[Il 16 settembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo I «Il Parlamento», Titolo II «Il Capo dello Stato», Titolo III «Il Governo».]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l'onorevole Ambrosini. Ne ha facoltà.

Ambrosini. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, l'aver riassunto in una discussione generale i tre Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione impone la necessità di riguardarli nel complesso.

I dispareri, che si erano manifestati nella seconda Sottocommissione e nella Commissione dei Settantacinque, si sono riaffacciati in questa Assemblea, e si riferiscono in modo direi attenuato alla formazione ed alle attribuzioni dell'esecutivo (Capo dello Stato e Governo) ed in modo più deciso, alla composizione dell'organo legislativo. Nell'impostazione generale, da qualche collega con semplici accenni e da qualche altro esplicitamente e con insistenza, come ad esempio dall'onorevole La Rocca, è stato posto in discussione uno dei problemi fondamentali di tutto l'ordinamento dello Stato moderno, il principio della separazione o della distinzione dei poteri, assumendosi che si tratta di un principio che deve ritenersi tramontato e comunque non più utile e rispondente alle esigenze della vita politica odierna.

Io mi permetto subito di osservare che forse c'è un equivoco nella interpretazione del principio, giacché ritengo che, se esso viene giustamente valutato secondo le ragioni che ne causarono la formulazione e secondo lo spirito col quale ha agito e continua ad agire (e necessariamente deve essere da noi mantenuto, come in sostanza è mantenuto dal nostro progetto di Costituzione), gli equivoci e le critiche qui pronunciate dall'onorevole La Rocca e da altri egregi colleghi possano, se non scomparire, per lo meno risultarne di molto attenuati.

In sostanza, per quanto non parlasse esplicitamente sullo stesso punto, forse alla identica direttiva critica generale si orientava l'appassionato discorso ieri pronunziato dall'onorevole Lussu, quando, parlando dell'organo legislativo, egli diceva che il sistema bicamerale non solo è inutile, ma che è dannoso, nocivo, e che bisogna assolutamente arrivare (anzi egli la proponeva in modo esplicito) alla sua abolizione. Faceva in qualche modo riscontro a quanto l'altro ieri aveva detto l'onorevole La Rocca quando nella fine del suo discorso egli si rammaricava che la nostra situazione politica non fosse ancora arrivata al punto di maturità tale da consentire delle Assemblee legislative ed esecutive ad un tempo.

Ora, per quanto il progetto di Costituzione sia abbastanza chiaro in proposito, e non sarebbe quindi necessario aggiungere parola per diradare dubbi, pur tuttavia io credo opportuno che la chiarezza assoluta sia stabilita o ristabilita su questo punto basilare per tutta l'organizzazione politica dello Stato.

Questa chiarificazione è tanto più opportuna in quanto del problema si parlò a lungo nella seconda Sezione della seconda Sottocommissione a proposito dell'ordinamento della Magistratura e del potere dei giudici. Furono allora sollevate delle questioni ed avanzate delle critiche che possono connettersi con l'argomento fondamentale del quale stiamo ora occupandoci.

Perché il principio della così detta separazione dei poteri non deve considerarsi tramontato? perché continua ad essere attuale? perché deve essere mantenuto? Il motivo fondamentale l'aveva in sostanza indicato Aristotile, dal punto di vista generalissimo, quando osservava che l'animo umano è soggetto e pervaso dalle passioni, e quindi è meglio, per quanto è possibile, di affidare il regolamento delle cose, più che agli uomini, alle norme giuridiche, alla legge. Altri pensatori ripresero l'argomento; Montesquieu lo sviluppò in pieno, guardando alla Costituzione inglese e al meccanismo concreto col quale le libertà degli individui si erano affermate e potevano continuare ad esistere, ed elevandosi a considerazioni che non hanno in nulla perduto di valore e di efficacia anche nell'epoca attuale. Egli diceva che un'esperienza eterna dimostra che ogni uomo che ha il potere è portato ad abusarne e quindi non v'è altro rimedio per evitare gli abusi che quello di limitare l'esercizio del potere: il potere freni il potere. Dalla distinzione delle funzioni fondamentali dello Stato (legislativa, così detta esecutiva, giurisdizionale) si passa alla distinzione degli organi ai quali attribuire ognuna di queste tre funzioni.

L'organo legislativo fa la legge, detta cioè le norme giuridiche che debbono presiedere ai rapporti degli individui e dei gruppi fra loro e con lo Stato; norme con carattere di astrattezza e di generalità; l'organo esecutivo esplica gli atti di governo, e di amministrazione con riferimento a casi e a situazioni concrete; l'organo giurisdizionale commina le pene ai trasgressori della legge penale e risolve le controversie civili nei casi particolari in cui gli interessati eccitano lo svolgimento della sua funzione.

Ognuno di questi tre organi, di questi tre poteri deve esercitare la sua funzione in modo indipendente. Se l'organo esecutivo avesse la facoltà di cambiare nei casi particolari la legge, di elevarsi a legislatore, sarebbe influenzato dalla considerazione del caso particolare e potrebbe essere indotto a cambiare la norma giuridica obbedendo a sentimenti di simpatia o antipatia, a pressioni di interessi, a valutazione instabile dello stesso bene pubblico. Gli inconvenienti e i danni sarebbero più gravi ed addirittura irreparabili se una tale facoltà potesse venire esercitata dall'autorità giudiziaria.

I diritti degli individui e degli enti sarebbero sottratti all'impero delle norme giuridiche prestabilite ed abbandonati alla discrezione o all'arbitrio dell'autorità. Non si avrebbe la certezza del diritto né la sua garanzia; la libertà dei cittadini sarebbe minacciata. Per mantenere la certezza del diritto e la libertà dei cittadini occorre tenere fermo il principio della distinzione dei poteri, dell'attribuzione cioè delle funzioni fondamentali dello Stato ad organi diversi, indipendenti nell'esercizio della propria funzione.

È qui, onorevoli colleghi, che sta l'essenza, la vera portata della teoria della divisione dei poteri. Alcuni di quelli che la combattono portano la questione all'esasperazione, all'assurdo, prospettando una divisione meccanica dei poteri che non è stata né può essere propugnata da alcuno.

Occorre dunque precisare che non si tratta di disarticolare lo Stato attribuendo la sovranità a poteri distinti, isolati e privi di qualsiasi collegamento. Non v'è contrasto fra i due principî proclamati dalla rivoluzione americana prima e poi dalla rivoluzione francese nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, fra il principio cioè della sovranità nazionale unica e l'altro della separazione dei poteri. L'articolo 16 di tale Dichiarazione dice che nella società dove non vi è il principio della separazione dei poteri non vi è Costituzione, cioè non vi è libertà. È la ripetizione di quello che aveva detto Montesquieu; ma che deve essere interpretato non rigidamente, come non rigidamente fu interpretato nel paese dove il principio della separazione è più decisamente affermato, negli Stati Uniti d'America. Infatti, se è vero che vi è una distinzione — che si dice netta — tra legislativo, esecutivo e giudiziario, è pur vero che vi sono delle interferenze fra tali poteri. Il Presidente, capo e padrone effettivo dell'esecutivo, ha una influenza indiretta sulla legislatura e deve mettersi in rapporto con le Camere per attuare la sua politica, specie nel campo finanziario. I Ministri o più propriamente i Segretari di Stato, cioè del Presidente, non possono essere tratti dalle Camere e non hanno ingresso nelle Camere e non sono responsabili di fronte ad esse; ma mantengono ugualmente con esse i contatti e la collaborazione partecipando alle sedute delle Commissioni parlamentari. E d'altra parte il legislativo, per mezzo di una delle sue branche, del Senato, partecipa a funzioni esecutive vere e proprie, essendo chiamato ad approvare la nomina dei Segretari di Stato, degli ambasciatori, dei giudici della Corte suprema fatta dal Presidente e ad approvare i trattati internazionali dal Presidente conclusi.

Quindi, il principio contro il quale si levano di tanto in tanto voci così appassionate, non è stato mai inteso né tanto meno applicato in modo rigido. E allora, se si interpreta giustamente, eliminando le esagerazioni, si vede che esso è giusto; che è opportuno ed anzi necessario che venga mantenuto, sia pur implicitamente come fa il nostro progetto della Costituzione, perché in modo concreto siano garantiti quei diritti che abbiamo affermati nella prima parte della Costituzione.

Non neghiamo che in periodi non normali, in periodi agitati, in periodi rivoluzionari, il principio della separazione può subire delle eclissi. È la forza delle cose: i limiti e freni suaccennati non possono esistere. Quindi non deve far meraviglia che da alcuni decenni, da varie parti, si tira a palle infuocate contro tale principio, ritenendolo sorpassato e, per giunta, ingiusto e dannoso. Ma quando si deve stabilire un ordinamento politico basato su situazioni normalizzate, quando si devono dettare norme intese a garantire lo svolgimento delle libertà, l'assetto equilibrato della società e dello Stato, allora è evidente che il principio che poteva ritenersi eclissato debba riprendere tutto il suo prestigio e tutta la sua forza.

Onorevoli colleghi, basterebbe una prova per tutte per dimostrare che il vecchio Montesquieu è più vivo di prima e che le sue parole hanno sapore della più grande attualità.

Mancini. È questione di gusti.

Ambrosini. Guardate la Costituzione dell'U.R.S.S., la Costituzione staliniana del 1936, guardate il Titolo che si riferisce alla Magistratura. Basterebbe soffermarsi sull'articolo 112 che testualmente dice: «I giudici sono indipendenti ed obbediscono soltanto alla legge».

Io credo che non sia necessario insistere su questo punto, che fu discusso avanti alla seconda Sezione della seconda Sottocommissione, e che potrà tornare in discussione quando ci occuperemo dell'ordinamento giudiziario.

Basterà qualche breve accenno. Credo opportuno dire che, parlando dell'argomento, non intendo riferirmi a situazioni del passato o del presente, ma guardare all'assetto avvenire. Bisogna essere cauti. Quando si dice che l'autorità giudiziaria deve adeguarsi alle correnti democratiche, occorre precisare tassativamente quello che si vuole, e comunque occorre evitare di spingere questo corpo, questa autorità, questo potere (si chiami come si vuole) verso una via che può essere pericolosa per tutti!

Perché, onorevoli colleghi, non è giusto dire, come facendogliene un appunto, che il magistrato è conservatore. Egli deve in un certo senso essere conservatore, nel senso che egli deve ubbidire alla legge, applicare la legge. Spetta ai corpi legislativi di segnare le norme giuridiche e di cambiare le leggi quando siano ingiuste o inapplicabili, od anche soltanto non rispondenti alla psicologia del popolo.

Il potere legislativo acquista così la preponderanza di fronte agli altri poteri; col che si evita quella differenziazione rigida e quella assoluta eguaglianza dei tre poteri, a cui per arrivare all'assurdo e al paradossale accennano taluni critici della teorica in questione.

Circa poi la rispondenza delle norme legislative alla psicologia del popolo nei vari momenti storici, cade acconcio richiamare quello che osservò Solone quando, rispondendo a certe critiche, disse che nell'elaborare la Costituzione, aveva tenuto conto dei pregiudizi del suo popolo.

Non c'è da farsi illusioni: nessuna legge costituzionale o ordinaria può avere vigore se non va incontro ai desideri, alle aspirazioni del popolo, se, in qualche modo, non è in armonia con la sua volontà, col suo sentimento. È opportuno aggiungere che, quando le leggi sono inapplicabili, sono ingiuste o si dimostrano inopportune, non deve affidarsi ai magistrati il compito terribile di raddrizzarle. Cominciando col fare il bene, essi possono deviare ed esercitare un simile potere in modo arbitrario.

Quando una legge esiste, gli organi dell'esecutivo, sia negli atti di governo che in quelli dell'amministrazione, e più ancora gli organi del potere giudiziario devono uniformarsi alla legge. Senza questo, noi potremmo parlare di diritti e di libertà, ma, siatene sicuri, non ci sarebbe certezza di diritto, non ci sarebbe garanzia di libertà, né nei singoli cittadini, né nei gruppi sociali; il che causerebbe danno non solo agli interessati, ma a tutta la società e porterebbe al disgregamento dello Stato! (Applausi).

Passiamo a parlare in modo specifico del potere legislativo. Lo spirito animatore del principio della separazione dei poteri influisce anche nella questione relativa alla divisione o meno dell'organo legislativo in due Camere? In sostanza, affermato il principio dell'unicità della sovranità, si vorrebbe che unico fosse l'organo che ne eserciti le funzioni.

Si può in proposito citare per tutti quanto nel secolo scorso argomentò Armand Marrast sostenendo la necessità di una Camera unica:

«La sovranità è una, la Nazione è una, la volontà nazionale è una» diceva l'assertore della unicità dell'Assemblea.

«Come dunque si vorrebbe che la delegazione della sovranità non fosse unica?».

Riguardando dal punto di vista concreto il gioco delle forze politiche, aggiungeva: «Se voi mettete una Camera accanto all'altra, voi arriverete ad uno di questi due risultati: o le Camere sono d'accordo ed allora una doppia discussione, un doppio voto non servono a nulla, e possono nuocere ritardando la legge; oppure sono in disaccordo, come avverrà più spesso, ed allora avrete stabilito una lotta negli alti poteri dello Stato.

«Le due Camere sono, dunque, un principio di disordine. Da questa lotta una delle Camere uscirà necessariamente indebolita».

Ora, è evidente che una qualche ragione c'è in questa argomentazione. Ma dobbiamo domandarci se essa è tale da portare fatalmente alla conseguenza della necessità di una sola Camera.

Gli inconvenienti lamentati indubbiamente esistono — sarebbe da ciechi negarli — ma sono proprio tali da distoglierci dal seguire quel sistema bicamerale, che ci è tramandato dalla tradizione, che continua ad essere sostenuto da scrittori e da uomini politici, sia pure per motivi diversi? Il più illustre dei nostri colleghi, l'onorevole Orlando, nella prefazione ad un libro apprezzabile sul Senato di un giovane, Giorgio Tupini, dopo di avere esposto i motivi di dubbio, ha finito per professarsi favorevole all'istituzione di una seconda Camera.

Passando ad esaminare più concretamente la questione, vediamo quali sono le ragioni che hanno sempre indotto pensatori ed uomini politici a propugnare la necessità di una seconda Camera e che hanno spinto i costituenti ad adottarla.

Sono varie. Si è qui parlato della funzione specifica del Senato come corpo tecnico sperimentato e tecnicamente più preparato per la migliore redazione delle leggi. Non occorre insistervi.

