole la competenza esclusivamente su materie sottratte allo Stato, visto che allo Stato non molto si può sottrarre, per quanti sforzi noi in buona fede possiamo fare. Ecco così che una volta accettata questa regione senza potestà legislativa e senza autonomia finanziaria, pare difficile non trovarsi d'accordo nel senso di sopprimere l'ente autarchico provincia, per garantire alla regione stessa una sfera di competenza sufficientemente vasta che le permetta di respirare a pieni polmoni.
Insomma, il problema è questo: se noi accettiamo comunque la regione, dobbiamo rinunziare a mantenere in vita l'ente autarchico provincia, posto che non vi sarebbe un sufficiente numero di funzioni da attribuire all'uno e all'altro ente in modo da garantirne la vitalità. Senza contare poi che andremmo incontro anche al pericolo di creare una burocrazia in più, cioè di creare in Italia quattro burocrazie, al posto delle tre oggi esistenti.
Il progetto fa della provincia una circoscrizione amministrativa della regione; e quindi, appunto, nega l'esistenza della provincia come ente autarchico, anche se poi, a questa circoscrizione amministrativa prepone, illogicamente, una Giunta con funzioni deliberative ed a carattere rappresentativo; ciò che dovrebbe essere proprio di un ente autarchico e non mai di una semplice circoscrizione amministrativa di decentramento.
Si afferma che la regione avrà una vitalità assai maggiore dell'ente autarchico provincia, che ha sempre condotto in Italia una vita grama. Ora, una vita molto brillante, in effetti, in Italia, l'ente autarchico provincia non l'ha mai condotta; ma direi che questo è avvenuto non perché la provincia si sia dimostrata incapace di assolvere alle funzioni, di volta in volta attribuitele, ma perché lo Stato non ha mai avuto fiducia nell'ente autarchico provincia, e ha sistematicamente puntato sulle prefetture, organi di decentramento gerarchico. Nel limite delle funzioni attribuitele il funzionamento della provincia è stato anzi egregio.
Comunque, visto che si afferma potere solo un ente che conti su un territorio, su una popolazione, su una ricchezza adeguata, vivere prosperamente sul piano della autonomia, non si può fare a meno di mettere in risalto le contraddizioni del progetto. Infatti, l'articolo 123 non solo dà la sanzione a certe regioni storiche, che, sul piano economico e sociale, non valgono di più di quanto non valga una qualunque provincia della Lombardia o del Veneto, ma addirittura crea ex novo altre regioni, che, sostanzialmente, equivalgono esse pure a una provincia. In questa maniera si contraddice al postulato fondamentale dei regionalisti, che afferma la regione dovere esistere a preferenza della provincia, in quanto essa sola ha un raggio sufficientemente ampio di azione.
Per fare qualche esempio, osserverò che si mantiene in vita l'Umbria, che è oggi più piccola di quanto non fosse prima del fascismo la sola provincia di Perugia; e si conserva del pari in vita la misera Lucania. E si creano, tra le nuove regioni, il Molise, che altro non è se non la spopolata provincia di Campobasso, e quell'assurdo Salento, cui nella intenzione dei foggiani dovrebbe ora fare pendant la Daunia.
Al contrario di quanto sta avvenendo, bisognerebbe notevolmente ridurre le regioni del centro-sud, se si vuole essere coerenti col postulato regionalista.
Contro la minaccia di sopprimere la provincia ente autarchico, per dare vita alla regione, si fa presente ciò che rappresenta oggi l'unità provinciale nella vita italiana. Oggi, le strade, le ferrovie, tutte le comunicazioni in genere si irradiano dai capoluoghi di provincia; i mercati convogliano verso di essi la maggior parte dell'attività economica; le banche accentrano le grosse operazioni nei capoluoghi di provincia; gli scambi sulla base della complementarietà avvengono in gran parte tra capoluogo di provincia e territorio rurale circostante; gli stabilimenti industriali tendono a riunirsi nella periferia dei vari capoluoghi. Gli stessi professionisti (medici, avvocati, ingegneri, ecc.) stabiliscono la loro sede nei capoluoghi provinciali.
Si spiega così facilmente come su base provinciale siano organizzati la Camera di Commercio, la Camera del lavoro, tutti gli enti in genere che sorgono dalla spontanea coagulazione delle attività economico-sociali. E provinciale è naturalmente il decentramento di tutti gli enti parastatali, da quelli assicurativi a quelli economici, così come quello delle varie branche della amministrazione statale. Onde, nel capoluogo di provincia, hanno sede l'Intendenza di finanza, l'Ufficio del lavoro, il Provveditorato agli studi, la Direzione delle poste, l'Ispettorato dell'agricoltura, la Questura, quasi sempre il Distretto territoriale, ecc.
È certo che nessuno potrà seriamente pensare di abolire tale decentramento su base provinciale, pur scomparendo la Prefettura. E preciso all'onorevole Lussu, che mi sta interrompendo, che non ho mai affermato che i regionalisti coltivino questa balzana idea.
Ma appunto perché anch'essi ammettono la «naturalità» del decentramento provinciale, dovrebbero rendersi conto della legittimità dell'aspirazione a fondare il decentramento autarchico su di un Ente che si modella sopra quel nucleo vitale, che è la provincia. Tanto più che si pensa che su certe materie attribuite alla competenza della regione, come ad esempio l'industria e il commercio, sarebbe miglior competente la provincia — quella provincia potenziata che noi vorremmo — la quale costituisce anche una cellula economica. E altre materie, come le strade, per cui si lamenta l'esiguità della circoscrizione provinciale, potrebbero essere facilmente regolate dalle province riunite in consorzio, senza bisogno di creare la regione.
Le popolazioni locali sono senza dubbio favorevoli a questa soluzione, anche perché per esse il capoluogo provinciale è a portata di mano, mentre il capoluogo regionale è spesso lontano e difficile da raggiungere. Anzi, in genere, per uno che abiti in un remoto paesello di una provincia eccentrica è lo stesso intraprendere un viaggio verso il capoluogo regionale o arrivare addirittura fino a Roma.
L'amministrazione vicina, a contatto stretto degli amministrati, è proprio una esigenza della autonomia. Tali condizioni crea la provincia; ed è anche per questo che l'ente autarchico provincia è una realtà assai più naturale di quanto non sia la regione.
Sarebbe un errore credere che le agitazioni a favore delle province siano mosse solo dagli impiegati delle loro amministrazioni o da qualche notabile locale che ha aspirazioni politiche in sede provinciale. E sono certo che, se per ipotesi si dovesse indire in Italia un referendum, per chiedere all'uomo della strada se preferisce la provincia o la regione, la quasi unanimità dei cittadini sceglierebbe la prima, perché sente e conosce solamente la provincia. (Rumori).
D'altronde, se dovesse rimanere in vigore l'articolo 125 del progetto, il quale prevede il possibile distacco e la costituzione in regioni autonome di territori che abbiano almeno una popolazione di mezzo milione di abitanti, quando ne facciano richiesta tanti consigli comunali che rappresentino almeno un terzo della popolazione interessata, potrebbero verificarsi delle sorprese. Innumerevoli province, messe domani in grado di assurgere a regioni attraverso la procedura prevista dall'articolo 125 del progetto, non mancherebbero di approfittarne, sicché lo Stato si troverebbe di fronte all'improvvisa circostanza della trasformazione delle province in regioni. Quando domani il Salento otterrà di diventare regione, la Daunia, il Sannio, la Tuscia vorranno seguirlo sulla stessa via. E in breve vedremo tutte le grosse province all'arrembaggio, per diventare esse pure regioni.
Io non vedo infine come, una volta eliminato il prefetto dalla provincia, che è la cellula fondamentale nella quale si svolge la vita della nazione, la vita provinciale possa rimanere senza un perno. La provincia è da almeno due secoli in Italia, abituata ad avere un perno (Rumori) e non si può non tenerne conto, se si vogliono evitare dei guai. E farò degli esempi! Se scoppia una controversia sindacale, che minacci la vita economica della provincia, quale autorità domani, avente un sufficiente prestigio, si potrà interporre, al posto di quel prefetto che si vuole — a ragione — liquidare? E se sorge una questione di prezzi o di calmieri, che turbi la tranquillità pubblica, intorno a chi ci si raccoglierà per risolverla? Tutti noi sappiamo che in questi, ed in molti altri casi, si sente oggi il bisogno, da parte di tutti, di essere riuniti attorno al tavolo di una autorità, che anche se non ha, per legge, competenza in materia, esercita almeno un ascendente di fronte a coloro che rappresentano gli interessi in conflitto.
Zuccarini. Questo è fascismo!
Preti. Non diciamo delle frasi vuote e non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà che ci circonda: oggi il prefetto svolge purtroppo anche mansioni che la legge non prevede, e spesso lo si va a cercare prima che esso intervenga.
Solo la conservazione di un ente autarchico provinciale potenziato è garanzia che al posto del prefetto continuerà ad esistere, nell'ambito della provincia, un'autorità — in questo caso elettiva e non più burocratica — che all'occorrenza possa costituire il perno della vita provinciale, che altrimenti si spappola.
Lussu. Al posto del prefetto ci sarebbe un sindaco che funziona magnificamente!
Preti. Rispondo all'onorevole Lussu che il sindaco potrebbe svolgere questa funzione, se la vita in Italia si limitasse, sul piano economico-sociale, all'ambito comunale. Ma essa trascende tale ambito e si svolge invece in quello provinciale. È inutile che noi vogliamo credere che l'Italia sia diversa da quello che è. L'esigenza da me ora accennata è così forte ed inestinguibile, che non si può fare a meno di pensare con preoccupazione, che, se scomparisse ogni traccia di amministrazione provinciale autonoma e si conservasse solamente l'ente regione, si finirebbe per rinunziare alla soppressione del prefetto. Tanto più che — non lo dimentichiamo — c'è chi, anche se non lo dice, non lo vuole sopprimere. Quando domani solo al centro della regione vi fosse una pubblica autorità, il prefetto potrebbe scomparire per un anno, ma poi farebbe nuovamente capolino attraverso il delegato provinciale dell'amministrazione dello Stato o della regione. Infatti a un certo momento, constatandosi che la ruota delle vita provinciale non riesce a girare, ecco che questo modesto delegato sarebbe nuovamente elevato ai fastigi di prefetto. Come prima, meglio di prima! Beffa più grande non potrebbe capitare ai nostri accesi autonomisti, i quali, partiti in quarta contro il prefetto, accusato di essere un dittatore in sedicesimo, vedrebbero rientrare dalla finestra quel che essi avevano cacciato dalla porta! E questo proprio per la loro ostinazione regionalistica, che non vuole tener conto del presupposto provinciale.
Qualcuno obietterà che alcune regioni, come la Sicilia e la Val d'Aosta, hanno ormai uno Statuto, e che con altre regioni lo Stato ha già preso un formale impegno. Rebus sic stantibus — si dice — non si può più fare a meno di fondare il nuovo Stato su base regionale. Bel modo di ragionare! Se si è sbagliato una volta, è proprio necessario insistere nell'errore! Io non sono qui per fare delle proposte; comunque penso che si potrebbe anche trovare una soluzione di compromesso, che salvasse l'autonomia regionale delle isole e delle terre mistilingue senza imporre il regionalismo a tutto lo Stato italiano. E forse, se noi accogliessimo questa idea, tra poco, magari fra un paio d'anni, vedremmo la Sicilia e la Sardegna, che si illudevano di fare tanto con il regionalismo, venire a restituirci l'autonomia regionale sull'altare della unità italiana. (Commenti).
Una voce al centro. Non accettiamo profezie! (Commenti).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Carbonari. Ne ha facoltà.
