[L'8 gennaio 1947 la seconda Sezione della seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue la discussione sul potere giudiziario.]
Il Presidente Conti [...] apre la discussione sull'autogoverno della Magistratura e cioè sugli articoli 16 e seguenti della relazione Calamandrei, 4, 6, 8, di quella Leone e 5 di quella Patricolo.
Leone Giovanni, Relatore, ricorda che sull'argomento aveva già ampiamente parlato nell'illustrare la sua relazione; ma dichiara di aver meditato sul problema, sopra tutto dopo aver ancora ricevuto segnalazioni che risalirebbero ad esponenti delle categorie interessate e specialmente dell'Associazione dei magistrati.
Rileva che lo scopo da raggiungere è quello di sganciare il potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, per evitare qualsiasi ingerenza, ma nello stesso tempo di impedire il crearsi di una casta chiusa della Magistratura. Per poter realizzare un equilibrio tra l'indipendenza della Magistratura ed il collegamento con gli altri poteri dello Stato, ritiene che occorra riprendere in esame la costituzione del Consiglio superiore della Magistratura. Tale Consiglio, al quale sarebbero affidati i poteri direttivi della vita giudiziaria (sorveglianza, giurisdizione disciplinare, provvedimenti in materia finanziaria, provvedimenti attinenti ai bandi di concorso, mutamenti di sede dei magistrati, ecc.), dovrebbe essere formato da rappresentanti dei magistrati e da elementi estranei al potere giudiziario, eletti dalle due Camere, ma non facenti parte di esse e non esercitanti l'attività professionale. La Presidenza dovrebbe essere affidata al Capo dello Stato il quale, non potendo partecipare a tutte le riunioni, dovrebbe essere affiancato dal Primo Presidente della Corte di Cassazione come Vice Presidente. Ritiene che in tal modo si assicurerebbe alla Magistratura il massimo riconoscimento di prestigio e di autorità.
Dà quindi lettura del testo da lui proposto che riassume gli articoli della sua relazione, di quella dell'onorevole Calamandrei e dell'onorevole Patricolo[1], sulla materia:
«L'alta sorveglianza sugli uffici giudiziari, la giurisdizione disciplinare, l'emanazione dei provvedimenti concernenti lo stato giuridico degli organi del potere giudiziario, le deliberazioni sulle spese nei limiti dell'assegnazione iscritta nel bilancio, i bandi dei concorsi per l'assunzione dei giudici, le promozioni, le assegnazioni ed i mutamenti di sede spettano al Consiglio superiore giudiziario.
«Il Consiglio superiore giudiziario è presieduto dal Presidente della Repubblica, ed è composto: 1°) del Primo Presidente della Corte suprema della cassazione, che esercita le funzioni di Vice Presidente; di dieci membri, di cui due supplenti, eletti da tutti gli organi del potere giudiziario, scelti in numero di cinque (4 effettivi ed un supplente) tra i Primi Presidenti di Corte d'appello o Presidenti di sezione della Cassazione, in numero di tre (due effettivi ed un supplente) tra i Consiglieri di cassazione, uno tra i consiglieri di appello ed uno tra i giudici; 2°) di dieci membri, di cui due supplenti, eletti dalla Assemblea Nazionale e scelti fuori della medesima e tra le persone non iscritte in albi professionali.
«In caso di parità di voti, prevale la decisione votata dal Presidente.
«Il Consiglio superiore dura in carica per cinque anni, ed i componenti del medesimo sono rieleggibili».
Per quanto riguarda la disciplina del Pubblico Ministero, ritiene che a questo debbano essere affidate soltanto le mansioni tipiche della sua funzione. Salvo a stabilire che tale organo debba essere assunto con le stesse garanzie di preparazione richieste per i magistrati, il Pubblico Ministero dovrebbe essere prettamente organo del potere esecutivo; presiedere cioè all'attività della polizia giudiziaria, per evitare che il suo intervento (come accade di regola attualmente) abbia luogo quanto la polizia con le indagini preliminari ha già dato un'impronta, che può essere anche errata, alla ricerca giudiziaria.
