[Il 14 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».]
Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Poiché stamane l'Assemblea ha deliberato la chiusura della discussione generale, darò ora facoltà di parlare ai relatori sul Titolo IV della parte seconda del progetto di Costituzione.
L'onorevole Leone Giovanni ha facoltà di parlare.
Leone Giovanni. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, i tre temi centrali, sui quali è vertita l'appassionata, lunga, interessante ed accesa discussione, possono così identificarsi: 1°) indipendenza del giudice; 2°) indipendenza della Magistratura o, meglio, del potere giudiziario; 3°) unità della giurisdizione.
È bene avvertire fin da questo momento che i tre temi sono strettamente collegati; perché un giudice non può essere veramente indipendente se non è inquadrato in un organismo, in un ordine che, per essere a sua volta autogovernato, cioè indipendente da ogni altro potere, possa garantire l'indipendenza dei suoi membri; perché un ordine giudiziario in tanto può assicurare ai suoi membri la massima indipendenza in quanto è in grado di realizzare l'indipendenza della sua organizzazione; perché, infine, tutte le fratture nell'unità della giurisdizione — la quale si concreta nel principio che l'amministrazione della giustizia è affidata solo a giudici appartenenti ad un ordine indipendente, a loro volta garantiti da un complesso di condizioni che ne assicurino la libertà di azione costituiscono un pericolo per l'indipendenza del giudice.
Questo collegamento o questa interdipendenza fra i tre temi non occorrerebbe che venisse qui segnalata, se non fosse intervenuta un'autorevole parola in senso diverso. Alludo all'intervento dell'onorevole Gullo; perché l'onorevole Gullo pose al centro del suo discorso un'audace, singolare distinzione fra indipendenza del potere giudiziario e indipendenza dell'organo: quella riaffermava, questa negava.
Ora, senza la pretesa di esaurire compiutamente il delicato problema, a me pare profondamente errata tale concezione, non potendosi aspirare a fondare l'indipendenza di un ordine o meglio di un potere senza accettare l'indefettibile base della indipendenza dei singoli organi di quel potere. In verità, l'errore non sta tanto nell'affermazione che qui si critica quanto in un equivoco che in tema di indipendenza della Magistratura si è venuto in questa discussione perpetuando e che urge chiarire, perché ha raggiunto proprio nel discorso Gullo la più alta, esplicita ed aperta manifestazione. Quando infatti si dice che l'espressione «il magistrato deve applicare la legge» è insidiosa e pericolosa (e si fa ricorso a recenti casi giurisprudenziali, sui quali la brevità del dibattito non mi consente di indugiare); quando si afferma che i giudici non si devono chiudere in una interpretazione letterale, ma devono sentire la somma di aspirazioni e di speranze che vengono su nei cieli della democrazia; quando si dice che i magistrati non sono riusciti a percepire il nuovo clima e che infine l'ordine giudiziario non può essere formato da soli magistrati, che porterebbero il senso della casta, mentre gli estranei portano la visione loro dei problemi giudiziari, indipendentemente dalla veste di magistrati, i quali vedono in una maniera angusta; e tutto questo si afferma per sostenere quella composizione mista del Consiglio Superiore, che anche noi vogliamo (ma per altri motivi differenti, come vedremo); si denuncia in maniera chiara l'equivoco della impostazione; giacché la partecipazione di elementi estranei al Consiglio Superiore, massimo organo di governo della Magistratura, non vale, né può valere, né dovrà mai valere a correggere la pretesa angusta visione del magistrato, ma mira solo ad impedire che l'organizzazione della carriera del magistrato possa diventare un cerchio chiuso, trasformandosi in una casta. Poiché il magistrato ora, come domani nella nuova Costituzione, è svincolato da ogni legame gerarchico nell'esercizio della funzione giurisdizionale, in iure dicendo, cioè nella interpretazione e nell'applicazione della legge; gli elementi estranei non potranno, e non dovranno, influire sul libero esercizio di tale altissima, sovrana, libera potestà che ha due sole luminose direttrici cui obbedire: la legge che è fuori del giudice, la coscienza che deve essere la grande ispiratrice interiore del giudice; diremo, in termini kantiani, la legge dello Stato fuori di sé, la legge morale dentro di sé.
Occorre ancora una volta ribadire l'affermazione che una cosa è la disciplina di carriera del magistrato, altra cosa è l'esercizio della funzione giurisdizionale: quella può subire e ha subìto alterne vicende; questa non può subire — e da molti anni, con la stessa fondazione dello Stato moderno, non ha subìto — delle vicende. La carriera del magistrato può essere più o meno influenzata da altre forze e da altri poteri; la funzione giurisdizionale si ribella a ogni vincolo e non conosce altra soggezione che alla legge.
Sarebbe veramente singolare che quella funzione giurisdizionale, la quale, quando emanava dal Re, era indipendente e sovrana, ora, che è espressione dello Stato repubblicano, non fosse più tale!
Ciò posto passiamo all'esame dei tre temi fondamentali del presente dibattito:
I. Indipendenza del giudice. — L'indipendenza del giudice — cioè il complesso di condizioni che assicurano al giudice quel distacco dai vincoli esterni che permetta libertà ed indipendenza nell'esercizio della funzione giurisdizionale: di una sola servitù ribadendo, rinforzando i vincoli, la servitù alla legge ed alla propria coscienza — non si definisce, né si compendia. Si articola, si snoda, cioè, come abbiamo osservato, in un complesso di garanzie, che non sono destinate a porre il giudice in una particolare situazione di privilegio, bensì a distaccarlo, se non da tutti i possibili vincoli che la vita nella sua varietà può fare delineare, per lo meno da quelli che assumono maggior rilevanza. È evidente che se noi potessimo costruire un giudice che fosse staccato da ogni risentimento, da ogni aspirazione, da ogni passione, che possa turbarne la serenità e l'indipendenza — un giudice senza necessità economiche, senza aspirazioni politiche, di onorificenze, di carriera — noi avremmo posto le basi sicure per la massima indipendenza del giudice. Ma se questo non è possibile, credo che non possiamo rinunciare ad approssimarci alla creazione di un destino del magistrato che sia distaccato al massimo da vincoli e interessi che ne possano turbare l'imparzialità o la serenità. A questo nobile scopo sono dirette le aspirazioni della Magistratura; a questo medesimo scopo mira anche il nostro progetto di Costituzione.
Quali sono gli strumenti che noi abbiamo inventato; anzi abbiamo perfezionato? Eccoli:
1°) Inamovibilità. È veramente singolare che questa parola — che risale ai tempi della venalità delle cariche giudiziarie in Francia; e serviva ad attestare i diritti di proprietà acquistati dal compratore, concernenti pertanto il grado, la sede e perfino la facoltà di trasmissione ereditaria della carica di magistrato — sia entrata nella storia, dura e gloriosa, della Magistratura come espressione della massima garanzia di indipendenza del giudice.
Naturalmente, come purtroppo recenti esperimenti insegnano, il termine è elastico; sicché l'ordinamento giudiziario fascista (regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12) all'articolo 219 prevedeva il trasferimento dei magistrati inamovibili nel caso in cui «per qualsiasi causa, anche indipendente da loro colpa, non possono nella sede che occupano amministrare la giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell'ordine giudiziario».
A questo proposito va segnalato il deciso ripristino, attuato con regio decreto-legge 31 maggio 1946, n. 511, dell'integrale inamovibilità del magistrato. La Costituzione, nel riaffermare solennemente l'inamovibilità del giudice, non può, per il divieto di passare a formulazioni dettagliate, che limitarsi all'affermazione di principio che l'inamovibilità non può essere toccata se non nei casi e con le garanzie previste dalla legge sull'ordinamento giudiziario. Ma è evidente che la nuova legge sull'ordinamento giudiziario dovrà assicurare a questa garanzia dell'inamovibilità il massimo rispetto, trattandosi della fondamentale, elementare, indefettibile condizione per l'indipendenza del giudice. Questo non è soltanto un augurio; è una certezza, anzi è qualche cosa di più che, nella qualità e con la responsabilità di Relatore della Commissione, ho il dovere di sottolineare: è una direttiva che la Carta costituzionale intende segnalare al futuro legislatore dell'ordinamento giudiziario italiano.
2°) Immunità. Di questa garanzia il progetto non si occupa. Essa, in realtà, era formulata nell'articolo 13 del progetto Patricolo; ma, poiché, per sopraggiunti impegni dell'onorevole Patricolo, questo progetto non fu dal Relatore discusso, il problema non costituì oggetto di preciso esame e torna, oggi, attraverso alcuni emendamenti, in discussione. A me pare che il principio, con taluni limiti e talune garanzie, dell'immunità del giudice debba essere introdotto nel nostro sistema costituzionale, essendo diretto ad assicurare la libertà del giudice nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali.
3°) Divieto di iscrizione a partiti politici. Il problema non concerne, come è stato già avvertito, esclusivamente i magistrati. Altre categorie, investite di particolari funzioni o poteri, si presentano alla nostra attenzione per quanto concerne questo problema, che, anzi, si allarga per abbracciare lo stesso problema dell'elettorato passivo. Pertanto, il problema va più opportunamente rinviato ad una prossima sede, nella quale ci occuperemo dei casi di divieto di iscrizione a partiti politici e di esclusione dall'elettorato passivo per un complesso di categorie. Qui non posso che ribadire (a titolo esclusivamente personale, avendo la Commissione rinviato ogni decisione a quella sede alla quale accennavo testé) la mia adesione al divieto d'iscrizione ai partiti politici. Tale divieto — è opportuno che io ribadisca la vera essenza di questa posizione — non mira tanto a tener lontano i magistrati dalle pericolose suggestioni della politica attiva, dalle quali i magistrati di regola saprebbero guardarsi; quanto a salvaguardare nell'opinione pubblica il prestigio e l'imparzialità dei magistrati, specie nei piccoli centri, nei quali la partecipazione alle manifestazioni attive della vita dei partiti, con tutti gli inevitabili eccessi, potrebbe ingenerare la sia pur falsa opinione di una certa, per lo meno, maggiore sensibilità del magistrato alle direttive del suo partito o ai dirigenti di esso.
Quanto al divieto di partecipazione alle associazioni segrete, esso discende da una norma, che abbiamo già approvata, sul divieto di costituzione di associazioni segrete. Sicché, in linea di principio, a me pare che sia esatto l'emendamento proposto da alcuni, che cioè si possa cancellare in questa sede il divieto per il magistrato di appartenere ad associazioni segrete, in quanto deriva da un più ampio divieto, quello della costituzione di società segrete, che importa anche l'inammissibilità dell'iscrizione, ove queste associazioni venissero costituite in dispregio alla legge.
4°) Maggiore riduzione possibile delle preoccupazioni ed ansie di carriera. L'esperienza e la conoscenza della più elementare psicologia ci dicono quanto influisca il complesso delle preoccupazioni di carriera a rendere spesso il giudice agitato, perciò non sereno e talvolta — che è peggio — ad indurlo ad assumere atteggiamenti di non assoluta imparzialità. Giuseppe Zanardelli nel suo noto discorso, che più volte è stato qui opportunamente ricordato, esattamente individuava in questo uno dei massimi pericoli dell'indipendenza del giudice quando scriveva: «Ciò che maggiormente può compromettere l'indipendenza del magistrato è la febbre delle promozioni, la smania di varcare rapidamente numerosi gradi di carriera con la conseguente necessità di ingraziarsi il potere da cui le promozioni stesse dipendono per conseguire, attraverso sollecitazioni e condiscendenze, le ambite promozioni». E indicava due notevoli rimedi a tale pericolo: diminuire la molteplicità e la distanza fra i vari uffici; attribuire ai collegi giudiziari la nomina del presidente.
Orbene, questi due notevoli accorgimenti non potevano costituire oggetto di disciplina costituzionale. La legge e l'ordinamento giudiziario li prenderà in considerazione; e in particolare prenderà in considerazione quel problema della elettività dei capi degli organi giudiziari che, per quanto pericoloso, è stato impostato in larga misura proprio dai magistrati. Ma un principio non doveva restare fuori della Costituzione; un principio, che, affondando le sue radici nella tradizionale essenza della potestà giurisdizionale, postulava una espressa, solenne formulazione quella contenuta nel terzo comma dell'articolo 89: «I magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non di grado». Tale affermazione sta a significare che l'ordine giudiziario si articola non in base ad una gerarchia di gradi, che è incompatibile con la pienezza dell'essenza giurisdizionale, ma in base ad una distinzione di attribuzioni, cioè di competenze.