Carbonari. Onorevoli colleghi, permettete che io vi parli con sincerità e con franchezza a nome di quel popolo trentino, per il quale il problema dell'autonomia è, oggi, il più importante ed il più attuale di tutti i problemi: non per nulla si dice che ogni trentino ha uno statuto dell'autonomia regionale in tasca; ed è vero che al primo incontro col contadino, coll'artigiano, coll'operaio di quella Regione, la prima, o almeno la più interessata domanda, verte sul problema dell'autonomia regionale.
Non è meraviglia che ciò avvenga presso un popolo che incominciò ad abbattere le signorie feudali e a conquistare le più larghe libertà comunali fino dal 1200; presso un popolo che fu antesignano nel distruggere la servitù della gleba e nel creare e diffondere quasi totalitariamente la piccola proprietà rurale, che è il più grande baluardo di tutte le libertà, personali, civili e politiche; presso un popolo che ha provato, vissuto, sperimentato l'autonomia del Comune e della Regione, che ha lottato per decenni, sotto il Governo straniero, per costituire una Regione tridentina autonoma; così le libertà comunali e regionali sono passate nel nostro sangue e nelle nostre ossa; a tali libertà siamo talmente attaccati, che preferiamo essere più poveri, piuttosto che essere privati dell'immenso beneficio di tali libertà, che noi consideriamo come la parte più sacra dell'eredità lasciataci dai nostri padri: e questo perché noi siamo profondamente convinti che la libertà moltiplica le energie e suscita le più svariate e molteplici iniziative; essa invita il cittadino ad impegnare tutta la forza della sua volontà e tutta la potenza materiale di cui dispone per vincere sempre meglio la lotta per l'esistenza e per attingere il più alto progresso nella vita individuale, civile e politica.
Liberato dal dominio straniero e ricongiunto alla Madrepatria, il problema più assillante per il Trentino era la conservazione delle libertà comunali e regionali, il cui valore era tanto più sentito quanto più la lunga guerra le aveva umiliate ed offese.
Questa particolare situazione delle Nuove Province ebbe conveniente riconoscimento da parte del Governo nazionale.
Il Ministero presieduto dall'onorevole Nitti, alla data 1° dicembre 1919 faceva dire al re, nel discorso della Corona, le seguenti, per noi, storiche parole:
«Le nuove terre riunite all'Italia impongono la soluzione di nuovi problemi: la nostra tradizione di libertà deve segnare la via alla soluzione col maggior rispetto delle autonomie e delle tradizioni locali». (Ecco un impegno solenne, provocato dal Governo Nitti, e datoci dal re, e dal Parlamento plaudente la parola del re).
Il discorso della Corona proseguiva in questi termini: «Nessuna cura, nessun sacrificio devono essere risparmiati, perché, dopo le inevitabili incertezze del primo assetto, il ritorno di quelle terre alla loro unità naturale non arrechi alcun regresso, né alcuna diminuzione di benessere».
Il Governo Giolitti, succeduto al Governo Nitti, alla data 11 giugno 1921, faceva dire al re che gli organismi statali, per meritare l'abnegazione del contribuente italiano, devono «mostrarsi pronti a tutte le possibili semplificazioni e riduzioni, adottando ordinamenti più snelli e più decentrati»; e lo stesso Giolitti, in data 26 giugno 1921, spiegava il significato di tale decentramento dicendo: «Pericoli per l'unità non esistono, e quindi dobbiamo e possiamo procedere energicamente su questa via». Ma non basta, come allora, creare dei Governatori di Regioni; (alludeva al progetto Minghetti del 13 marzo 1861); «perché si creava il Governatore, ma si lasciava la Provincia, si lasciava il Circondario»; «ora bisognerà creare soprattutto le rappresentanze elettive delle singole Regioni, e bisognerà determinare ben chiaramente quali attribuzioni si tolgono allo Stato per darle alla Regione e quali attribuzioni anche si debbano togliere alle Province, perché si tratti di servizi che è meglio concentrare in unità più vaste»; e proseguiva: «Credo che dobbiamo per ora non turbare quei decentramenti che già sono in vigore nelle Nuove Province; probabilmente dalle loro istituzioni potremmo anche trarre esempio utile per la trasformazione in senso regionale di una parte dei servizi dati alle Province e anche di una parte notevole dei servizi che si possono togliere all'accentramento statale».
In data 22 luglio 1920, Giolitti presentava al Parlamento la legge d'annessione, che veniva approvata dal Parlamento nella seduta del 5 agosto 1920. L'articolo 2 della stessa legge suonava: «Il Governo del re è autorizzato a pubblicare nei territori, annessi lo statuto e le altre leggi del Regno e ad emanare le disposizioni necessarie per coordinarle con la legislazione vigente in quei territori ed in particolare con le loro autonomie provinciali e comunali».
Il Governo dell'onorevole Bonomi, succeduto al Governo Giolitti, proseguì decisamente sulla via tracciata dai due Governi precedenti, e, con decreto in data 8 settembre 1921, istituiva le Commissioni consultive per la sistemazione amministrativa dei territori annessi, commettendo ad esse il compito «di studiare e proporre i provvedimenti di carattere generale ritenuti necessari per l'assetto definitivo delle Nuove Province; fissando le modalità delle autonomie regionali, ivi compreso l'esercizio dei poteri legislativi spettanti alle diete provinciali».
Così era ben avviata la sistemazione regionale in senso autonomista e conforme le aspirazioni dei neoredenti; ma, dopo l'infausta parentesi del Governo Facta, il timone dello Stato cadeva nelle mani del fascismo, che calpestava tutte le libertà e instaurava la peggiore delle dittature: come colui che, perdendo improvvisamente la luce degli occhi, sente quanto immenso sia il valore della vista, così noi, cittadini delle Nuove Province, assuefatti a un sistema di grandi libertà comunali e regionali, misurammo con dolore la gran disgrazia della nuova tirannide.
In data 24 maggio 1924, il discorso della Corona dettato dal Governo fascista diceva:
«L'unificazione legislativa e amministrativa delle Nuove Province è in via di compimento».
Queste parole furono la pietra tombale che soffocò tutte le nostre libertà. Il popolo trentino diede la meritata risposta il 2 giugno 1946 facendo uscire dalle urne elettorali l'85 per cento di voti repubblicani. (Applausi).
Sotto il Governo straniero, i Comuni e le Regioni si amministravano veramente ed esclusivamente da sé, per mezzo di rappresentanze elettive; la Regione, oltre a ciò, possedeva diritti legislativi, che si estendevano ad un campo abbastanza vasto, ed esercitava, per mezzo di una giunta elettiva, la sorveglianza sulle amministrazioni comunali.
Lo Stato ed i suoi funzionari avevano solo il diritto di vigilare perché la Regione e i Comuni non esorbitassero dalle loro legali attribuzioni. Allo Stato competeva quindi il solo controllo di legittimità. Il controllo di merito era esercitato da un organo elettivo e cioè dalla giunta provinciale e, in ultima istanza, dal tribunale amministrativo di Vienna.
La vigilanza sulle amministrazioni pubbliche locali, specie su quelle comunali, spettante all'autorità politica (tre istanze: capitano distrettuale, luogotenente, ministro), era di pura legittimità; ma, anche in questo limite, aveva un contenuto soltanto generico; inteso non come facoltà di subordinare al suo gioco l'esecutività dei singoli atti delle amministrazioni vigilate, ma soltanto come facoltà che li autorizzava a far luogo ad interventi occasionali, allo scopo di prevenire o reprimere eventuali sconfinamenti delle amministrazioni oltre i limiti della loro sfera legale d'azione.
Ben diverso è il potere di vigilanza del nostro prefetto: potere di vigilanza attuale e incombente, per il quale il vero padrone dei comuni e della provincia è il prefetto stesso.
La Regione aveva un territorio di giurisdizione tributaria abbastanza vasto per permettere alla Regione stessa di attingere attraverso le sovraimposte e gli altri tributi, l'alimento necessario per respirare e per vivere.
Nel sistema dello Stato italiano, la Provincia è costretta a vivere entro confini troppo ristretti, tributariamente insufficienti a sostenere il peso dei servizi che le sono assegnati.
Per questo motivo aderisco pienamente all'articolo 107, secondo comma, del progetto di Costituzione, che prevede la conservazione della Provincia non più come ente autarchico territoriale, ma soltanto come circoscrizione amministrativa della Regione.
A coloro che sono preoccupati della conservazione della Provincia come ente autarchico osservo che il Circondario capitanale, che era un'articolazione della Regione straniera, concentrava in sé competenze e funzioni più vaste di quelle rappresentate dal nostro prefetto e dalla nostra giunta provinciale amministrativa.
Molti colleghi sono preoccupati per l'unità della Nazione; ad essi mi permetto di rilevare che l'Austria era riuscita a sedare rivolte e malcontenti e a creare un principio di unità morale fra le masse di otto nazioni diverse appunto largheggiando nella attribuzione delle libertà comunali e regionali; e il ribelle popolo magiaro, dopo aver ottenuto i più larghi diritti di autonomia, dimostrò di essere la nazione più leale e più affezionata alla monarchia asburghese.
Onorevoli colleghi, quattro milioni di Svizzeri, accampati nel cuore dell'Europa, sono anzitutto Svizzeri e poi sono Italiani, Tedeschi e Francesi; sono tre popoli, sono più di venti stati, ma danno l'esempio a tutto il mondo della massima, della più forte unità. Vivono ancora in Europa più di cinque milioni di superstiti austro-ungarici, che conobbero il sistema politico-amministrativo della ex monarchia danubiana: e tutti sono concordi nel dichiarare che se il sistema delle libertà svizzere fosse stato applicato ai popoli austro-ungarici lo Stato danubiano sarebbe stato indistruttibile.
A coloro che paventano la libertà regionale come una disgrazia per le Regioni povere, io vorrei rispondere: egregi colleghi, la libertà piace anche ai poveri! Anche l'operaio che sostenta la sua famiglia con la misera mercede giornaliera è geloso del suo diritto di reggere e amministrare la propria famiglia; non rinuncia alla potestà paterna, all'autonomia della sua famiglia; respinge la tutela di estranei precisamente come la respinge il capo famiglia che è ricco proprietario di terre, o industriale, o direttore di un trust miliardario.
Quando gli Svizzeri scossero il giogo feudale erano poveri ma amanti della libertà; e perché poveri servivano come soldati mercenari in diverse parti d'Europa.
Erano poveri, ma ricchi di libertà; e di salute fisica e morale; e su quella libertà, pur non avendo colonie, non avendo sbocchi al mare, abitando una Regione in gran parte montuosa e sterile, riuscirono tuttavia a crearsi quel benessere che noi tutti ammiriamo.
Anche gli abitanti di Aquileia rifugiati nei pantani e nelle sabbie della laguna veneta non erano ricchi che di povertà e di miseria; ma erano anche ricchi di libertà; e crearono la potente regina dell'Adriatico.
Ai colleghi che sono pensosi per le sorti delle Regioni povere io debbo osservare che lo Stato avrà sempre la parte del leone nel sistema dei tributi e delle imposte: pensate al sistema doganale e al sistema dei monopoli, destinati a fruttare per lo Stato.
Come in passato lo Stato ha sempre contribuito a favore dei Comuni e delle Province più bisognose, così anche per l'avvenire dovrà, per giustizia distributiva, aiutare le parti più bisognose.
Presidente Terracini. Onorevole Carbonari, io le chiedo scusa, ma non posso permetterle di continuare a parlare leggendo il suo discorso. È trascorso più del quarto d'ora regolamentare. (Interruzione dell'onorevole Uberti). Onorevole Uberti, lei non ha chiesto di parlare e la prego di far silenzio.
Onorevole Carbonari, io sono stato invitato espressamente da più parti dell'Assemblea a fare applicare almeno questa norma del regolamento.
Uberti. A tutti!
Presidente Terracini. La prego, onorevole Carbonari, di attenersi alla norma. Ella può continuare a parlare anche un'ora, ma senza leggere. Occorre bene che ad un certo momento, onorevoli colleghi, si incominci ad applicare una norma quando — mi permettano — da parte loro assolutamente non si tiene conto che anch'io ho dei doveri da osservare e che debbo tener conto delle esigenze generali.