Riconosce che questo progetto presenta il pericolo che, essendo il Pubblico Ministero titolare dell'azione penale ed organo nello stesso tempo del potere esecutivo, questo potere possa intervenire in qualche caso per non far promuovere l'azione penale: donde l'impossibilità di intervento da parte della giustizia in quei casi in cui il potere esecutivo non lo ritenesse opportuno. Per ovviare a tale pericolo, o si inseriscono in altra parte della Costituzione garanzie per tutelare i cittadini dagli eventuali arbitrî degli organi di governo, o si arriva alla infrazione del principio tradizionale del carattere monopolistico dell'azione penale stabilendo che il potere giudiziario, in caso di negligenza o di mancato esercizio dell'azione penale da parte del Pubblico Ministero, può instaurare «ex officio» il processo penale stesso.
Cappi dichiara di essere personalmente contrario a che venga concesso alla Magistratura un assoluto autogoverno, pensando che la tendenza che si manifesta a rivendicare in pieno l'indipendenza del potere giudiziario dipenda dal fatto che si è ancora alla presenza di una situazione patologica del potere legislativo ed esecutivo come quella del regime fascista. A suo avviso, invece, nel costruire la nuova Costituzione si deve partire dal presupposto che in regime democratico il potere esecutivo e quello legislativo non sono tirannici né invadenti, ma rispecchiano la coscienza e la volontà del popolo e si esplicano nell'interesse del Paese. Non vi è quindi ragione di creare un potere giudiziario completamente avulso dagli altri poteri, anche perché, se le funzioni possono essere distinte, esse sono sempre interdipendenti e connesse tra loro.
Si deve inoltre considerare che, mentre il potere esecutivo e il legislativo promanano direttamente o indirettamente dal popolo, il potere giudiziario avrebbe origine diversa.
Ritiene quindi che si dovrebbe stabilire un collegamento fra i tre poteri, per evitare anche il crearsi di una casta chiusa della Magistratura, che potrebbe trovarsi, in determinati momenti, in contrasto con la volontà e la coscienza popolare. Propone, di conseguenza, che il Consiglio superiore della Magistratura sia formato da rappresentanti eletti dai magistrati e, in pari numero, da rappresentanti eletti dall'Assemblea legislativa, con la presidenza del Ministro della giustizia.
Anche per quanto riguarda il timore che un potere politico possa paralizzare il Pubblico Ministero nell'esercizio dell'azione penale, ritiene che in un regime democratico simile eventualità non possa verificarsi, in quanto vi saranno sempre le reazioni della stampa e la volontà popolare ad esigere che l'azione sia esercitata.
Bisogna infine considerare che in determinati casi, come in quello di complicazioni internazionali per la persecuzione di determinati reati politici contro stranieri, che potrebbe portare anche a conflitti armati, non si deve togliere al potere politico la possibilità di intervenire nella sfera di esercizio dell'azione penale.
Ambrosini, pur riconoscendo che non si deve tener conto delle interferenze del potere esecutivo nella Magistratura verificatesi durante il ventennio fascista, fa presente che anche prima del 1922 tali interferenze, se pur meno gravi, si verificavano; e ve ne sono famosi esempi.
Sul timore di creare una casta chiusa con il concedere l'autogoverno alla Magistratura, fa osservare che anche oggi il potere esecutivo non ha ingerenza alcuna sull'operato della giustizia, la quale applica la legge nel modo che ritiene più opportuno: di fronte alle decisioni della Corte di cassazione non vi è possibilità alcuna di sindacato, né da parte del potere esecutivo, né da parte del legislativo. A suo avviso, quindi, l'inconveniente che un corpo giudiziario possa assumere un determinato atteggiamento nell'interpretazione della legge sussisterà sempre, sia che si conceda l'autogoverno alla Magistratura, sia che si mantenga l'ordinamento attuale. Ritiene pertanto che siano da preferirsi gli eventuali inconvenienti derivanti dall'assoluta indipendenza a quelli che potrebbero sorgere dall'ipotesi opposta.