Da tale principio possono derivarsi alcune applicazioni pratiche notevoli, e cioè:
a) innanzitutto, si realizzerà quell'auspicato sganciamento della carriera dei magistrati dalla equiparazione ai gradi dell'amministrazione statale, che costituisce un serio ostacolo per una urgente impostazione del problema della retribuzione dei magistrati;
b) in secondo luogo, si potrà ritenere, come esattamente avvertiva l'onorevole Calamandrei, che lo stipendio del magistrato ed, in generale, la stessa carriera dal magistrato, come progettava Zanardelli, non debba essere in relazione al grado, bensì ad altri elementi, tra i quali l'anzianità.
Ma lo strumento più idoneo a svincolare la Magistratura dalle preoccupazioni della carriera sta nell'autogoverno, cioè nella indipendenza del potere giudiziario, del quale mi occuperò in seguito.
Devo dire fin da ora, però, che le accese e ripetute aspirazioni dei magistrati ad una indipendenza del loro ordine non mirano, come ad un superficiale osservatore potrà apparire, ad assicurare loro un privilegio, bensì a svincolarne la carriera dal potere esecutivo, realizzando così al massimo le condizioni per l'indipendenza della loro funzione.
5°) Incompatibilità della funzione di magistrato con onorificenze e incarichi pubblici non strettamente collegati alle attribuzioni di magistrato. Alcuni emendamenti, che saranno presi in esame nella sede adatta, mirano a distaccare il magistrato da quel complesso di qualifiche — le quali vanno dalle onorificenze, che raramente si conferiscono mota proprio e non su iniziativa di personalità politiche, all'assunzione di cariche pubbliche, che, per la retribuzione che vi è connessa o per la deleteria conseguenza di distogliere i magistrati dalla naturale funzione di giudice o, infine, per la maggiore possibilità di agevolare la loro carriera — costituenti un non indifferente ostacolo alla realizzazione della loro indipendenza.
6°) Indipendenza economica. Su questo punto la Magistratura, come è stato esattamente osservato, attende, se non una decisione concreta (che non può essere ospitata nella Costituzione), un'affermazione chiara e solenne, alla quale l'Assemblea Costituente non può rifiutarsi.
Nessuno potrà dimenticare che il problema di tutte le classi impiegatizie è storia di dolori, di sacrifici, di amarezze, spesso silenziosi, spesso inavvertiti. Ma nessuno potrà negare che il problema della retribuzione del magistrato, pur non disconoscendo il più ampio problema della retribuzione di tutti gli impiegati, ha un aspetto particolare, che è collegato alla funzione preminente che la Magistratura assolve.
Se per gli impiegati in generale non è da escludere il ricorso ad onesti accorgimenti, atti a lenire il dramma della vita, per i magistrati non vi è risorsa, che non intacchi non solo il prestigio, ma (che è peggio) la stessa indipendenza della sua funzione. Basti pensare che la stessa corruzione, che per altri impiegati può presentarsi nella forma, pur delittuosa ma non allarmante, della corruzione impropria, per il magistrato è sempre una corruzione propria. Se il magistrato è costretto a piegare e ad amministrare la giustizia in maniera difforme dalla legge, siamo di fronte ad una corruzione propria (atti contrari ai doveri di ufficio).
A questo proposito vale la pena di ricordare quel pensiero di uno scrittore francese ( Jules Favre), che fu rievocato in questa stessa sede da Zanardelli nel ricordato discorso:
«La povertà della Magistratura è crimine sociale. La dignità stoica (come si ripetono i tempi! qualcuno ne accennava in quest'Aula) con la quale un magistrato accetta le sue strettezze è argomento di legittima ammirazione, ma è imprudente e crudele farne una virtù professionale di tutti».
Occorre pertanto che si levi da questa Assemblea un invito caloroso al Governo — ed una affermazione precisa nella Carta costituzionale — a considerare il problema della retribuzione ai magistrati nella sua vera luce, non solo di profonda umanità, ma di urgente esigenza di conservazione e di difesa della indipendenza dell'amministrazione della giustizia.
Rimanga, perciò, nella Costituzione la consacrazione del principio che ai magistrati spetta una particolare retribuzione!
È al tema dell'indipendenza del giudice, onorevoli colleghi, che preferisco collegare sia pure con qualche innegabile ampliamento del campo di indagine, il problema della giuria e della elettività di alcune Magistrature.
Giuria. Personalmente sono contrario alla giuria, per una serie di ragioni che ho il dovere di contenere nella più concisa esposizione. Voglio qui ripetere osservazioni che ho avuto occasione di fare in altra sede.
Il problema non è politico; e preciso che intendo dire che, a mio avviso, l'istituto della giuria, come ha già osservato con tanta autorità l'onorevole Porzio, non è indefettibilmente collegato con l'organizzazione democratica dello Stato. Che la giuria sia sparita col decadere delle istituzioni democratiche e sia risorta con la rinascita di queste, non vuole attestare altro che una coincidenza che, seppure non casuale, non è certo causale. Basterebbe pensare che, secondo i più autorevoli giuristi, è sorta in regime feudale. E, per quanto concerne la correlazione del suo destino con quello della democrazia, è da considerare che, se l'abolizione da parte di regimi dittatoriali va intesa come soppressione di un principio di partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia, non è provato l'inverso, che cioè essa sia effettivamente espressione di democrazia. Quando stamane l'onorevole Mancini, in una calorosa esaltazione della giuria, ci ricordava che il regime fascista non soppresse la partecipazione dell'elemento popolare nei giudizi di Corte d'assise, ma solo limitò questa partecipazione (e — vorrei aggiungere — limitò in misura minima, perché, come sapete, il giudice popolare partecipa con una maggioranza notevole nei confronti del giudice togato), enunciava un argomento che sta, sul piano storico, a contrastare la sua tesi della correlazione tra democrazia e giuria. Perché se quel regime — che non ebbe esitazioni ed incertezze nel distruggere qualsiasi legame con un sistema democratico d'organizzazione dello Stato e che non esitò a sradicare anche quegli istituti che soltanto per la loro coincidenza cronologica dovevano considerarsi democratici — conservò in larga misura la partecipazione di elementi popolari al giudizio delle Corti d'assise, vuol dire che quel regime, in questa sua sensibilità antidemocratica che vorrei dire perfetta ed esasperata, sentì che non era collegato il tema della giuria, cioè della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia, con il sistema della democrazia.
Il concetto di sovranità popolare, infatti, non importa la partecipazione del popolo all'amministrazione della giustizia. Questo è il punto; e sono lieto di considerare che stamattina in questi termini esatti l'onorevole Porzio riproponeva il problema. Democrazia è governo di popolo; e perciò potere esecutivo e legislativo come emanazione di popolo; ma non è anche indiscriminata partecipazione del popolo a quelle attività che esprimono un'esigenza tecnica, di capacità. In riferimento a queste funzioni, la democrazia si attua con l'abolizione di quelle prerogative e di quei privilegi che contrastano a tutte le classi sociali la partecipazione alle funzioni statali. Resta, però, sempre l'esigenza della capacità, dell'idoneità a talune funzioni, incompatibile col principio della indiscriminata partecipazione del popolo. Coloro che, qui e fuori, con tanta nobile ed apprezzata passione, reclamano la partecipazione del popolo all'amministrazione della giustizia si sono mai azzardati a chiedere la partecipazione del popolo alla difesa dell'imputato, e più ancora all'insegnamento, che è un'alta funzione sociale? Si sono domandati perché il cittadino con la licenza elementare è idoneo ad amministrare la giustizia e non è invece idoneo ad insegnare, a formare cioè la coscienza dei giovani, là dove si richiede una maggiore inserzione dell'elemento sociale nel sistema tecnico; e non è pure idoneo alla difesa davanti al giudice popolare del suo simile?
Se una risposta affermativa non si può dare a ciò, questo significa che la partecipazione del popolo, che è scelta (e non casuale individuazione) per il potere legislativo ed esecutivo, si arresta di fronte alle altre funzioni statali, che esigono particolare capacità tecnica. Il paragone tra partecipazione del popolo alla funzione legislativa e partecipazione a quella giudiziaria non si può correttamente porre; giacché, a parte il fatto che nel primo caso il popolo non partecipa direttamente, indiscriminatamente, e per effetto di una scelta meramente casuale, alla funzione legislativa, è evidente che — mentre la funzione legislativa è predisposta a raccogliere col massimo della immediatezza il complesso delle aspirazioni e delle esigenze del popolo — la funzione giudiziaria, che nel nostro Paese si radica sul principio della codificazione, deve ispirarsi a criteri tecnici.
Perciò impostava esattamente il problema Enrico Ferri, come ha ricordato il collega Cassiani, quando diceva che «in una questione di scienza e di ordinamento tecnico, cioè di giustizia penale, pare a me che non gli ideali democratici o aristocratici siano da invocare, sibbene il criterio della capacità e dalla larghezza del giudizio».
Ma quello che soprattutto occorre segnalare è che il concetto di democrazia e di sovranità popolare non postula quello di scelta casuale, e cioè arbitraria, dei partecipi all'amministrazione della giustizia. Esattamente Francesco Carrara osservava che in tal modo «la giustizia criminale si trasforma in una lotteria e che si tolgono le bilance dalla mano della giustizia e si sostituiscono con le urne. Questo è il vizio della giuria e per il medesimo si distrugge l'uniformità della giustizia punitiva».
Per rendersi conto di questo grave argomento basterà pensare alla situazione che si determina quando il caso avrà portato alla formazione di una giuria composta tutta di cittadini orientati nello stesso senso su un problema che si agita in un processo: simpatia o antipatia per l'adulterio, indulgenza o eccessiva severità per alcune forme di reato.
La democrazia, specie nei più recenti sviluppi, si è venuta ad organizzare anche sul pilastro della capacità. L'orientamento professionale si va sempre più affermando nella scelta dei tecnici. Basti considerare il numero notevole di avvocati e di professori universitari mandati alla Costituente. Sarebbe strano, di fronte questo perfezionamento tecnico, fare un ritorno indietro in una materia che è la più sensibile a quelli che sono i presupposti tecnici. Se il problema dovesse venire ancora posto sul piano politico, sarebbe onesto chiederne l'impostazione integrale: o si arriva alla elettività di tutti i giudici (e questo passo, come vedremo, credo che non si possa neppure tentare in Italia) o si rinuncia alla giuria. Per lo meno, questa integrale impostazione, mentre non rimuoverebbe nessuna delle obiezioni contro la giuria, correggerebbe la casualità della scelta, essendo il popolo chiamato alla responsabilità dell'elezione dei giudici, e dei giudici più idonei.
Deve escludersi pertanto in via preliminare — e questa è la parte più lunga della mia dimostrazione — ogni profilo politico nell'esame del problema; e passare all'esame del profilo tecnico.
Ora, il problema della giuria potrebbe impostarsi sotto l'aspetto della necessità, per i più gravi reati che toccano la sensibilità del popolo, di chiamare ad esprimere un giudizio cittadini non perfettamente qualificati. A parte l'arbitrarietà del ragionamento, che ritiene i magistrati avulsi dalla coscienza popolare, fuori della vita, insensibili al palpito della umanità, chiusi a qualsiasi soffio di sentimento, di tradizione; a parte l'arbitrarietà di questo ragionamento, occorre opporre ad esso che nella nostra tradizione giuridica vige il principio della qualificazione, della certezza del diritto, della cristallizzazione legislativa. Tale principio impedisce che il giudizio sia attinto a fonti diverse dalla legge, la quale ha valore vincolante anche quando ne sarà scomparso o affievolito il presupposto sociale.