Una voce al centro. Ma per tutti!
Presidente Terracini. È giusto. D'altronde è stato avvisato replicate volte che ad un certo momento si sarebbe applicata questa disposizione e mi pare giusto cominciare ad applicarla dall'inizio di questa parte della discussione della Costituzione. Io non manco di riguardo all'onorevole Carbonari, come non potrei mancare di riguardo a nessun collega nei cui confronti per primo fossi stato obbligato a fare questa osservazione. E pertanto prego l'onorevole Carbonari di voler tener conto di questo mio richiamo al Regolamento. Prosegua pure il suo discorso, ma senza leggere.
Carbonari. L'autonomia regionale non solo non mette in pericolo l'unità della Nazione, ma al contrario tale unità viene rafforzata dal sistema delle autonomie locali.
Infatti l'unità vera, reale, operante ed efficiente della Nazione è l'unità morale: che nasce dalla concordia degli animi, dal consenso, dall'adesione spontanea verso l'azione dello Stato, la sua amministrazione, verso le sue leggi, e i suoi ordinamenti, per i quali si dà al cittadino ciò che è del cittadino, alla famiglia ciò che è della famiglia, al Comune e alla Regione ciò che è sfera d'azione naturale del Comune e della Regione.
Propugnare l'autonomia non significa per noi trentini voler creare uno Stato nello Stato o favorire tendenze separatiste: ma riallacciarsi alle vere tradizioni della nostra Nazione.
Noi trentini siamo unitari: noi che abbiamo salvato intatto il carattere latino del Municipio di Trento; noi che abbiamo meritato dalla delegazione austriaca a Parigi l'attestato che dichiara «che fra tutti i popoli della Monarchia i soli italiani del trentino preferivano la distruzione dell'Austria come avvenimento storico che rendeva possibile la loro unione all'Italia».
Questo attestato e le lunghe lotte da noi sostenute contro le invasioni delle società pangermaniste, che tentavano di cancellare il baluardo più settentrionale della Nazione, sono la prova che ci dà il diritto di dichiarare che i trentini sono unitari e antiseparatisti. Propugnare l'autonomia significa riallacciarsi alle vere tradizioni del popolo italiano.
Infatti pianta originale, nata e cresciuta in Italia, è la libertà dei Comuni; il loro asservimento è di importazione straniera.
Infatti, l'Italia, risorta a unità nazionale, adottava per il suo ordinamento strutturale-amministrativo il modello francese, creato dai Giacobini, tutto distruggendo l'antico, distruggendo le libertà delle associazioni professionali, consegnando lo Stato ai finanzieri della sfrenata concorrenza, avvilendo il Comune e la Provincia, e costruendo un nuovo edificio, alla cui base fu posto un principio contraddittorio, volendo abbinare la più assoluta e sconfinata libertà con un potere dispotico al centro.
Il popolo italiano, il buon popolo italiano non sa quanta vera libertà gli è stata usurpata: troppi sono gli interessati che gli nascondono la verità: ma noi, ultimi venuti all'amplesso della Gran Madre, ben sapendo che cosa siano le libertà comunali e regionali, per averle vissute, provate e sperimentate nei nostri Comuni e nella nostra Regione; noi che ci siamo giovati di tali libertà per difendere i nostri diritti di lingua e di nazionalità sotto il governo straniero, ci sentiamo spinti dal dovere e dall'affetto verso i nostri fratelli a dichiarare, con sicura coscienza, che il più gran dono che questa Costituente può fare al popolo italiano è la ricostruzione dello Stato sulla base delle autonomie regionali.
Solo con tale sistema le masse del popolo italiano vivranno la vita della Nazione, si interesseranno dei problemi che agitano la vita dello Stato, avranno la sensazione di essere parte determinante e responsabile dei destini propri e dei propri fratelli, sentiranno rispettata e riconosciuta la dignità propria come persone e come cittadini.
Senza le libertà comunali e regionali e posto di fronte all'accentramento burocratico, il cittadino è un elemento passivo, avulso dalla vita del Comune, della Regione e dello Stato; un automa, un assente, un estraneo.
Altri celebreranno le date storiche, esponendo bandiere, banchettando e formando cortei, e il popolo sarà l'eterno fanciullo ignaro e insensibile ai più grandi avvenimenti, perché relegato alla condizione del minorenne, del tutelato e dell'interdetto; menomato nel suo diritto naturale ed umano di libero cittadino; offeso nella sua dignità personale e nel suo sentimento di responsabilità. Con le libertà regionali e comunali, accoppiate a conveniente decentramento, il cittadino diviene parte viva, vitale e operante del Comune, della Regione e dello Stato; a tale condizione il Comune stesso e la Regione diverranno parte viva, vitale, e operante dello Stato.
Altrimenti avviene che, pur amando la propria Nazione, il cittadino odierà con altrettanto cuore lo Stato; come fu evidente ieri, quando lo Stato era il partito e il cittadino opponeva alla tirannia la più grande di tutte le forze, la resistenza passiva; resistenza passiva, che si trasformava, appena possibile, in resistenza attiva per abbattere quella tirannide che era considerata come la rovina dello Stato e della Nazione.
L'autonomia crea il clima e la realtà nella quale il Comune e la Regione e con essi lo Stato, diventano, come devono essere, strumenti che servono alla collettività e ai singoli cittadini; il cittadino, anche se povero, anche semplice operaio o contadino, si sente trasportato dalla condizione di tutelato e di servo di una burocrazia che è tutto, alla condizione di padrone e di responsabile dei propri destini, e mentre nel sistema del centralismo dispotico l'anima del cittadino si chiude sdegnosa in se stessa e si investe di un sentimento di fredda indifferenza e di protesta, che gli suggerisce l'eterna ingiuria contro il Governo ladro; nel sistema delle libertà comunali e regionali l'anima del cittadino si espande, si apre; la volontà di collaborare al bene comune rinasce, prende vigore; e sentendosi arbitra e responsabile, diminuisce la critica contro il potere centrale; lo spirito di iniziativa è incoraggiato e fruttifica; e lo stesso spirito di concordia germoglia e si diffonde e l'unità morale della Nazione trova il terreno migliore per nascere e per affermarsi.
Il Comune e la Regione autonoma diventano baluardi di libertà e di democrazia; scompare il terreno favorevole alla formazione di quinte colonne; mentre nello Stato centralizzato basta l'occupazione di un paio di Ministeri o lo sciopero di pochi capi divisione per paralizzare tutta la vita dello Stato.
Nel sistema delle autonomie si realizza l'utilizzazione razionale, delle energie locali, la cui collaborazione alla vita pubblica costituisce un immenso vantaggio per tutta la Nazione.
Nel clima di queste libertà, i colpi di mano e le marce sulla capitale diventano impresa disperata; tale clima crea uomini liberi e coscienti di una libertà che è loro diritto e dovere, e pronti a combattere per la loro libertà.
L'autonomia regionale provoca il controllo di fatto e il conseguente risanamento dell'amministrazione statale: quando un'intera Assemblea regionale attende il disbrigo di una pratica importante, i funzionari dell'amministrazione centrale si sentiranno spronati a tagliar corto con gli estenuanti ritardi; ben presto si accorgeranno che la via migliore è quella di servire fedelmente e sollecitamente il buon popolo italiano, non più servo della burocrazia.
A coloro che temono che le libertà locali portino alla rovina finanziaria, osservo che l'amministrazione del Comune e della Regione è così vicina agli amministrati che è facile il controllo della stessa da parte degli interessati; e che qualunque amministrazione disastrosa ha per effetto immediato l'ostracismo contro gli amministratori e la loro sostituzione, a mezzo delle schede, con elementi che godono maggior fiducia.
Molti temono i conflitti fra Regione e Regione e fra la Regione e lo Stato. Ma se voi ricorrete alla storia essa vi dirà che non c'è ricordo in Austria di conflitti fra regione e regione; né tale fenomeno si nota fra gli Stati della Confederazione Svizzera o Americana.
Onorevoli colleghi, concludo: in linea di principio e di massima devo esprimere l'adesione all'ordine del giorno Piccioni, votato quasi ad unanimità dai componenti la seconda Sottocommissione, che riconosce la necessità di dar luogo alla creazione dell'ente Regione:
1°) come ente autarchico, (cioè con fini propri d'interesse regionale e con capacità di svolgere attività propria per il conseguimento di tali fini);
2°) come ente autonomo, (cioè con potere legislativo nell'ambito delle specifiche competenze che gli verranno attribuite e nel rispetto dell'ordinamento giuridico generale dello Stato);
3°) come ente rappresentativo (degli interessi locali su basi elettive);
4°) come ente dotato di autonomia finanziaria.
Esprimo la mia particolare adesione al voto della onorevole Commissione di tenere conto della particolare situazione del Trentino-Alto Adige; e mi riservo di parlare in argomento nella discussione sugli articoli.
Onorevoli colleghi! Il popolo trentino, a nome del quale io parlo, deplora amaramente la perdita delle sue libertà comunali e regionali.
Tali libertà, promananti dal Trattato di San Germano, furono garantite alle nuove province dal Parlamento italiano e da sei governi, e dalla stessa legge di annessione.
Onorevoli colleghi! Ora è giunto il momento di fare onore agli impegni presi verso quella popolazione e di approfittare di questa occasione per far sì che un'aria di vera libertà e di vera giustizia passi attraverso tutti i Comuni e tutte le Regioni d'Italia! (Vivissimi applausi).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Rescigno. Ne ha facoltà.
Rescigno. Avevo già intenzione di parlare brevemente, ma per non procurare all'onorevole Signor Presidente il fastidio di altri richiami, parlerò ancora più brevemente, tanto quanto basta per esprimere il mio pensiero su questo Titolo quinto della seconda parte del progetto di Costituzione, il quale pare a me che involga dei problemi che hanno veramente una grande importanza per l'avvenire della nostra Nazione; perciò penso che ognuno di noi debba esprimere il suo pensiero su questi problemi ed assumere un proprio e deciso atteggiamento, perché si tratta, onorevoli colleghi, di assumere una responsabilità, vorrei dire storica, di fronte alla propria coscienza e di fronte a coloro i quali ci hanno mandato qui, al popolo della nostra terra, della nostra provincia.
Ora io non tratterò il problema della regione nella sua integrità. Ho sentito dire, ed ho letto anche in molti scritti, che il popolo non si interessa, è indifferente a questo problema.
Io penso che non è che il popolo sia indifferente e non si interessi a questo problema; penso piuttosto che il povero popolo (che oggi se un assillo ha, se una preoccupazione ha, è la preoccupazione del pane, è la preoccupazione del lavoro) non comprenda troppo questo problema. Ma quando domani si passerà all'attuazione di queste norme e l'inevitabile disagio e l'inevitabile peso graveranno sulle spalle del popolo, esso allora si ricorderà indubbiamente di noi. Perciò dirò il mio pensiero su qualcuno soltanto dei punti di questo progetto. Ripeto, non passerò in rassegna gli argomenti pro e contro la regione (da buon democratico cristiano sono per la regione), ma fermerò la mia attenzione soprattutto su due articoli di questo progetto, a proposito dei quali ho presentato degli emendamenti: darò, in altri termini, conto di questi emendamenti.