Dichiara quindi di dissentire dall'onorevole Leone, che mostra di considerare il pubblico Ministero soltanto come organo specifico del potere esecutivo. Né ritiene idoneo il rimedio proposto di dare al magistrato giudicante, in caso di inazione del Pubblico Ministero, la possibilità di esercitare l'azione penale direttamente, in quanto esso deve essere investito della risoluzione di una questione o dai privati nelle controversie civili o dal Pubblico Ministero nell'azione penale: e sarebbe grave se l'iniziativa fosse presa dallo stesso giudice, perché potrebbero determinarsi intralci alla sua assoluta libertà di decisione. Bisogna infine considerare che con ciò si verrebbe a ferire uno dei principî fondamentali di differenziazione delle singole funzioni.
Dissente d'altra parte da quanto ha detto l'onorevole Cappi sulla necessità di lasciare al potere politico la possibilità di intervenire nella sfera di esercizio dell'azione penale in casi di interesse internazionale, in quanto ritiene che in tal modo ci si porrebbe su una via pericolosa, ricordando che le dittature cominciano sempre con casi particolari per giungere agli estremi. Sarebbe inoltre estremamente difficile stabilire a priori chi debba essere il giudice dell'opportunità o della necessità di esercitare il supremo potere di impedire al Pubblico Ministero di svolgere l'azione penale.
Concludendo, pensa che si debba in linea di massima affermare il principio dell'autogoverno della Magistratura, salvo poi a riesaminare il congegno completo ed a formulare le disposizioni dei singoli articoli.
Calamandrei, Relatore, riafferma innanzi tutto la sua netta convinzione della necessità di concedere l'autogoverno alla Magistratura. Per avere una giustizia effettivamente funzionante e distaccata dalla politica, è necessario, a suo avviso, avere organi che siano in grado di applicare il diritto in modo eguale in tutti i casi, tecnicamente preparati e in condizione di giudicare con serenità e imparzialità. A questo fine occorre adottare il sistema dell'autogoverno; lasciare cioè ai giudici la facoltà di nominarsi, promuoversi e governarsi.
Riconosce che un tale sistema può presentare inconvenienti vari, come quello di fare apparire la Magistratura come avulsa dalla vita dello Stato; ma ritiene che, fra tutte le soluzioni, questa sia pur sempre da preferirsi.
Sull'articolo proposto dall'onorevole Leone, osserva innanzi tutto che, quando si parla del Consiglio Superiore della Magistratura, non bisogna dimenticare di dire che, oltre ad esso, esistono i Consigli giudiziari regionali.
Leone Giovanni, Relatore, desidera chiarire subito che nella sua proposta si ha un'omissione puramente formale, essendo implicita l'ammissione della sopravvivenza dei Consigli regionali. Ritiene, tuttavia, che sarà necessario stabilire successivamente quali compiti assegnati al Consiglio Superiore debbano essere attribuiti anche ai Consigli regionali.
Calamandrei, Relatore, fa presente che il punto veramente grave e delicato è quello riguardante la Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Infatti, affidare tale presidenza al Capo dello Stato, come è stato fatto in Francia, fa sorgere seri dubbi rispetto alla responsabilità politica da conservare o meno al Ministro della giustizia per l'attività della Magistratura. Con la proposta Leone, il Ministro Guardasigilli risponderebbe davanti agli organi legislativi dell'operato della giustizia ed eventualmente anche degli atti deliberati dal Consiglio Superiore della Magistratura; quindi si sottoporrebbero a controllo anche provvedimenti nei quali sarebbe coinvolto il Presidente della Repubblica e di conseguenza si verrebbe meno al principio per cui questi deve essere organo superiore a responsabilità di carattere politico.
L'affidare invece la presidenza al Ministro della giustizia, come ha proposto l'onorevole Cappi, comporterebbe l'annullamento dell'indipendenza della Magistratura, in quanto, dipendendo questa dal Consiglio Superiore composto per metà di uomini politici e per metà di magistrati, la maggioranza sarebbe determinata dal voto del Ministro Guardasigilli, il quale in tal modo praticamente disporrebbe della giustizia. Se ciò potrebbe essere comprensibile in uno Stato nel quale vigesse il principio per cui i giudici sono i formulatori diretti di una politica che diventa diritto quando si trasforma in sentenza, non è concepibile in un Paese, come il nostro, nel quale i giudici devono essere indipendenti dalla politica e le leggi sono scritte.