Non senza ragione la terra del giurì è l'Inghilterra, dove la norma penale non è incarcerata nel sistema legislativo, ma vive attraverso il richiamo della consuetudine e dei precedenti. Un solo punto di inserzione della coscienza popolare nel giudizio potrebbe ammettersi: quello della misura della pena. Ma limitata a questo, vi sentireste voi di sostenere la giuria, soltanto per graduare la pena nell'ambito stabilito dalla legge? Il problema è un altro e merita una impostazione integrale; e bisogna lealmente porlo su questa base: o si marcia in maniera decisa verso il diritto libero, ed allora la giuria può profilarsi come uno strumento di scoperta di questo diritto, che si esprime attraverso la coscienza popolare, attraverso i sentimenti del popolo; o si mantiene fede, come in questo momento è necessario mantenere fede, al sistema della codificazione e della certezza del diritto, ed allora la giuria è assolutamente incompatibile con questo nostro sistema giuridico.
Ed è veramente singolare, come diceva il collega Cassiani, che Enrico Ferri — il quale non solo per il suo orientamento politico (che doveva renderlo sensibile agli ideali democratici), ma soprattutto per il suo orientamento scientifico, un orientamento che si ribellava a qualsiasi rigore ed a qualsiasi limite di carattere tecnico, e che si volgeva verso profili di carattere sociale ed extragiuridico — è veramente singolare, dicevo, che Enrico Ferri sia stato uno dei più fieri avversari della giuria, e non solo in quelle manifestazioni che sono state ricordate in questa Aula, ma anche nella sua edizione postuma della Sociologia criminale, curata dal professore Santoro.
«Se il giudizio penale — scriveva Ferri — dovesse consistere nel dichiarare che una data azione è buona o malvagia, crederemmo noi pure che la coscienza individuale, che ha appunto per oggetto quel giudizio etico, potesse bastare allo scopo; ma siccome il giudizio penale verte sulla certezza od incertezza, sulla verità, o sulla falsità di un contesto di fatti, crediamo che esso sfugga alla competenza di un intimo sentimento». Ma, per scendere più nel vivo del problema, si sostiene la possibilità di disintegrazione della indagine di fatto dall'indagine di diritto. Qui in contrario possono accennarsi due argomentazioni. Anzitutto non è esatto che il giudizio di fatto sia sottratto alla necessità della capacità tecnica, perché il determinare ed il ricostruire un fatto è spesso, anche inavvertitamente, opera di tecnici, perché soprattutto importa l'impostazione del problema delle prove (ricostruzione e sintesi delle prove), il quale esige la conoscenza di alcuni canoni di interpretazione delle prove, che costituiscono oggetto di regolamentazione giuridica.
In secondo luogo, io voglio limitarmi ad affermare (perché credo che la dimostrazione sia ovvia) la impossibilità di questa distinzione tra giudizio di fatto e di diritto; e che spesso quella che può sembrare una indagine genuina di fatto è pur sempre giuridica. Anche se non è avvertita, l'esigenza del profilo giuridico si delinea nell'indagine che appare più squisitamente di fatto: il problema della causalità. È un problema che non solo ha tormentato la mente dei filosofi, perché si ricollega a temi trascendentali, ma che importa una conoscenza tecnica delle norme giuridiche e non può essere perciò identificato come giudizio di fatto.
Queste ed altre gravi ragioni, che io mi astengo dall'enunciare, dovrebbero assolutamente allontanarci da un'idea di ripristino della giuria, che dovrebbe essere anche avvertita come una possibile causa di disconoscimento del valore vincolante della legge e come un fomite di delinquenza cosiddetta passionale.
Con ciò non dico di essere favorevole al sistema misto di quasi scabinato attuale. Se dovessi esprimere una mia opinione personale, direi di essere favorevole ad una competenza giudiziaria piena ad un tribunale, ad una particolare corte composta tutta di magistrati.
Né io posso aderire, per ragioni ancor più notevoli di quelle che ho enunciato, alla proposta dell'onorevole Persico di instaurare la partecipazione dell'elemento popolare a tutti i giudizi penali (piccola e grande giuria); quindi alla introduzione assoluta, larga, totale dell'elemento popolare nel processo penale.
Io apprezzo l'integrale impostazione del problema, giacché una delle ragioni che più facilmente si profilano contro il ripristino della giuria è questa: perché in alcuni processi è necessaria questa particolare sensibilità, è sentita l'esigenza sociale di questa interpretazione della coscienza popolare, di questa voce che non sappia di chiuso, ma che senta il soffio della civiltà, della vita, delle passioni umane? E perché la stessa istanza non si pone per i processi meno gravi, nei quali talvolta il profilo umano e sociale, il profilo che induce ad un elemento di carità, palpita più che nello stesso processo in Corte d'assise? Perché il furto, che può sembrare in realtà un reato grave in astratto e che invece può offrire spunti di umanità notevoli (furto che si compie perché la famiglia muore di fame, furto che si compie per realizzare un nobile intento della propria vita); perché il falso, che si può consumare per conquistare qualche nobile meta, non devono essere giudicati da una corte nella quale sia viva questa esigenza popolare?
Ora, all'impostazione integrale dell'onorevole Persico non si può opporre questa critica. Bisogna, quindi, apprezzare questa impostazione integrale.
Ma bisogna con maggior rigore non accettarla: non la si può accettare, perché circola sempre nella mia dimostrazione questa ansia, che l'amministrazione della giustizia è una funzione tecnica; tanto che gli stessi elementi umani e sociali che non possono, non devono essere banditi dal territorio della giustizia penale, postulano un punto di inserzione, punto di inserzione, al quale il Codice sostanziale dovrà offrire nuovi e più ampi congegni, ma che sarà sempre di carattere tecnico.
Il profilo umano il giudice lo chiederà alla sua esperienza e alla sua sensibilità di uomo; il congegno tecnico lo troverà nella sua preparazione.
Tuttavia, riconosco che il problema non può essere risolto e non deve essere risolto in questa sede. Esso è collegato innanzitutto a tutto il sistema legislativo penale: una giuria in tanto potrà funzionare, senza essere costretta a ricorrere ad eccessivi arbitrî, in quanto sarà chiamata a giudicare in base ad un codice che, con maggiore elasticità, dia ingresso all'aspetto umano del magistero penale. Esso è inoltre collegato a tutto il delicato tema della riforma dell'ordinamento giudiziario. Basterà, per coloro che aspirano al ripristino della giuria, non chiudere definitivamente l'ingresso a tale istituto, irrigidendosi in una formula che escluda ogni ricorso ad elementi popolari (formulazione idonea della norma concernente le sezioni specializzate).
Elettività di alcune magistrature. Come ho rilevato poco fa, l'impostazione integrale dell'opposta posizione (quella dell'elettività del giudice) è la impostazione più chiara e più leale. Per questa impostazione non ricorre alcuno di quei profili di critica da me formulati nei confronti della giuria.
Ed è perciò necessario che su questo campo più aperto, più leale, più integrale si accetti la battaglia. Anche qui — senza avere la più lontana pretesa di esaurire il problema, che è un problema veramente pieno di suggestione e pieno di pericoli — io vorrei esprimere soltanto, quasi elencare, alcuni argomenti, alcuni rilievi che a mio avviso si oppongono all'elettività del giudice:
1°) L'elettività è, di regola, inconciliabile con l'accertamento di quella capacità tecnica che è uno, se non il solo dei requisiti per l'esercizio della giurisdizione. Né l'inconveniente sarebbe sanato dalla predisposizione di categorie di eleggibili, giacché, pur nell'ambito di tali categorie, l'elettività non assicurerebbe l'elezione dei meglio preparati. È questa l'osservazione che vale a contrastare il rilievo dell'onorevole Gullo, secondo cui il rigetto dell'elettività del giudice suonerebbe offesa per noi, che proveniamo da una elezione. Mentre l'elezione dei deputati e dei senatori, infatti, obbedisce a criteri prevalentemente politici (l'elettore giudicherà chi è il più idoneo a far valere certe ideologie politiche o, scendendo più al concreto, a realizzare talune aspirazioni locali); l'elezione del giudice dovrebbe assicurare la scelta di un cittadino esperto e capace all'amministrazione della giustizia.
2°) L'elettività certamente sacrifica la imparzialità e, quindi, l'indipendenza del giudice. In un paese infatti come il nostro, di così ampio frazionamento politico, nessuno potrebbe evitare che le elezioni venissero ad assumere uno spiccato carattere politico.
3°) L'elettività, importando necessariamente una temporaneità nella durata delle funzioni, si risolverebbe indubbiamente in un grave limite per l'indipendenza del giudice.
4°) Il quarto motivo è rappresentato, poi, dall'esperienza dei Paesi dove il sistema dell'elettività del giudice ha avuto, in tempi recenti o lontani, pratica applicazione. L'elettività del giudice fu sancita dalla Costituzione francese del 1789, ma fu assai presto soppressa; dato che, come osservò Zanardelli, «le scelte furono per lo più ispirate dalle passioni politiche e la mediocrità dei giudici fu eguale alla loro oscurità». Solo in Isvizzera il sistema elettivo ha resistito; ma, per un provvidenziale intervento del costume, i giudici vengono di regola rieletti per molte volte consecutive: è evidente allora che in tal caso viene meno uno dei principali motivi che ci inducono a ripudiare il sistema.
Il Bryce afferma che le cause delle critiche sul funzionamento della giustizia negli Stati Uniti sono principalmente da individuare nel sistema elettivo dei giudici fra il 1830 e il 1850; ed il Laski afferma: «Una volta che una persona sia stata nominata al posto di giudice, nulla deve intralciare l'assoluta indipendenza del giudizio: elezione, rielezione, facoltà del Governo di esonerarlo, sono tutti metodi incompatibili con la funzione cui il giudice deve adempiere».
Ma nell'orientamento di coloro che propendono per l'elettività, per lo meno, delle magistrature minori, bisogna scorgere un elemento di verità, un'ansia che non può cadere nel vuoto.
La enunciava l'onorevole Gullo quando esattamente osservava che al magistrato si deve essenzialmente chiedere capacità e carattere. Ora, è evidente che, se con l'assunzione mediante concorso, si viene ad assicurare il primo di questi due requisiti, non si viene invece ad assicurare per nulla il secondo.
Ma si risolve il problema con il sistema elettivo?
Una cosa intanto è certa; ed è che il sistema elettivo è, per lo meno, il meno idoneo ad assicurare il requisito della capacità.
Ma, a mio giudizio, neppure il requisito del carattere è assicurato con tale sistema: nelle inevitabili deformazioni della democrazia non è raro incontrare casi di uomini che, proprio a cagione del loro spiccato carattere di indipendenza e di fierezza, non sono stati fortunati alle urne. Comunque, non sempre quegli elementi che valgono a rivelare un carattere sono facilmente rilevabili dal popolo. Sicché l'elettività, mentre non assicura il requisito della capacità; mentre costituisce una sicura insidia all'indipendenza del giudice; non rappresenta, d'altro canto, neppure una garanzia per quello che riguarda il suo carattere.
In verità, onorevoli colleghi, su questo delicatissimo problema — che noi consegniamo al futuro legislatore dell'ordinamento giudiziario — non è facile dire l'ultima parola. Quello che occorre studiare è la ricerca d'un congegno che possa assicurare l'assunzione di giudici forniti di capacità e di doti morali. Questo problema ha agitato per il passato le menti degli studiosi e degli uomini politici. E mi è caro ricordare qui che Enrico De Nicola, il quale oggi nobilmente ed austeramente impersona la più elevata Magistratura dello Stato, sentì nella sua coscienza di giurista e di avvocato l'importanza del problema, quando in un lontano articolo, confinato in un modesto giornale giudiziario, proponeva la costituzione di accademie particolari per la formazione dei magistrati.
Dopo aver riconosciuto l'importanza di questo problema, che ho testé esaminato, noi non possiamo condividere un giudizio negativo della Magistratura italiana; sentiamo, anzi, di doverlo respingere.
Non prenderò in considerazione quanto si è detto a proposito degli indirizzi giurisprudenziali — incostituzionalità dei decreti Gullo, amnistia, ecc. — perché, a parte le notevoli esagerazioni contenute nei relativi rilievi, si tratta di questioni contingenti, che non devono offuscare la limpidità dell'indagine del problema. Il problema, però, secondo l'impostazione che ne è stata data da alcuni settori, sta nel vedere se al giudice possa chiedersi un adeguamento, e in quali limiti, alle esigenze sociali, alla coscienza popolare.