Dirò appresso, parlando della composizione del Senato, di un altro scopo specifico a cui esso dovrebbe assolvere come corpo composto, anche solo parzialmente, da rappresentanti diretti delle varie categorie della produzione, da una rappresentanza cioè che andrebbe ad integrare quella che si trova nella Camera dei deputati, per rispecchiare e dar voce e peso specifico a tutte le forze che compongono la struttura della società.

Ma anzitutto il Senato è stato sempre riguardato come un'Assemblea destinata alla maggiore ponderazione, come un corpo chiamato a frenare le generose impazienze che eventualmente si manifestino in modo precipitato nella prima Camera.

L'onorevole La Rocca l'altro ieri si riferiva a Cavour per rammentare la sua non adesione al sistema albertino di costituzione del Senato. Ma è necessario completare l'accenno al pensiero di Cavour: «vogliamo costituire (egli diceva) la gran macchina politica in modo che l'impulso acceleratore sia combinato con la forza moderatrice; vogliamo, accanto la molla che spinge, il pendolo che regola e rende il moto uniforme».

Forse questa proporzione può sembrare di maniera, ma il concetto è ben chiaro e si riattacca al principio della necessità del freno, del contrappeso che è opportuno che ci sia in uno stesso potere, nel legislativo, dividendolo in due branche, in due Camere, che assicurino l'equilibrio ed evitino eventuali dannose intemperanze. Può considerarsi ancora oggi di attualità quanto, in proposito, scrisse nel 1788 uno degli uomini illuminati e democratici del nuovo mondo, rivolgendosi ai suoi concittadini di New York per chiedere l'approvazione della Costituzione di Filadelfia anche riguardo all'istituzione del Senato. Egli diceva: «Ad un popolo così poco accecato dai pregiudizi e non corrotto da lusinghe quale quello a cui mi rivolgo, io non esiterò ad aggiungere che una tale istituzione può essere talvolta necessaria allo stesso popolo contro i suoi temporanei errori e delusioni. Come il freddo e deliberato giudizio della comunità deve in tutti i regimi liberi prevalere in definitiva sulle vedute dei suoi dirigenti, così vi sono particolari momenti nei pubblici affari nei quali il popolo, stimolato da qualche irregolare passione e da qualche illecito vantaggio, o ingannato dall'artificiosa opera di uomini interessati, può chiedere misure che esso stesso dovrebbe dopo lamentare o condannare.

«In tali momenti critici come sarà salutare l'interferenza di qualche temperato e rispettabile corpo di cittadini, che sospenda il lancio della freccia che colpirebbe il popolo, fino a quando la ragione, la giustizia e la verità possano riguadagnare la loro autorità sopra lo sviato spirito pubblico!».

L'insegnamento e l'ammonimento possono servire anche a noi.

Mi diranno alcuni colleghi: «ma se è ormai stabilito che una seconda Camera verrà istituita, perché attardarsi a parlarne ancora per sostenerla?»

Rispondo subito: perché è bene che venga istituita con una votazione senza sottintesi, non tiepidamente e con rassegnazione come se si trattasse di un errore che non si può evitare e di accettare o subire il Senato come un male inevitabile, ma volenterosamente, con convinzione e con la sicurezza che l'istituzione della seconda Camera sarà utile al Paese. Il Senato nascerà così con maggiore prestigio e potrà nel modo più adeguato assolvere al compito che gli è assegnato dalla Costituzione.

Come deve essere composto il Senato?

Naturalmente, qui vengono i maggiori contrasti. Ma, prima di addentrarmi nell'argomento, accenno anzitutto a quello sollevato specialmente dall'onorevole Rubilli, il quale chiedeva nientemeno che il Senato fosse composto dallo stesso numero dei membri della prima Camera.

Rubilli. Con diminuzione di questi, essendo elettiva l'una e l'altra. Quando il Senato era di nomina regia, si comprendeva che il numero dei componenti fosse inferiore a quello della Camera dei Deputati; ma, essendo ora tutte e due le Camere elettive, perché non equipararle per numero e per importanza? Quattrocento l'una e quattrocento l'altra.

Ambrosini. Data la sua precisazione, il mio dissenso si attenua soltanto, ma non scompare.

Tutto sommato, sono completamente d'accordo con quanto l'onorevole Conti, nella seconda Sottocommissione, tassativamente disse riguardo al numero dei componenti dell'Assemblea, giacché ritengo che il Senato, appunto per la sua natura speciale, debba essere composto di un numero di membri inferiore a quello della Camera dei deputati.

L'altro punto, sul quale pregiudizialmente io mi permetto di dire una parola, è quello che riguarda la stabilità del Senato. Noto l'assenso dell'onorevole De Michelis, il quale l'altro giorno me ne aveva parlato.

La questione venne posta nella seconda Sottocommissione ed ha continuato a formare oggetto di discussione e di meditazione.

Onorevoli colleghi, occorre, specialmente nella mutevole vita moderna, che ci sia una qualche àncora, un qualche punto di stabilità. La mutevolezza nella composizione delle Assemblee si ripercuote sulla mutevolezza della legislazione; e la mutevolezza della legislazione finisce per turbare gravemente gli interessi del popolo e specialmente la visuale generale che all'interno ed all'estero deve aversi della politica dello Stato.

Per assicurare questa stabilità tanti legislatori hanno ritenuto opportuno che, mentre la prima Camera si muti completamente, a periodi determinati e prima dello scadere della sua vita ordinaria in caso di scioglimento, — la seconda Camera abbia un'esistenza continuativa da mantenersi a mezzo di rinnovamenti periodici soltanto parziali. Ci sono seconde Camere che durano sei, otto, dieci anni. C'è il sistema di rinnovarle per metà o per un terzo o per un quarto. La misura è questione di dettaglio; si può scegliere qualsiasi sistema; ma ritengo opportuno, utile, quasi necessario, appunto in considerazione del succedersi continuo degli eventi della vita moderna, che si affermi una certa stabilità nella vita di uno degli organi legislativi.

Noi questa stabilità potremmo riuscire ad averla quando istituissimo un Senato che duri in permanenza, rinnovandosi non completamente, ma solo parzialmente a data fissa.

Si avrebbero così due vantaggi: quello della stabilità e l'altro inerente alla ripresa di contatto, per mezzo del rinnovamento parziale, con la pubblica opinione e col corpo elettorale, qualunque sarà per essere.

Passiamo alla composizione del Senato. Anche qui le legislazioni ci offrono svariati esempi. I diversi sistemi, che sono stati escogitati dagli studiosi e dai legislatori, non hanno lasciato contento nessuno. Ed è naturale, giacché è impossibile arrivare a raggiungere la perfezione. Io non andrò ad elencare i diversi sistemi, perché all'ora in cui siamo arrivati e nell'aspettativa dei discorsi degli onorevoli Nitti e Sforza, è opportuno stringere ed andare avanti rapidamente. Quindi mi limiterò a sottoporre all'Assemblea quelle considerazioni che possono giustificare la richiesta della composizione di un Senato sulla base di un sistema misto.

L'Assemblea sa che il Gruppo al quale ho l'onore di appartenere, oltre ad altri Gruppi di questa Camera, ha sostenuto e sostiene il principio che suole chiamarsi della «rappresentanza degli interessi». È una espressione poco simpatica e spesso non è adeguata. È bene dire subito che quando noi parliamo di rappresentanza degli interessi, non intendiamo affatto riferirci a sistemi di classi, a metodi e sistemi come quelli che vi erano nella Germania o nell'Austria fino al 1918. Noi intendiamo riferirci agli interessi, alle forze vive del Paese, alla produzione, al lavoro in tutte le sue manifestazioni, con particolare riguardo (come dirà l'onorevole Piccioni nel suo ordine del giorno) alle forze del lavoro qualificato ed intellettuale. Noi cioè affermiamo che, mentre in quello che si chiama parlamento politico c'è la rappresentanza politica delle ideologie dei cittadini indifferenziati, raggruppati per settori elettorali dal punto di vista territoriale, ci debba essere una seconda Camera nella quale abbiano posto, anche limitatamente, le rappresentanze di quelle forze sociali che per il congegno elettorale non arrivano a trovar ingresso nella Camera dei Deputati. Questa Camera, fondata sui partiti, non basta. Ne occorre un'altra composta in modo da rispecchiare la volontà delle organizzazioni economiche e sociali, culturali e lavoratrici in genere.

Si dice in contrario, che una tale rappresentanza specifica non è necessaria in quanto tali forze hanno già modo di farsi valere per mezzo dei partiti. Ciò può in parte ammettersi, ma non basta.

I partiti si basano sulle ideologie, partono da alte vedute di insieme, da un proprio modo di vedere e di sentire le cose della Nazione ed anche del mondo, da una propria Weltanschauung, che necessariamente porta a riguardare da quell'alto punto di vista le cose particolari piegandole al raggiungimento degli scopi supremi segnati nel programma del partito.

Ma oltre alla necessità di indirizzare la società sulla scia della grande luce delle ideologie, si appalesa opportuno sentire la voce dei singoli interessi particolari, si appalesa opportuno che questi, come tali, riescano ad avere una propria rappresentanza, che acquistino la possibilità di dire il proprio pensiero, non solo per la maggiore competenza che sicuramente metterebbero nell'esprimerlo, ma anche per la responsabilità che direttamente ne assumerebbero.

Lussu. Può citarci un esempio di interessi non rappresentati qui dentro? Gli ufficiali in congedo...

Ambrosini. Onorevole Lussu, lei sa come io seguo i suoi slanci con ammirazione ed affetto, ma, mi perdoni, la sua domanda non è giusta. Un esempio? Agricoltura, commercio, industria, trasporti terrestri, marittimi ed aerei. Come rappresentante degli agricoltori qui chi c'è? Quali saranno quando la futura Assemblea dovrà discutere della riforma agraria? Fatalmente l'agricoltore, che appartiene al partito o parla per il partito, deve non solo tener conto delle vedute del partito ma subordinare tutte le esigenze particolari della sua categoria alle esigenze generali del partito, oppure propugnarle obliquamente, prospettandole sotto la vernice dell'interesse di partito. Onorevole Lussu, ciò lei lo ha detto varie volte nella seconda Sottocommissione, quando parlava di interessi a volte obliqui che si fanno valere attraverso ai partiti.

Ma non sarebbe molto meglio, molto più giusto che ci siano rappresentanti speciali che dicano apertamente e tassativamente quello che è l'interesse della propria categoria?

Una voce a sinistra. Questo è corporativismo.

Ambrosini. Non è esattamente corporativismo della maniera alla quale vi riferite. Preciso subito. Innanzi tutto, permettetemi, non si chiede di stabilire su questa sola base tutta la composizione dell'Assemblea. Noi chiediamo che un settore di essa venga destinato alle rappresentanze delle categorie. Così finalmente noi sapremmo dai rappresentanti degli agricoltori, dai grandi proprietari ai medi proprietari e ai piccoli coltivatori, quale è il loro punto di vista specifico specie nelle riforme che dovranno farsi.

Ma quale male ne deriva? Lussu, tu lo dicesti l'altra volta ed altri egregi collegi come te. Rispondo alle vostre obiezioni. C'è il pericolo, dite, che l'Assemblea si trasformi in una Assemblea di interessi che lottano per soverchiarsi, con la conseguenza che i componenti, i rappresentanti di un gruppo la vincano sugli altri e impongano la propria tirannia, oppure che non si riesca a stabilire la supremazia di alcun gruppo né ad arrivare ad una comune soluzione, col che si avrebbe il disordine e il caos. Ma questo può avvenire, avviene anche con i partiti, specie sul piano internazionale. Non devo dirlo a voi. Lo sapete bene (la tragedia della guerra lo insegna), mentre sulla base degli interessi, discutendo al tavolino, sarebbe facile accordarsi, all'inverso difficilissimo diventa l'accordo quando entrano in gioco le ideologie; le guerre più terribili e feroci sono state le guerre di ideologia.

Il pericolo che prospettate è quindi di molto esagerato, e comunque diventa infondato quando si ammetta nell'Assemblea soltanto una qualche rappresentanza limitata delle forze della produzione e del lavoro. Non ne verrebbe alcun danno. Si avrebbe il vantaggio di sapere apertamente quello che desidera la categoria. C'è inoltre da tenere conto del fatto, che facendo parte di un'Assemblea, i rappresentanti delle singole categorie saranno influenzati da quella che è l'aria generale che si respira nell'Assemblea e sentiranno quindi l'opportunità di indirizzare le loro richieste in modo da non urtare in maniera violenta contro gli interessi delle altre categorie e da adattarle all'interesse generale del Paese.

Comunque sarà l'Assemblea che finirà per decidere con la sua responsabilità, guardando e valutando tutti i vari interessi particolari in vista dell'interesse generale della Nazione.

Quindi l'inconveniente al quale si accenna non esiste o può ridursi al minimo, giacché è il congegno stesso di funzionamento dell'Assemblea che riduce gli eccessi e ristabilisce l'equilibrio.

Ci sono altre obiezioni.

Nella seconda Sottocommissione, quando si discusse questo argomento (che ci prese per tanto tempo), a un certo punto anche gli onorevoli Lussu, Laconi, Grieco e Paolo Rossi si mostrarono per lo meno impressionati e propensi a pigliare in considerazione la nostra proposta, ma prospettando altri dubbi ed inconvenienti, che secondo loro renderebbero il sistema praticamente inattuabile.

L'onorevole Paolo Rossi obiettò che è difficile fare l'elenco delle categorie. Un po' è l'obiezione, che onorevole Lussu mi ha fatto ora: difficile stabilire quali sono le categorie. E poi che è ancora più difficile distribuire fra le varie categorie quel determinato numero di seggi che verrebbe assegnato ai rappresentanti delle categorie.