Rileva inoltre che, sempre secondo la proposta Leone, la metà dei componenti il Consiglio Superiore dovrebbe essere costituita da giuristi non esercitanti la professione di avvocato. Ora, costoro, che pur potrebbero essere dei professori universitari di storia del diritto, non porterebbero quel contributo di esperienza che è necessario per la decisione di questioni che hanno costante attinenza con la pratica e la vita della società.
Passando ad esaminare la questione del Pubblico Ministero, data l'ambiguità di tale organo, pensa che ad esso dovrebbe essere riconosciuta la posizione di magistrato e concessa l'inamovibilità e che gli dovrebbe essere imposto l'obbligo di procedere ogni qual volta venga a conoscenza di fatti configuranti un reato. Ritiene che la funzione del Pubblico Ministero non sia amministrativa, bensì giurisdizionale; la distinzione fra quest'organo e il giudice è sorta da una ragione di ordine psicologico, dal fatto, cioè, che non è possibile concentrare in una sola persona il momento del porre il problema e il momento del risolverlo; da tale incompatibilità delle due funzioni sono sorti i due organi distinti.
Ricorda che nel sistema anglosassone il Pubblico Ministero ha gli stessi poteri dell'imputato ed ha il compito di fornire le prove dell'accusa: il giudice deve essere assolutamente imparziale tra i due antagonisti, applicando il detto latino «actore non probante, reus absolvitur». Non ritiene che in Italia si possa giungere a tal punto, ma pensa che non sia possibile mantenere il Pubblico Ministero nella sua situazione attuale, se si vogliono evitare i gravi inconvenienti verificatisi sotto il regime fascista e che potrebbero rinnovarsi sotto qualsiasi governo: che si verifichi cioè che gli stessi fatti siano considerati reati per appartenenti ad una determinata tendenza politica e per altri no.
Targetti rileva che lo scopo che si vuole raggiungere è di assicurare l'indipendenza del giudice, non tanto nell'interesse del giudice stesso quanto in quello superiore della collettività. A suo avviso, seguendo l'esempio di tutte le altre Costituzioni che si limitano ad affermare il principio della indipendenza della giustizia, senza dettare norme relative all'ordinamento giudiziario, dopo aver affermato tale indipendenza si dovrebbero fissare soltanto norme relative al principio stesso.
Fa osservare che l'indipendenza del giudice dipende in gran parte dall'individuo singolo; se ciò non fosse vero, la Magistratura non avrebbe al suo attivo i bellissimi esempi di resistenza alle infinite pressioni subite durante il regime fascista. Ritiene però che si debbano creare condizioni tali da facilitare questa indipendenza. Migliorare la situazione economica dei magistrati rappresenterebbe un gran passo avanti anche per il loro prestigio. Inoltre il magistrato non dovrebbe aver nulla da temere o da sperare, nella sua carriera, dal potere esecutivo. Siccome l'assegnazione di una sede o un trasferimento hanno grande importanza nella sua vita, occorre sottrarre questo provvedimento all'arbitrio governativo.
A suo avviso, la costituzione del Consiglio superiore, con tutti i poteri previsti, deve servire a concedere le massime garanzie alla Magistratura, senza però porla in grado di opporsi eventualmente agli altri poteri. Questo potrebbe accadere se la maggioranza dei suoi componenti appartenesse alla Magistratura. Ritiene che, affidando la vicepresidenza al Ministro della giustizia, non si venga a togliere ogni libertà alla Magistratura in quanto, avendosi nel Consiglio superiore una forte rappresentanza di magistrati, il Ministro avrà una libertà d'azione molto vincolata, a parte la considerazione che in un regime democratico vi è il controllo del Parlamento e della stampa, che provvedono a limitarla più di qualsiasi disposizione di legge. Ciò posto, dichiara di riservarsi di presentare una proposta su questo punto.