Ora, su questo punto, onorevoli colleghi, il nostro diritto moderno, le regole della ermeneutica giuridica il congegno lo danno; e non occorre che voi alteriate l'organizzazione della Magistratura, non occorre che voi rompiate quello che è lo schema tradizionale, che ha funzionato di regola così sufficientemente e nobilmente, di una Magistratura organizzata sul principio dell'assunzione mediante carriera, sul principio dell'autogoverno, per introdurre il principio sociale nell'amministrazione della giustizia. Noi sappiamo che la dottrina ha profilato a tale proposito i lineamenti dell'interpretazione evolutiva, che taluni chiamano progressiva: termine che potrebbe essere gradito a taluni settori di questa Assemblea. E vorrei ricordare che fu un grande giurista italiano, che onorò il partito popolare, il Degni, il quale in un libro di oltre quaranta anni fa, che è ancora fresco, fissava i canoni dell'interpretazione evolutiva. Si tratta di stabilire la funzione che dovrebbe avere questa interpretazione evolutiva. È evidente che l'interpretazione evolutiva o progressiva non può servire a distruggere le norme, a violare lo spirito della legge, la mens legis, a capovolgerla. A questo devono provvedere altri congegni; e deve essere di maggiore duttilità il congegno legislativo per obbedire a queste necessità sociali, a questi profili sociali. Ma l'interpretazione evolutiva — la quale significa possibilità di interpretare le norme in una maniera che si adegui a nuove esigenze, quando queste nuove esigenze, inserendo nel sistema del diritto vigente nuovi elementi, possono portare reazioni su singoli istituti giuridici — questa interpretazione evolutiva, progressiva, dà sufficienti possibilità, dà larghe possibilità al giudice, che non è necessario che sia popolare, di adeguare l'interpretazione della norma, che sia sorta in antichi tempi, a necessità, a profili sociali nuovi.
Occorre, però, che questa interpretazione evolutiva resti sempre nell'ambito della legalità, cioè non rifiuti obbedienza a quel canone del rispetto della certezza del diritto, che è una delle esigenze fondamentali dello Stato moderno. Perché, sul piano storico, non potete negare che là dove la certezza del diritto è crollata, sono crollate anche la civiltà e la libertà. Basta pensare che nel diritto tedesco, nel diritto di quello che fu il Paese più eminente forse nella costruzione sistematica o dogmatica, il nazismo penetrò; e col servilismo dei giuristi (che in Italia non si ebbe, perché in Italia i giuristi in gran parte fecero il loro dovere, resistendo all'infiltrazione dell'elemento politico) pretese che alla certezza del diritto, al principio della legalità, specialmente in materia penale, si sostituisse il principio dell'ispirazione alla sana coscienza popolare. Questo era il principio che fu affermato dalla dottrina giuridica tedesca. Quindi, si disse, il giudice non occorre che richieda alle norme giuridiche la direttiva per la soluzione dei casi giudiziari; può chiedere direttive alla sana coscienza popolare. Però, si aggiungeva: della sana coscienza popolare unico interprete è il Führer.
Quando si parte, onorevoli colleghi, da certi lidi che sono di distruzione, di insidia, sia pure inconsapevole, del principio della legalità e della certezza del diritto, noi abbiamo già visto a quali rive si può approdare: si approda alla distruzione della libertà, alla negazione completa della personalità umana.
E consentite che io ribadisca questo punto, che è punto centrale del discorso, perché ho avuto la sensazione che serpeggiasse il proposito di richiedere il mutamento dell'ordinamento giudiziario in Italia per renderlo più sensibile alle esigenze sociali. Ciò significa incorrere in un equivoco, quello di trasferire nel campo giudiziario la sollecitudine per le esigenze sociali che deve ispirare realizzazioni in altri campi. Io ricordo a questo proposito, anche senza voler ripetere quello che dicevo in sede di Sottocommissione polemizzando con un caro collega del mio Gruppo, che nessuno certamente può rimanere insensibile ai fatti sociali, ma non bisogna temere la cristallizzazione del giudice, bensì la cristallizzazione della legge.
Il giudice non deve essere che l'interprete delle esigenze sociali entro i principî della legge; mentre gli impulsi di vita nuova devono trovare la loro espressione nell'evoluzione della legge. Donde la necessità di fare leggi nuove che rispondano all'esigenza del divenire sociale con la maggiore elasticità. Ma a questa esigenza non si risponde quando si afferma che il giudice può decidere secondo il suo criterio.
A proposito di certe accuse che chiaramente o velatamente sono state rivolte alla Magistratura, di essere conservatrice, io osservavo che di conservatorismo si può parlare in duplice senso: nel senso della difesa di un dato sistema economico o politico vigente, e nel senso della difesa del sistema giuridico.
Il giudice deve essere conservatore della legge, interprete della legge secondo i fini per cui essa è stata emanata, e secondo quei fini che attraverso il mutamento del sistema possono introdursi nei cancelli della norma.
Se a un certo momento la formula e lo spirito della legge nuova sono in contrasto col movimento sociale in atto, il giudice non può arbitrariamente mutare la legge vecchia. Per l'ordine giuridico sarebbe troppo pericoloso che il giudice seguisse a suo arbitrio il nuovo orientamento sociale. Perciò io sostenevo, in sede di Sottocommissione, che il nuovo orientamento si proiettasse sul piano del diritto sostanziale, e non sul piano del diritto processuale. Non si può ammettere il cosiddetto diritto libero, per cui la coscienza del giudice si sovrappone alla norma di legge.
E veniamo ad un altro argomento che, sia pure con collegamento arbitrario, si può legare al problema dell'indipendenza del giudice: ed è il problema dell'inserzione della donna nella magistratura, il problema della donna-magistrato. Tacere di questo problema potrebbe sembrare o vigliaccheria di fronte all'aggressiva presa di posizione delle onorevoli colleghe, o eccesso di cavalleria. Che alla donna non si debba e non si possa negare una maggiore partecipazione alla vita pubblica non si può negare. Questa maggiore partecipazione è stata già riconosciuta.
Ma, per quanto riguarda il problema dell'ammissione alla Magistratura, io ritengo che solo in alcune limitate funzioni giudiziarie si possa introdurre la donna; in quelle funzioni cioè in cui la donna possa partecipare con profitto per la società e per l'amministrazione della giustizia, per le qualità che le derivano dalla sua femminilità e dalla sua sensibilità.
Io mi riferisco, oltre che alla giuria (nel caso che, contrariamente alla mia opinione, possa venire ripristinata), a quei procedimenti in cui è richiesto un giudizio che prescinde da esigenze non strettamente giuridiche, come può essere il tribunale dei minorenni, che è la sede più adatta per la partecipazione della donna!
Ma alle più alte magistrature, dove occorre resistere e reagire all'eccesso di apporti sentimentali, dove occorre invece distillare il massimo di tecnicità, penso che la donna non debba essere ammessa; perché solo gli uomini possono avere quel grado di equilibrio e di preparazione necessario per tali funzioni.
Perciò la formula del progetto di Costituzione mi sembra la più idonea, perché è una formula che pone la possibilità del limite dell'ammissione della donna alla magistratura.
Io direi che è già una conquista concreta, perché apre le porte all'ammissione delle donne in questo potere, pur stabilendo la possibilità, non l'obbligatorietà, di un limite; possibilità da studiare in sede di legge sull'ordinamento giudiziario.
II — Indipendenza della Magistratura, ovvero del potere giudiziario. A questo punto va ripreso l'accenno, che abbiamo posto in principio, all'indefettibile collegamento dei tre temi di indagine: indipendenza del giudice, indipendenza della Magistratura, unità della giurisdizione.
Se la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura nel Consiglio Superiore deve essere adottata, essa risponde ad esigenze profondamente diverse da quelle che in alcuni settori sono state segnalate; ed è bene che in questa sede la mens legis sia chiaramente espressa.
Qui non si tratta di immettere nella funzione giurisdizionale elementi non tecnici, espressione del popolo e non di casta (come si è voluto dire); ma si tratta di realizzare, mediante la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura al Consiglio Superiore, il più idoneo strumento di autogoverno e di indipendenza della Magistratura stessa.
Il Consiglio presiede all'amministrazione della Magistratura: questo è il punto che non si deve perdere di vista. Presiede, cioè, a tutta l'attività che accompagna la vita del magistrato; ma non ha e non può avere alcuna ingerenza nell'esercizio della funzione giurisdizionale.
Questa non conosce poteri superiori, non conosce gerarchia, non conosce vincoli. Libera da ogni legame, la funzione giurisdizionale non obbedisce che alla legge e non si ispira che alla coscienza del giudice. Se, pertanto, la partecipazione di elementi estranei non vale ad inserire nella amministrazione della giustizia un elemento così detto popolare (cioè un'espressione della sovranità popolare), risponderà ad altri fini; e tali fini concernono non l'amministrazione della giustizia, bensì il governo della carriera del magistrato, che è cosa ben differente.
In altri termini, dal punto di vista astratto, l'indipendenza del giudice si riafferma sempre, anche con una Magistratura non indipendente. Si tratterà di condizioni per realizzare questa indipendenza e si tratterà di una maggiore o minore possibilità di resistenza agli elementi esterni che possano frapporsi alla realizzazione di questa indipendenza.
Ecco perché dobbiamo mirare alla indipendenza della Magistratura. Ma nessuno ha dubitato mai che il magistrato nell'amministrazione della giustizia possa non essere indipendente. La funzione giurisdizionale è stata sovrana anche quando il giudice personalmente non aveva guarentigie di indipendenza.
Ora, il nostro compito sta in ciò: nel congegnare un governo della carriera del magistrato che miri ad assicurare il massimo di quelle condizioni che ne garantiscano l'indipendenza nella funzione giurisdizionale. Checché possiate scrivere in tutte le Costituzioni in senso contrario — e noi non lo vogliamo perché desideriamo imprimere un progresso alla civiltà del Paese — nessuno può coartare la coscienza del giudice, che è sovrano anche quando sa che fuori la porta vi può essere un pericolo per la sua libertà o per la sua carriera.
Noi dobbiamo mirare — e questo è il compito della Assemblea Costituente — a costruire una organizzazione della carriera del magistrato la quale, svincolata dalle influenze di poteri e di forze estranee, possa rendere più facile al giudice, o comunque meno difficile, l'esercizio di quella sovranità nella funzione giurisdizionale, di quella indipendenza nella funzione giurisdizionale, che egli ha, e che vuol vedere soltanto riconsacrata nella Costituzione e perfezionata nelle applicazioni pratiche. Orbene, sotto questo aspetto — come strumento, cioè, per realizzare l'indipendenza della Magistratura che, se deve essere libera ed indipendente, non deve essere distaccata dalla vita dello Stato — la partecipazione di elementi estranei o laici al Consiglio Superiore ha una ragione di essere ed è questa: eliminare il timore, che si è profilato non solo nei settori politici ma anche in alcuni settori interessati, di un Consiglio Superiore, massimo organo di governo della carriera dei magistrati, che, composto solo di magistrati, possa trasformarsi in un organo di casta, intorno al quale si coagulino interessi, intrighi, protezioni, preferenze tali da costituire un pericolo per l'indipendenza dei singoli giudici. Il giudice vedrebbe trasferite in altra sede quelle ansie che attualmente possono orientarsi verso il potere politico: forse non più interferenze politiche, ma forse più interferenze personali.
Ecco la preoccupazione che ci ha indotto a profilare, a proporre la composizione mista del Consiglio Superiore. Intendiamoci: questo pericolo inciderebbe su quella serenità del giudice che, come abbiamo più volte avvertito in questo discorso, non deve essere insidiata. Ma di altri pericoli non si deve parlare; non si deve parlare del caso, che è stato pure profilato da qualcuno di noi, di una Magistratura che si rifiutasse di applicare la legge; perché, a parte il carattere aberrante di questo fenomeno (che costituirebbe un vero conflitto tra poteri statali), il Consiglio Superiore non ha poteri in tema di esercizio della funzione giurisdizionale, ma solo in tema di amministrazione, cioè di carriera del magistrato. Il Consiglio Superiore non potrà vincolare i magistrati a una certa interpretazione; non potrà indurli a un certo orientamento nell'esercizio sovrano della funzione giurisdizionale. Il Consiglio Superiore ha soltanto il governo della Magistratura.