Risposi allora ampiamente e rispondo ora brevemente perché il tempo incalza e sono anch'io ansioso di sentire la parola dell'onorevole Nitti, rispondo che le obiezioni possono agevolmente venire risolte, e che comunque non sono insuperabili. In proposito abbiamo l'esempio di molte legislazioni. Non vi parlo di quelle vigenti prima del 1918 nella Germania e nell'Austria, dove c'era la rappresentanza per classi; non vi parlo nemmeno di quelle alle quali accennò il collega Clerici quando parlò delle prime Costituzioni italiane dell'800, che sostanzialmente non facevano che copiare la Costituzione francese voluta da Napoleone; ma faccio richiamo ai sistemi adottati nei tempi recenti. Io le ho qui tutte elencate; non vi annoierò con una indicazione specifica. I libri ne parlano ampiamente, e possono essere consultati con facilità. L'argomento non è affatto nuovo giacché se ne è sempre parlato quando è venuta in discussione l'organizzazione del lavoro, verso la fine del secolo scorso e nel nostro secolo, quando le classi lavoratrici specialmente hanno pensato, attraverso alle proprie organizzazioni, ad entrare nel vivo delle forze dello Stato e ad arrivare — non con la rivoluzione, ma attraverso forme legali, con la costituzione di corpi consultivi e deliberativi formati dai rappresentanti delle varie categorie — ad arrivare alla conquista del potere. Come può dirsi che ci siano difficoltà su questo punto? Si pensi che non in Italia ma in quasi tutti i paesi del mondo si sono costituiti tali organi consultivi. Non mi si risponderà certo che l'ostacolo esiste soltanto quando si tratta di costituire un corpo che si chiami per avventura Senato, e che non esiste più quando si tratta di costituire un altro corpo che si chiami Consiglio Superiore del lavoro o Consiglio dell'economia o altro? (Commenti a sinistra).

Gli inconvenienti e le obiezioni sarebbero perfettamente uguali.

Ora, se è stato trovato il modo di superare quelle obiezioni, di risolvere quegli inconvenienti, per i Consigli del lavoro ed i Consigli economici, lo stesso o identici sistemi possono seguirsi per organizzare un altro corpo da chiamare Senato.

Faccio richiamo ad una sola legislazione, alla Costituzione di Weimar, la tanto deprecata Costituzione di Weimar, a proposito della quale proprio potrebbe dirsi che è stata ingiustamente criticata per il fatto che non resistette che poco. Ma, onorevoli colleghi, quando c'è un uragano non c'è ombrello che salvi dalla pioggia, e quando c'è terremoto non ci sono case asismiche che resistano allo scuotimento della terra; ora, la Costituzione di Weimar non resse perché non solo ci fu un uragano, ma un terremoto. Tuttavia se noi dobbiamo giudicare, dobbiamo guardare alle situazioni normali.

Bene, la Costituzione di Weimar in quel famoso articolo 165, col quale si istituiva il Consiglio economico del Reich, che rappresentava una transazione tra il sistema occidentale dei parlamenti ed il sistema sovietico dei consigli, in quell'articolo 165 affermò il principio a cui noi facevamo richiamo nella seconda Sottocommissione e che continuiamo avanti a quest'Assemblea a propugnare, sia pur limitatamente, cioè non per la composizione di tutto il Senato, ma solo per una parte di esso. Anche all'Assemblea di Weimar furono fatte le stesse obiezioni al sistema di composizione del Consiglio, giacché le obiezioni non derivano dallo spirito cervellotico dell'uno e dell'altro deputato, ma vengono dalla natura delle cose. Ma è dalla stessa natura che sono suggeriti i rimedi. L'articolo 165 affermò il principio; l'attuazione fu rimessa alla legge speciale. Lo stesso potremmo fare noi.

Come fu composto il Consiglio economico del Reich nel primo tempo con una legge di carattere provvisorio? Fu costituito con un totale di 326 membri, così distribuiti fra le categorie: 68 rappresentanti dell'agricoltura e delle foreste, 68 dell'industria, 44 del commercio, banche e istituti di assicurazione, 34 delle imprese di trasporto, 36 del piccolo commercio e della piccola industria, 30 dei consumatori (comuni, associazioni di consumatori e organizzazioni femminili), 16 dei funzionari e delle professioni liberali, e di altre 24 persone nominate dal Governo.

Avvenuta la distribuzione dei seggi fra le varie categorie, sorse la questione se questi rappresentanti dovessero essere nominati sul piano nazionale o su quello regionale, sorse cioè la stessa obiezione che fu sollevata nella seconda Sottocommissione e che si affaccia anche qui all'Assemblea. Ma la questione fu bene risolta per la formazione di quel Consiglio economico, come bene potrebbe essere risolta da noi per il Senato.

Ma si presenta un'altra obiezione, che ugualmente potrà essere superata. Avanti alla seconda Sottocommissione il collega onorevole Paolo Rossi obiettò: «Ma, in questo modo, voi cristallizzerete la situazione». No, risposi e rispondo, noi non cristallizzeremmo la situazione perché domani potrà benissimo procedersi alla revisione delle categorie prese in considerazione e dei posti prima assegnati a ciascuna categoria.

Se è così — e così è — perché respingere la nostra proposta?

Fu detto nella seconda Sottocommissione e numerose volte ripetuto anche in questa Assemblea, che si tratterebbe di un sistema antidemocratico. Mi si permetta, onorevoli colleghi, che io risponda a una simile obiezione, come dire, candidamente: confesso infatti che io provo una certa esitazione quando sento dire che si tratta di un sistema antidemocratico.

Ma, onorevoli colleghi, un sistema è antidemocratico o per l'obietto o per l'intenzione la quale lo determina. Ora, io credo su questo punto di poter parlare non solo a nome mio personale, ma a nome di tutto il Gruppo al quale ho l'onore di appartenere, quando vi dico che non v'è in noi la minima idea che un tale sistema sia determinato da spirito antidemocratico, e tanto meno che possa funzionare in modo antidemocratico. Noi siamo ben lontani dal volere che la Camera dei deputati sia diminuita nel suo prestigio e nel suo potere; noi vogliamo semplicemente integrarla con l'adozione di un sistema il quale risponda a quelle tali necessità cui abbiamo dianzi accennato.

Quindi credeteci, noi parliamo con lealtà assoluta, in noi non c'è il minimo recondito pensiero che una simile riforma possa portare a conseguenze antidemocratiche.

Ma c'è di più: l'ho detto in varie occasioni. La proposta riforma tende ad attuare una più perfetta democrazia, a completare la rappresentanza che è nella Camera dei deputati, giacché la rappresentanza delle categorie dovrebbe venire ugualmente formata per mezzo delle elezioni. Per altro, tenetelo presente, da qual parte sono venute, nel secolo scorso e nell'attuale, proposte simile alla nostra? Sono venute principalmente da quelli che si chiamavano partiti estremi: nel 1919 da noi, dalla Confederazione italiana dei lavoratori e dalla Confederazione generale del lavoro.

Nella seconda Sottocommissione — permettetemi, onorevoli colleghi, che vi dica che non fu per un motivo polemico (credetemi, non amo la polemica), ma per dimostrare il mio assunto — io mi riferii, fra gli altri, leggendone vari passi, ad un discorso dell'onorevole Cabrini. No, Cabrini non era, né può certamente passare per antidemocratico. Non rileggerò qui il discorso, che è consacrato nei verbali della seconda Sottocommissione, e che si trova per altro nei resoconti della Camera del 1919. Cabrini chiedeva in quel discorso la trasformazione del Senato in un corpo di rappresentanze professionali. L'onorevole Paolo Rossi ribatté allora subito che Cabrini era un soreliano. Gli risposi e ripeto che non occorre fare simili indagini. L'interessante è stabilire che non si trattava certo di un reazionario. Aggiungo che l'onorevole Cabrini si faceva allora eco del pensiero esplicitamente manifestato dalla Confederazione generale del lavoro nel maggio del 1919; la quale Confederazione ritornò nell'ottobre dello stesso anno sull'argomento con un voto esplicito indirizzato al Ministro dell'industria e del commercio.

C'è un aureo libro — mi consentirà l'onorevole Meuccio Ruini che io lo citi — pubblicato nel 1920, dal titolo Il Consiglio nazionale del lavoro, nel quale egli, che fin dal 1906 aveva propugnato il sistema del quale ci occupiamo, riporta con assennati commenti il testo delle richieste della Confederazione generale del lavoro.

È proprio istruttivo; ed è istruttivo non solo per dimostrare che la nostra è una richiesta nient'affatto antidemocratica, ma anche per la sostanza delle considerazioni che in quel testo sono limpidamente enunciate. Nel voto della Confederazione generale del lavoro si chiede «che tutta la materia legislativa riguardante il lavoro venga affidata ad un organismo costituito con la rappresentanza delle classi lavoratrici, delle categorie professionali, con l'intenzione di sottrarre completamente alla Camera elettiva il suo diritto di interloquire nella formazione di leggi, che, pur interessando solamente certe categorie, involvono la politica finanziaria ed economica dello Stato». Nella motivazione del voto si prospettano quasi tutti gli argomenti che noi abbiamo illustrati per sostenere la nostra richiesta di riforma. Non leggo per non prendere altro tempo. Mi limito a notare che la Confederazione proponeva che il Consiglio nazionale del lavoro, trasformandosi da corpo consultivo in corpo deliberante, venisse composto dai rappresentanti di tutte le classi e categorie.

In quel tempo c'era il progetto di riforma del Senato. Il grande maestro e uomo politico di prim'ordine che, con tutta la signorilità dei suoi modi e la benevolenza del suo tratto, aveva una fermezza veramente eroica, Francesco Ruffini, relatore al Senato su questo progetto, aveva presentato delle proposte concrete per riformare una parte del Senato proprio sulla base sulla quale noi ci soffermiamo; la Confederazione generale del lavoro andò più avanti, chiedendo nell'ottobre 1919 addirittura la soppressione del Senato e la sostituzione di tale Assemblea con l'Assemblea composta dai rappresentanti delle categorie.

Lussu. Ma venti anni fa era in auge il biplano, oggi è in auge il monoplano. È la stessa questione.

Ambrosini. Raccolgo la interruzione e ringrazio l'onorevole Lussu. E allora, caro Lussu, non si tratta (perché ho detto, egregi, onorevoli colleghi, che noi dobbiamo esaminare con assoluta obiettività i problemi), non si tratta di inconvenienti insuperabili, ma di una questione di principio, e di una questione più generale di principio, che riguarda non la composizione del Senato — se si parla di monoplano — ma l'Assemblea unica; si tratta di un'obiezione che tende a scuotere quello che deve essere uno dei pilastri della Costituzione, e che il nostro progetto ha accettato in pieno, cioè il sistema bicamerale.

Passo ad un altro punto sul quale la seconda Sottocommissione si soffermò ed è opportuno che anche qui noi ci soffermiamo, per vedere se è possibile ricorrere ad un altro sistema allo scopo di formare, anche in parte, il Senato su una base diversa da quella della Camera.

La vita del Paese, oltre che sulle ideologie, oltre che sugli interessi delle forze vive della produzione (si è tanto irriso riguardo a questa espressione «forze vive della produzione»; ma sapete dove si trova questa espressione? proprio nel voto della Confederazione generale del lavoro dell'ottobre del 1919), la vita del Paese si basa anche sugli interessi territoriali, delle Regioni, delle Province e dei Comuni. Se ne discusse tanto nella seconda Sottocommissione! E l'illustre Presidente (che allora era l'onorevole Terracini) sospese e rinviò per tre volte le sedute per dar modo ai vari gruppi di intendersi. E si era arrivati ad un'intesa, sulla base appunto della rappresentanza degli interessi territoriali; intesa che poi solo parzialmente resistette alle nuove critiche. Resistette solo riguardo alla rappresentanza da attribuire alle Regioni. La soluzione concordata è qui stata sottoposta a nuove critiche. Io ritengo che la rappresentanza delle Regioni come tali debba essere mantenuta, dal momento che noi abbiamo adottato l'ordinamento regionale per tutto lo Stato. Mi rendo conto (voi lo sapete: io che ho propugnato la riforma regionale, sono stato sempre tassativamente, nettamente contrario al sistema federale), io mi rendo quindi conto delle obiezioni che si muovono all'attribuzione di un numero uguale di senatori ad ogni Regione, perché una tale attribuzione costituisce uno dei tratti caratteristici del sistema federale; ma ritengo che ciò non possa portare alla soppressione delle rappresentanze regionali. Alle Regioni, come tali, deve assegnarsi una propria rappresentanza, comunque costituita. È, ripeto, una conseguenza logica di quanto abbiamo stabilito adottando l'ordinamento regionale.

Andiamo alla rappresentanza degli interessi territoriali dei Comuni. La seconda Sottocommissione l'aveva ammessa. Le discussioni e le critiche riferentisi specialmente ai criteri di attuazione di questo tipo di rappresentanza portarono poi alla scelta di un altro progetto. È opportuno riprendere qui l'esame del problema. I precedenti della legislazione francese del 1875 e del 1884 possono servirci di guida. La legge del 1875 aveva costituito un collegio dipartimentale, provinciale, composto oltre che dei deputati e dei consiglieri generali e di circondario, di delegati eletti, uno per ogni Consiglio comunale. Parigi ebbe un solo delegato come il più piccolo Comune della Francia. Le critiche furono gravi. Gambetta qualificò il Senato come il Gran Consiglio dei Comuni rurali.

Nel 1884 si fece la riforma, adeguandosi la distribuzione del numero dei delegati comunali fra i Comuni a seconda della relativa importanza. Noi potremmo, se vogliamo arrivare ad applicare il principio egualitario fino alle ultime conseguenze, adottare il sistema di attribuire ai Consigli comunali la potestà di eleggere un numero di delegati direttamente proporzionato al numero degli elettori o al numero della popolazione. Riguardo alla composizione del Senato aggiungo infine (senza soffermarmi sulla proposta perché altri colleghi ne hanno parlato) che ritengo opportuno che una percentuale, per quanto minima, dovrebbe essere lasciata alla nomina del Capo dello Stato, o essere affidata all'elezione della Camera dei deputati, o, in ogni caso, essere confidata allo stesso Senato col sistema della cooptazione. Riassumendo: io sarei per la composizione di un Senato su base mista: della rappresentanza degli interessi delle categorie della produzione intesa nel senso più vasto, e della rappresentanza degli interessi territoriali delle Regioni e dei Comuni, integrando le due rappresentanze con un numero di senatori nominati dal Presidente della Repubblica.