Dichiara quindi di non essere favorevole a concedere un assoluto autogoverno alla Magistratura, facendo osservare che, se è vero che con esso i magistrati non dipenderebbero più dal Ministro della giustizia, si deve tener presente che essi diventerebbero soggetti ad altre pressioni in seno alla Magistratura stessa.
Conclude dichiarando di ritenere che, da una parte, si debba prevedere il massimo delle cautele per difendere il giudice da ingerenze governative e dall'altra limitare l'autogoverno.
Per quanto riguarda il pubblico ministero, prega i colleghi di voler considerare l'opportunità di non proporsi, in questa sede, il problema tanto delicato e complesso e di rimandarne la soluzione integrale alla legge sull'ordinamento giudiziario.
Calamandrei, Relatore, fa osservare che vi è la questione dell'inamovibilità, che è necessario stabilire se debba essere o meno riconosciuta.
Targetti osserva, in proposito, che la Costituzione francese stabilisce l'inamovibilità soltanto per i magistrati giudicanti. Ritiene che la situazione che è stata creata al Pubblico Ministero dal decreto Togliatti del maggio 1946, che gli ha esteso l'inamovibilità, sia pure in forma meno piena che ai giudici, non sia facilmente migliorabile senza creare inconvenienti.
Pur ritenendo che sarebbe pericoloso stabilire il principio che il potere esecutivo possa sospendere l'azione penale, osserva che in pratica può presentarsene la necessità. In certi casi di movimenti popolari, ritardare o sospendere l'azione penale può essere l'unico modo di ristabilire la legalità.
Di Giovanni si associa completamente a quanto ha dichiarato l'onorevole Targetti.
Bozzi ritiene che, oltre all'indipendenza della Magistratura dal potere esecutivo, ci si debba occupare e preoccupare dell'effettiva indipendenza del Magistrato — comprendendo in tale termine anche il Pubblico Ministero — in quanto questa è forse più importante della prima. A suo avviso, è necessario congegnare un sistema per cui il singolo si senta veramente dipendente solo dalla legge; fare, cioè, in modo che tutto ciò che attiene all'organizzazione della Magistratura (ammissione, avanzamenti, trasferimenti, trattamento economico) sia regolato dagli stessi magistrati, che dovrebbero esser posti tutti su uno stesso piano. Non dovrebbero esistere né superiori né inferiori, in quanto tutti esplicano una stessa funzione e dipendono nello stesso modo dalla legge, che va applicata secondo i dettami della coscienza e intelligenza. Per tradurre in atto tali principî, non è, a suo avviso, sufficiente la creazione del Consiglio superiore della Magistratura, che assicura quella che può definirsi l'indipendenza esterna, ma è necessario concedere ai magistrati il potere di autogovernarsi effettivamente.
Dichiara quindi di dissentire dalla proposta dell'onorevole Leone sulla costituzione del Consiglio superiore coi primi Presidenti, Procuratori generali o Presidenti di sezioni: ammesso il principio dell'eguaglianza di tutti i giudici e del valore della carriera come esplicazione di funzioni diverse e non come gerarchia nel senso tradizionale della parola, tutti i Consigli della Magistratura dovrebbero essere costituiti in base ad elezione di Magistrati di qualsiasi grado.
Accede invece all'idea che la composizione del Consiglio Superiore sia paritetica, per metà di magistrati eletti dai Consigli regionali fra le categorie che dovranno essere indicate dalla legge sull'ordinamento giudiziario; e per l'altra metà di membri eletti dal Parlamento al di fuori della Magistratura e degli esercenti la professione forense. La prima cautela è necessaria per impedire che il Parlamento possa esercitare la funzione di controllo nell'interno dello stesso corpo giudiziario, mentre le ragioni che determinano la seconda sono ovvie. Non crede, come ha detto l'onorevole Calamandrei, che non esistano giuristi non esercenti la professione che abbiano aderenza con la realtà; tuttavia ritiene che si potrebbe ovviare all'eventuale inconveniente con una norma che stabilisse che la designazione a membro del Consiglio superiore della Magistratura fa automaticamente decadere dall'appartenenza all'albo professionale.