Uno è l'articolo 107, il quale decreta la morte della provincia come ente autarchico, e l'altro l'articolo 123, il quale crea le regioni, le 22 regioni italiane. Per me non hanno valore la discussione teorica, i tanti argomenti di natura dottrinale; per me ha importanza il problema pratico: come concretamente, nella realtà e nella pratica la Commissione ha proceduto nel creare queste regioni; e a quali criteri di natura geografica, di natura economica, di natura antropica si è attenuta per creare quelle regioni e non altre. Primo punto: la morte della provincia come ente autarchico territoriale. Signori, io non ricorrerò agli argomenti di natura scientifica, che pure hanno il loro valore, a cui è ricorso l'onorevole Preti; io vi sottopongo una questione d'ordine pratico. Sono Deputato provinciale della mia provincia dal luglio 1944. In questi tre anni nei quali la vita della provincia è stata veramente qualche cosa di dinamico, di agitato, di tormentoso — vita che ho seguito con un interesse appassionato — c'era tutto da rifare nella nostra provincia. Era la provincia dove è avvenuto lo sbarco degli Alleati. C'era tutto da ricostruire: ponti, acquedotti, edifici, strade; c'era da risistemare orfanotrofi, case di salute, ospedali. Ebbene, tutto questo è stato ricostruito, tutto questo è stato risistemato, ad opera della tenacia e del fervore appassionato degli organi della provincia. Questo è un argomento d'ordine pratico che vale tutti gli argomenti d'ordine scientifico. E allora io domando alla onorevole Commissione, che ha redatto l'articolo 107 ed ha con un tratto di penna abolito la provincia come ente autarchico, degradandola a semplice circoscrizione amministrativa di decentramento statale e regionale, quanto segue.
Io pongo ai componenti l'onorevole Commissione questo dilemma: «Riconoscete voi che ci siano degl'interessi e delle esigenze, che trovano soddisfacimento in questo ambito territoriale, che sta tra la regione ed il comune?».
Se li riconoscete, allora questi interessi differenziati, che stanno tra la regione ed il comune, devono avere il loro soddisfacimento e la loro rappresentanza elettiva nella provincia.
Se non li riconoscete, allora è inutile creare tra la regione e il comune una terza circoscrizione, per accrescere quella burocrazia soffocante (perché questo sarebbe l'unico effetto, senza nessun altro vantaggio), la cui eliminazione costituisce la sola aspirazione del popolo italiano.
Si dice che la provincia non è un ente naturale, non ha individualità naturale, come l'ha il comune.
Io contesto questa affermazione, perché, anche se in origine la provincia non aveva individualità naturale, essa l'ha acquistata dalla unificazione del Regno.
Ed oggi veramente si possono riconoscere come una realtà viva le parole che, fin dal 1861, diceva Marco Minghetti, quando affermava che in Italia, intorno alle città si erano venuti agglomerando i comuni rurali, i comuni minori, creando dei vincoli, che non si possono più spezzare né confondere con altri. Ed alle parole del grande statista fece eco un altro grande uomo politico nel Congresso delle province italiane, tenuto nel 1898 a Torino, Paolo Boselli, il quale scriveva in proposito delle magnifiche parole.
È l'unica lettura che mi permetto, signor Presidente, perché sono parole di Boselli e non mie.
Paolo Boselli affermava che il perno di ogni riforma amministrativa dell'Italia dovesse essere precisamente la provincia, perché la provincia è la sola associazione naturale e durevole.
E questa provincia aveva per Paolo Boselli, in Italia, più che in qualsiasi altra parte dell'Europa, una personalità spiccatissima. Scriveva così Paolo Boselli: «O sia sopravvissuta in essa qualche immagine dell'antico compartimento romano (anche dal punto di vista letterario, quando scrivevano, questi nostri predecessori erano grandi ed imponenti), o si incontri tracciata in Sicilia dalla mano della natura, dall'impronta di epoche pugnaci e gloriose; o l'abbia formata il contado, intorno alle città della Toscana; o siasi costituita in Lombardia, secondo le attinenze dei comuni censuari e le grandi colleganze agrarie ed idrauliche; sia essa emersa dai liberi comuni o dalla trasformazione del feudo; l'abbia benedetta il labaro guelfo o rafforzata il diploma imperiale, la provincia ha la sua propria vita distintamente consacrata dai secoli».
Ed effettivamente ha questa vita consacrata dai secoli.
Non è vero affatto che sia una costruzione artificiosa la provincia. Il che significherebbe che non ha tradizioni. E non è vero affatto. Basta dare uno sguardo alla storia delle nostre città, alla storia d'Italia, per convincersi del contrario.
La Savoia, la Val d'Aosta, la Valle di Susa, avevano le circoscrizioni provinciali fin dal lontano medio-evo.
Il Piemonte le aveva per lo meno dal secolo XVI; lo Stato Pontificio, per lo meno dal secolo XIII o dal secolo XIV, aveva i suoi compartimenti, con un rettore, con un Parlamento in ogni compartimento.
Nel Lombardo-Veneto, dai tempi di Maria Teresa, c'erano le cosiddette «congregazioni di patrimonio». Così nel Ducato di Modena e Reggio; così nel nostro Mezzogiorno, dove la circoscrizione provinciale si può dire che rimonti all'epoca normanna, e che, completata da Federico II, sia durata per 7 secoli, cioè fino alla formazione del Regno d'Italia.
Dunque, non costruzione artificiosa. E allora il problema della provincia, onorevoli colleghi, quale è? Il problema è un altro. Il problema è quello di fare della provincia il centro di una vita nuova. E come si fa centro di una vita nuova la provincia? Si fa accrescendo le funzioni di questo ente.
Innanzi tutto, sentivo dall'onorevole Preti parlare di prefetto, di prefettura, che dovrebbero permanere accanto alla provincia quale circoscrizione semplicemente amministrativa.
È questo uno dei problemi fondamentali da risolvere.
Eliminare questo doppione opprimente ed inutile che è la rappresentanza dello Stato nella provincia: la prefettura.
Onorevoli colleghi, quando gli alleati sono sbarcati nella mia provincia, a Salerno, quei poveri ufficiali americani non si raccapezzavano fra il prefetto ed il presidente della deputazione provinciale. Non riuscivano a capire, essi che venivano da un paese eminentemente democratico, come ci potessero essere sullo stesso territorio due autorità amministrative, cioè insieme la prefettura e la deputazione provinciale.
Ora è necessario che le funzioni di questa prefettura siano devolute tutte all'Amministrazione provinciale, perché non è vero (e questo è un altro degli errori e delle fissazioni che si ripetono, si scrivono e si dicono) che la provincia attualmente sia povera di funzioni. Non è affatto vero. Per lo meno dal 1917 le funzioni della provincia sono cresciute notevolissimamente. Non farò una rassegna minuta per non tediare. Del resto l'ha fatta già l'onorevole Preti. Ma si può sinteticamente dire che la provincia oggi è il centro di tutta una attività igienico-sanitaria, con tutti gli uffici inerenti. È il centro di tutta una attività assistenziale, la quale si potrà allargare. È il centro di tutta una attività di viabilità, la quale essa pure si potrà ampliare. Il problema è proprio quello di rendere possibile l'espansione di queste funzioni. In materia di assistenza, per esempio, se alla provincia voi darete tutta quella che è l'assistenza sociale, tutta quella che è l'assistenza del lavoro, voi avrete dato alla provincia un cumulo di funzioni e di incombenze da giustificarne da sole l'esistenza come ente autarchico.
E così in materia di viabilità, dove occorre estendere l'attività provinciale non solo alle strade intercomunali, ma anche a quelle comunali. E, del resto, anche ora la provincia non fa che accollarsi la manutenzione anche delle strade comunali, per alleggerire i comuni. Con tutto ciò voi avrete allargato, onorevoli signori, le funzioni di questo Ente, gli avrete dato una nuova vitalità, ne avrete fatto un centro fervido e pulsante della vita della Nazione.
E passo al secondo punto del mio breve intervento: articolo 123, le regioni.
L'onorevole Commissione ha creato 22 regioni. Io vorrei domandare agli onorevoli commissari con quali criteri di natura geografica, o di natura economica, o di natura antropica, sono state create queste regioni, perché il problema della divisione in regioni di uno Stato non è il problema più semplice di questo mondo. Affatto: è il problema più difficile che ci sia. Geografi insigni hanno profuso, su questo problema, fatiche, sudori, hanno creato teorie, hanno escogitato metodi. Il fondatore del metodo scientifico in questa materia fu il Ritter. Non starò a citarvi altri. Un altro geografo, l'Unstead, ha trovato il metodo migliore, il metodo sintetico. Ora si possono creare delle regioni o tenendo conto di un solo fenomeno, ed allora avrete una regione semplice, ci dicono questi studiosi; o tenendo conto di un gruppo di fenomeni propri di un territorio ed avrete delle regioni complesse; oppure tenendo conto di più gruppi di fenomeni, ed avrete regioni integrali; e questa è la regione vera, la individualità naturale che voi avreste dovuto creare. E in Italia ci sono queste individualità naturali, le quali pur non rispondendo a circoscrizioni legali, a circoscrizioni amministrative, sono però vive, profondamente vive, nella coscienza del popolo. Il popolo le intuisce: quando si dice Monferrato, Casentino, Marsica, si dice qualcosa che è vivo nella sua coscienza, anche se non rappresenta una regione ai fini legali. Ma quando nell'articolo 123 si mette la Campania, si mette qualcosa che non ha nessuna individualità, che, oltre a non rispondere a concetti o a criteri geografici (Rumori), non risponde neanche a criteri di giustizia. E che non risponda neanche a criteri di giustizia ve lo dimostrerò, e non attraverso argomenti che potrebbero anche avere sapore di campanilismo. Qui non vengo a fare questioni campanilistiche, e potrei anche farne; potrei invocare, per la mia città e per la mia provincia, la storia. Potrei dirvi che la mia città è stata la capitale di un principato, nei secoli lontani, ed è stata la metropoli dei vasti domini normanni. Potrei dirvi che ha delle benemerenze nel campo sociale; che nella rivolta sociale del 1647 ebbe il suo «Masaniello» in Ippolito da Pastina; potrei dirvi che nel 1799 fu la prima ad aderire alla Repubblica napoletana; vi potrei rammentare tutto il contributo portato ai fasti del nostro Risorgimento, ma non lo faccio, perché qui non debbono valere le idealità, ma debbono valere le cifre. Ebbene vi porterò le cifre. Ho comprato, a bella posta, una pubblicazione dell'Istituto di statistica, perché voi mi potreste dire: ma noi non possiamo creare delle regioni piccole, e non possiamo fare quello che ci chiedi ora col tuo emendamento, cioè la regione Salernitano-Irpina, perché sarebbe troppo angusta!
È vero. La mia città in fatto di olocausto delle anguste rinomanze di fronte ai destini più vasti della Patria non è stata mai seconda. Nel 1127, quando l'Italia meridionale si unì alla Sicilia, Salerno rinunciò ad essere capitale, e rinunciò anche ad essere capitale con Carlo 1° di Angiò, quando questo sovrano portò la capitale a Napoli. Allora Salerno si ritenne ferita nel suo orgoglio; ma oggi, onorevoli colleghi, non si tratta di questo; oggi, questo ordinamento di regioni che voi avete preparato ferisce i suoi interessi! Ve lo immaginate voi il povero «uomo della strada», come lo chiamava poco fa l'onorevole Preti, che da Sapri dovrà, per regolare la sua pratica di un familiare infermo o folle, recarsi a Napoli, ve lo immaginate voi? (Interruzioni — Commenti). Infatti, perché un folle vada nella casa di salute occorre la deliberazione della deputazione provinciale, e quando voi l'avrete soppressa questa deputazione, il povero contadino di Sapri dovrà andare a Napoli e non a Salerno. E così ve li immaginate voi gli ingegneri degli uffici tecnici della regione, quando dovranno andare da Napoli nell'impervio Cilento, per provvedere alla viabilità di quell'aspra regione?
Onorevoli colleghi, io sto considerando la regione così come l'avete voi costituita, io non sto combattendo la regione così come deve essere costituita. Voi mi direte: la regione deve essere ampia...
Persico. Ce ne vogliono dodici.