Il pericolo, però, di un autogoverno (così delimitato) staccato del tutto dagli altri poteri statali, come tale suscettibile di instaurare una organizzazione di casta, non poteva essere dissimulato e ad eliminarlo tre congegni si presentavano idonei:
a) assegnare al Ministro di giustizia il potere di promuovere l'azione disciplinare a carico del magistrato. Le critiche su questo punto del progetto tralasciano di considerare che, mentre si tratta soltanto di facoltà di promuovere l'azione disciplinare (non di potestà di applicare sanzioni disciplinari), mentre si tratta solo di potestà di promuovere l'azione disciplinare, sulla quale deciderà il Consiglio Superiore (pertanto, in analogia al citato regio decreto-legge 3 maggio 1946 n. 511, al Ministro è stato tolto ogni potere di giudicare in sede disciplinare), non si può togliere al potere esecutivo (per quel necessario coordinamento che deve esistere tra tutti i poteri dello Stato, nei quali circola la sovranità) la facoltà di esercitare un'azione stimolatrice verso il potere giudiziario per quanto concerne la sfera della giurisdizione disciplinare;
b) sganciare il pubblico ministero dalla disciplina della Magistratura giudicante, limitandone le guarentige, in modo da tenerlo in più diretto collegamento con il Ministro della giustizia.
Qui devo avvertire che parlo a titolo personale, sia perché questa mia opinione, in una discussione sia pure non ex professo in sede di Sottocommissione, non fu accolta, sia perché non è proprio questa la sede opportuna per l'impostazione del problema. Ma io penso che in un futuro rinnovamento di tutto l'organismo giuridico italiano, che sia sopratutto impostato su basi di armonia e di collegamento, in una visione integrale della riforma della legge penale italiana, il problema del pubblico ministero debba ripresentarsi. E, a mio avviso, il problema del pubblico ministero va risolto così: il pubblico ministero dovrebbe esercitare effettivamente funzioni di polizia giudiziaria, mentre gli dovrebbero essere tolte tutte quelle attribuzioni che in questo momento contende al giudice. Quindi nessuna facoltà per quanto attiene ai provvedimenti della libertà dei cittadini. Il pubblico ministero dovrebbe assicurare la funzione di polizia giudiziaria e sarebbe così utile per la società nella acquisizione, nella ricerca delle prove, nel promuovimento dell'azione penale. Tutte le altre attività, che nel processo penale gli si dovrebbero certamente consentire, dovrebbero essere sempre collegate a questa fondamentale, di essere cioè titolare del diritto di azione penale. Quindi partecipazione al processo penale in veste di titolare di questa azione.
Se così si facesse, noi eviteremmo quel duplicato attuale di funzioni giudiziarie, che talora è inutile, superfluo e che ritarda pure la sollecita amministrazione della giustizia; e costringeremmo il pubblico ministero a tornare alla sua funzione genuina, elementare, primitiva, quella di capo della polizia giudiziaria (un organo dello Stato con garanzie migliori di quelle che possano richiedersi all'organo della polizia giudiziaria); di capo della polizia giudiziaria che, con maggiori garanzie, stia a ricercare le prove con quella immediatezza, con quella serenità, con quella imparzialità, con quella superiore capacità tecnica, che possono garantire la serenità e idoneità delle prime indagini, le quali, per chi ha esperienza di processi penali, sono quelle che circolano in tutto lo sviluppo dei processi penali. Com'è raro che un rapporto redatto dal maresciallo di pubblica sicurezza o dei carabinieri crolli durante il processo; e come è frequente che costituisca la struttura di tutti i successivi sviluppi del processo: e tutte le incertezze, tutte le esitazioni, tutte le imperfezioni, tutte le negligenze, tutti gli errori, tutte le esagerazioni, che nel primo momento si sono profilate, sono rimaste nel processo a pesare su un innocente o a pregiudicare la giustizia!
Perciò io desidererei — ma non è tema che rientra in questa indagine attuale — che al pubblico ministero venissero tolti tutti quei poteri che egli contende al giudice e che esso venisse invece ripristinato in questa sua funzione di capo della polizia giudiziaria e di titolare dell'azione penale. Se così lo congegnassimo, nessuna meraviglia ad accettare questa mia idea, che il pubblico ministero non deve partecipare integralmente alle garanzie che si danno al magistrato, perché organo di Governo, organo del potere esecutivo. Così noi — e torno all'indagine che ci concerne — potremmo avere, in questo altro congegno del pubblico ministero, organo del potere esecutivo, realizzata quella esigenza di contatto fra il potere esecutivo e il potere giudiziario alla cui ricerca noi andiamo muovendo;
c) creare il collegamento fra gli altri poteri ed il potere giudiziario, che minaccerebbe di restare un corpo chiuso, un'amministrazione di casta; e sopratutto impedire che questo corpo chiuso possa creare una interna sua organizzazione oppressiva della libertà e della serenità della carriera del magistrato. È il sistema che abbiamo adottato nel progetto da noi proposto, secondo cui il Consiglio Superiore è composto in maniera mista.
Alle critiche che sono state esposte in questa sede alla composizione mista del Consiglio Superiore risponderò in maniera sintetica, chiedendo scusa ai colleghi, le cui argomentazioni sono state tutte valutate, se di esse non posso tenere conto dettagliatamente per la brevità del mio intervento.
Osserverò:
1°) che gli elementi estranei, pur venendo eletti dal Parlamento, non possono essere qualificati come espressione di un orientamento politico. Nessuno si nasconderà che nelle elezioni di tali membri giocheranno le preferenze di colore; ma nessuno potrà sostenere che i membri eletti dal Parlamento entrino nel Consiglio Superiore in funzione politica, come espressione di una parte politica.
A garantire sovrattutto contro questo pericolo varrà la delimitazione delle categorie degli eleggibili secondo l'emendamento proposto dall'onorevole Conti, da me e da altri, che risponderà al duplice scopo di assicurare elementi provvisti di preparazione e di sensibilità ai problemi della Magistratura e di garantire l'imparzialità e la serenità;
2°) che, anzi, tali elementi laici potranno, per la particolare qualificazione delle categorie da cui provengono, realizzare quella difficile, ma necessaria, saldatura tra le esigenze proprie dell'amministrazione della Magistratura e l'aspirazione ad un'organizzazione che non si isterilisca nella formazione di un corpo chiuso;
3°) che, infine, la partecipazione di diritto del Primo Presidente della Cassazione e, se accogliete il nostro emendamento, del Procuratore generale difende la Magistratura dal pericolo (e sovrattutto dall'offesa al prestigio dell'ordine giudiziario) di una maggioranza di elementi laici.
Mentre questi rilievi devono valere a placare le preoccupazioni di coloro che sono del tutto contrari alla composizione mista ed a coloro che vorrebbero modificare il giuoco delle proporzioni in tale composizione mista; va detto a coloro che volessero muovere verso una più ampia partecipazione di elementi estranei che tale tentativo costituisce un regresso nell'indipendenza della Magistratura. Qui occorre fermarsi alla reale constatazione della situazione attuale della Magistratura, in base all'ordinamento giudiziario italiano, al quale così ampie riforme, piene di promesse di speranze, apportò il decreto legislativo Togliatti del 31 maggio 1946. Attualmente il governo della carriera dei magistrati è in gran parte nelle mani del Consiglio Superiore ed il potere disciplinare è affidato ad un organo analogo (Commissione disciplinare): organi composti tutti da magistrati. Questo è il punto dal quale bisogna partire se si vuol mirare ad una onesta soluzione del problema, che è il problema centrale della sezione che concerne la Magistratura. È un punto di vista che non può essere disatteso.
Si entra in Magistratura attraverso un concorso. La Commissione è composta quasi esclusivamente di magistrati, con partecipazione di professori universitari. Si è promossi mediante un triplice congegno, nel quale interviene o il Consiglio Superiore se si tratta di scrutinio, o una commissione di magistrati se si tratta di concorso.
Quale è il destino, sotto l'aspetto disciplinare, della Magistratura? Tutte le sanzioni disciplinari sono sottratte al potere esecutivo. Sono consegnate nelle mani di corpi periferici o centrali esclusivamente composti di magistrati.
Questi organi hanno una vera e propria giurisdizione.
Sicché, sintetizzando — e questa sintesi è indispensabile, perché possiamo muovere alla risoluzione del problema con consapevolezza — sintetizzando: ingresso in carriera per concorso giudicato da magistrati; promozioni, quale che sia il congegno, giudicate da magistrati; sanzioni disciplinari applicate da magistrati.
A che si riduce il potere del Ministro della giustizia in questo momento, nei confronti del magistrato? A congegni teoricamente modesti, che però sono praticamente più pericolosi.
Ecco il punto che occorre esaminare.
Il Ministro della giustizia ha una discrezionalità nell'assegnazione al magistrato della prima sede; quando il magistrato abbia superato il concorso, il Ministro è arbitro di mandarlo in Sardegna o a Roma. Anche qui è la discrezionalità, che dev'essere chiamata in causa, perché, se si tratta del primo vincitore del concorso, questi non andrà in Sardegna. Quando il magistrato chiede il trasferimento in altra sede, è nella discrezionalità del Ministro di assegnare questa sede, cui il magistrato aspira. Quando il magistrato è promosso, il Ministro ha il potere di assegnare la nuova sede.
Questi tre poteri ha il Ministro della giustizia sulla Magistratura. Tutto il resto rientra in quello che si dice autogoverno. Lo so che questa parola è pericolosa. Assumo in pieno la parte di responsabilità che mi compete per la partecipazione che ho avuto a questa formulazione pericolosa. Quando si è parlato di autogoverno, si è pensato quasi ad uno spodestamento del Ministro per la giustizia.
Noi invece, non facevamo altro che perfezionare l'armonia del sistema vigente. Se tutta la carriera del magistrato è nelle mani della Magistratura, se soltanto i tre indicati congegni, che sono i meno importanti astrattamente, ma i più praticamente pericolosi, sono fuori dell'autogoverno della Magistratura e sono, invece, nelle mani del Ministro, perché non trasferire anche questi tre poteri al Consiglio Superiore, il quale, mentre oggi è composto esclusivamente di magistrati, come la corte disciplinare, domani si trasformerebbe in quel Consiglio Superiore che abbiamo proposto, composto per metà di magistrati (più il Primo Presidente ed il Procuratore generale) e per metà di elementi laici?
Questa è la situazione della Magistratura.
Perciò, io ho il diritto — e sono grato all'onorevole Veroni che lo ricordava qualche giorno fa — ho il diritto di ripetere quello che dicevo all'adunanza plenaria dei Settantacinque: dovete dirci se vogliamo far compiere un regresso alla Magistratura, ed allora assumetene la responsabilità. Peserà, in tal caso, sulla giovane Repubblica italiana la responsabilità di avere riportata indietro l'indipendenza della Magistratura. Ma, se noi vogliamo, non dico aumentare l'indipendenza, ma per lo meno mantenerla integra, il progetto è la massima concessione che si possa fare ad elementi estranei alla Magistratura. Noi su questa impostazione leale, e che sottomettiamo all'esame dei colleghi, intendiamo che sia condotta consapevolmente la nostra indagine, la nostra decisione. O un progresso alla Magistratura, che lo merita, non per suo privilegio, ma per nostra garanzia, per la sicurezza, per il fondamento dello stato moderno; o il regresso, di cui dovreste assumere la responsabilità.
La presidenza del Consiglio Superiore, a mio avviso, dovrà restare attribuita al Capo dello Stato. Essa, innanzitutto, come è stato rilevato, conferisce particolare solennità al massimo organo di governo della Magistratura, la quale avvertirà in tale presidenza, che probabilmente sarà soltanto simbolica, non l'espressione della interferenza di un altro potere, perché il Capo dello Stato è al di sopra degli altri poteri; bensì la consacrazione della sua altissima funzione.
Ma essa obbedisce anche ad un criterio di simmetria costituzionale, che non può sfuggire. I tre poteri dello Stato, avendo come vertice il Presidente della Repubblica, in lui si ricongiungono, pur senza in lui confondersi. È chiaro che questa Presidenza del Capo dello Stato costituirà uno dei pochi atti, per i quali non sarà richiesta la garanzia ministeriale.