Sul problema della presidenza del Consiglio Superiore, concordando con quanto ha detto l'onorevole Calamandrei sui pericoli insiti nel concederla al Ministro della giustizia, ritiene che sarebbe preferibile affidarla al Presidente della Repubblica. Alle obiezioni mosse sulla possibilità che la figura di questo sia coinvolta in questioni sollevate dal Parlamento al Ministro della giustizia, risponde che anche oggi il Ministro può essere chiamato a rispondere davanti alla Camera, ma solo per gli aspetti amministrativi e non per ciò che attiene al funzionamento della giustizia nel senso sostanziale del termine, in quanto, se i magistrati non hanno reso bene giustizia, il Ministro non ha titolo per risponderne. Bisogna inoltre considerare il fatto che, con la partecipazione al Consiglio superiore di membri eletti dalle Camere, si trasferisce in sede preventiva il controllo politico che il Parlamento di regola esercita in sede successiva. Quindi, ove le Camere si accorgessero che il Consiglio superiore non funziona come dovrebbe, avrebbero il potere di sostituire quei membri che non avessero adempiuto soddisfacentemente al loro compito.
Dichiara infine di considerare il Pubblico Ministero come un magistrato e non come un organo rigidamente dipendente dal potere esecutivo. Considerando il Pubblico Ministero come magistrato, munito di tutte le garanzie, pensa che sia necessaria la sua partecipazione sia al Consiglio Superiore che a quelli regionali.
Laconi fa presente che molti magistrati si sono dichiarati contrari a che venga concesso l'autogoverno assoluto alla Magistratura, ritenendo appunto che la questione essenziale sia quella della vera indipendenza dei singoli giudici. Personalmente, non ritiene che si possa rivendicare l'assoluta autonomia del potere giudiziario per impedire ingerenze del potere esecutivo o pericoli di dittature. Se dittatura dovesse esservi, la Costituzione sarebbe senz'altro violata o addirittura annullata. Occorre quindi esaminare il problema avendo presente la realtà di uno Stato democratico, che sta costruendo la sua Costituzione per tradurla poi in realtà viva e concreta, con l'esigenza di dare al giudice nella sua alta funzione la completa indipendenza.
Osserva che con il concedere la completa autonomia al potere giudiziario molti ritengono di realizzare il mezzo per assicurare al giudice l'indipendenza; ma ciò, a suo avviso, è errato, in quanto l'autogoverno garantisce la Magistratura dalle influenze di altri poteri — influenze che del resto in un regime democratico non avrebbero modo di esercitarsi — ma non presenta alcuna garanzia per quell'indipendenza all'interno del corpo giudiziario, che è certamente la più importante.
Né, d'altra parte, ritiene realizzabile la possibilità di creare una eguaglianza fra tutti i magistrati, come ha proposto l'onorevole Bozzi: sebbene il principio sia pieno di attrattive, in realtà non sarebbe possibile sopprimere improvvisamente qualsiasi gerarchia tra i giudici, in quanto ciò porterebbe ad un capovolgimento troppo radicale e forse inadeguato al grado di progresso sociale e politico realizzato fino ad ora nel Paese.
A suo avviso, l'appunto sostanziale da fare ai difensori dell'assoluta autonomia della Magistratura è quello di riferirsi in sostanza ad un concetto astratto, in quanto non si può affermare, dal punto di vista politico, che i giudici, anche se indipendenti dalle influenze di altri poteri, siano effettivamente indipendenti nel senso astratto ed assoluto. Essi sono degli uomini, come tutti gli altri, che vivono e provengono da una particolare classe sociale, con un cospicuo patrimonio culturale e legati da mille vincoli alla società: sono quindi uomini che hanno una posizione conservatrice, che potrebbe tradursi in una attitudine politica, quando fosse loro concessa un'assoluta autonomia nell'applicazione della legge. La quale legge è accettata come tale dall'opinione pubblica, non in quanto separata ed avulsa dal processo politico che l'ha formata, ma in quanto aderente alla mutevole realtà politica. Ora, a suo avviso, se si attribuisse ai magistrati la completa autonomia, essi sarebbero del tutto separati dal resto della vita nazionale e si avrebbe nella compagine della democrazia un ordine avulso dalla vita del Paese, che potrebbe nuocere al suo stesso sviluppo.