Rescigno. Ne volete dodici, ma io ne vorrei tre: Italia settentrionale, centrale e meridionale; ma dal momento, onorevole Persico, che è stata creata una regione come il Molise o come la Salentina (io non contrasto, anzi sono felice che queste regioni siano state create), e dal momento che è stata creata la regione della Lucania, io dico che è necessario creare anche la regione Salernitano-Irpina. Perché, se la onorevole Commissione avesse sentito il bisogno di interrogare, di interpellare i rappresentanti e i deputati di queste due province, si sarebbero esposte alla Commissione delle ragioni, alle quali si sarebbe venuto forse anche incontro. Ma questo la Commissione non lo ha fatto, e noi dobbiamo, per dovere verso la nostra coscienza e verso i nostri rappresentati, prospettare qui queste ragioni.
Onorevoli colleghi, qui non è più la storia o la poesia o il campanilismo, qui sono le cifre che parlano. Quando voi mi create la regione del Molise, che ha 127 comuni, mentre le province di Avellino e Salerno, delle quali vi chiedo la costituzione in regione, contano 262 comuni...
De Mercurio. Avellino non la vuole.
Rescigno. Però la vogliono la geografia e le esigenze economiche della nostra Nazione.
Tonello. Ha ragione; hanno fatto un pasticcio! (Commenti — Interruzioni).
Rescigno. Dicevo, quando questo Molise ha una superficie di chilometri quadrati 4.450, laddove le due province di cui vi ho fatto testé cenno hanno una superficie di chilometri quadrati 7.724 ed una popolazione di 1.171.689 abitanti di fronte ai 388.268 del Molise stesso, non so cosa si voglia ancora per ritenere giustificata la mia richiesta...
Reale Vito. Sono d'accordo.
Rescigno. Queste cifre acquistano un significato ancor più rilevante e notevole, quando si passa alla parte economica e alla parte sociale del raffronto. Il Molise ha appena cinque aziende di credito, con una cifra di depositi a risparmio presso le medesime di 46,5 milioni e di 413,4 milioni sulle Casse postali; invece, le due province di Avellino e Salerno hanno ben 22 aziende di credito, con operazioni di deposito, presso queste aziende, per la sola Avellino nella misura di 22,7 milioni, per Salerno di 134,5 milioni, e nelle Casse postali, per Avellino di 443, per Salerno di 616,9 milioni.
Quando questo raffronto lo si estende alle scuole, si vede che il numero delle scuole del Molise è grande, ma quello del Salernitano e dell'Irpinia è notevolissimo. Ripeto, questo non per contestare la creazione della regione del Molise, ma per rispondere alle esigenze elementari di giustizia. Io dico che la creazione della regione Salernitano-Irpina è una necessità fondamentale, per la struttura geografica di questa regione, perché, mentre le due province di Avellino e Salerno sono prevalentemente montuose, il resto della Campania è prevalentemente pianeggiante; mentre Salerno e Avellino hanno appena, si può dire, iniziata la trasformazione della loro economia agricola in economia industriale, il resto della Campania ha già quasi compiuto questa trasformazione...
Mancini. Questo non è esatto. Magari!
Sicignano. Le state dicendo troppo grosse! (Commenti).
Rescigno. Se ha modo di contrastare, contrasti pure. Queste sono cifre e sono dati di fatto che hanno la loro realtà sul terreno e sono in ogni momento constatabili, come è constatabile che queste due province hanno il loro sbocco naturale nella città di Salerno, che è lo sbocco naturale di tutto il retroterra Irpino e Salernitano (Commenti a sinistra).
Mi dispiace per l'onorevole Sicignano, il quale è cittadino del Salernitano, che egli metta in dubbio questi dati di fatto, inoppugnabili e incontrovertibili.
E allora, onorevoli colleghi, si tratta di un problema di giustizia verso la nostra terra, di un problema di giustizia verso queste nostre province. Se volete che la riforma regionale sia veramente efficace e serva a cementare e non già a disgiungere, serva a limitare e non ad accrescere le forze centrifughe dello Stato, è necessario compiere questa creazione delle regioni con criteri di equità.
Solamente così si potrà creare quella solidarietà che deve essere a fondamento delle autonomie regionali.
È di ieri, onorevoli colleghi, la notizia riportata dai giornali, dalla stampa — alla quale stampa lasciate che io mandi da questa Assemblea il riconoscimento e il plauso per il contributo che ha portato, vasto, largo, a questo problema delle regioni: alla stampa di tutte le tendenze, anche quella indipendente — è di ieri, dicevo, la notizia che a Napoli, finanche i relitti delle navi affondate, sono stati oggetto di speculazione da parte di cittadini di altre regioni.
Non è con questo spirito che si deve creare la regione; la regione si deve creare con spirito di fratellanza e di solidarietà, se vogliamo che sia viva e vitale. (Approvazioni).
Onorevoli colleghi, ricorrerà nel settembre prossimo il centenario, non di un grande uomo né di un grande avvenimento, ma il centenario di un inno che squillò come un grido di resurrezione nell'Italia, agli albori del Risorgimento: l'inno del poeta soldato che morì tra un canto e una battaglia:
«Noi siamo da secoli — calpesti e derisi — perché non siam popolo — perché siam divisi». Signori, è ora di non essere più divisi; siamo un popolo e abbiamo bisogno di fratellanza e di solidarietà, ed è su queste basi che io vi prego di addivenire alla riforma regionale. (Applausi).
Tonello. Abbasso la regione! È una invenzione vostra! (Si ride).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Vinciguerra. Ne ha facoltà.
Vinciguerra. Onorevoli colleghi. Si sono sentite le ragioni pro e contro le autonomie; ed io mi dichiaro antiautonomista, per quello che la mia opinione possa valere.
Penso però che su un solo punto, e autonomisti e antiautonomisti dovrebbero esser d'accordo ed è nel riconoscere che questo problema della regione — intesa come ente con caratteristiche istituzionali — ci è stato regalato unicamente dal progetto di Costituzione.
Ci ha fatto tanti regali questo Progetto e, non ultimo, è questo: anzi, è il regalo specifico della seconda Sottocommissione. È un regalo perché, signori, diciamoci una volta tanto la verità: questa riforma non è stata mai reclamata dal popolo italiano.
E anche oggi il popolo non ha la piena consapevolezza di quello che si sta per fare. Non si tragga argomento in contrario a quello che dico dall'agitazione che si è scatenata nel paese e della cui passionalità ha dato testé l'esempio l'onorevole Rescigno.
L'agitazione si è scatenata solo a seguito dell'annunzio che vi sarebbero state le Regioni, ed ogni lembo di terra ha creduto di dover tirare fuori il suo diploma, il vecchio onciario, il suo principio medioevale, la vetustà magari romana; e vi è stata ed è tuttora in atto una gara alla creazione di piccoli, massimi e minori enti, i quali starebbero soltanto a giustificare una cosa: la fondatezza della nostra preoccupazione che questa riforma possa essere pregiudizievole all'unità d'Italia. Davvero è una preoccupazione non senza fondamento, se sin da questo momento si scatenano queste gare provinciali, insorgono questi antagonismi localistici, e poco fa nella massima Assemblea della nazione l'onorevole Rescigno poteva ritenere lecito prospettare le ragioni della sua Regione — non so se sia il Salernitano o altra simile — in confronto delle pretese di chi patrocina i titoli della regione del Molise. È a seguito di questo preludio di discussioni che noi ci preoccupiamo giustamente di quelle che potrebbero essere le sorti dell'unità d'Italia se passasse questa oscura avventura della regione. Onorevoli colleghi, non bisogna nascondersi che la Capitale si crea il suo ambiente artificiale e il problema delle autonomie non vi trova l'atmosfera più sincera. Perciò io ho consigliato gli amici, anche di Gruppo, a scendere un po' nelle province, a tuffarsi nei luoghi minori perché ivi avvertirebbero che nel popolo autentico, quello che lavora e non fa della dottrina, è in atto un distacco sensibile dallo Stato: lo Stato si avverte in via di fallimento. Gli esperimenti dei nostri Governi — questi primi esperimenti di democrazia — sono stati, in rapporto alla coscienza statale del popolo italiano, assai esiziali.
Ora io mi domando: è proprio questo il momento più opportuno per questa riforma di disintegrazione? Quando questo pauroso distacco dallo Stato si verifica e ciascuno pensa, le masse soprattutto, che si debba fare appello alla ragione, dobbiamo noi aprire le porte alla Regione, onde il popolo italiano si disperda nelle valli o vada a raccogliersi sui monti? (Approvazioni a sinistra). È un interrogativo che non deve disprezzare chi ha il senso della necessità dello Stato. Lo Stato ha le sue ragioni eterne di vita, anche per noi socialisti!
Ora, signori, quando ci si domanda: «Ma perché questa riforma?» c'è una risposta: «Bisogna dare addosso alla burocrazia». La burocrazia è in istato di elefantiasi; la burocrazia occorre sia snellita. E come si dovrebbe raggiungere questo obiettivo? Niente di meno creando la Regione, cioè creando una altra burocrazia, raddoppiando quella che già c'è, se è vero che alla Regione sono assegnate tutte le funzioni che si leggono nel Titolo V° della parte IIª del progetto. La riforma e lo snellimento della burocrazia non possono essere attuati anche nella unità della Patria e nell'autorità dello Stato?
A un certo punto di questa discussione si è avuta la sensazione che c'è qualcuno, come dire?, che voglia barare al gioco. Ho sentito, per esempio, da un oratore citare come un fautore delle autonomie regionali niente di meno che Giustino Fortunato, C'è davvero da meravigliarsi come in un dibattito il quale riguarda così elevati interessi della nazione, ci sia chi venga addirittura a cambiare le carte in tavola! Giacché Giustino Fortunato, onorevoli colleghi, sapete che cosa diceva alla Camera nel 1896 a proposito delle regioni? Diceva così: «Ma se invece per decentramento amministrativo propriamente detto voi intendete attribuire ai corpi locali più o meno autonomi vere e proprie funzioni di Stato, se di codeste funzioni volete loro commettere insieme la delibera e l'esecuzione, io non esito un istante solo a respingere lungi da me, nell'interesse stesso di quei corregionali che più soffrono e più lavorano, un dono così fatto, che in mezza Italia renderebbe sempre più l'organizzazione dei poteri pubblici (accentrati o decentrati che siano) una vasta odiosa clientela delle classi dominanti e l'Italia stessa un oggetto di lusso fatto per chi possiede e chi comanda: i signori, i ricchi, i pubblici funzionari e gli uomini politici»! E prosegue: «È un decentramento, il vostro, che i comuni e le province di mezza Italia, consorziati o no, sono incapaci di assumere senza il pericolo, e direi, senza la certezza di veder crescere a mille doppi i guai dell'oggi: l'infeudamento e il prepotere delle consorterie locali e il loro iniquo procedere in tutte le manifestazioni della vita amministrativa».
E finisce. «È un decentramento che non è, no, la giustizia né la libertà, non il diritto, non l'uguaglianza, non la morale, nessuna di queste grandi cose che voi ci promettete con tanta generosità d'animo e abbondanza di cuore. Se altro, non potete fare meglio l'accentramento dell'oggi, cui pure dobbiamo quel tanto di difesa, di sicurezza, di cultura e di benessere, che finora, Dio sa come, abbiamo raggiunto!
«E il vero è che molto, e in via relativamente facile, noi possiamo ottenere, solo che modestamente, secondo la logica delle cose, ci poniamo a considerare il decentramento per quello che è, per quello che dev'essere, senza innestarlo artificialmente all'idea di una riforma amplissima, dubbia, indeterminata; che non trova fondamento nella realtà delle cose; che non ha, no, il segreto della nostra salute; che non può non suscitare timori e paure in quanti credono tuttora non intima né sicura l'unione morale e materiale del nostro paese, così diverso nella sua stessa costituzione naturale, così vario nella sua stessa organizzazione economica...».