E qui è ovvia la domanda che si pone alle vostre coscienze ed alla quale ho in gran parte risposto: quale sarà il destino del Ministro della giustizia? Cosa accadrà di questo Ministro della giustizia? Nessuna preoccupazione se dovesse sparire: non sarebbe poi la fine del mondo, perché si tratta di denominazioni; ed il problema consisterebbe nel conferire ad un nuovo o ad un altro ente questo settore dell'Amministrazione statale.
Voglio, tuttavia, sinteticamente elencare i tre gruppi di attività che il Ministro della giustizia ha conservato. Il Ministro conserva anzitutto tutta l'attività concernente gli uffici giudiziari; in secondo luogo ha il potere di ispezione; poi ha il potere di promuovere l'azione disciplinare, di cui vi ho già parlato; ed infine provvede all'esecuzione penale.
Basterebbe l'esecuzione penale per riempire da sola la vita di un Ministro e le ansie di un Ministero. Vorrei, a tale proposito, che in questa sede si sentisse la nostra parola, carica di amara esperienza: l'esecuzione penale in Italia è dolorosamente indegna di un popolo civile come il nostro. (Applausi). In altra sede dissi come nel quadro delle immense spese che lo Stato italiano si è assunto non figuri — almeno a quanto a me consta — uno stanziamento notevole per le spese concernenti gli istituti penitenziari. È una cosa singolare. Si assiste perfino ad un capovolgimento ignobile del sistema carcerario: gli istituti di custodia preventiva sono degradanti e costituiscono un'autentica negazione della dignità umana. È inutile, o colleghi, scrivere nella Carta costituzionale che vogliamo potenziare la dignità umana e che vogliamo che la pena non distrugga la personalità dell'uomo. Queste sono tutte belle frasi che si possono anche scrivere sulle facciate dei penitenziari, mentre là dentro vi è la più bassa e disgraziata umanità e dove il trattamento è quanto di più ignobile sia dato immaginare. Dalla nostra Assemblea si deve levare la nostra parola di segnalazione urgente di questa dura realtà, perché, se è vero che la pena è un compito dello Stato doloroso ma necessario, è altrettanto vero che la sua espiazione dev'essere intrisa di carità, come afferma Carnelutti. Lo Stato deve in prima linea attuare la riforma di tutto il sistema carcerario ed improntarlo a quelle caratteristiche che rechino i segni della civiltà, senza la quale non può sorgere uno Stato democratico. (Vivi applausi).
III. Unità della giurisdizione. — Onorevoli colleghi, su questo terreno si contendevano tre orientamenti: unità assoluta della giurisdizione e soppressione di tutte le giurisdizioni speciali, compresi il Consiglio di Stato e la Corte dei conti; libertà di tutte le giurisdizioni speciali, cioè mantenimento delle due particolari giurisdizioni speciali (Consiglio di Stato e Corte dei conti), le quali hanno una loro funzione, una loro dignità ed una loro storia, e dell'immensa congerie di giurisdizioni speciali, di cui qui non è facile fare neppure l'elenco; non solo mantenimento di questa congerie di giurisdizioni speciali, ma perfino possibilità illimitata di aumentarle per l'avvenire.
C'era poi una tesi intermedia, verso la quale si è orientato il progetto: cioè stabilire, in materia penale, il principio dell'unità della giurisdizione, con il divieto di costituire, nel modo più assoluto, giudici speciali in materia penale. È chiaro che su questo problema non è stato difficile arrivare ad un accordo, perché indubbiamente dove più si sente la preoccupazione degli eventuali pericoli causati da giudici speciali è proprio in materia penale che, in quanto attiene ai diritti fondamentali di libertà del cittadino, può maggiormente risentire il pregiudizio di giurisdizioni destinate a subire il peso di forze politiche.
Quindi, su questo punto il progetto è chiaro: in materia penale divieto di costituire giurisdizioni speciali, ma facoltà soltanto di istituire sezioni specializzate, cioè particolari organi dei giudici ordinari, i quali, non sottraendosi all'organizzazione della Magistratura e quindi all'unità della giurisdizione, possano rispecchiare alcune esigenze nella formazione del collegio giudicante, mediante la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura.
Sto esponendo la tesi intermedia accolta dal progetto: in materia penale nessuna giurisdizione speciale, in materia civile possibilità di istituire, con una legge qualificata votata con una certa maggioranza, giurisdizioni speciali.
Ora è questo congegno intermedio che dovrà essere riesaminato e che va preso in considerazione; sicché a me sembra che sia inesatta l'osservazione di Villabruna che cioè dell'unità della giurisdizione non si conservi più traccia in questo progetto. L'unità della giurisdizione, in via assoluta, è caduta in questo progetto; ma, per lo meno per il profilo penale, essa resta come divieto di istituzione di giudici speciali; in materia civile resta come una direttiva, come un orientamento, di non ricorrere a giudici speciali, che non potrebbero mai essere istituiti se non con una legge votata con una certa maggioranza.
Ma, onorevoli colleghi, io penso che questa tesi intermedia debba prevalere. Io, come studioso, come teorico, come modesto cultore di diritto, studiando astrattamente il fenomeno, potrei, dovrei arrivare ad una concezione dell'unità della giurisdizione. Ma, le esigenze della vita moderna, le necessità susseguentisi, l'urgenza di alcuni particolari settori della vita attuale, hanno fatto delineare la necessità che in taluni particolari aspetti della giustizia non penale il giudice debba essere congegnato in modo da essere adattato a queste particolari esigenze, che sono tecniche o sociali, nelle quali occorre la partecipazione dell'elemento estraneo, non come svalutazione di una capacità del magistrato a quest'opera di particolare valutazione di certe esigenze, ma come necessità di una maggiore aderenza della giustizia a certi particolari profili sociali o anche tecnici.
Questo induce a mantenere, a rendere possibile, sia pure con la garanzia della legge votata con una certa maggioranza, la giurisdizione speciale in materia non penale. Constato che non si sono levate molte voci in senso contrario alla conservazione del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, che si giustificano in parte perché giurisdizioni di interessi, tranne alcuni settori riservati ai diritti, ed in parte per la necessità di adeguare tali organi a quella che è l'attività tipicamente amministrativa. Non si può richiedere al potere giudiziario la facoltà di annullare atti amministrativi; ma occorre che vi sia un particolare giudice amministrativo, il quale abbia la facoltà di intervenire sia pure non sostituendosi all'emanazione dell'atto stesso, ma per lo meno annullandolo.
Ma se le giurisdizioni speciali — e quando parlo di queste metto fuori definitivamente Corte dei conti e Consiglio di Stato, delle quali non ci occuperemo più — se le giurisdizioni speciali devono, in materia non penale, poter essere conservate, ma sempre con una certa garanzia, a mio avviso una esigenza è insopprimibile, esigenza che non può non essere consacrata nella Carta costituzionale, quella cioè di ristabilire, per lo meno al vertice, l'unità della giurisdizione, garantendo il controllo della Corte di Cassazione su tutti i pronunciati dei giudici ordinari e speciali, naturalmente eccetto la Corte dei conti e il Consiglio di Stato.
Ora, sotto questo aspetto, io penserei che non si debba non mettere nella Carta costituzionale una norma di questo genere.
Non si può non esaminare la necessità di questo problema, perché la nostra esperienza ci dice che, quando si sono voluti eliminare, limitare, ridurre i diritti dei cittadini, si è abolito il ricorso alla Corte di Cassazione, la cui garanzia, per la massima indipendenza e per la funzione regolatrice del diritto di tale organo, deve essere assicurata a tutti i cittadini.
Non si dica che questa è materia di ordinamento giudiziario: questa è garanzia costituzionale, che bisogna conferire al cittadino; ed è una garanzia nei confronti del potere legislativo, allorché questo vagheggiasse di privare il cittadino della possibilità di far valere i propri diritti dinnanzi al giudice ordinario. Giudice speciale, se deve essere consentito, ma per indagine di merito; giudice speciale, se deve essere consentito, per l'applicazione della legge nel caso concreto, secondo determinate esigenze; ma sempre possibilità del cittadino di ricorrere alla Cassazione. E non si affermi tale diritto in maniera generica; ma si precisi che tutte le violazioni di legge sono deducibili in Cassazione.
Su questo punto io debbo ricordare un'altra pagina ignobile della nostra vigente legislazione: quella dei tribunali straordinari militari. Ma vi sembra che, ad onta di tutte le necessità determinate dalla odierna delinquenza, si possa delineare un tale organo straordinario in uno Stato civile e nella cui Costituzione è scritto che i giudici straordinari sono aboliti? È possibile mai mantenere, prorogare anzi — ad onta che io in una interrogazione chiedessi al Ministro della giustizia che ci desse conto di questo — un organo giudiziario straordinario, formato in una maniera così ridicola (Presidente: un generale e componenti un magistrato e un cittadino)? Guardate che forma strana di mosaico! E questo tribunale è straordinario e cioè può agire senza alcun rispetto per le più essenziali forme e per le stesse garanzie della difesa! Ecco la necessità che si profila in chi ne ha l'esperienza, ecco la necessità di una urgente abolizione di questo organo, come di una cosa la più aberrante, poiché avverso le sentenze di tali tribunali non è ammesso il ricorso in Cassazione nemmeno per difetto di giurisdizione. E questo è pietoso per l'armonia e la serietà della legislazione in uno Stato repubblicano! Cosicché, mentre per giudicare di un furto abbiamo tre gradi di giurisdizione, per i reati che possono importare la pena di morte o l'ergastolo, non c'è garanzia di difesa e ricorso in Cassazione.
Dirò: io ho visto come a Napoli, in diversi casi, si è violato la più elementare norma di garanzia della difesa del cittadino, infliggendo l'ergastolo o trent'anni di reclusione senza nemmeno rispettare i limiti di competenza. Ora, ci possono essere esigenze particolari che bisogna soddisfare in uno Stato moderno, ci sono anche necessità di una giustizia aspra, che accentui la sua funzione preventiva; ma queste esigenze debbono armonizzarsi con alcune fondamentali garanzie, come quelle concernenti la difesa e la possibilità di adire la suprema Corte di Cassazione, che deve restare un organo regolatore del diritto in tutti i processi.
Collegato a questo problema dell'unità di giurisdizione è il problema dei tribunali militari. Se il tribunale militare in tempo di pace dovesse mantenersi — perché il progetto, in tempo di guerra, consente che tribunali militari siano istituiti — questa sarebbe indubbiamente l'unica eccezione che noi inseriremmo nella Costituzione al principio dell'unità della giurisdizione in materia penale.
Gasparotto. Sono tribunali ordinari, però.
Leone Giovanni. Sì, ho chiuso la parentesi dei tribunali straordinari; mi occupo ora dei tribunali militari territoriali.
In ogni modo, pongo subito una subordinata, alla quale non potete essere insensibili: se accedeste all'idea di mantenere i tribunali militari, occorrerebbe sempre che la giustizia militare fosse inquadrata nella giurisdizione ordinaria e che, quindi, si abolisse quel sistema attuale, che non è certamente conforme ad una corretta Costituzione, che i tribunali militari sono giudici speciali alle dipendenze del potere esecutivo.
Anzi, dirò di più; nei tribunali militari, non solo il pubblico ministero è alle dipendenze del potere esecutivo — perché questo, in fondo, si potrebbe comprendere — ma anche il giudice relatore, l'unico giudice tecnico, che è un organo della Magistratura militare e, come tale, dipendente dal Ministero della guerra.
Quindi, ove accedeste alla tesi del mantenimento dei tribunali militari in tempo di pace, non vi potreste sottrarre alla necessità di inserire nella stessa Costituzione una formula che esprimesse questa nostra ansia verso una organizzazione indipendente dei tribunali militari.
Tuttavia io vorrò, a titolo personale, esprimere il mio dissenso, limitandomi ad enunciare le risposte alle notevoli ed autorevoli parole qui pronunziate in favore dei tribunali militari, tra gli altri anche dall'onorevole Gasparotto che ha portato la sua esperienza di Ministro della difesa.