Egregi colleghi, io devo fare qualche altra considerazione sul potere esecutivo e sul sistema dei rapporti fra legislativo ed esecutivo. Indubbiamente, la forma di Governo è determinata dal sistema dei rapporti tra questi due poteri. Dirò subito, andando senz'altro quasi alla conclusione, senza darne la dimostrazione perché il tempo incalza, che non propendo per nulla, che anzi sono completamente contrario, a quella tendenza, che pur debolmente è stata manifestata in questa Assemblea, per il sistema direttoriale, tipo Svizzera, e che non sono nemmeno favorevole al sistema presidenziale. Non intendo con questo secondo riferimento pregiudicare la questione del sistema di nomina del Capo dello Stato. Credo opportuno notare in proposito che, se per avventura quest'Assemblea venisse nella decisione che il Capo dello Stato debba essere eletto direttamente dal popolo, ciò non importerebbe affatto adozione del sistema presidenziale, perché questo sistema è caratterizzato non dal fatto che il Presidente è eletto dal popolo, ma dal fatto che il Capo dello Stato è contemporaneamente Capo del Governo, e che i Ministri sono nominati dal Capo dello Stato e sono soltanto di fronte a lui responsabili, talché non entra per nulla in gioco il meccanismo di voti di fiducia o di sfiducia da parte delle Camere. È evidente che noi, per mille ragioni, non potremmo accettare un tale sistema.

E allora non resta altro che adottare il sistema parlamentare. Ma anche qui bisogna intenderci. C'è un regime parlamentare classico, quello inglese, che ora si è trasformato perché il Primo Ministro, che resta — come fu chiamato — il re senza corona, il vero domino dell'esecutivo, se è sempre nominato dal Capo dello Stato, sostanzialmente è indicato dal corpo elettorale nelle elezioni generali, dal cui risultato si vede subito chi deve essere nominato primo Ministro. Il Governo, il Gabinetto, da questi formato, ha in massima il carattere unitario e omogeneo, e può quindi essere stabile.

Ora non possiamo illuderci, egregi colleghi, di adottare un tale sistema, perché esso presuppone due grandi partiti, uno di maggioranza e l'altro di minoranza, che convogliano le forze politiche del paese. È un congegno, che non corrisponde affatto alle nostre condizioni. Del regime parlamentare, nelle sue linee essenziali, noi possiamo mantenere alcuni pilastri fondamentali. Sforziamoci di creare un potere esecutivo forte; altrimenti è la democrazia stessa che viene messa in pericolo. Per avere un potere esecutivo forte è anzitutto necessario avere un Capo dello Stato che non sia soltanto un simbolo. Da varie parti, nella dottrina, nel mondo politico e in alcune Costituzioni dell'altro dopo guerra, si seguì quel sistema della così detta razionalizzazione del regime parlamentare, che in fondo non è altro che una trasformazione profonda di esso realizzantesi con la diminuzione dei poteri e della figura del Capo dello Stato. Questa Magistratura deve essere dotata di poteri adeguati al suo altissimo compito.

Nessuno abbia paura di questi poteri del Capo dello Stato; non abbia paura anche perché egli non può esercitarli di suo proprio arbitrio e da solo.

Il regime parlamentare è un congegno così delicato e difficile che farebbe perdere la testa a quegli studiosi che volessero classificarlo con una formula semplice e lineare. Per questo gli inglesi si limitano a descriverne le particolarità. Nel regime parlamentare l'esecutivo è un organo complesso composto del Capo dello Stato e del Governo; il quale Governo poi a sua volta è composto del primo Ministro e degli altri Ministri; e tutto questo organo deve funzionare come un congegno di orologeria, in armonia e d'accordo, perché altrimenti il sistema non funziona e salta in aria.

Il congegno è molto delicato e difficile, ma è il congegno, che solo, nelle circostanze del mondo attuale, specie da noi, può garantire la libertà al popolo e nello stesso tempo la energia e la continuità dell'esecutivo.

Alcune Costituzioni dell'altro dopo guerra diminuirono, anche formalmente, i poteri del Capo dello Stato, attribuendoli al Governo, e lasciando a lui soltanto alcuni poteri tassativamente indicati nella Costituzione. No! Il Capo dello Stato deve partecipare a tutta l'attività dell'esecutivo in base al congegno proprio del regime parlamentare classico.

Secondo: bisogna evitare che la posizione del Capo dello Stato sia resa instabile, non solo in diritto — il che fa il nostro progetto di Costituzione — ma anche in via di fatto — il che noi dobbiamo raccomandare alle future Assemblee legislative, perché nel funzionamento della macchina parlamentare e dell'esecutivo non ricorrano a quegli espedienti, che possano indurre o costringere il Capo dello Stato alle dimissioni, come varie volte avvenne in Francia, sotto la terza Repubblica, con tutte le conseguenze, che gli storici hanno constatato. (Interruzioni a sinistra). Il Capo dello Stato non ha propria volontà esclusiva. Inconvenienti ce ne sono in tutti i sistemi. Qualsiasi sistema potrebbe essere sottoposto a numerosissime critiche. Bisogna vedere fra i vari inconvenienti quale è il minore.

Ebbene, secondo il nostro modesto modo di vedere, la stabilità del Capo dello Stato è un bene, che supera gli eventuali inconvenienti; anche perché — siccome il Capo dello Stato non può agire per volontà particolaristica individuale, ma deve adeguare la sua volontà a quella del Governo, il quale a sua volta non può restare in carica se non con la fiducia delle Camere — praticamente è impossibile la dittatura, praticamente sono le Camere ad avere la direttiva e la bussola dello Stato. Vero è che il Capo dello Stato può sciogliere le Camere; ma deve essere d'accordo col Governo. Ed in questo caso nessuno ha da lamentarsi, perché è il corpo elettorale, che in definitiva, nell'esercizio della sua sovranità, deciderà, tracciando le direttive al nuovo Governo, alle quali direttive il Capo dello Stato deve uniformarsi.

Veniamo alla composizione del Governo, ultimo punto al quale devo accennare. Non faccio alcun riferimento a situazioni esistenti o del passato; guardiamo all'avvenire. La questione della stabilità del Governo è da noi ardua come quella della quadratura del circolo. Non abbiamo forze sufficienti a fare questa quadratura; né potremmo — e sarebbe male, a mio modo di vedere — con norme pretenziose dettate nella Costituzione, volere disciplinare eventi, che non sono disciplinabili.

Ho sentito l'altro ieri il collega onorevole Rubilli attaccare la proporzionale, addebitando ad essa la instabilità dei Governi. Si giudichi come si vuole il sistema della proporzionale; ma questa colpa non le si può dare, perché le valutazioni statistiche mostrano che col sistema del collegio uninominale la carta politica riusciva e riuscirebbe così variopinta di partiti, come col sistema della proporzionale. Se il Paese è molto frazionato, non c'è sistema elettorale che riesca a creare artificialmente pochi partiti e tanto meno due soli partiti. Vorrei anche osservare che altri inconvenienti, lamentati dall'onorevole Lussu riguardo al collegio uninominale, purtroppo non può dirsi che siano scomparsi dopo l'adozione di altri sistemi.

Adunque, è impossibile che da un Parlamento composto di molti partiti possa sorgere un Governo omogeneo, formato da un partito che abbia la maggioranza assoluta. Ed allora che fare? Era stata affacciata la proposta di un sistema presidenziale di Governo consistente nell'elezione da parte delle Camere del Capo del Governo per la durata di un minimo di due anni; ne parlammo al principio col collega onorevole Tosato e con altri. Ma la proposta era inaccettabile. Si tratterebbe di una specie di sistema presidenziale ridotto, ed avente come perno il Capo del Governo e non il Capo dello Stato. Respingendo il sistema nei riguardi del Capo dello Stato, è logico che non si può accettarlo nemmeno per il Capo del Governo.

A quale altro sistema ricorrere adunque per avere un Governo omogeneo? Ad un Governo di minoranza o di maggioranza relativa? Ma questo, se è possibile e necessario in periodi di emergenza, non è possibile sicuramente in periodi normali.

Ed allora, egregi colleghi, è bene che riconosciamo esplicitamente che fino a quando permane questa situazione, cioè della divisione del Paese in tante correnti politiche, è impossibile, qualsiasi sistema elettorale si scelga, che si arrivi ad avere nel Parlamento un partito di maggioranza assoluta, e che è quindi impossibile arrivare alla costituzione di un Governo omogeneo.

Non c'è che il Governo di coalizione. Se è così, occorre ricorrere a correttivi che però non possono scriversi nella legge, ma che debbono affidarsi solo al costume politico e al generale senso di responsabilità.

È successo finora, per necessità contingenti delle quali diedero spiegazione vari autorevoli colleghi di questa Assemblea, è successo che partiti partecipanti al Governo di coalizione criticassero od oppugnassero provvedimenti deliberati dal Governo del quale coi propri esponenti essi facevano parte. Si è detto che ciò era inevitabile perché i partiti, perdendo quasi la libertà di opposizione nel seno del Governo, erano costretti a riprenderla e ad esercitarla nel paese. Non è qui il caso di soffermarsi sul passato; ma è il caso di affermare che ciò non dovrebbe ripetersi per l'avvenire. Si, caro Conti; dobbiamo affidarci al costume, al nostro senso di responsabilità, al patriottismo e al senso di responsabilità di tutto il popolo, delle classi dirigenti e specie di coloro che saranno eletti nelle future Assemblee legislative.

Siccome nelle circostanze dell'epoca attuale non è possibile altra forma di Governo che quella del Governo di coalizione, sarà indispensabile — se non si vuole sabotare scientemente o inconsapevolmente il funzionamento del Governo — che i partiti i quali si accordano su un minimo di programma nell'entrare a far parte del Gabinetto, si comportino in conseguenza coerentemente agli impegni presi. Se l'impegno diventasse pesante dovrebbero lasciare la coalizione, non sabotarla.

Naturalmente nessuna norma costituzionale può disciplinare questa materia. Dobbiamo affidarci al costume, onorevoli colleghi, in questa materia noi non possiamo che affermare un'esigenza fondamentale per la vita del Paese ed invocare la buona volontà e la cooperazione dei partiti, che sono tutti legati, come tutti indistintamente, individui e gruppi senza alcuna esclusione siamo legati, alla stessa sorte della Nazione.

Noi abbiamo bisogno, nel grave periodo che attraversiamo, nel caos internazionale e nell'immenso disagio interno del Paese, di un Governo che sia stabile e forte, di un Governo che assicuri la continuità e l'efficienza della politica dello Stato, di un Governo che permetta al popolo di risollevarsi dalle rovine, di un Governo che dimostri all'estero la dignità di questa sacra Patria, dell'Italia, che pur oggi, torturata, dilaniata ed offesa nel suo corpo fisico, sente di avere un'anima che può affrontare tutte le tempeste e può ancora dire al mondo una parola di armonia, di equilibrio e di pace nell'interesse nostro e di tutti gli altri. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

Nitti. Io intendo limitarmi a poche osservazioni sui titoli I, II, III di questa parte del progetto di Costituzione. Siamo ora veramente nella Costituzione. Finora abbiamo parlato di tutto, tranne che della Costituzione. Forse per questo la Camera era prima molto più affollata (varietas delectat), ed ora è diventata deserta. È forse anche per caso che io trovo oggi un certo numero di ascoltatori!

Ora si discute la vera Costituzione. Sinora, discorsi vani, anche di oratori facondi, che hanno detto tante cose, ma non hanno parlato della Costituzione. Costituzione è quell'insieme di disposizioni che regolano l'ordinamento dello Stato. Dell'ordinamento dello Stato non si è finora mai parlato; ora incominciamo a parlarne ed entriamo in un ordine di considerazioni e di studi che riguardano la vita del Paese.

Però la discussione incomincia tardi. Noi abbiamo davanti a noi brevissimo tempo, ed in questo brevissimo tempo dobbiamo fare troppe cose, che sono di gran lunga più complesse e difficili di quelle che abbiamo discusso finora.

Abbiamo davanti a noi la limitazione del tempo: noi dobbiamo aver finito il nostro lavoro per il 31 dicembre. Io sono stato il responsabile del suggerimento della data del 31 dicembre. Fra le proteste dell'onorevole Nenni e l'indignazione di alcuni che trovavano quasi sconveniente prorogare il termine che la legge non prevedeva e si scandalizzarono. Ma poi anche quelli che dicevano non volere ciò che io volevo, consentirono a piegarsi davanti alla necessità. Si era perduto troppo tempo e si doveva riparare al tempo perduto. Ma ora, non io e non forse altri, credo, oserà chiedere un'altra proroga. Noi dobbiamo, per il 31 dicembre, avere esaurito il nostro compito. Quindi, lavoro difficilissimo, perché adesso viene quella parte della nostra Costituzione che è soggetta ad una maggiore cura dei dettagli e che dovrebbe essere esaminata con ogni serietà. Finora abbiamo parlato di tante cose inutili: rinuncia alla guerra di conquista (quando siamo in difficoltà di difendere noi stessi), garantire ospitalità a tutti coloro che si trovano a disagio nei loro paesi! Abbiamo promesso al popolo italiano tante cose, troppe cose che non saremo in condizione di fare o di dare e tutto questo in articoli di Costituzione! Adesso non si può divagare né perdere tempo e si deve discutere seriamente e in dettaglio, senza nuove fantasie, gli articoli che riguardano la vita fondamentale del nostro Paese. Ora, dunque, occorre che non solo discutiamo con calma e serenamente, ma che discutiamo senza preconcetti, non in quanto non vi siano grandi affermazioni di principî da farsi. Dobbiamo fare brevemente, nel termine di tre mesi, disposizioni che richiedono attenta osservazione e cura di dettagli. Io voglio limitarmi a fare una serie di osservazioni e più che altro una serie di domande.

Io avvertii già nei due discorsi del 10 aprile e dell'8 maggio le difficoltà contro cui ci saremmo urtati nel fare la Costituzione nella parte essenziale. Quello che mi sorprende in questo Titolo della Costituzione è la sovrabbondanza e lo spirito di uniformità. Si è avuto cura di aumentare tutte le istituzioni fino all'iperbole. Bisognava ridurre il più possibile, si è aumentato il più possibile. Il legislatore (questa volta è difficile dirlo perché parecchi sono stati i legislatori; non si può parlare della mens legis, della mente del legislatore), i legislatori di diversa origine, animati da diverse passioni, hanno voluto mettere una parte di loro stessi, e tutto è finito spesso in un compromesso che toglie efficacia. Ora, due cose mi sorprendono come osservazione generale su questa parte: la prima è un eccesso di dilatazione, un desiderio di aumentare, e l'altra è l'uniformità. Tutto è stato soggetto, in questa Costituzione, alla dilatazione e alla uniformità. Ciò è caratteristica soltanto italiana, perché in nessun Paese esiste l'ipertrofia dei titoli e delle funzioni. Qui, se si dice: la Camera dei Deputati dura 5 anni, si deve ammettere che anche il Senato dura 5 anni. Non c'è nessuna ragione perché duri anch'esso 5 anni. Ma se non si accetta la stessa durata, pare che si offenda, come si dice, la democrazia. La democrazia è messa in tutte le cose, sopra tutto in quelle in cui non entra affatto. Troppa uniformità da un lato e dall'altra la sovrabbondanza di funzioni. Se mi permettete, siamo quasi nella situazione delicata in cui si trovano gli operai di molte fabbriche, in cui si trovano gli impiegati di molti uffici. Si sono ammessi come operai anche molti che non sono e di cui non è bisogno, non perché erano necessari, ma perché bisognava dare loro una occupazione. In alcune fabbriche, su tre operai solo due lavorano; in molti uffici su tre impiegati non so se due lavorano. Forse sì, forse no. Ma nessuno oserebbe mandarli via e nessuno osa, perché per ragione di pace sociale si è creduto necessario metterli dentro. Ora qui si sono create e si creano molte diverse situazioni per cui bisogna aumentare in tutti i modi il numero dei legislatori.