Non vi potrebbe essere più autorevole conferma di quel che sarebbe destinato ad essere il Mezzogiorno con una riforma regionale, coltura di feudalesimo e di nuove consorterie. E sarebbero sempre le classi che detengono ora la forza laggiù, quelle che stanno al dominio, le classi che riescono a penetrare e a filtrare anche negli organismi dello Stato, quelle che domani verrebbero in possesso della nuova organizzazione amministrativa. E allora il grande sogno del popolo meridionale di poter risolvere il suo problema nel piano nazionale, questo sogno svanirebbe e la vita locale verrebbe soffocata da una serie di satrapie di nuovo tipo.
È un pericolo la cui gravità non può essere attenuata, con la rievocazione dei precedenti letterari che poco fa ci regalava l'onorevole Tessitori. Noi non neghiamo che in ordine alle autonomie comunali ci sia stata una letteratura, ma essa non è percorsa dalla passione del popolo. Tranne che per la Sicilia, ed in forma minore per la Sardegna, noi non abbiamo sentito, dalle popolazioni italiane e tanto meno dalle meridionali, invocare questa pericolosa riforma, questa creazione dell'ente Regione, destinato inevitabilmente a fare la concorrenza allo Stato nazionale.
Ma ove l'urgenza e la necessità di questa riforma? C'era in Italia una vecchia tradizione repubblicana delle autonomie la quale aveva la sua ragion d'essere quando era in corso la lotta contro la monarchia. Alberto Mario e prima di lui Cattaneo e Ferrari, patrocinavano il costituirsi di questi centri di raccolta di resistenza, contro il prepotere dell'accentramento regio.
Ma quando la monarchia è tramontata col 2 giugno e attraverso le forme repubblicane si spiana la via alla riforma dell'amministrazione, non si comprende questo attaccamento ad una tradizione letteraria che è soltanto un residuo.
Ma si dice che le autonomie potrebbero valorizzare le risorse locali delle regioni! Queste risorse per noi non hanno bisogno di un nuovo imbrigliamento amministrativo per essere valorizzate. Le regioni hanno di per sé una loro fisionomia, una loro economia, un loro commercio, dei loro legami. Si guardi ad esempio alla Campania: essa ha le sue città piccole e grandi, ha i suoi porti; ma tutta la Campania, il popolo lavoratore della Campania s'è scelto una capitale, spontaneamente, che è Napoli, e tutta la vita pulsa verso Napoli, l'afflusso dei prodotti, il movimento commerciale va a sboccare nella grande metropoli; e non c'è stato bisogno perciò di uno speciale crisma amministrativo.
Ma vi è di più, o signori! Il problema delle autonomie non può essere trattato sotto singoli angoli visuali: è un problema che va esaminato nel complesso perché, come lo stesso progetto di Costituzione ci ha ammonito, esso si è infiltrato in tutto l'ordinamento dello Stato. Tutto dovrebbe ruotare intorno al perno dell'ente Regione. Non da trascurarsi è il lato finanziario. All'articolo 112 del progetto di Costituzione si legge: «La regione provvede all'amministrazione nelle materie indicate negli articoli 109 e 110 e nelle altre delle quali lo Stato le delega la gestione». Le materie sono queste: ordinamento degli uffici ed enti amministrativi regionali; modificazioni delle circoscrizioni comunali; polizia locale urbana e rurale; fiere e mercati; beneficenza pubblica; scuola artigiana; urbanistica; strade, acquedotti e lavori pubblici di esclusivo interesse regionale; porti lacuali, pesca nelle acque interne ed inoltre (articolo 110):
Assistenza ospedaliera; istruzione professionale; biblioteche di enti locali; turismo e industria alberghiera; agricoltura e foreste; cave; caccia; acque pubbliche, ecc.
Insomma, tutto un complesso di attività verrebbe ad essere amministrato dall'ente Regione.
Quando le finanze italiane sono quelle che sono, potrebbe essere consentito allo Stato italiano — giacché diversamente la regione non potrebbe vivere, rimarrebbe soltanto un ente teorico, a soddisfazione d'una vecchia e magari autorevole e rispettabile aspirazione, ma non più di questo — spogliarsi dei suoi cespiti e dei suoi tributi?
Ora, dato che il problema delle autonomie è così irto di difficoltà, ritengo non inopportuna la richiesta di rinvio fatta dall'onorevole Rubilli e da altri illustri colleghi. Il Titolo V non va discusso in fretta e andrebbe invece affidato alla meditazione degli italiani ed anzi l'istesso problema della regione sottoposto a referendum.
Una voce. E noi che ci stiamo a fare?
Vinciguerra. Noi siamo i rappresentanti del popolo italiano fino ad un certo punto (Commenti); e non siamo i depositari in toto della volontà nazionale. Così si spiega che nello stesso progetto di Costituzione è stato ammesso il diritto al referendum ed alla petizione. Invocare il referendum in questa circostanza, non significa correre alcuna avventura. Sarebbe il modo migliore di chiamare il popolo italiano a pronunziarsi su questo problema delle autonomie.
Onorevoli colleghi, nella mia esposizione, ho ceduto più al cuore che al cerebralismo, che dà parti insinceri.
Io ho invocato solo la testimonianza di un grande, di cui era stato adulterato il pensiero: Giustino Fortunato.
Ho ritenuto inopportuno fare sfoggio di dottrina, e sarebbe stato facile. Al dibattito andava conservato il suo carattere nazionale, con esclusione dei motivi polemici, che pure vi circolano al fondo.
Infatti, se è soltanto l'attaccamento ad una nobilissima tradizione che spinge i repubblicani storici ad invocare questa preoccupante riforma, da qualche altra parte vi sono motivi men leciti e confessabili, e potrebbero essere bene quelli di creare con le regioni la Vandea e la riserva reazionaria contro un governo di popolo che avesse a darsi la democrazia italiana.
Concludendo, vorrei che dalle decisioni che sul problema delle autonomie andrà a prendere questa Assemblea venisse bandito lo spirito di compromesso ed il voto fosse netto per le regioni o contro. Noi auspichiamo per la salvaguardia dell'unità d'Italia e delle sue fortune un netto voto di rigetto. (Applausi).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Sullo. Ne ha facoltà.
Sullo. Onorevoli colleghi, chi ravvivasse oggi il ricordo di quello che era lo stato dell'opinione pubblica sul regionalismo nel 1943, 1944, 1945, cioè immediatamente dopo la caduta del regime fascista, chi ricordasse cioè quello che era lo stato euforico dell'opinione pubblica in merito al problema che oggi affrontiamo, non potrebbe non dare ragione a Guido De Ruggiero, che alcuni mesi fa notava giustamente come gli italiani si lascino trascinare dagli impulsi e come non sappiano essere costanti nel seguire un indirizzo.
Ora — vi confesso — ho avuto sempre timore dei «sinistristi» o dei «destristi», cioè dei sistematici in astratto, che paventano poi le soluzioni concrete conseguenti. Ho avuto timore di quelli, che essendo «sinistristi» sono diventati stranamente destri, o essendo «destristi» sono diventati sinistri. Così analogamente ho in uggia coloro i quali, e mi rincresce di dirlo, con tanta passione e con profluvie di parole forse, ma alla prova dei fatti con tanta superficialità, si dichiararono regionalisti due anni fa, quando la Costituente era ancora lontana e hanno cambiato parere adesso, che si tratta di venire al redde rationem. Dimenticano essi che bisognava che l'opinione che in quel momento assumevano come propria venisse rafforzata, raffermata con studi analitici e vengono impunemente a parlarci di impreparazione dell'opinione pubblica, di impreparazione dello stato dell'opinione pubblica, come se questa impreparazione non dipendesse dalla loro passiva inerzia! Si dimentica troppo spesso, da parte della così detta classe dirigente, che l'opinione pubblica si forma (e ne è sempre in un certo senso riflesso) da quelli che sono i sentimenti immediati, ma che d'altra parte viene elaborata dalla classe dirigente sui sentimenti immediati; e vi è perciò un gioco di rifrazioni, perché non è vero che l'opinione pubblica dipenda semplicemente dagli impulsi spontanei ed emotivi, ma anche in gran parte dallo studio, dalla tensione, dalla attenzione che i dirigenti di un paese pongono sui gravi problemi che vengono sottoposti al loro esame.
Onorevoli colleghi, grave adunque è la responsabilità di coloro che, dopo parecchi anni, sono venuti qui all'Assemblea a dire che la opinione pubblica non è preparata e quasi vanno conclamando il bisogno di interpellare adesso il pubblico colto ed inclito. Se essi interpretano il silenzio del popolo come un segno di indifferenza e di avversione sono rispettabili nella loro opinione, ma devono pur dirci che cosa hanno fatto per interpellare la collettività. Se nulla hanno fatto per interrogare le masse, per smuovere l'inerzia, per trattare questo problema, sono in certo senso responsabili. Noi abbiamo agitato questo problema e non da adesso, né è colpa nostra se la nostra stampa è stata quasi la sola ad affrontarlo in pieno. Vi sono stati peraltro degli uomini (non solo del Partito democristiano) anche del Partito repubblicano, che hanno portato proficuo contributo di studio. Cosa potevamo fare se invece gli altri si sono ben guardati dal venire al concreto e hanno preferito fare enunciazioni generiche nei congressi, a mala pena accennando alle obiezioni che oggi vengono portate in questa Camera con tanta baldanza?
Io do ragione, onorevoli colleghi, a Guido De Ruggiero, alle sue affermazioni, e ne sono molto addolorato. Per mio conto, questa volta sarò un po' meno schematico di quanto sono stato nel mio precedente intervento, perché, penso, è tale l'argomento che bisogna parlar chiaro e dire quello che si pensa sull'insieme senza scendere al dettaglio, all'esame dei vari articoli.
Dobbiamo lasciare da parte per ora lo schema predisposto per la configurazione geografica delle regioni, e non attardarci a decidere quale zona debba essere regione, se la Campania o il Sannio o il Salernitano o il Molise, dobbiamo prescindere completamente dalla preoccupazione che le regioni sono 22 e non 30 o viceversa: è tutta materia, me lo perdoni l'onorevole Rescigno, che potrà essere oggetto di emendamenti all'atto della votazione sugli articoli. Occorre ora una visione sintetica, non irretita nei campanilismi.
Cercherò di portare molto sinceramente e modestamente una piccola pietra alla costruzione di questo edificio per chiarire le ragioni e i limiti di qualche nostra incertezza e le ragioni e i limiti della nostra fiducia nell'ente Regione. Dobbiamo anche, anzitutto vedere quali sono i motivi per cui una parte dell'Assemblea ha assunto un certo atteggiamento di ostilità preconcetta.
Non credo di interpretare male l'atteggiamento delle sinistre ricordando un articolo di Antonio Gramsci, che è stato ripubblicato dal n. 2 di Rinascita nel 1945 e il cui titolo esatto era: Alcune note sulla questione meridionale. Era un articolo (in un certo senso in polemica) di recensione di un volume di un mio illustre comprovinciale che, a differenza di Rubilli, è stato meridionalista per tutta la vita e che le sinistre hanno tanto amato ed apprezzato, Guido Dorso.
Gramsci, dicevo, sotto un certo aspetto in polemica con Guido Dorso, enunciò allora le ragioni per cui potenzialmente il partito comunista era anti-regionalista. Si parlava in quell'articolo della questione meridionale e si guardava la struttura sociale del Mezzogiorno, la funzione della classe dirigente nell'Italia meridionale. Da parte del Dorso si guardava al regionalismo come ad un mezzo di rinnovamento della classe dirigente. Gramsci invece, per suo conto, faceva notare che nulla vi era da attendere dall'intellettuale meridionale se non preso come individuo, perché un movimento di masse intellettuali nell'Italia meridionale non poteva avere seguito, non poteva avere successo.
La vera rivoluzione, che potesse trasformare socialmente il Mezzogiorno, non poteva venire che dall'abbraccio che le classi operaie del nord avessero fatto col proletariato agricolo del sud.