Si è detto, in quella relazione della Commissione per lo studio dell'ordinamento della giustizia militare presso il Ministero di grazia e giustizia, che la giurisdizione militare integra le sanzioni disciplinari, ed è diretta a mantenere la saldezza dell'esercito.
Questo è stato detto dall'onorevole Villabruna; ma questo è quanto si legge in quella relazione che afferma il problema dell'autonomia della giurisdizione militare come completamento della giurisdizione disciplinare:
«Le trasgressioni disciplinari ed i reati militari sono lesioni di diverso grado e rilevanza, ma di uguale interesse nei confronti delle forze armate, ecc.».
Ora, su questo punto devo esprimere il mio profondo dissenso da tale impostazione e devo riaffermare: restino pure i tribunali militari, se credete! La mia può essere una posizione teorica più che pratica; ma certi concetti occorre che siano rettificati, perché l'autorità di un'Assemblea legislativa si proietta nel futuro, nell'interpretazione della legge. Ora, è profondamente errato stabilire una sostanziale affinità tra la sanzione disciplinare e la sanzione penale. Perché questa omogeneità, questa identità si presenterebbero soltanto nel campo militare e non in tutti gli altri campi?
La differenza fra sanzione disciplinare e sanzione penale è così ovvia da non richiedere qui alcun commento e vale a stabilire l'erroneità dell'affermazione che si possa congegnare la giustizia penale militare come una continuazione della sanzione disciplinare.
Questa visione, badate, è una visione non solo dal punto di vista teorico — a mio modesto avviso — inesatta, ma pericolosa, perché è a questa visione che si ispirano per lo più i giudici militari, sicché taluni reati vengono guardati sotto l'aspetto di una maggiore gravità e quindi puniti più duramente, mentre altri reati vengono considerati sotto l'opposto aspetto, di minor gravità. Ciò importa che i tribunali militari, mentre, come è notorio, sono di solito molto umani — e mi piace cogliere l'occasione per render loro atto di ciò — d'altra parte, quando si tratti di reati contro la disciplina, contro la subordinazione, sono rigorosissimi, sono anzi molte volte addirittura feroci, perché essi, come dicevo or ora, ripetono quella visione dottrinaria errata e irrogano così quelle sanzioni penali, che si riflettono poi sulla vita stessa del militare per infiniti importantissimi riflessi, sotto un profilo disciplinare.
Si osserva ancora che la giurisdizione militare è un caratteristico giudizio di capi. Questa concezione è inesatta. Essa risale al Vico: «il giudizio militare è un giudizio di capi, e quasi un completamento della potestà disciplinare, esercitato dai superiori militari verso i dipendenti»; è ripresa da altri più recenti cultori di diritto militare; e si ritrova nella relazione, di cui ho innanzi parlato.
Ora, dal punto di vista gerarchico, può darsi anche che ciò possa recare giovamento; ma non risponde certo alle esigenze di una giustizia sostanziale. Debbo inoltre precisare che noi non intendiamo, d'altronde, vietare la partecipazione al giudizio dei capi militari. Noi pensiamo, infatti, che i tribunali militari possano risorgere sotto forma di sezioni specializzate dei tribunali ordinari. In queste sezioni specializzate, l'elemento militare non solo, come ho detto, potrà entrare, ma potrà anzi esplicare un'azione quanto mai utile, recando il contributo di quella insostituibile esperienza, di quella competenza tecnica, la cui utilità nessuno vorrà negare.
Quando l'onorevole Bettiol — il mio caro amico Bettiol, che io ricordo soprattutto per la fraternità di studi che ci ha accomunato — mi dice che l'esercito è una istituzione e che, come tale, esso deve avere una sua giurisdizione, non mi è difficile rispondergli che vi sono molti altri corpi che sono pure delle istituzioni, ma che non hanno una loro giurisdizione particolare. Con la soppressione del Senato, onorevoli colleghi, possiamo dire che sia scomparsa l'ultima giurisdizione di casta.
È quindi facile obiettare che le esigenze particolari della giustizia militale possono essere soddisfatte con la partecipazione di militari al collegio giudicante. Ad ogni modo, in molte altre cause il giudice ordinario deve adeguarsi ad ambienti, a stati d'animo, ad interessi particolari, senza che si creda per queste particolarità di dover creare una giurisdizione speciale.
Cadono perciò i motivi favorevoli per il mantenimento in tempo di pace dei tribunali militari; e alludo ai motivi teorici. Sui motivi pratici che sono stati addotti, come quello che sarebbe difficile organizzare la giustizia militare in tempo di guerra, se non esistesse già in tempo di pace, non voglio soffermarmi neppure. Si organizzerebbe la giustizia militare in guerra, perché non è difficile organizzare particolari servizi che in tempo di pace non esistono. Sarebbe strano che in tempo di pace noi dovessimo profilare gli schemi di tutte le istituzioni che poi devono agire in tempo di guerra!
Cadono, quindi, come ho detto, i motivi favorevoli ai tribunali militari. Resta, invece, la grave obiezione che si tratta di un giudice speciale, legato direttamente ed esclusivamente al potere esecutivo. E non il solo procuratore militare, dicevo, ma anche i giudici che sono e restano militari: il relatore, che è un organo della giustizia militare, è alle dipendenze, come gli altri, del Ministero della guerra.
Una parola occorre dire per un eventuale sdoppiamento del problema.
Si potrebbe da taluni (e tale posizione assunse nella Sottocommissione l'onorevole Bozzi) sostenere il mantenimento dei tribunali militari territoriali e l'abolizione del tribunale supremo militare, che, pur costituendo una giurisdizione di diritto, è composto anche di elementi laici, non tecnici. Il tribunale supremo è composto da quattro magistrati: tre ordinari, un relatore della giustizia militare o tecnico, e tre elementi laici, tre militari. Ora, per quanto attiene alla composizione dei tribunali militari territoriali, essa può anche rispondere a talune esigenze, delle quali non sarò certo io a negare la validità e l'efficacia. Ma queste esigenze non sussistono per quanto attiene al tribunale supremo militare — organo esclusivo di diritto, che corrisponde alla Corte di Cassazione, che è la Corte di Cassazione in materia militare, con questo in più, che è una Corte di Cassazione che non ha giurisdizione intermedia, perché non esiste il grado di appello — che io non posso comprendere, se non come espressione di un privilegio di casta — e qui la parola calza a pennello, specie se si pensi alla presidenza affidata ad un generale, che è assolutamente ignaro non solo di cognizioni giuridiche, ma perfino di quegli elementari accorgimenti di presidenza e di udienza, che sono indispensabili per un'amministrazione della giustizia che abbia prestigio e solennità.
La verità è che il Tribunale supremo militare è una figura che risale al 1855. Nel Regno di Sardegna, da cui deriva quello d'Italia, non esisteva un organo supremo di giustizia militare: era competente, invece, la Corte di Cassazione, secondo il regio editto 30 dicembre 1847 n. 638. Nel progetto del Codice penale militare del 1855 fu proposta l'istituzione di un «supremo collegio militare», che trovò attuazione nel Codice sardo del 1859. La dottrina non fu mai d'accordo su tale istituzione e la questione si è ripresentata in occasione dei numerosi progetti di riforma. Ricordo che, in Russia, sui ricorsi contro sentenze di tribunali militari decide la Corte Suprema dell'U.R.S.S.
Qual è, in definitiva, per concludere, la mia opinione su questi tribunali militari? Che i tribunali militari territoriali, nella composizione in cui si presentano oggi, non possono giustificare la loro presenza, soprattutto perché sono slegati da un'organizzazione giudiziaria indipendente, sovrana, autonoma. E nello stesso momento in cui noi riaffermiamo l'indipendenza e potenziamo la sovranità del potere giudiziario ordinario, sarebbe strano non sentire il problema della giustizia militare. Ché, ove si dovessero mantenere — e occorre che io, Relatore, ponga questo problema alla vostra coscienza e alla vostra intelligenza — occorrerebbe chiaramente provvedere nella Costituzione, a definire il loro inquadramento, per lo meno per la parte che attiene agli organi tecnici della giustizia militare, in una organizzazione giudiziaria unitaria indipendente e che risalga al Ministero della giustizia. Nessuna meraviglia che si debba risalire alla Magistratura ordinaria per destinare quegli elementi tecnici che devono partecipare alla giustizia militare.
In terzo luogo ove si dovesse mantenere la giustizia militare, non si può dissimulare il grave problema del Tribunale supremo militare che ha una composizione mista di tecnici e di laici, e non è inquadrato nell'unità della giurisdizione per la pronunzia del diritto.
Se si dovessero mantenere i tribunali militari, perché non portare i ricorsi alla Corte di cassazione, nella quale, come ho detto, si ristabilisce, come al vertice supremo della giustizia, l'unità della giurisdizione? Ivi occorre che si ricomponga nell'unità dell'organo l'unità della giurisprudenza. E se anche i tribunali militari dovessero avere particolari norme di disciplina e di organizzazione, queste norme non potrebbero impedire assolutamente quel legame che bisogna creare per l'unità della giurisdizione di diritto.
Queste sono le osservazioni modeste che io ho voluto prospettare sulla discussione svolta da tanti autorevoli colleghi sul tema dei tribunali militari.
Onorevoli colleghi, io credo di avere modestamente, inadeguatamente corrisposto al mio compito di relatore, che ha seguito con scrupolo e devozione la vostra partecipazione ed il vostro contributo; e di tutti ho tenuto conto in questa relazione, nella quale, anche se manca un preciso riferimento ai singoli interventi, è stata colta la sostanza delle vostre osservazioni, che sono state meditate nella mia coscienza.
Ma lasciate che, chiudendo questa mia relazione, io possa ancora una volta ricordare quel famoso discorso di Giuseppe Zanardelli, che ho già ricordato. Zanardelli affermò che «la Magistratura è la custode, la difenditrice e la vindice di tutti i diritti e dei diritti di tutti. Dalla sua azione dipende la vita, la libertà, l'onore, la proprietà dei cittadini, tutte le più sacre e gelose immunità dell'uomo, nella sua personalità, nelle relazioni più intime della famiglia, nel più riposto segreto dell'essere suo. Il decoro stesso, la grandezza delle nazioni si misura dall'autorità e dal rispetto che ottengono i magistrati, dalla fede in essi riposta, dal grado di elevatezza in cui sono collocati dal popolo».
Queste solenni parole risuonano, oggi col senso della più viva attualità: d'altronde, è questa eterna freschezza il crisma delle grandi verità.
A chi come me ha collaborato a questo progetto di Costituzione con umiltà pari alla consapevolezza della nostra storica funzione sia consentito, quasi al termine della nostra lunga, appassionata e non sempre apprezzata fatica, di esprimere un augurio, nel quale palpita la coscienza del cittadino, dello studioso, dell'avvocato: che la Magistratura italiana, dopo le inevitabili esitazioni di quest'ora di ricostruzione del Paese, riprenda la via luminosa delle sue tradizioni di imparzialità, di capacità e di probità. Poiché justitia est fundamentum reipublicae, la Magistratura sia — e ne abbia la coscienza e l'orgoglio — la garante della solidità di questo fondamento del nuovo Stato repubblicano. (Vivissimi applausi — Molte congratulazioni).
Presidente Terracini. Ha facoltà di parlare l'onorevole Rossi Paolo a nome della Commissione.
Rossi Paolo. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, io penso che nessuno oserebbe dire — malgrado la chiusura anticipata che è stata votata stamane, al decimo giorno dall'inizio — che questa discussione sia stata trattenuta in vincoli troppo stretti. Mi pare che non vi siano stati argini né dighe all'irrompere di una eloquenza torrentizia. Il collega Leone, il cui eloquio può veramente essere paragonato ad una mitragliatrice, per la precisione con cui raggiunge il bersaglio e per la rapidità martellante e rapinosa con cui si esprime, ha dovuto impiegare qualche cosa come due ore per rispondere almeno una parola alle tante opinioni che si sono manifestate in quest'Aula. Avvocati (e chi non è avvocato in Italia?), magistrati, professori, hanno detto tutti la loro opinione, hanno sviscerato la materia da capo a fondo, mostrandoci il diritto e la fodera dell'argomento.
Un solo punto è rimasto alquanto oscuro; e fu un eminente fisiologo, in mezzo a tanti avvocati, il professor Gaetano Martino, che, nella sua viva sensibilità per i problemi biologici, l'ha individuato e messo in luce.