Vi assicuro, e non dico queste parole a caso, che in nessun paese di Europa e in nessun grande paese di America, si è fatto tanto cattivo uso del numero per regolare la vita dello Stato, quanto se ne fa in Italia.

Se ora esaminiamo i Titoli che sono sottomessi alla nostra indagine, questo è il primo fatto che colpisce.

Cominciamo dalle Camere legislative. È venuta, prima di tutto, la grande disputa: una Camera o due Camere. Non so perché si diceva che le democrazie volevano una Camera, che molta parte della democrazia non ammetteva la seconda Camera. Io non conoscevo questa legge della democrazia, e non mi so spiegare perché l'invenzione delle due Camere non è stato un fatto di volontà conservatrice, è stato un fatto determinato da lunghe vicende della storia e voluta dalla democrazia. Una cosa però sappiamo ed è che i paesi che hanno avuto una sola Camera sono sempre precipitati nel caos o nelle tirannie. E questo è accaduto dovunque: non vi è nessun Paese che abbia potuto reggere al disastro di una sola Camera...

Lussu. Roma per duemila anni;

Nitti. La ringrazio. Roma durò solo mille anni. La vera Roma fino all'ultimo degli imperatori aveva speciali ordinamenti, per cui i poteri del Senato e delle Magistrature si compensavano e si completavano. Roma aveva un ordinamento del tutto diverso. Il Senato aveva un grande potere, ma che era limitato dal potere delle alte Magistrature e dal potere dei tribuni della plebe. E il Senato era limitato nel suo funzionamento dalla stessa sua formazione. Il Senato era un'Assemblea conservatrice, che aveva un suo speciale ordinamento e che doveva assoggettarsi ad esso con rigida disciplina. Roma non è materia di confronto con nessuno dei paesi moderni. Aveva la provvida istituzione della dittatura. Vicino alle grandi Magistrature, quando le cose andavano male, era il Senato stesso che decideva di andar via e che conferiva tutti i poteri ad un dittatore, che, in generale, durava solo qualche settimana, al massimo eccezionalmente fino a sei mesi. La istituzione della dittatura dette buona prova, finché non venne un uomo senza scrupoli, che fu Mario (che non so perché le democrazie trattano con tanto rispetto) che deformò la dittatura. Prima di Mario nessuno aveva prorogato la dittatura oltre il breve termine di qualche mese. La dittatura era la grande istituzione democratica ed il grande correttivo degli errori dell'Assemblea parlamentare. Ma noi non conosciamo nessun paese moderno che abbia fatto la prova di un Governo che sia durato a lungo con una sola Camera, soprattutto se si tratti di un paese latino, e non dico di razza latina, come si dice sempre a sproposito, perché non esistono razze latine, ma paesi di razze diverse e che sono di lingua e di civiltà latina, e però hanno una fusione in certe tendenze generali dello spirito.

Ora, Roma antica aveva per disposizione naturale del popolo attitudini politiche eccezionali. Non aveva la nostra impulsività e quando arrivava al correttivo o alla dittatura era perché le lotte, che il Senato non poteva eliminare, richiedevano eccezionale rimedio.

I Romani avevano il concetto e il sentimento dello Stato e della sua continuità: non facevano niente in maniera impulsiva. Davano gli onori del trionfo anche al generale vinto se credevano che egli avesse agito con coraggio e con competenza. Roma sapeva vincere e durare: nella guerra di Spagna durò 198 anni e non si stancò mai. La continuità era nel carattere del popolo: noi quando siamo andati in Libia, abbiamo preteso lo stesso anno di arrivare nell'interno; i romani per arrivare nell'interno hanno atteso oltre un secolo.

I Romani, come tutti i veri popoli conquistatori, avevano il senso della continuità. Ora, non si farà mai un paese ordinato con una unica Camera: si possono avere costituzionalmente le forme più diverse; ma mai si potrà stabilire che vi sia una Camera unica. Badate che la caduta recente della Repubblica di Spagna, cui è seguita la dittatura, è dipesa proprio dall'aver adottato una unica Camera.

Io ho molto conosciuto (veniva spesso da me a Parigi) il Presidente di quell'Assemblea, Santiago Alba. Veniva con lui qualche volta il capo dei conservatori Sanchez Guerra, uomo austero e nemico della dittatura. Ho scritto la prefazione al libro di Santiago Alba sulle dittature. Alba mi diceva: la Repubblica spagnuola era destinata a perire, perché aveva una sola Camera e non poteva avere ordine. E aveva una sola Camera perché i conservatori, volendo fare opposizione e ostruzionismo al movimento democratico, si allontanarono e non votarono quando si dovette decidere della seconda Camera.

Tutto andò male, e allora non fu possibile avere un'Assemblea seria, e sopra tutto moderata. Si ebbe un'Assemblea unica, che passò di errore in errore, dopo di che a causa o con il pretesto dell'assassinio di un deputato che non fu punito, vi fu una violenta reazione che finì nella dittatura militare.

Non bisogna considerare la seconda Camera come un ornamento costituzionale. La seconda Camera è una necessità. Nel progetto di Costituzione è ammessa. Abbiamo cominciato però con offenderla, perché nel nostro progetto che esaminiamo, il nostro Senato ha avuto un nome sconcio: è chiamato «Camera del Senato». E chi ha pensato a un simile orrore, non dirò errore? Ma come! «Senato» è un nome glorioso. In tutte le strade di Roma troviamo ancora scritto Senatus Populusque Romanus. Nell'America stessa la seconda Camera si chiama Senato; tutti i grandi popoli che hanno voluto costituire un'Assemblea hanno cercato di chiamarla Senato. Il più grande tragico, Shakespeare, ammiratore di Roma e incurante delle precisazioni della storia, attribuisce a tutti i grandi popoli, a cominciare da Atene, un Senato.

Perché poi questo errore? Forse perché qualcuno di quelli che hanno preparato il progetto di Costituzione ha letto che in Inghilterra c'è una Camera dei Comuni e una Camera di Lords. Ma lì è tutt'altra cosa! Quelle non sono due Assemblee create dal popolo: sono due Assemblee che vivono da tanti secoli, l'una in origine rappresentativa della nobiltà terriera e della ricchezza fondiaria, l'altra rappresentativa del commercio delle città e dei traffici. E l'una è sempre vissuta indipendente dall'altra; e ciascuna ha avuto una sua formazione storica e giuridica: spesso in lotta con il sovrano.

Con mia sorpresa, mi trovo di fronte a un fatto nuovo, a una proposta che mi ha vivamente sbalordito: noi abbiamo o siamo minacciati di avere un organismo senza storia e senza serietà che si chiama «Assemblea Nazionale». Non mi sarei aspettato mai una simile sorpresa. Che cosa è e che cosa può essere l'Assemblea nazionale? Nei tempi normali, noi chiamiamo «Assemblea nazionale» in Francia come in Italia la riunione per un sol giorno o per due quando le due Camere si riuniscono nella sala di una di esse per un argomento che richiede l'intervento di entrambe. In Italia si riunivano a Montecitorio perché l'Aula del Senato era troppo piccola.

Ma quando si riunivano? Si riunivano in Italia all'inizio della nuova legislatura, quando il sovrano, pronunziato il discorso della Corona, assisteva al giuramento dei deputati. Io stesso ho presieduto la prima riunione della XIX legislatura. Era cosa di un giorno, anzi di poche ore. Si riunivano senatori e deputati e poi non si riunivano più mai, se non per speciale evento come l'apertura di una nuova sessione. Chi avesse creduto cristallizzare la riunione, che doveva avere la durata di un giorno, in un'Assemblea permanente con funzioni proprie e sede propria sarebbe stato considerato pazzo.

Ora, e questo è sbalorditivo ed è unico al mondo, si vuol creare un'Assemblea Nazionale permanente, enorme e assurda, che non esiste in nessun paese del mondo, perché non ha ragione di esistere; perché, o sopprime una delle due Camere, o le sopprime tutte e due. Che cos'è quest'Assemblea Nazionale che, come dicevo, è unica ed è contemplata dagli articoli 60, 61, 74 e 75 del progetto di Costituzione e che, siccome non affrontano la questione, ma la presentano in tante forme, non danno l'idea che si tratta di una nuova Camera, che è del tutto diversa, che ha funzioni diverse e che si sovrappone alle altre ed ha poteri permanenti.

Non è qui il caso di avere dubbiezza, perché l'onorevole Ruini stesso, il Relatore, ci toglie ogni dubbio. Egli non ha esitato a dirlo anche lealmente: si tratta di una nuova Camera che, naturalmente, dovrà avere i suoi uffici, la sua sede, i suoi mezzi di vita. Noi faremo una terza Camera, la quale sarà una riunione delle due Camere che esistono, ma non avrà un suo scopo e quindi è ridicolo che abbia la sua funzione. È vero che il disegno di legge le attribuisce funzioni ipotetiche. Sarà, si dice, come un Consiglio superiore della Nazione. E che cos'è questo Consiglio superiore? L'onorevole Ruini ha avuto forse qualche dubbiezza, e l'ha risoluta senza scrupolo. Questa Camera diventa, egli ha detto, in un certo senso: «un istituto nuovo che la nostra Carta introduce: l'Assemblea Nazionale, e cioè il Parlamento che funziona a Camere riunite per atti di singolare importanza, come l'elezione del Presidente della Repubblica, l'espressione di fiducia e sfiducia al Governo, le deliberazioni della mobilitazione generale e dell'entrata in guerra — tutte cose che si fanno in un giorno — e così — fatto nuovo e strano — dell'amnistia e dell'indulto (la cui attribuzione al Parlamento costituisce un novum della Costituzione), infine la designazione di chi deve far parte di organi rilevanti nell'ordinamento dello Stato, quali il Consiglio Superiore della Magistratura e la Corte costituzionale. Pur serbando la bicameralità, si pongono le basi di una trattazione unitaria dei problemi fondamentali».

Ma la trattazione unitaria si è sempre fatta: Montecitorio e Palazzo Madama, sede del Senato, sono a qualche centinaio di metri di distanza. Bastava un usciere per fare arrivare gli atti dall'una all'altra Camera, senza inutile solennità. Non vi è ragione, quindi, di fare nientemeno che un'Assemblea Nazionale! E poi, sul serio, vogliamo far discutere alla Assemblea Nazionale — la quale è più che una sola Camera: sono due Camere — provvedimenti come l'indulto e l'amnistia? È prudente, è saggio, è utile? E che cosa deve fare questa Assemblea? Se non ha lavoro, deve crearselo.

Potete ben immaginare quale numero di uffici, quale folla di funzionari! E questa cosiddetta Assemblea Nazionale, con la Camera e il Senato riuniti, sarebbe composta di circa mille persone. Dovendo avere sede propria, dovrebbe avere assai più di mille partecipanti. Nessun palazzo di Roma può contenere una così enorme accolta di legislatori in forma duplicata. Occorrerebbe, se l'Assemblea avesse carattere permanente e non finisse nel giorno stesso in cui è convocata, tutta una situazione nuova.

Questa Camera non ha scopo di esistere, non ha modo di esistere, non deve esistere! E la solennità sua stessa sarebbe inutile spesa in questo momento in cui tutte le spese devono essere ridotte. Sarebbe dissipazione enorme per la cosa più inutile.

Abbiamo noi veramente necessità di creare questa nuova Camera? E perché tanti legislatori e anche in funzione duplice?

Sapete ciò che sorprende quando si esaminano i nostri ordinamenti? Noi vogliamo avere più uomini che devono fare le leggi che non ne abbiano tutti gli altri paesi del mondo. Vogliamo, creando adesso una Camera enorme, un Senato enorme, riunirli e vogliamo fare dell'unione di tutte e due le Assemblee un'Assemblea enorme, un'Assemblea Superiore, che è senza precedenti in qualunque paese del mondo e che si presta solo al ridicolo.

Noi potevamo fare al più un deputato per ogni duecentomila abitanti, o se vi piace, almeno per ogni centocinquantamila. Noi vogliamo fare invece un deputato per ogni ottantamila abitanti. Vi pare che non sia un eccessivo numero?

Ora, se vi piace, vi leggerò quello che è negli altri paesi, anche nei più grandi di noi. Noi pretendiamo che, siccome vi è una numerosissima Camera dei deputati, dobbiamo fare un numerosissimo Senato o, come si dice per offesa Camera dei senatori. E allora siamo andati a dire che vi sono per ogni Regione (si calcola tutto; io non sono d'accordo, ma voi siete in questa via, che sulla base delle Regioni si debba fare tutto, e si è pure di accordo, nel seno di qualche partito di massa, che bisogna fare un Senato).

Quindi, si vogliono dare nientemeno che ad ogni Regione cinque senatori, numero fisso — e poi un senatore per ogni duecentomila abitanti.

Sapete l'America quanti senatori ha per ogni Stato? Due. E noi facciamo di queste acrobazie, e noi pretendiamo di fare delle Assemblee serie che si reggano su questa base! E accadrà dei legislatori come della nostra moneta, che più ne emettiamo e più diminuisce di valore; più aumenta il numero dei nostri legislatori e più essi diminuiranno di serietà e di prestigio!

Io vi do l'esempio del più grande paese del nostro tempo: gli Stati Uniti d'America. Gli americani si può amarli, si può non amarli, ma in materia politica ci presentano un fatto unico nel mondo moderno. Questi Stati Uniti, che si presentano veramente come un paese così potente, sono nella loro vita costituzionale di una continuità e di una stabilità impressionante! Dal 1787 essi sono sempre allo stesso posto. Hanno cambiato tutte le forme di vita, son passati dalla vita pastorale primitiva alla grande industria, da paese di ricchezza pastorale e agricola a paese di sconfinata ricchezza, ma hanno sempre la stessa legge costituzionale e la forza della Costituzione non è mai variata, e non è mai diminuito il suo prestigio.