«Pensare possibile che esso (l'intellettuale) possa, come massa, rompere con tutto il passato per porsi completamente sul terreno di una nuova ideologia è assurdo».
E poi ancora a proposito della impossibilità di una soluzione di massa per gli intellettuali:
«È assurdo per gli intellettuali come massa e forse assurdo anche per moltissimi intellettuali presi individualmente...».
«Ora a noi interessano gli intellettuali come massa e non solo come individui».
Ed a proposito della soluzione del problema, Gramsci diceva chiaramente: «Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti, sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l'armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario».
La disgregazione del blocco intellettuale mediante l'alleanza tra il proletariato (sottinteso industriale) e le masse contadine del Mezzogiorno: questo era l'unico metodo col quale si doveva manovrare, secondo Gramsci, da parte di quelli che volessero una rivoluzione democratica e comunista nel nostro Paese. Vi era in questa posizione chiaramente delineata la tendenza che si potesse risolvere, tutto ad un tratto, con un atto di forza, rivoluzionario, la situazione tremendamente penosa della Italia Meridionale. Gramsci voleva attraverso una rivoluzione rapida rinnovare l'Italia Meridionale. Anche noi pensiamo alla necessità di una «rivoluzione» in Italia Meridionale, ma non repentina, non con colpi di forza. Il nostro regionalismo è rivoluzionario rispetto alla tradizione meridionale, almeno degli ultimi secoli. È una rivoluzione senza sangue, che onora e onorerà i suoi assertori. Rivoluzionario nel senso di formazione e rinnovamento della classe dirigente, eliminazione delle consorterie e delle oligarchie locali, perché noi sappiamo bene cosa accade nell'Italia del Sud. E lo sanno, non soltanto gli uomini del partito di centro e dei partiti di destra, ma anche dei partiti di sinistra, perché il sistema delle elezioni personalistiche nei partiti dell'Italia Meridionale è stato adottato anche da loro, anche per loro! Mi spiegherò più chiaramente.
È esistita (ed esiste) la figura tipica del deputato personalista che, in altri tempi, era eletto dal popolo solo ufficialmente, ma di fatto si faceva strada attraverso le pressioni (o i favori) del Ministero degli interni, tramite il prefetto. Si ricordano molti casi e molti episodi, e non sarà certo il più giovane della nidiata a dirvelo: ci sono i più anziani che possono testimoniarlo. Questo deputato aveva bensì (e anche questo accadde talora anche per i partiti di sinistra, amici di quel Settore) i suoi elettori, ma era il Ministero degli interni che determinava la vittoria che faceva traboccare il vaso con le sue pressioni. Finché ci sarà uno Stato accentratore queste cose si verificheranno ancora e le acque andranno a finire sempre nel medesimo letto, del medesimo fiume. Dunque, in generale, il deputato si trovava in questa situazione: era colui che dipendeva dal Ministro dell'interno, e si serviva a sua volta, dei sindaci dei comuni che poneva sotto la sua mediazione protettrice. Di fatto, le masse erano lontane da lui, che si serviva del favore governativo e ministeriale e delle aderenze del prefetto per essere rieletto e continuare, con una vera e propria ereditarietà, per generazioni. Non vi stupisca, vi sono state nell'Italia Meridionale vere e proprie generazioni di deputati ed il deputato era in questo clima, ed in questa atmosfera, un letterato ed un umanista nei casi migliori, un volgare retore, un qualsiasi paglietta nelle espressioni umane peggiori. Vi sono stati grandi uomini che in Italia Meridionale si sono staccati dalla massa grigia ed informe ed alla Camera hanno rappresentato individualità di grande valore (essi però sono rimasti in genere staccati anche dai loro stessi elettori, e hanno soltanto scritto magnifici libri sul Mezzogiorno); ma vi sono stati (ed era il caso più frequente) numerosissimi deputati che alla Camera non hanno fatto altro che votare, talora persino «non votare», rimanendo alla periferia, paghi di quella falsa gloria, di quel falso prestigio che veniva loro dalla maggioranza governativa, si afferma alla Camera, giolittianamente.
Contro questo stato di cose insorgeva Guido Dorso; contro questo stato di cose è insorto Luigi Sturzo contro questo stato di cose è insorto con lui il partito popolare. Questo personalismo, se non si rimuove, può pullulare non soltanto in seno al nostro partito, ma anche nel seno del partito comunista dove vi è una tendenza a servirsi anche di questo mezzo pur di cogliere voti e a non saperne decisamente uscire. Noi insorgiamo contro questo personalismo, e quando parliamo della riforma regionale che va fatta, e quando ne parlavano Dorso e Sturzo, ne parlavano proprio come di una esigenza morale, come di una necessità, che neppure l'abbraccio tra gli operai del Nord e i contadini del Sud può sostituire con efficacia.
Ci battiamo tenacemente per la formazione di una classe dirigente che non sia personalistica, per la formazione di una classe dirigente che sia il popolo e che dal popolo sia espressa.
Quando Gramsci riteneva che per il rinnovamento del Sud questa formula non fosse adatta e fosse utopistica, egli riteneva che in Italia soltanto con la conquista del potere, conquista diretta, si potesse ottenere la elevazione sociale del proletariato agricolo del Sud, e che soltanto questo proletariato potesse esprimere una nuova classe dirigente. Noi ciò neghiamo.
Se si parte da questo punto di vista, non vi può essere accordo con i comunisti, perché noi crediamo alla resurrezione del Mezzogiorno attraverso il Mezzogiorno, non attraverso di una forma di «protezionismo» politico degli operai rispetto ai contadini, non attraverso l'abbraccio che venga dal Nord, ma che non modifica se non l'esterno, perché la vera educazione alla libertà deve venire dall'interno, e gli atti di conquista non rappresentano mai affermazioni durature. Noi pensiamo, onorevoli colleghi della sinistra, che se oggi anche la sinistra pensa che la conquista del potere può essere raggiunta attraverso la democrazia con gradualità e attraverso prese non dirette, non ci sia nulla da temere per quanto riguarda le autonomie regionali e sia da abbandonare la prevenzione di Gramsci contro la possibilità di una formazione autonoma di una preparata élite meridionale.
Pensiamo che questa svalutazione degli intellettuali del Sud che ha sostenuto Gramsci, dipenda da un pregiudizio: che non si possa modificare la mentalità dell'intellettuale del Sud, ponendolo a collaborare con la massa del proletariato, con cui invece a nostro avviso bisogna trovare il modo di farlo collaborare. (Interruzione dell'onorevole Mancini).
Non ho udito l'interruzione dell'onorevole Mancini e non posso replicare.
Vogliamo formare questa classe dirigente staccando, estirpando quell'appoggio ai deputati del Ministero dell'interno che consente loro di fare della politica semplicemente una professione vuota e untuosa. Soprattutto è per ragioni di carattere morale, per la fede che noi abbiamo che l'Italia meridionale possa essere unificata attraverso questa azione concreta della classe dirigente, che siamo regionalisti.
Io debbo ricordare quello che accadde a Cavour quando, nel Parlamento Subalpino, presidente del Consiglio, si trovò di fronte ad uomini della sinistra come Valerio e Brofferio, che sapevano fare grandi discorsi e ammantavano di pompa vana pensieri talora inconsistenti. Ma il presidente del Consiglio trovò la formula: «fare discutere i bilanci, fare discutere le leggi concrete» e da quel momento — lo dice Adolfo Omodeo — Brofferio e Valerio non parlarono più o parlarono poco. Così si forma la classe dirigente, democratica, del proletariato: quando non si faranno soltanto parole, quando non si parlerà solo per distribuire agli elettori l'estratto parlamentare, ma in una composta, seria e laboriosa assemblea regionale si tratteranno argomenti modesti, con continuità e con quel senso di responsabilità che vien dato dalla visione delle immediate conseguenze; allora si sarà fatto davvero un bel passo avanti sulla strada del progresso politico del nostro Paese.
Qui si tratta di creare quei pilastri di lavoro e di attività che certamente non esistono nella provincia, come oggi è concepita.
Oggi, nella provincia, da un lato c'è il prefetto che attende la crisi ministeriale per sapere chi sarà il nuovo Ministro dell'interno, e continuerà ad attendere egualmente domani; dall'altro lato abbiamo una amministrazione provinciale che è limitata a settori di minima, di non grande importanza, contrariamente a quello che crede il collega Rescigno. Quasi nessuno si accorge di questo: che è la catena che imbavaglia l'Italia meridionale questa congiunzione del potere esecutivo con la provincia, catena che continua a permettere il predominio a gruppi di intellettuali mediocri, vani, vuoti, tronfi.
È da auspicare che il proletariato trovi una via di intesa con la classe media e che trovi in questa classe media una guida; coloro che veramente vogliono riforme graduali e lente e il miglioramento effettivo e concreto della nostra classe dirigente, non possono non pensare a questo lato positivo della nostra concezione regionale, perché soltanto attraverso una palestra di vita politica noi potremo fare qualche cosa di più di quello che non ha fatto la classe dirigente passata italiana.
Io sono giovane e certi giudizi sulla bocca di un giovane sono troppo forti; ma devo dire con franchezza che, pur giovane e come giovane, sono rimasto non certo molto soddisfatto in quest'Aula ripensando a quella che poteva essere la levatura ideale di una Costituente. Ma poi, in fondo, mi sono detto che era logico e naturale che fosse così: con l'organizzazione dei partiti moderni, con quel «gruppismo», con quella simmetria accentratrice che c'è adesso di fatto, il campo d'azione dei deputati è limitato.
Il basso tono dell'Assemblea è fatale e logico, ed io che ho parlato a favore dei partiti organizzati, non posso non convenire che questo è un portato dei tempi.
Bisogna provvedere però ai ripari per elevare questo basso tono: se non si fa qualche cosa di più, se l'azione concreta non viene sviluppata in altri organismi, se il Parlamento è l'unica forma di espressione della sovranità popolare e non esistono assemblee più piccole, più concrete per risolvere i problemi del nostro Paese, non so se avremo un avvenire molto brillante.
Sentivo dire da un autorevole collega anziano che i Parlamenti oggi non possono funzionare più come nel 1919 o prima, che oggi c'è bisogno dell'agilità delle Commissioni, dell'agilità della visione diretta e del «colloquio», direbbe Calosso. Ebbene, non è solo attraverso le Commissioni legislative o parlamentari che si può raggiungere questo intento. Si deve raggiungere anche nello snellimento istituzionale dello Stato, dando qualche cosa da fare alle regioni, così come noi le concepiamo — colleghi dell'estrema sinistra — come enti che abbiano un determinato e limitato potere legislativo, come enti che abbiano una determinata, limitata e ben definita autonomia finanziaria, perché altrimenti creeremmo soltanto superstrutture e non faremmo nulla di duraturo.
Perché la regione deve esistere? Deve esistere indubbiamente per adattare certe leggi di carattere nazionale alla regione e per legiferare in certe materie. Questo può essere effettivamente il banco di prova della classe dirigente, e nel tempo stesso l'agone in cui la classe dirigente potrà misurarsi. Vi è in questa istituzione sufficiente garanzia sia per la destra che per la sinistra.
La sinistra, forse, preferirebbe il metodo di affermarsi nelle sue conquiste, battendo su certe zone e dilagando poi in altre zone. Purtroppo, noi abbiamo risentito sempre di ciò che si è fatto nella pianura padana: i grandi movimenti sono sorti di lì ed hanno dilagato per tutto il Paese. Indubbiamente, è più facile che un determinato piano politico-ideologico si sviluppi in una certa regione e, in uno Stato accentrato, dilaghi poi in tutto il resto del territorio nazionale. Ma quelle non sono sempre conquiste. Il fascismo, per esempio, che anche di lì è dilagato, di fatto è stato nel Sud una super-struttura e anche in periodo fascista, di fatto, nel Sud non vi era se non personalismo: invece del sindaco c'era il segretario del fascio e le nomine avvenivano nella stessa maniera e le lotte in famiglia erano perfettamente identiche.