Ritiene quindi che si debba lasciare al potere esecutivo e legislativo la possibilità, attraverso determinate cautele e garanzie, di controllare e dirigere, in senso generale, la vita dell'ordine giudiziario, tramite il Ministero della giustizia, che deve sopravvivere, oltre che come organo supremo del Pubblico Ministero, con questa potestà di controllo.
Per quanto riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura, ritiene che questo dovrebbe essere composto pariteticamente di membri eletti dalle due Camere — ma estranei a queste e fuori dell'ordine forense — e di magistrati scelti dai diversi gradi; mentre per i Consigli regionali, prima che ne sia decisa la composizione, se ne dovrebbero stabilire i poteri e le funzioni, in quanto, ove si decidesse di concedere loro l'autonomia, si porrebbe inevitabilmente l'esigenza di non comporli esclusivamente di magistrati.
Dichiara infine di considerare il Pubblico Ministero come un magistrato non unicamente dipendente dal potere esecutivo, come puro e semplice rappresentante dello Stato, in quanto ritiene che il controllo del potere esecutivo debba esistere su tutto l'ordinamento giudiziario ed in particolar modo sul Pubblico Ministero. Pensa che questo non possa essere posto sullo stesso piano dell'imputato, com'è nell'ordinamento anglosassone, in quanto interprete della collettività; e ritiene che a lui spetti la cautela dell'inamovibilità affinché ne sia garantita l'indipendenza politica.
Uberti è contrario all'autogoverno della Magistratura, in quanto con esso non si raggiunge la vera indipendenza, ma soltanto la separazione dei poteri; mentre, come già è stato rilevato, il problema essenziale è quello di realizzare l'interna indipendenza del giudice.
Sulla questione del Pubblico Ministero vedrebbe volentieri attuato il sistema seguito dall'ordinamento anglosassone, per mezzo del quale si toglierebbe questa ibrida figura dal procedimento penale.
Dissente invece dall'onorevole Laconi sul controllo del potere esecutivo esplicato su tutto il potere giudiziario, ritenendo che si debba realizzare la massima indipendenza di un potere dall'altro. Addivenendo alla rappresentanza paritetica in seno al Consiglio Superiore, si avrebbe il risultato che i magistrati, con la loro particolare tecnica e capacità, influirebbero maggiormente nelle decisioni che non il Ministro Guardasigilli, il quale, pur rimanendo il supremo moderatore, non graverebbe più del dovuto e non avrebbe nelle sue mani il controllo di tutto ciò che attiene ai trasferimenti, le nomine, le promozioni e le punizioni.
Leone Giovanni, Relatore, rispondendo a talune osservazioni dell'onorevole Laconi, rileva che quando si parla di autogoverno o di indipendenza della Magistratura non si vuole intendere quella che è l'indipendenza della funzione del giudice, in quanto essa è già acquisita ed è indubbio che il giudice è sovrano nell'amministrare la giustizia, senza possibilità di intervento da parte di organi esterni; bensì l'indipendenza del giudice da realizzare mediante un complesso congegno di garanzie.
A suo avviso, si tratta cioè di vedere in concreto quali siano i limiti entro i quali può essere esercitato l'autogoverno della Magistratura. Dato che già esiste, ed è stata riconosciuta anche nella Costituzione, l'inamovibilità del giudice e che l'ammissione alla carriera giudiziaria è fatta attraverso concorsi e le promozioni avvengono anche per concorso o per anzianità, rimane soltanto la materia disciplinare e la questione dell'autogoverno finanziario. Per la prima è già stato fatto un passo avanti con la legge Togliatti del maggio 1946: mentre per la seconda, a suo avviso, con la creazione del Consiglio Superiore della Magistratura, composto per metà di magistrati e per metà di estranei alla Magistratura stessa, si può senz'altro riconoscere a tale Consiglio la facoltà di amministrare le somme stanziate appositamente dallo Stato. Si verrebbe così a sganciare la carriera dei magistrati, in quella parte in cui dipende tuttora dal potere esecutivo.