L'Osservatore Romano (di cui sono lettore) non so perché ha ricordato spesso che nello spazio di 150 anni la Francia è il paese che ha mutato 13 Costituzioni: solo la Spagna può pretendere di averla superata.

Gli Stati Uniti dal 1787 non hanno mutato mai la Costituzione. La Costituzione americana, profondamente democratica, veramente democratica, che ha creato la rivoluzione francese; la stessa Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789 non è che la riproduzione integrale dello Statuto che fecero gli emigrati in America. Erano i perseguitati dalla tirannia della religione ufficiale che giungendo in America si fecero uno Statuto per regolare i loro rapporti sulla nuova terra e quello Statuto divenne la carta della democrazia moderna.

Ora, se non abbiamo un modello di Costituzione da imitare, guardiamo piuttosto agli Stati Uniti che ad altri paesi: naturalmente mutatis mutandis in ordine di grandezza e di tempo. Noi dobbiamo guardare verso l'ordinamento costituzionale che ha meglio resistito a tutte le bufere.

Quanti sono i legislatori degli Stati Uniti? Negli Stati Uniti vi sono 96 senatori. Siano grandi o piccoli Stati, devono avere tutti come plenipotenziari nello Stato centrale lo stesso numero di rappresentanti, due per ogni Stato, e nessuno ha mai preteso più di due rappresentanti.

E quale è il numero dei deputati? Noi pretendiamo che se il Senato duri cinque anni, la Camera deve durare cinque anni, e le due Camere devono essere regolate allo stesso modo, ciò che è non solo inutile ma anche dannoso. Democrazia non vuol dire uniformità.

Quindi, quale è l'ordinamento degli Stati Uniti? Gli Stati Uniti hanno una Camera dei Rappresentanti (noi diciamo Camera dei Deputati) che dura due anni perché è una Camera eletta direttamente dal popolo e si vuole dia la viva sensazione del paese. Quindi la Camera si rinnova ogni due anni. Si può sapere ciò che il paese pensa e desidera e saperlo a brevi intervalli.

E quanti sono i Senatori? Sono 96. I Deputati invece sono 435, cioè assai meno di noi, della nostra Costituente. Dunque noi abbiamo meno di un terzo degli abitanti degli Stati Uniti (e non vi faccio il paragone di potenza e di ricchezza) e siamo qui dentro molto più numerosi dei rappresentanti degli Stati Uniti che sono soltanto 435.

Quanto dura il Presidente della Repubblica? Dura quattro anni; quindi con la durata delle Assemblee nessuna uniformità. La democrazia non richiede uniformità; spesso anche l'esclude.

Negli Stati Uniti dunque la Camera dei Rappresentanti è rinnovata ogni due anni, il Presidente della Repubblica dura quattro anni ed i Senatori durano sei anni e si rinnovano ogni due anni di un terzo. Il Senato dunque non si scioglie. Questo è altro errore in questo progetto di Costituzione che ci presentate. Si può sciogliere la Camera e nello stesso modo il Senato? No, il Senato in America non si scioglie mai. Anche in Francia non si scioglieva il Senato. Quale era in Francia la situazione? La Francia aveva una Camera che durava quattro anni, aveva un Presidente della Repubblica che durava sette anni (periodo per me troppo lungo) e aveva poi un Senato che durava nove anni e si rinnovava di un terzo ogni tre anni. Voi dire che per avere la democrazia bisogna avere le stesse leggi. No, le stesse leggi si può averle nel loro contenuto politico essenziale, non già nella loro forma e nel loro funzionamento.

Ora, dunque, noi ci troviamo di fronte alla grande potenza americana che ha 531 deputati e senatori: meno di quanti noi siamo qui in questa sala della Costituente. Non credo che questo esempio sia privo d'importanza. Si tratta del Paese che ha creato la democrazia. La democrazia è una creazione americana, e l'America è stata la prima Repubblica del mondo veramente democratica.

Il Senato deve essere la seconda Camera, e va concepito quale è nella sua reale funzione. Ora, nel Progetto, mi trovo di fronte a una serie di questioni di cui non trovo la spiegazione. Come deve essere eletto da noi il Senato? Qui vi è una cosa che m'imbarazza: non vi sono solo disposizioni riguardanti l'elettorato del Senato, vi sono anche le disposizioni per le categorie degli eleggibili. Chi sono gli eleggibili? È una novità piuttosto spiacevole. Con che diritto fissiamo quelli che devono essere gli eleggibili? Perché fissiamo addirittura le liste degli eleggibili? L'età: 35 anni. Bisognerebbe arrivare per lo meno a 40. La stessa parola «Senato» (i patres) dice che non erano dei giovani senatori. Ma vi è la categoria degli eleggibili che mi imbarazza e per cui trovo la cosa anche più strana. Noi non abbiamo il diritto di fissare queste categorie. Noi non facciamo un Senato economico e professionale; allora si spiegherebbero le categorie. Ma volendo lasciare al Senato il carattere di Assemblea politica non si spiega perché dovremmo indicare chi è eleggibile. Se noi volessimo entrare nell'idea di Senato e di Camera a fondo sindacale o corporativo od a fondo censitario, me lo spiegherei. Ma ora, con che diritto facciamo categorie chiuse?

Qualche volta si cade anche nell'irragionevole.

Trovo, per esempio, che, anche prima di fissare le categorie degli eleggibili, la prima eleggibile, vi è una disposizione che mi sbalordisce e deve essere un errore: è quella secondo cui agli elettori si impone di essere nati o domiciliati nella regione. Nessuno di noi può essere eletto senatore se non è nato o domiciliato nella Regione. Cosa grave, perché è una limitazione assurda e inspiegabile. Se non si è nati bisogna andarsi a domicilare. Ma chi, in un Paese libero, concede queste limitazioni territoriali? Si può concepire maggiore stravaganza? Si può arrivare, come in America, perfino a togliere il diritto di voto ai cittadini della Capitale. La Capitale deve essere fuori contestazione; non vi devono essere vere lotte politiche. La Capitale deve rappresentare il luogo dove tutti si possono incontrare serenamente al di fuori dei partiti. Non conosco le ultime disposizioni al riguardo. I cittadini di Washington non erano né elettori né eleggibili. Questa idea è entrata anche nei singoli Stati. Lo Stato di New York non ha per capitale New York, ma Albany, che in paragone è una piccola città. E così sull'Oceano Pacifico vi è la grandissima città di San Francisco; ebbene, la capitale dello Stato della California è Sacramento.

Dunque, si possono imporre limitazioni, se vi sono ragioni di diritto e scopo di utilità pubblica. Ma perché i candidati devono essere nati o domiciliati nella Regione dove vogliono essere eletti? Non lo trovo né logico né conveniente.

Poi vi sono le categorie di eleggibili. Non vi devo negare la mia sorpresa. Con tutto il rispetto che ho per i partigiani e per i combattenti contro il Fascismo, trovo però molto strano che la prima categoria degli eleggibili è rappresentata dai decorati al valore della guerra di liberazione 1943-45. Ora, a queste categorie di persone si possono rendere tutti gli onori, ma come si può creare questa categoria a parte? Come si può ammettere una misura di questo genere, che non sia estesa a tutti i decorati di guerra, i quali hanno tanto sacrificio sostenuto? Come si può rinchiudersi nel breve periodo 1943-45, quale che sia lo scopo e la dignità? Ammesso che si voglia tenere conto dell'elemento del valore in qualche categoria, non possiamo considerare soltanto il valore militare, ma anche il valore civile. Se vogliamo costituire una categoria di privilegiati, quella dei decorati al valore, possiamo dire che tutti i decorati al valore civile e militare sono eleggibili. Perciò, senza mancare affatto di riguardo verso i partigiani, mi pare che si faccia atto di giustizia e di dignità nel considerare tutti coloro, che hanno dato il loro sangue e messo la loro vita a servizio della Patria.

Bisogna poi cominciare col rivedere il nome di Camera dei senatori e trovare il mezzo di distinzione.

Dobbiamo dare alla Camera e al Senato gli stessi diritti; ogni limitazione dell'uno o dell'altro è ingiusta. Nello stesso Statuto albertino le leggi di carattere finanziario devono essere sottoposte prima alla Camera dei deputati, come Camera eletta a suffragio più largo. Non possiamo negare lo stesso diritto al Senato. In che stabilire la differenza?

Prima di tutto nell'elettorato. Io credo, non vi scandalizzate, che ciò che vogliamo fare in materia di Regioni non durerà. Voi siete tutti in gran parte per le Regioni; non lo sarete a lungo di fronte ai risultati della forma attuale di suffragio e di elezione. Io credo invece che bisogna ritornare, mediante un processo di revisione, alla realtà, cioè a un sistema più logico. Non so se la proporzionale, di cui è mia la colpa originaria, abbia dato buona prova. Devo riconoscere che sono stato io che ho messo il primo nome alla legge della proporzionale. Non prevedevo le esagerazioni e le deformazioni che sono sopravvenute. Le conseguenze sono estese a tutte le amministrazioni che non funzionano più, perché con la proporzionale non hanno modo di ordinarsi e di formare gruppi omogenei che abbiano maggioranza. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la democrazia, che può esistere con qualunque forma elettorale e non è legata all'una o all'altra.

Mi chiedo se non sia il caso di procedere ad una revisione di questa materia, e ciò voglio sottoporre al parere e alla decisione dei miei amici democratici cristiani, «le quadrate legioni», come direbbe Mussolini (Si ride), che impongono il rispetto, a parte tutte le altre considerazioni, per il numero e, quando riesce loro, per la disciplina. Ora, le quadrate legioni considerino se proprio conviene loro di spingere a tutti i costi la proporzionale o non volere piuttosto che almeno una Camera sia eletta col collegio uninominale. Noi potremmo ottenere, poiché il collegio uninominale si presta meglio alla scelta dei candidati, che esso renderebbe ancora dei servigi. Noi ci ostiniamo: tante cose, che crediamo durevoli, non lo sono: noi siamo in continua mutazione. (Interruzione dell'onorevole Piccioni). Anche le nostre Assemblee sono un po' come le sabbie mobili del deserto. Non sappiamo più quelli che sono i partiti, che si uniscono e si disuniscono, annunziando nuove formazioni e nuove eliminazioni (Interruzione dell'onorevole Piccioni): ed allora ci dobbiamo preparare a molte mutazioni. Basta osservare le cose da vicino.

Ed ora vengo ad un piccolo argomento. Noi abbiamo visto che con il nostro progetto di Costituzione vi sarà, oltre alle due Camere legislative, quella Assemblea — che spero non vi sarà perché non ha ragion d'essere — che riunisce il tutto, ed è cioè molto vicino al nulla.

Una voce al centro. Non c'è nemmeno il locale!

Nitti. Sì, non c'è nemmeno il locale! Accanto a queste grandi formazioni ve ne è qualcuna piccolina, perché infatti accanto a queste due Camere, a una nuova grandissima Camera si forma un camerino (Si ride), di cui ho trovato notizia piuttosto reticente e riservata anche nelle parole del Relatore.

In alcuni paesi si è fatta un'agitazione per avere camere professionali o di carattere economico, e si voleva in alcuni che la seconda Camera avesse carattere sindacale ed economico. Vi erano i conservatori che la volevano in un senso, mentre i rivoluzionari aspiravano a qualcosa di sindacale che preludesse a formazioni sindacaliste. Poiché in Italia non si nega nulla a nessuno (si vuole un posto in Parlamento e lo si dà, si vuole una mutazione, la si dà), c'è insomma molta condiscendenza, si è detto: perché non diamo posto anche a questa Camera? Ed allora hanno osato proporre un camerino specifico in cui questa novissima Camera è ospitata provvisoriamente, ma si dice (e lo dice anche il Relatore) che questa Camera può rendere ancora qualche servizio (quale?) ma che poi si dovrà vedere come darle un assetto, con un'apposita legge. Rimandiamo tutto a leggi future, cercando ipotecare il futuro.

Anche qui vi sono le Regioni che comandano. In fondo, si vuole che il Senato sia formato dalle Regioni. Ma poi vi è una certa incertezza nel determinare queste cose. Molti rimangono nell'indeterminato proprio quando bisogna invece avere soprattutto la precisione.

Ora, viene l'ultima parte dell'argomento che noi dobbiamo trattare e che riguarda il Capo dello Stato. Noi ci siamo tanto preoccupati del Capo dello Stato, ma soltanto per perdere tempo alcuni giorni, per stabilire quale forma di giuramento dovevamo stabilire per il Capo dello Stato. In verità, io trovavo quella discussione piuttosto inutile, perché il Capo provvisorio dello Stato non poteva prestare giuramento ad una Costituzione che non esiste, e noi prestando giuramento a lui, avremmo prestato giuramento alla Costituzione che non avevamo fatto. Quindi, la questione si è spenta perché non aveva importanza.

Capo dello Stato. Come nominarlo? Anche adesso che si parla del Capo dello Stato si sente parlare anche di Regioni, quelle regioni che non abbiamo fatto, che non so se faremo e so ancor meno se potranno vivere. Scusate la sincerità, e non vi offendete: siete veramente sicuri? Io non lo sono. Quanto tempo occorrerebbe se non avessimo i prefetti di quelle province che volevate abolire, e che non avete abolito. Abbiamo conservato l'equivoco della Regione e mantenuto la Provincia, il Comune, e si è pensato anche all'idea di restaurare i circondari; così noi distruggevamo da una parte ciò che volevamo far sorgere dall'altra.

Riportiamoci alla Sicilia: siete ben sicuri che la prova delle Regioni sia riuscita? (Interruzione dell'onorevole Piccioni). Siete ben sicuri che non avrete urti che possano essere fatali non soltanto all'unità, ma alla solidità dello Stato? Io non ho prevenzioni. La prima volta che quasi ragazzo fui eletto deputato, fui eletto anche in Sicilia. Mi è rimasto sempre impresso il grande sentimento di cordialità per quel paese che non mi conosceva e che mi eleggeva, e pensate se non ne parli con rispetto. Siete sicuri che con la Sicilia ci intenderemo presto? Siete sicuri che noi potremo dare alla Sicilia ciò che essa vuole? Siete voi sicuri che queste Regioni che noi creiamo al confine d'Italia, dove vi sono popolazioni incerte e che non lavorano in favore dell'Italia, siete sicuri che resteremo uniti con la stessa unità di sentimento, con la stessa fede patriottica? Io non so. Molte cose dovremo modificare e molte mutare.