Questo argomento, del quale non ho sentito parlare per iscorcio altrimenti che da lui, è rimasto immune da critiche. È l'ultima sezione della Costituzione, è quella che si riferisce al congegno previsto dalla legge costituzionale per la sua stessa rinnovazione. Ora, il fatto che una cinquantina, e forse più, di oratori di tutti i Gruppi si siano espressi senza che uno solo si sia occupato di questa fondamentale disposizione che prevede il rinnovarsi della Carta costituzionale può essere per un ottimista, come forse non sono, materia di profonda consolazione, e può apparire per un pessimista, come non vorrei essere, un sintomo di estremo allarme. Delle due l'una, evidentemente: o nessuno di noi pensa oggi a qualsiasi mutamento della Costituzione, e tutti i gruppi ne votano o almeno ne accettano sinceramente le norme, convinti che debbono durare lunghissimo tempo, o, ahimè, regna perfino tra di noi, autori responsabili della legge fondamentale di convivenza politica, un deplorevole scetticismo sull'autorità, sull'efficacia e il rigore delle nostra Carta costituzionale.
Consentitemi di non risolvere questo dilemma pauroso perché ci sarebbe forse una terza ipotesi: quella che la vostra Commissione la quale, onorevole Presidente Ruini, non è riuscita a redigere un solo articolo, uno solo, che non abbia incontrato censure, discussioni e controproposte, l'abbia stavolta, e stavolta solo, indovinata al cento per cento, imbroccando un sistema se non perfetto almeno largamente soddisfacente e comunemente accettato. A questa ipotesi, anche per non risolvere il dilemma, amo e posso senza vanità appellarmi in quanto lo schema proposto dalla Commissione al vostro voto differisce sensibilmente da quello formulato nella mia originaria relazione.
Ci siamo trovati sempre tutti d'accordo nel ritenere che la nuova Costituzione italiana debba essere una Carta costituzionale rigida e per circondarla di questo necessario rigore con efficienti garanzie il relatore, scartando altri congegni, aveva seguito il modello delle Costituzioni belga del 1921 e spagnola nel 1931 mediante questo schema: ogni proposta di modificazione può essere introdotta dal Governo, o anche per iniziativa parlamentare, ma deve ottenere in entrambe le Camere la maggioranza assoluta. La proclamazione stessa del risultato affermativo determina automaticamente lo scioglimento delle Camere. Convocati i comizi, in breve termine, le nuove Camere dovranno porre ai voti, senza emendamenti, il progetto già approvato dal disciolto Parlamento. Ove il progetto risulti confermato, stavolta a maggioranza semplice, esso diventa legge costituzionale ed il Parlamento continua la sua normale attività legislativa.
È inutile che io tenti di dirvi i pregi di questo sistema. È più opportuno sottolineare i difetti che hanno determinato la Commissione a respingere questo congegno probabilmente troppo macchinoso. Si è detto: non conviene che per modificazioni costituzionali eventualmente di piccola, o piccolissima, mole si debba far ricorso a metodi così laboriosi da paralizzare l'iniziativa, né si può pensare ad una gerarchia di norme, escogitando per le norme di secondo grado un metodo di revisione diverso e più agile. Si è aggiunto: è pericoloso costringere il Parlamento a sciogliersi prima del tempo, se vuole operare una riforma costituzionale. Con ciò si potrebbero impedire e ritardare all'infinito riforme necessarie ed urgenti, data la legge biologica di conservazione che è comune alle razze animali e alle razze parlamentari. Si è osservato che non apparisce nemmeno legittimo che un'Assemblea politica che sta per disciogliersi condizioni al sì e al no, puramente e semplicemente, l'attività ed i poteri di una nuova Assemblea, di un'Assemblea successiva, espressione anch'essa della sovrana volontà popolare. Sì è, infine, rilevato che può nascere, talora, una così stringente, una così premente urgenza di ritoccare la Costituzione da non consentire, senza grave pericolo, senza gravissimo danno, la mora della doppia legislazione.
Convenne volgere il pensiero ad altri metodi. Un sistema fu scartato di comune accordo, quello della maggioranza qualificata di due terzi o di tre quinti. Niente di più contrario, infatti, all'essenza stessa del principio maggioritario e niente di più politicamente pericoloso ed ingiusto del caso in cui il 25 o il 33 per cento degli eletti e quindi degli elettori possa insistentemente e caparbiamente opporsi ad una riforma che è voluta dal 75 o dal 60 per cento degli eletti, e quindi degli elettori. Questo vuol dire aprire la strada alla rivolta e alla violenza. Fu scartato il più logico sistema del referendum, per quelle ragioni che furono svolte ampiamente in quest'Aula e che io non ripeterò, quando venne in discussione l'istituto del referendum in generale.
Fu scartato, ancora, per ovvie ragioni il ricorso all'Assemblea Nazionale che si era prospettato in un primo tempo. Per le stesse ragioni per cui parve inopportuno creare questo terzo istituto politico, questa terza Camera, si dovette necessariamente rinunciare all'idea di deferire all'Assemblea Nazionale le modifiche della Costituzione.
Da queste successive esclusioni e dalla riconosciuta necessità d'assicurare una notevole fermezza della Costituzione è nato quello schema che abbiamo l'onore di presentarvi: schema che riesce a conciliare — noi ci illudiamo — le istanze opposte di certezza e costanza della legge costituzionale e di adattabilità al tempo che preme con le sue continue mutevoli esigenze. La Costituzione non deve essere un masso di granito che non si può plasmare e che si scheggia; e non deve essere nemmeno un giunco flessibile che si piega ad ogni alito di vento. Deve essere, dovrebbe essere, vorrebbe essere una specie di duttile acciaio che si riesce a riplasmare faticosamente sotto l'azione del fuoco e sotto l'azione del martello di un operaio forte e consapevole!
Vediamo se le progettate disposizioni si possono avvicinare a questo ideale. Abbiamo voluto, anzitutto, che l'iniziativa della revisione competesse tanto al Governo quanto ad ogni singolo deputato. Con ciò sembra superata l'incertezza circa l'opportunità di consentire l'iniziativa anche a gruppi popolari. In una democrazia rappresentativa come la nostra, che è retta, tra l'altro, dal sistema elettorale della proporzionale, non c'è nessun gruppo politico di qualche ragionevole entità nel Paese che non abbia almeno una voce nel Parlamento. Abbiamo voluto il procedimento delle due letture, con un intervallo di tre mesi fra l'una e l'altra, perché una cosa tanto seria come la riforma costituzionale non sia il prodotto d'impulsi momentanei e demagogici o, comunque, non ben confermati e meditati. Abbiamo richiesto l'esigenza della maggioranza assoluta (metà più uno dei membri che compongono le due Camere), per evitare colpi di mano minoritari, sempre deplorevoli, pericolosi, deplorevolissimi e pericolosissimi nella suprema materia costituzionale. Vorrei dire a questo proposito che scientificamente si parla di maggioranza qualificata anche quando si parla di maggioranza assoluta. Mi pare che sarebbe più rispondente a verità parlare di maggioranza reale o maggioranza garantita. La metà più uno non è maggioranza qualificata. È maggioranza sicura, garantita, e nulla più.
Oltre a queste garanzie che ci paiono molto serie e sostanziali, ne abbiamo introdotto un'altra che può tutti tranquillizzare: il ricorso alla fonte stessa della sovranità: il referendum popolare, quando un quinto dei membri di una Camera, o 500 mila elettori, o sette Consigli Regionali ne facciano domanda. Con ciò anche i diritti della minoranza — di una modesta minoranza — sono tutelati efficacemente, restando aperto l'appello al popolo, anche ad opera di una parte comparativamente piccola della pubblica opinione. Restava la necessità di tutelare la certezza della legge; e a ciò si è provveduto fissando un termine entro il quale l'impugnativa può essere promossa: tre mesi. Tre mesi paiono sufficientemente lunghi perché l'opinione pubblica si metta in moto se è necessario, e paiono sufficientemente brevi per non lasciar troppo nell'indefinito le norme costituzionali.
Il ricorso al referendum viene escluso in un caso soltanto: quando la legge sia stata approvata in entrambe le Camere (con 4 votazioni giacché si prevede il sistema della doppia lettura), con la maggioranza di due terzi dei componenti, una maggioranza davvero largamente qualificata.
È opportuna questa norma? A me pare di sì, avuto riguardo alla concreta realtà politica, al concreto panorama politico del nostro Paese. Noi facciamo la Costituzione della Repubblica italiana, non la Costituzione d'Utopia o della Città del sole di Campanella. In un paese dove vigesse il sistema del collegio uninominale, o dove le correnti politiche si polarizzassero intorno a due soli partiti, una maggioranza qualificata di due terzi potrebbe eventualmente, non rispondere alla maggioranza reale del Paese; potrebbe accadere, come è accaduto talora in Inghilterra, che un partito che pure ha vinto in quasi tutti i collegi, cinque anni prima, sia in netta minoranza, poco dopo le elezioni nel paese, mentre conserva, in Parlamento, la quasi totalità dei mandati. Ma in Italia, dove abbiamo il sistema della proporzionale e dove i partiti purtroppo, me ne rammarico, sono anche soverchiamente frammentati, una maggioranza che raccolga in Parlamento i due terzi raccoglierà certamente nel Paese una proporzione anche maggiore di consensi. Quindi è parso giusto, per evitare inutili agitazioni e tentativi faziosi di minoranze infime, impedire il ricorso al referendum, quando la legge sia stata approvata dalle due Camere con la maggioranza di due terzi. Ma supponiamo che anche questa garanzia sia fallace. Supponiamo, in estrema ipotesi, che un Parlamento, che duri tutti i cinque anni, si discosti completamente dalla pubblica opinione, talché la maggioranza parlamentare dei due terzi non risponda più alla maggioranza reale del Paese, ebbene, una estrema valvola di sicurezza resta aperta: ci saranno le elezioni generali; quella maggioranza, quel Governo, quel Parlamento saranno rovesciati dal suffragio universale e con relativa facilità, come primo atto del nuovo Parlamento, quella determinata riforma impopolare sarà facilmente revocata.
Col sistema che vi proponiamo, io non so veramente se si possa parlare, in termini costituzionalistici, di una Costituzione rigida. Io vorrei che gli illustri maestri che sono qui me lo dicessero. Personalmente temo alquanto che non si possa più parlare di Costituzione rigida; si potrebbe forse parlare di una Costituzione semi-rigida o piuttosto di una Costituzione garantita da un serio e severo congegno di revisione Costituzionale.
Ma queste sono questioni teoriche, che interessano relativamente. Nella Commissione siamo tutti d'accordo. Abbiamo la tranquilla coscienza di avere escogitato un metodo che concilii, in composita armonia, le esigenze in conflitto, che si presentano ugualmente imperiose.
Finisco con l'esprimere un'opinione ed un augurio. Abbiamo il più profondo rispetto della legalità, ma non abbiamo alcun feticismo per il contenuto intrinseco d'ogni singola legge, d'ogni singola norma, sia pure costituzionale.
Ci siamo sforzati, nel costruire la nostra Costituzione, di raggiungere il meglio, ma sapevamo tutti di non poter conseguire un optimum assoluto, immutabile nel tempo. Il tempo, in verità, corre veloce e crea bisogni sempre nuovi e sempre diversi. Se in un futuro non molto lontano il congegno della revisione costituzionale dovrà essere messo in moto, nessuno scandalo, anche se dovrà essere messo in moto con qualche frequenza. Ciò che è davvero essenziale è un'altra cosa, è che le norme costituzionali siano mutate quando occorra, senza ancoraggi conservatoristici e senza facilonerie avveniristiche, ma siano formalmente, sostanzialmente ed intrinsecamente rispettate finché sono in vita. Abbiamo visto molte Costituzioni rimanere in vita per lungo tempo ed essere cinicamente violate o — il che è peggio — ipocritamente escluse. Auspichiamo, per le fortune della nostra Repubblica, l'aprirsi di un periodo in cui la legge si possa mutare e si muti solo con la legge, ed in cui la legge, finché è legge, sia religiosamente osservata. (Applausi — Congratulazioni).
A cura di Fabrizio Calzaretti