Per quanto riguarda le ammissioni e le nomine, osserva che il potere esecutivo ha ingerenza soltanto per le alte cariche: anche in questo campo si può tendere a creare una disciplina, che renda possibile l'indipendenza della Magistratura, nel senso che nessuna nomina debba essere soggetta a forze estranee, ma abbia luogo attraverso il Consiglio Superiore. Soltanto il Presidente della Cassazione dovrebbe essere nominato dal Presidente della Repubblica.
Osserva, per quanto riguarda la disciplina, che i magistrati, nell'esercizio del potere giurisdizionale, devono essere assolutamente sovrani e la competenza del Ministro si deve limitare alla nomina delle Commissioni; mentre per i trasferimenti la responsabilità verrà assunta dal Consiglio stesso e sarà quindi collegiale. In tal modo si verrà molto a ridurre la responsabilità politica, in quanto le decisioni verrebbero prese da magistrati e da elementi nominati dalle Camere, per i quali potrebbe anche essere stabilito un limite nella durata in carica.
Concludendo, ritiene che con la creazione del Consiglio Superiore composto pariteticamente, si sia trovato effettivamente il sistema per rendere indipendente il giudice. La Presidenza di tale Consiglio rappresenta, a suo avviso, un aspetto di dettaglio; ma ritiene che affidarla al Capo dello Stato rappresenterebbe un riconoscimento per la Magistratura e non diminuirebbe certamente l'autorità di quello, in quanto la Presidenza sarebbe assunta da lui soltanto nei casi solenni, mentre di regola il Consiglio potrebbe essere presieduto dal Presidente della Cassazione. Per i Consigli regionali nota che già esiste una particolare disciplina: a suo avviso però, si dovrebbe evitare di stabilire dei collegi disciplinari aventi larga autonomia e a tal fine sarebbe necessario fissarne i poteri, specie per la parte riguardante il loro decentramento, in quanto, ad esempio, per le promozioni è bene che le decisioni vengano dall'alto e siano sottratte alle influenze locali.
Il Presidente Conti comunica che l'onorevole Bozzi ha presentato la seguente proposta:
«Il Consiglio Superiore della Magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica ed è composto di 14 membri effettivi, dei quali 7 eletti dai Consigli giudiziari nazionali fra le categorie di magistrati indicati dalla legge sull'ordinamento giudiziario e 7 dall'Assemblea nazionale, fuori dai propri membri e dagli albi professionali forensi.
«Il Consiglio Superiore della Magistratura garantisce l'indipendenza dei magistrati; provvede, secondo la legge sull'ordinamento giudiziario, all'ammissione in carriera, alle promozioni e ai trasferimenti, nonché si pronuncia definitivamente nei procedimenti disciplinari.
«I Consigli giudiziari regionali, costituti di magistrati a norma della legge sull'ordinamento giudiziario, esprimono il loro parere per quanto attiene alle promozioni, ai trasferimenti e ai fatti disciplinari».
Comunica inoltre che gli onorevoli Cappi e Uberti hanno proposto la seguente formulazione:
«La nomina, per pubblico concorso, dei magistrati, le promozioni, i trasferimenti ed in genere il governo della Magistratura, sono affidati al Consiglio Superiore della Magistratura composto di membri nominati per metà dai magistrati stessi, per metà dall'Assemblea nazionale, presieduto dal Ministro della giustizia».
[Per le successive sedute, il resoconto della discussione del tema in esame viene riportato a commento degli articoli cui si riferisce.]
[1] Il testo del resoconto sommario riporta erroneamente: «di quella dell'onorevole Calamandrei e dell'onorevole Leone».
A cura di Fabrizio Calzaretti