E veniamo all'argomento del Capo dello Stato. Il Presidente della Repubblica è un personaggio che ha grande importanza, perché egli viene a rappresentare, in questo divagare di passioni e torbido periodo che viene, e non potremo evitare, la persona che deve significare lo spirito di unione e di solidarietà nazionale.

Noi dobbiamo desiderare che il Presidente della Repubblica abbia il necessario prestigio. Signori, io non credo che la Repubblica corra pericolo se noi siamo uomini prudenti, savi e non esageriamo. Le monarchie in Europa non sono morte ora, sono morte il 1919. La guerra solo crea le rivoluzioni. Non vi sono state nei tempi nostri rivoluzioni senza guerre, né guerre senza rivoluzioni. Il vecchio Eraclito diceva profonda verità quando affermava che la guerra è la sola cosa che crea e distrugge. Noi saremmo ancora con l'impero d'Austria, con l'impero germanico, con gli czar se non ci fosse stata la guerra del 1914!

Scusate voi socialisti che io dica tutto il mio pensiero. Voi siete qui a causa della guerra; i socialisti germanici, cioè i veri marxisti cantavano inni al tempo di Guglielmo per cui bisognava opporsi alla guerra e piuttosto fare la rivoluzione che la guerra. Poi non la fecero mai la rivoluzione. La rivoluzione è venuta dalla guerra. L'Europa prima della guerra era sotto il dominio di quattro grandi imperi che disponevano dei quattro quinti dell'Europa del continente: la Russia, l'Austria Ungheria, la Germania e la Turchia. Tutti i quattro grandi imperi si sono sfasciati per effetto della guerra.

Non esiste ora un solo Stato monarchico sul loro territorio.

L'Inghilterra stessa fuori del continente può oramai considerarsi come una immensa unione di repubbliche presiedute da un re.

Dovunque sono soltanto repubbliche. La guerra ha tutto sovvertito. Credete che le monarchie, che le grandi monarchie che sono cadute ritornino? Credete che ciò possa avvenire in tempo prossimo e senza rivolgimenti? Nessuno sa. Ma non osservate che in Europa, dopo di allora, quando erano cadute le grandi monarchie continentali, erano rimaste solo due monarchie di secondo ordine: non la potenza dei quattro grandi imperi scomparsi. Erano rimaste l'Italia e la Spagna. Ora le monarchie sono cadute anche in Italia e in Spagna. E se è caduta in Spagna, nello Stato più clericale di Europa che esiste, dove c'è un dittatore che sarebbe anche lieto di ristabilire la monarchia per uscire senza violenza dalle sue difficoltà, vuol dire che la restaurazione delle monarchie è veramente difficile. (Approvazioni).

Benedettini. Non credo. (Commenti).

Nitti. Io non credo in Italia al pericolo delle monarchie, a meno che non si facciano tali serie di errori, di assurdità, di persecuzioni o di violenze da creare un movimento monarchico irresistibile che ora non esiste.

Benedettini. Esiste. (Si ride Commenti).

Fuschini. Non è un pericolo, è una cosa allegra. (Commenti).

Nitti. Noi abbiamo la Repubblica e naturalmente dobbiamo avere un Presidente della Repubblica. Vedo anche dalle discussioni che si sono fatte a proposito della elezione del mio antico amico De Nicola che con l'idea di repubblica si unisce senza volere il costume monarchico. Si discuteva quale palazzo si dovesse assegnare al Presidente della Repubblica italiana come residenza, il Palazzo del Quirinale o qualche cosa di simile; quali assegni speciali dovesse avere. Per farne che cosa? Egli si è regolato assai bene rinunciando.

Io ora vi prego di considerare che nel mondo di antiche repubbliche non esistono veramente che gli Stati Uniti d'America e la Svizzera, che non hanno mai avuto da lungo tempo crisi di libertà. Prima della guerra del 1919 in Europa non esistevano che due repubbliche, la Francia e la Svizzera, non ne esistevano altre. Rimangono però rispettabili monarchie oltre che in Inghilterra, in Olanda, in Belgio e sopra tutto nei Paesi Scandinavi. Io le ho visitate. I sovrani scandinavi sono uomini seri, e ho avuto con loro rapporti cordiali e dignitosi. Queste monarchie sono così serie che non hanno avversari. Il Re Cristiano di Danimarca mi parlava ancora con tono socialista e con le tendenze di un convinto, tanto che gli feci alcune modeste osservazioni e gli dissi che tale linguaggio non mi pareva reale, ma piuttosto avveniristico.

Ora credete che questo cammino della vita e della storia possano cambiare? Per noi la questione nel momento attuale non è monarchia o repubblica, ma è di fare una solida e onesta repubblica, perché se ci discreditiamo noi stessi, facciamo male alla causa nella quale diciamo di credere. Quindi, niente diffidenze, ma cuore saldo e volontà ferrea, per difendere le istituzioni che abbiamo creato, senza inventare pericoli immaginari e tremare a ogni stormire di fronda. Le cose morte non risorgono! (Applausi). Nessuno minaccia la repubblica seriamente: se vi sono minacce vengono dagli stessi repubblicani, per spirito di diffidenza, per rinnovato desiderio di persecuzioni e non spento desiderio di lotte civili.

Quali sono i tipi di repubblica? Non abbiamo noi nel mondo, ormai, che la grande repubblica americana, con tutti gli errori, le corruzioni, il dinamismo popolare, con le sue intemperanze, i suoi eccessi di vitalità, che ha superato tutte le ore più difficili ed è uscita più potente nella sua struttura.

Ora, quale è la Costituzione della repubblica americana? La repubblica americana elegge il suo presidente, il quale è capo dell'esecutivo. Non vi sono ministri, ma segretari del presidente; e quindi il presidente rappresenta tutto lo Stato ed è, in generale, dotato del più grande ascendente. Nessuna fastosità. Noi, quando parliamo del Presidente della Repubblica, pensiamo subito alla dignità della presidenza o agli assegni quasi reali da attribuirgli.

Fatevi dire le indennità degli altri Presidenti.

Il Presidente della Repubblica degli Stati Uniti, che è a capo del paese più ricco, quanto ha avuto e quanto ha di assegno? Aveva prima della guerra del 1914 appena 50.000 dollari l'anno, aumentati durante la guerra a 75.000. Ora non so di quanto sia stato aumentato l'assegno e se sia aumentato; ma comunque la sua misura è molto inferiore a quella che ciascuno può pensare in Europa.

Gli stessi re del passato prossimo nei paesi nordici non avevano quel grande appannaggio che molti di voi credono...

Conti. Soltanto il nostro si trattava bene...

Nitti. Parlando del nostro, l'assegno della Corona in Italia, la dotazione detta «lista civile» secondo lo Statuto albertino è fissata all'avvento al trono di ogni nuovo sovrano e per la durata di tutta la vita dei sovrano stesso. Ora io che ho natura di ricercatore, andavo a sfogliare tutti i documenti che nella discussione parlamentare potessero illuminarmi. Trovai che nell'ordinamento inglese il re d'Inghilterra non può disporre dei fondi che la «lista civile» gli accorda se non nella misura consentita dai differenti capitoli del bilancio della lista stessa.

Quindi la lista civile inglese ha capitoli differenti: il Parlamento dà i fondi che sono distribuiti secondo stabilisce il Parlamento: tanto per la rappresentanza, tanto per la vita interna della Corte, tanto per beneficenza, ecc.

Quando andai alla Camera dei deputati feci questa proposta: ero molto giovane e credevo ancora che gli argomenti svolti fossero sempre efficienti. Non voglio, dissi, che sia diminuita la lista civile del sovrano ma desidero soltanto che, come in Inghilterra, la nostra lista civile sia divisa in capitoli e che la spesa sia regolata conseguentemente. Ma la mia proposta sembrò stravagante ai conservatori, sembrò quasi che io parlassi come un rivoluzionario. E allora io non fui eletto a fare parte della Commissione; fu eletto il mio concittadino onorevole Torraca, che era un conservatore vecchio tipo e desiderava, se possibile, aumentare la lista civile senza nulla discutere.

Ma ora, ora dunque in America e tanto più nella disordinata Europa, non vi sono grandi assegni ai Capi di Stato e tanto meno in paesi repubblicani.

E la Svizzera? La Svizzera in questo momento sembra il paese più ricco, o almeno quello che ha con la Svezia la migliore situazione monetaria d'Europa. Ebbene, sapete voi chi è anzitutto oggi il Presidente della Repubblica in Isvizzera? La Svizzera ha un ordinamento speciale, per cui sette individui votati dell'Assemblea Nazionale prendono il potere e diventano Ministri. Uno dei sette è a turno Presidente della Repubblica e vi è un vicepresidente che gli succede nell'anno seguente. Il Presidente della Repubblica è quindi un personaggio modesto, il quale aveva — non so se in questi ultimi tempi in tale assegno vi sia stata modificazione — appena duemila franchi oltre il modesto stipendio di Ministro.

Una voce a sinistra. Ora ne ha cinquemila.

Nitti. Bene, ora ne ha cinquemila: troverete ad ogni modo che è una cifra veramente modesta. Quando il Presidente della Repubblica Svizzera ha necessità di spese eccezionali è il Consiglio nazionale che ne decide sempre nei limiti di grande modestia.

In Francia bisogna sempre ricordare che la Costituzione del 1875 fu scritta da monarchici e che la forma repubblicana fu decisa quasi per caso, da un solo voto di un deputato ignoto. Ma anche in Francia il Presidente non ha più un assegno molto elevato.

La Francia era incerta. La maggioranza era monarchica. Fu repubblica dopo il 1870 quando la grande maggioranza voleva la monarchia. Ma i monarchici erano divisi fra legittimisti (conte di Chambord) e organisti, e i bonapartisti non erano concordi.

Sarebbe prevalsa la monarchia legittimista se non vi fosse stata la ostinazione del conte di Chambord, che la bandiera dovesse essere non più il tricolore, ma la bandiera con i gigli, cosa che offese tutti i patrioti e gli uomini che venivano dalla rivoluzione.

In quasi tutti i paesi repubblicani la difficoltà è di trovare presidenti che abbiano qualità superiori. La mediocrità è spesso conseguenza della democrazia, che vive di gelosie e diffida degli uomini superiori.

Dopo Thiers in Francia venne Mac Mahon, generale ben lontano dalla grandezza, e dopo di lui Grévy, avvocato modesto che fu eletto per la seconda volta e dovette poi dimettersi per lo scandalo di suo genero Wilson che vendeva le decorazioni della Legion d'Onore.

Le tre grandi personalità della Repubblica francese: Gambetta, vero creatore della Repubblica, Ferry, creatore dell'impero, e Clemenceau che ebbe il maggior merito della vittoria del 1918, non furono mai eletti, e a Clemenceau fu preferito Deschanel!

Anche negli Stati Uniti non sarà sempre facile, perché bisogna sfuggire alla tentazione di sfoggiare tutto ciò che rappresenta la vanità della forma esteriore monarchica e non far cadere la scelta su uomini troppo mediocri.

In Italia non vi è solo il pericolo di uomini che si credono adatti a tutte le cose e sono pronti a sacrificarsi per servire lo Stato in posizioni molto onorevoli, ma vi sono sempre partiti disposti a elevare i loro uomini più insignificanti ai posti più elevati.

Perché il Presidente possa essere veramente devoto alla Costituzione e ne sia il vigile custode, bisogna prima di tutto che noi gli diamo tale Costituzione saggia e moderata e realistica che egli possa difenderla sinceramente.

Finora abbiamo lavorato troppo male in questo senso. La Costituzione che prepariamo non è l'ideale. Gran parte cadrà. Ma la parte che ora noi elaboriamo, e che è la sola essenziale, siamo ancora in tempo di fare in modo conveniente, se vi toglieremo tante vane e inutili cose che si pretendono possano esservi introdotte.

Riusciremo? Dopo avere perduto tanto tempo senza lavorare seriamente, nel breve spazio di tempo che ci rimane riusciremo se agiremo con oculata prudenza e con saggezza.

Non ci sono consentiti troppi nuovi errori dopo tanti che se ne sono fatti.

Con il 31 dicembre il nostro mandato, anche dopo le proroghe, sarà finito.

Sono stato io che mi sono assunto la responsabilità della proroga al 31 dicembre e che ne ho per la prima volta parlato e sostenni l'assurdità di proroghe troppo brevi. Speravo in un lavoro efficiente e forse devo constatare che la proroga era necessaria, ma noi non abbiamo fatto cose troppo efficaci, pur tenendo troppe sedute.

Ma ora niente più proroghe.

Esaurito bene o male e certo più male che bene il nostro mandato, dobbiamo ora lasciare posto ai nostri successori, che certo rivedranno ciò che noi abbiamo fatto. Come ho ripetuto più volte è impossibile che la Costituzione da noi preparata non sia completamente riveduta.

Quando potranno essere fatte le nuove elezioni? In aprile o più probabilmente in giugno.

Credo che voi non ignoriate i risultati dei lavori fatti al Ministero dell'interno. Si crede che anche l'Assemblea esaurendo i suoi lavori a fine dicembre, le elezioni non si potranno fare che in giugno.

Il terribile equivoco delle Regioni sarà al massimo del disordine. Vi saranno veramente le Regioni in efficienza e avranno modo di funzionare? In realtà solo attraverso le prefetture e i prefetti la macchina dello Stato potrà ancora funzionare.

E vi sono problemi ancora più gravi e urgenti.

Lo Stato è lungamente vissuto sulla unione di partiti al Governo. Ora un solo partito ne è la base destando le inevitabili gelosie degli altri e contrasti profondi. Il Governo dispone incontrastato di tutta la finanza, cioè di tutte le risorse della nazione, essendo parte grandissima del reddito nazionale assorbita dallo Stato.

Come regolare la situazione entro il 31 dicembre e come fare le elezioni, in un periodo di grandi difficoltà e di inevitabili conflitti?

Non sappiamo con quale animo e vorrei dire con quale fiducia il pubblico potrà andare alle elezioni.

Credete che sia anche utile consultarlo con referendum e sapere ciò che pensa della Costituzione che abbiamo preparato?

In Francia ciò si è fatto. Forse in Francia il popolo ha più lunga tradizione di libertà e maggiore sensibilità politica.

Si potrà o si dovrà fare il referendum in Italia?