Se vi è da parte dei colleghi della sinistra, i quali vogliono le riforme, il desiderio che esse siano veramente durature, bene è che esse vengano, specialmente in certi settori, attraverso questa forma che le rende appunto più durature.
E, d'altra parte, la destra che forse è meccanicamente ossequiente a certi principî accentratori, a certi canoni che sono nella tradizione storica della destra italiana, che ha tanto timore di questo ordinamento regionale, deve riflettere che, in fondo, le regioni possono anche rappresentare la garanzia della gradualità nelle riforme, senza spaventare nessuno e senza mandar nulla in rovina.
Noi, come democristiani, come partito di centro, vogliamo le riforme non soltanto come folate di vento che passano, ma come istituzioni che diano sicurezza e garanzie sia a coloro che vogliono conservare ciò che è onesto conservare; sia a coloro che vogliono rinnovare tutto ciò che va rinnovato, con la certezza che ciò che sarà stato rinnovato resterà per i nostri figli: noi abbiamo bisogno dell'autonomia regionale a questo fine.
È verissimo che, dal punto di vista fiscale, le regioni dell'Italia settentrionale si troveranno, in un ordinamento regionale, in una condizione più favorevole rispetto a quelle dell'Italia meridionale. Ma ricorderò, a tale proposito, che l'articolo 38 dello Statuto siciliano ha riconosciuto che lo Stato italiano ha, per quanto riguarda, naturalmente, i tempi passati, dei debiti nei confronti della Sicilia e che è necessario per conto riparazioni dare un contributo annuo per opere pubbliche e di bonifica; ebbene, lo stesso si potrà fare, con disposizioni costituzionali transitorie, per l'Italia meridionale.
Ma, d'altra parte, anche se una disposizione transitoria potrà sancire questo, bisogna ricordare che soltanto attraverso un autocontrollo finanziario, l'autonomia finanziaria, cioè soltanto attraverso i calcoli fatti sulle cifre, si può educare la classe dirigente.
In fondo, ripeto, anche a costo d'essere noioso, la ragione più importante per la quale noi vogliamo le autonomie è proprio quella di formare la classe dirigente; né possiamo averla ove non sia chiamata a deliberare su qualche cosa di concreto. E non v'è nulla di più concreto del portafoglio dei cittadini.
Al momento opportuno, io presenterò una proposta di emendamenti all'articolo 113, il quale ha delle forme che potrebbero suonare un po' ambigue. Ma, a parte queste questioni di dettaglio, deve rimanere ferma l'impostazione del problema, con quella integrazione di cui prima ho discorso, quando ho parlato dell'articolo 38.
E che questa mia posizione non sia, amici di sinistra, la posizione soltanto di chi è appassionato sostenitore delle idee del proprio campo politico e non vada oltre il settore della propria fede, ma sia un atteggiamento molto vicino a quello di pensatori di diversa tendenza e diversa fede, è dimostrato dal fatto che, nel recente congresso napoletano tenuto dal Partito socialista dei lavoratori italiani, si è giunti proprio a questa conclusione, che cioè il decentramento rappresenta una condizione di miglioramento per l'Italia meridionale e che vi deve essere da parte dello Stato un contributo per ciò che non è stato fatto per il passato o è stato fatto in danno dell'Italia del Sud. Testualmente il Congresso del P.S.L.I. (indetto dall'Istituto di studi economico-sociali) ha concluso:
«Il Congresso ritiene che l'autonomia locale, in tanto può avere vitalità in quanto sia fondata sulla regione, la quale ha una ampiezza territoriale, tradizione storica e compagine sociale sufficienti a garentire la sua consistenza economica, finanziaria e politica. L'ordinamento regionale dovrà avere autonomia politica oltre che amministrativa e carattere elettivo col solo controllo di legittimità da parte dello Stato. In esso dovrà essere assorbita l'organizzazione dell'artificiosa ed inefficiente circoscrizione provinciale».
E ancora:
«Tenute inoltre presenti le condizioni disagiatissime in cui le regioni del Mezzogiorno sono ora ridotte e per ragioni storiche e per effetto della politica seguita nei loro confronti dalla unificazione d'Italia in poi; infine per le devastazioni arrecate dalla guerra nelle loro zone in misura più grave che altrove, il Congresso ritiene che l'attuazione del nuovo ordinamento, lungi dal pregiudicarlo, sia indirizzata a favorire l'avviamento dell'intero problema meridionale alla soluzione che si attende da decenni e che gli eventi e la guerra hanno reso ancora più urgente».
Aggiunge esprimendo il voto che «lo Stato concorra, mediante congrue istituzioni, sia pure provvisorie, e con concessioni opportune, specie tributarie, alle perequazione finanziaria degli enti regionali del Sud con quelli del Nord». E non ci si meravigli che si parli di concessioni tributarie. È vero, paghiamo meno tasse di quelle che si pagano nel Nord, o nelle altre parti d'Italia. (Commenti).
Una voce a sinistra. Proporzionalmente paghiamo di più.
Sullo. Ma noi paghiamo le tasse in altro modo; noi le paghiamo con i dazi doganali, con le imposte di fabbricazione. Non potendo importare dall'estero quei prodotti che vorremmo e che potremmo importare in Italia meridionale ad un prezzo più basso paghiamo così un sovraprezzo. Di fatto le tasse sono egualmente e in maggior copia esatte. Il protezionismo che ha dato all'Italia del Nord il fiore degli operai specializzati (e qualche volta anche il fiore dei disoccupati) è un protezionismo a tutto danno dei lavoratori e dell'agricoltura dell'Italia meridionale.
Voi non dovete considerare, egregi colleghi, soltanto le tasse che ufficialmente noi paghiamo; dovete considerare anche quello che abbiamo pagato — e Nitti lo ha dimostrato in «Nord e Sud» — attraverso l'unificazione finanziaria del Regno, la confisca dei beni ecclesiastici, il pompaggio dei nostri risparmi, sicché perfino — non ridete: risum teneatis — si devono qualche volta ricordare con rimpianto i Borboni, e poi ciò che versiamo per colpa di tutta la nostra legislazione che è stata protezionista sino a ieri e che ricomincia (o continua) ad essere protezionista oggi, come è stato dimostrato dalla recente legge sulla cinematografia.
Considerate tutto questo, e allora, quando parliamo insieme dell'articolo 38 della regione siciliana e ciò nonostante della necessità dell'autonomia finanziaria, e quando diciamo che vi è necessità per lo Stato italiano nei riguardi del Mezzogiorno del soddisfacimento, per così dire, di quel debito che si è accumulato attraverso la storia, non dite che io sono in contraddizione. Noi l'autonomia la vogliamo come mezzo di educazione politica, come mezzo di riparazione di ciò che in passato è avvenuto, forse indipendentemente dalla volontà degli uomini — forse anche per colpa di noi meridionali, non dico di no — ma che comunque è avvenuto, e di cui bisogna tenere conto effettivamente. Bisogna che queste ragioni vengano valutate con tutta serenità. È una grande prova quella a cui siamo chiamati. E molti che oggi parlano contro le regioni assomigliano perfettamente a quelli che prima del 2 giugno 1946 erano monarchici e repubblicani contemporaneamente, parlavano fra di loro, e non sapevano che cosa fare. Era una particolare categoria di repubblicani ideali, ma monarchici di fatto, i quali dicevano: «Io sono repubblicano, però in queste condizioni dell'Italia chi sa la cosa come va; non so che cosa fare; non so cosa farò» e finirono per votare per la monarchia. Molti assomigliano a questa categoria e pongono questa questione negli stessi termini. Il popolo italiano non aveva una tradizione repubblicana; c'era una tradizione del partito repubblicano, non una tradizione repubblicana; si è votata la Repubblica come un mezzo di miglioramento politico, di autodecisione, di autogoverno. Analogamente il popolo italiano non ha una tradizione regionalistica, sotto un certo punto di vista (benché da un punto di vista storico io, come modesto cultore di scienze storiche, debba dire che la tradizione regionalistica prima del 1860 esisteva) perché la tradizione regionalistica dopo il 1860 si riduce ad una tradizione provinciale molto modesta; ma dobbiamo fare la stessa considerazione che facevamo allora, quando ritenevamo che, a parte ogni considerazione, la Repubblica rappresentava un atto di fede.
Anche le regioni devono rappresentare per noi un atto di fede nel popolo italiano, nella sua volontà di autodecisione. Dobbiamo lasciare da parte le proteste interessate. Abbiamo ricevuto un'infinità di lettere. Da chi? Da sindacati, da amministrazioni provinciali — di Avellino, di Salerno, di Benevento, ecc. — da impiegati i quali temono — smembra — che ci siano delle modifiche nella loro vita privata, nel loro tenore di vita pratica a causa di questa nostra innovazione o per gli effetti di essa e si mettono in sollevazione. Non possiamo posporre evidentemente le necessità della collettività alle necessità «di trenta, quaranta, cento impiegati per ogni provincia, i quali sono presi dal terrore di cambiamenti. Sentiamo d'altra parte in tutti i Ministeri che la burocrazia ministeriale è in allarme perché crede, e se ne adonta, sia pure in buona fede, che si vengano ad abbattere completamente le impalcature del passato. In effetti, possiamo dire che la burocrazia ministeriale renderebbe molto di più se il suo collegamento con la classe politica fosse maggiore.
Attualmente un'interdipendenza, uno scambio non c'è. La burocrazia deve pensare che con l'istituzione delle Regioni questo scambio ci sarà. E quindi gli impiegati, se desiderano veramente di aiutare più che sia possibile la ricostruzione del nostro Paese, devono saper superare il loro punto di vista particolaristico, il loro conservatorismo classista.
È un conservatorismo perfettamente umano e naturale in chi ha una casa e una città e crede che ad un tratto debba cambiar casa e città. Tanti mutamenti certo si faranno, ma nessuno deve temere ingiustificatamente avventate soluzioni concrete. Sotto il punto di vista ideale, politico, del nostro futuro e del nostro avvenire, noi otterremo, attraverso questa riforma regionale, quello scambio, quella intercomunicazione fra amministratori burocrati e legislatori che oggi di fatto non c'è. Questo è lo hiatus che io ho notato nella mia, sia pur breve, esperienza parlamentare. Io mi posso anche sbagliare, s'intende, ma non mi pare che in questo caso mi sbagli.
Onorevoli colleghi, non voglio tediarvi e lascio da parte lo svolgimento di altri profili della questione. Ho voluto soltanto dirvi che quando facciamo la difesa del regionalismo, la facciamo in nome di principî ideali che non devono essere facilmente disconosciuti da coloro che ci accusano di farla solo per un principio di conservazione. Non siamo attraverso il regionalismo (come le sinistre vogliono credere) conservatori. Ma se per principio di conservazione si vuole intendere conservazione del principio del bene, se conservare vuol dire fare in modo che si progredisca con il sistema delle garanzie, e se attraverso la regione possiamo giungere a questo sistema di garanzie, noi allora sì che siamo conservatori. Noi vogliamo che attraverso la regione si raggiunga il bene in equilibrio. La democrazia è metodo di equilibrio, e noi tendiamo ad esso. Noi abbiamo fede che l'unità nella democrazia rappresenti la concordia discors e non la concordia fra coloro che la pensano alla stessa maniera. E abbiamo fiducia che attraverso questa integrazione di forze regionali discordi parzialmente, l'Italia sarà qualche cosa di più che una uniforme addizione di addendi uguali, né più avrà a verificarsi in Parlamento o altrove il solito monologo, perché l'Italia meridionale e centrale sapranno essere qualche cosa di più di quel che sono state in tanti periodi. (Applausi).
A cura di Fabrizio Calzaretti