Fuschini. Era prestabilito che si facesse il referendum.

Nitti. Io credo che il referendum si dovrebbe fare e che vi sono anche impegni per farlo. Ma è inutile agitare proposte senza prevederne il risultato. So che alcuni partiti sono, se anche non lo manifestano, favorevoli, altri contrari. Potremo noi escluderlo decisamente senza avere alcuna dubbiezza? Vorrei sapere soprattutto fin da ora che cosa pensano i democristiani e che cosa pensano comunisti e socialisti, perché di questi due grossi movimenti sarà la responsabilità. Fare le proposte di referendum senza che vi sia l'adesione degli uni e degli altri, o almeno degli uni, dei più numerosi, mi pare un salto nel buio. Ad ogni modo è bene che su questa materia tutti si pronuncino lealmente e coraggiosamente. Troppe cose io ancora dovrei dire e mi riserbo in parte dire sugli articoli.

Io non ho voluto farvi un discorso politico, come vedete; io ho voluto esprimervi delle dubbiezze. Vi prego di riflettere su alcune cose che vi ho dette. Considerate che io sono al di fuori e al disopra di ogni vanità; che non ho aspirazioni, che non ho alcuna passione di parte, ma solo la fede in una unione nazionale per la difesa contro le minacce che pesano sul nostro Paese.

L'Italia non ha mai da secoli attraversato ore di così grande pericolo, né mai è stata minacciata nella sua stessa esistenza come ora.

Occorre una comune volontà di salvezza. Altra volta ho detto che l'Italia è una fortezza assediata. O tutti cadiamo o tutti ci salviamo: io spero che tutti ci salveremo. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Sforza. Ne ha facoltà.

Sforza. Onorevoli colleghi, sarò brevissimo, non solo per la tarda ora, ma perché stimo — a meno che non si abbiano argomenti profondissimi da svolgere — che noi dobbiamo provare il nostro desiderio di finire presto facendo discorsi della maggiore possibile brevità.

Se non ho chiesto di parlare che all'ultimo momento è perché ho sperato fino all'ultimo che qualcheduno di noi sottoponesse all'Assemblea il problema di cui ora vi intratterrò. Se non sbaglio, esso non è stato toccato finora dai colleghi. Dico se non sbaglio, perché, mentre è di moda dire tanto male dell'Assemblea Costituente, io confesso che, quando ho il tempo di leggere i resoconti sommari, sono sovente ammirato dell'acutezza e della profondità di vedute che dall'una parte e dall'altra della Camera si esprimono. Ma la mia vita è così dura e sono così pieno di occupazioni che non sono sicuro di aver letto tutti quanti i resoconti sommari. Credo quindi dover mio attirare l'attenzione dell'Assemblea su un punto che mi sta a cuore, pur conscio come sono che, non essendo io né un tecnico della scienza politica né un professore famoso, tutto quello che potrò dire non sarà che il risultato della mia lunga se pur modesta esperienza personale dei fatti e delle loro cause.

A me sembra che è vano parlare di Camera alta o di monocameralismo, di Assemblea suprema o no, di poteri più o meno diretti del Presidente della Repubblica; quando noi facciamo una Costituzione, cerchiamo di fare quanto è possibile, quanto è in nostro potere, ma ben sappiamo che l'avvenire del nostro Paese non dipende dalla perfezione degli articoli che compileremo, ma dipende dagli uomini. E noi purtroppo ci vediamo in questa situazione, che in Italia diminuiscono gli uomini di alto valore politico e morale; così del resto accadde anche dopo l'altra guerra; chi di voi si trovò in quest'Aula nel 1919-20 come me, avrebbe voluto vedere fra noi dieci o venti amici intimi di cui conoscevamo il valore; ohimè, eran sepolti sul Carso, e noi pagammo con una carenza di uomini anche la scarsa difesa che facemmo all'attacco fascista.

Quindi è inutile perseguire la creazione la più cristallina e la più scientifica degli articoli della Costituzione se noi non cerchiamo anche di creare pel pochissimo che possiamo le vie psicologiche, umane, morali, che creino un personale politico il quale, sia con una Costituzione mediocre sia con una Costituzione perfetta, faccia il suo dovere verso l'Italia, verso la Repubblica italiana, verso l'Europa.

Si è parlato qui di varie Costituzioni. Io voglio confessarvi la mia ignoranza: non ho mai letto la Costituzione di Weimar, ma tutti gli statisti e costituzionalisti con cui parlai nel triste periodo dal 1920 al 1930, tutti mi hanno detto che era la meraviglia delle meraviglie. Bastò che un maresciallo traditore fosse Presidente della Repubblica, bastò che un pagliaccio epilettico terrorizzasse questo Presidente della Repubblica, perché la più bella delle Costituzioni cadesse come una pera marcia. Quindi dobbiamo fare gli uomini che abbiano il sentimento del dovere verso la patria e verso la democrazia.

Io credo che posso in brevissimi momenti indicarvi uno dei casi che mi è venuto in risalto leggendo il progetto. All'art. 56, sesto capoverso, vedo che «possono essere nominati membri del senato, i magistrati e i funzionari dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni di grado non inferiore, ecc., ecc.». È su questo punto che io voglio attirare la attenzione dell'Assemblea, aggiungendo che il pericolo che vedo pel Senato lo vedrei egualmente per la Camera. E perché?

Ve lo dirò rapidamente; e poi avrò assolto il mio compito e la mia coscienza sarà tranquilla.

Eccovi la prova della vanità relativa di tanti discorsi sulle Costituzioni; uno dei problemi massimi della nostra vita politica è fissato in un articolo non scritto: la costituzione dei grandi partiti di massa. Che sia un bene, che sia un male; che il bene sia maggiore del male, che il male sia maggiore del bene, questo non ci riguarda.

Ora noi siamo nel periodo dei partiti di massa anche se, grazie a Dio, esistano altresì alcuni partiti, come quello dalle cui file vi parlo, partiti che hanno una fiamma viva individualistica e feconda che sarà a volte preziosa nelle lotte fra i grandi giganti.

Questo noi dobbiamo tenere presente per il bene dei partiti di massa, per il bene della Repubblica italiana e per il bene della nostra vita morale: che più forti sono i partiti di massa, più influenti sono i partiti di massa e più indipendente, più sacrosantamente indipendente, più impervia ad ogni pressione e corruzione deve essere l'amministrazione pubblica: altrimenti si scenderà rapidamente al livello dei più bassi e corrotti paesi del mondo.

Badate, sia ben chiaro che dicendo questo non son mosso dalla menoma avversione verso i partiti di massa: constato che sono un fatto di storia naturale, constato che per lungo tempo esisteranno, constato (non c'è l'amico Porzio ed allora oserò dirlo), pensando alla prolungata se pur rara corruzione di certi «galantuomini» del Sud...[1]

Mazza. Noi potremmo pensare a quelli del Nord.

Sforza. ...che i partiti di massa possono portare le discussioni a un livello di concetti morali invece che d'interessi materiali. Pensando che i partiti di massa possono fare questa cosa meravigliosa, ricostituire e rinsaldare al massimo l'unità nazionale, anche morale, dalle Alpi alla Sicilia, sono convinto che i partiti di massa potranno nel complesso fare più bene che male alla cosa pubblica, ma ad una condizione: che non diventino a turno, secondo che il fato delle elezioni darà loro il potere, i proprietari discrezionali dell'amministrazione pubblica. E quando io vedo che si propone dalla Costituzione attuale (trovandoci noi in un lungo e, spero, felicemente lungo periodo di partiti di massa) la elezione di numerosi funzionari — senza neppure la fissazione di un numerus clausus — mi domando: com'è che non si vede il pericolo di tutto ciò? È vero che circa il personale della nostra burocrazia, con cui da mesi e mesi sono in contatto, sia con quella del mio Ministero sia di altri, io posso ben testimoniare, checché si sia detto e malgrado le corruzioni del fascismo e della guerra, che essa continua, nei suoi alti gradi e anche nei gradi minori, ad essere veramente uno degli elementi più rispettabili della nostra vita pubblica.

Ma come osar di offrir loro una troppo grossa tentazione? Per un impiegato, per un professore di università, anche prima del fascismo, entrare nel Senato era come entrare nell'empireo prima della morte, era una gioia suprema. Ma allora non c'erano partiti di massa; come i nostri funzionari potrebbero oggi essere eletti se non dopo essere stati accettati nella lista di un grande partito di massa al quale essi dovranno aver prima dato prove indubbie di devozione, forse di cieca obbedienza?

Pensate soprattutto alla formazione dei funzionari in Italia. Il funzionario è per buona parte figlio di funzionario, non ha, come noi tutti qui abbiamo, una regione, una città, un gruppo di villaggi, che sono la vita della nostra vita, che sanno come siamo nati e cresciuti, che hanno fede in noi. Per moltissimi funzionari il ricordo natio è una sede di Prefettura o Intendenza di finanza o di Tribunale, da Cuneo a Caltanissetta. Essi non hanno quasi mai un legame speciale, una regione o circoscrizione, che li vorrebbe eleggere. Come potranno essere eletti? Essi non potranno essere eletti che attraverso la protezione di un grande partito di massa, a cui essi vorranno bensì opporre il sentimento del loro dovere e la loro coscienza intatta; ma sapete come van le cose. Quando si comincia con una prima concessione, è la via insaponata che porta alle scivolate più impreviste.

I partiti. Io mi auguro che da noi i partiti di massa diventino così forti, così sicuri della loro coscienza e delle loro virtù morali e politiche, che non avranno nessun bisogno di farsi per tali guise una clientela. Sono stati citati poc'anzi molti episodi della vita politica dell'Europa e del mondo. Io vi voglio citare una sola cosa. Quali sono — credo che nessuno possa negarlo, quale che sia la sua dottrina politica — le due più potenti ed efficienti democrazie esistenti attualmente nel mondo, nel mondo almeno che concepisce l'esistenza di più partiti? Sono gli Stati Uniti d'America e la Gran Bretagna; sono anche paesi che hanno i partiti più specificamente divisi. Quali partiti di massa più forti che il partito democratico ed il partito repubblicano agli Stati Uniti? Quali partiti più grandi in Inghilterra che il formidabile partito laburista ed il partito unionista o conservatore?

Ebbene, questi due paesi hanno un Gabinetto, in cui il posto più modesto, il posto che nessuno desidera, è quello di Ministro dell'interno. Se conoscete qualche amico all'Ambasciata britannica o americana a Roma, domandategli a bruciapelo chi è il Ministro dell'interno del suo paese. Egli si gratterà la testa e risponderà: non lo so; non ne ho sentito parlare.

Questa è la vera atmosfera di democrazia pura, alta e forte, che permette di accettare anche tutti i funzionari dell'interno nel gruppo dei candidati, perché non vi sono prebende da sperare, non vi sono atti di corruzione da temere. Purtroppo, in Italia a questo punto ancora non ci siamo; non certo perché si sia da meno, ma perché siamo troppo poveri.

Badate, io ho detto che i nostri funzionari, data la fame che soffrono, sono ancora in parte veramente eroici. E gli uomini politici, che cercano di dare la colpa ai funzionari, allontanano da sé una responsabilità, che probabilmente pesa su di loro.

Ricordo, mesi fa, l'onorevole Scoccimarro da quel banco, essendo Ministro delle finanze, dichiarò ufficialmente che egli era ammirato dell'onestà, della spartana austerità dei maggiori funzionari del Ministero delle finanze. Chi, come voi, come me, ricorda i tempi avanti al 1914, sa bene che degli uomini come Luciolli alle finanze, Brofferio al tesoro, Vigliani all'interno, Malvano e poi Contarini agli esteri, erano veramente dei tipici servitori dello Stato, che giorno e notte non pensavano che allo Stato. Questi tipi di uomini noi possiamo ancora ricostituire per l'Italia; e se possiamo, dobbiamo. Ma noi non dobbiamo domandare l'impossibile e quindi non dobbiamo domandare ai funzionari che vogliamo elevare all'alto rango dei nomi che ho citato, non possiamo permetterci di dire loro: badate, se vi mettete con quel partito o con quel tal'altro, diventerete senatori, deputati e con ciò tanti vantaggi. Questo è proporre l'immoralità a coloro che vorremmo siano onesti, che vorrebbero essere onesti. Certe prebende, certi vantaggi e certi alti premi noi dobbiamo senza dubbio creare pei funzionari, anche al di fuori della loro carriera; perché no la Corte Suprema? Ma non il Parlamento, almeno finché l'Italia non sia arrivata a quel grado di elevazione a cui sono giunti, insieme colla prosperità, i due grandi paesi in cui nessuno sa chi è il Ministro dell'interno. Ricordatevi che l'onestà della burocrazia domani si giudicherà unicamente a questa stregua: dal suo grado di indipendenza dai partiti, questi nuovi sovrani del periodo attuale; e ricordiamoci anche che i partiti possono e debbono guadagnare prestigio alle loro dottrine, alle loro forze, con larghi programmi di riforma sia lenta sia rapida, ma non certo attraverso maneggi di influenze, mezzi meschini e subdoli che possono bensì giovare per un'elezione, ma che alla lunga colpirebbero di morte coloro che li usano. Noi dobbiamo desiderare forti i partiti, ed io mi auguro in un certo senso che tutti siano forti, perché la storia non è che il ricamo di cui tutti i partiti sono i fili, per ostili che siano fra di loro. Sì, dobbiamo desiderare anche la forza morale del partito che ci è opposto, perché questo rialzerà noi stessi, rialzando l'insieme della vita pubblica. E dobbiamo far sentire e ricordare ai partiti che o vinceranno per le loro grandi idee morali, ché se vincessero unicamente con capziose manovre di accaparramenti di funzionari, i loro trionfi saranno frutti di cenere e tosco. (Applausi al centro).

[...]

Presidente Terracini. [...] Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 16. Avranno la parola i presentatori di ordini del giorno e gli onorevoli Relatori.


 

[1] Le affermazioni dell'onorevole Sforza sui meridionali, provocano, al termine della seduta, la reazione di alcuni deputati, e nella seduta pomeridiana del 17 settembre 1947 la richiesta di chiarimenti (in sede di discussione sul processo verbale) da parte dei Deputati Rodinò e Codacci Pisanelli. L'onorevole Sforza (assente nella seduta del 17 settembre) tornerà sull'argomento in sede di discussione sul processo verbale nella seduta pomeridiana del 18 settembre 1947. Tali discussioni non vengono qui riportate in quanto non coinvolgono il tema della Costituzione.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti