[Il 21 maggio 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo quarto della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti politici».]
Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Riprendiamo la discussione generale sul Titolo IV.
È iscritto a parlare l'onorevole Nobile. Ne ha facoltà.
Nobile. Onorevoli colleghi, nell'occuparmi dell'articolo 49 del progetto di Costituzione non mi lascerò trasportare a discutere di questioni generali. Sono un pacifista, ma attivo, non passivo del genere dell'onorevole Calosso: di quelli, cioè, che vogliono rimuovere le guerre rimuovendo le cause che le provocano. Sono convinto che fino a quando il mondo continuerà ad essere diviso in stati sovrani, fino a quando l'assetto economico delle società umane continuerà ad essere basato sulla libertà incontrollata di intraprese capitalistiche private, fino a quando non verrà applicato in tutto il mondo un sistema economico che eviti la disoccupazione, i conflitti armati tra Paese e Paese non potranno essere eliminati.
Certo non si può non rimanere spaventati all'idea che possa scoppiare una terza guerra mondiale. Con le armi terribili di cui oggi l'uomo dispone la guerra moderna è qualche cosa di assolutamente diverso da quello che è stata nel passato: essa produce devastazioni che al solo pensarle fanno inorridire. È possibile, forse probabile, che una terza guerra mondiale costituisca il crollo definitivo ed irreparabile della civiltà umana. Ma tale questione non ci interessa in questa discussione. L'onorevole Calosso, con la sua fosforescente oratoria, ha tentato convincerci della inutilità di avere un esercito. L'Italia, egli ha detto, è ormai ridotta al ruolo di una potenza minore, destinata a vivere come satellite nella scia di uno dei grandi astri che oggi dominano l'orizzonte internazionale. La sua forza militare, qualunque essa possa essere, non potrebbe che avere un peso trascurabile sulle sorti di una terza guerra mondiale, perché la preparazione alla guerra moderna richiede una potenza industriale ed una disponibilità di materie prime, che noi non abbiamo, che probabilmente non avremo mai. Ma il fatto è che un esercito dovremo pure averlo, non fosse altro che per metterci in condizione di adempiere agli obblighi che assumeremo il giorno in cui avremo chiesto ed ottenuto di far parte delle Nazioni Unite.
D'altra parte nessuno degli emendamenti presentati, nemmeno quello firmato dall'onorevole Calosso, ha il coraggio di proporre la soppressione del primo comma, che proclama essere la difesa della Patria sacro dovere del cittadino. Da questo obbligo deriva immediatamente la necessità di avere delle forze armate, altrimenti non si saprebbe in che modo quella difesa possa essere fatta. Certo, a quel comma si potrebbe obiettare che la distinzione fra guerre difensive e guerre aggressive è quanto mai incerta. Credo non vi sia stato fin oggi nessuno Stato aggressore che non abbia dimostrato che la guerra da esso scatenata non era altro che un atto di difesa. Ma qualunque origine abbia la guerra, una volta stabilito che il cittadino è tenuto a difendere il proprio Paese, segue la necessità di prepararlo. Di qui il secondo comma dell'articolo, conseguenza logica del primo.
Nel testo della Commissione questo secondo comma suona così:
«Il servizio militare è obbligatorio. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici».
Fermiamoci alla prima proposizione: «Il servizio militare è obbligatorio». Contro di essa sono insorti quelli che vogliono che l'arruolamento sia fatto volontariamente, non per coscrizione. Ma, come osservavo, la obbligatorietà nasce dal principio stesso che il cittadino è tenuto a difendere il proprio Paese, a meno che non si voglia intendere che tale obbligo sia limitato al caso di guerra e non si estenda altresì al periodo di pace, come ad esempio è, fin oggi, avvenuto in Inghilterra e negli Stati Uniti, che sono i soli due Paesi dove non esiste la coscrizione obbligatoria o, per lo meno, non esisteva all'inizio di questa guerra. L'onorevole Calosso, per sostenere il suo emendamento, il quale dichiara la non obbligatorietà del servizio militare, si è riportato per l'appunto alla tradizione inglese, e ci ha ricordato che le ragazze inglesi erano tanto poco affascinate dalle uniformi militari da considerare che solo uno sfaccendato, un poco di buono, potesse decidersi ad arruolarsi. Un tale argomento, se ha valore, si rivolge se mai contro la obbligatorietà. In Italia, e credo anche negli altri Paesi dove il servizio militare è obbligatorio (e sono la quasi totalità), avviene precisamente il contrario. Mi piace a questo riguardo citare uno studio statistico del Gini, il quale giunge alla conclusione che i giovani sottoposti alla ferma militare si sposano con maggior frequenza degli altri, quasi che l'aver compiuto il servizio militare costituisca un titolo di preferenza nella selezione matrimoniale. Vi è di più: gli ex-militari, benché si ammoglino più tardi, danno luogo ad accoppiamenti più prolifici, come se il favore di cui godono permetta loro di sposare donne più giovani o, indipendentemente dall'età, più robuste e sane. Ma mi affretto a dichiarare che l'obbligatorietà del servizio militare in tempo di pace trova argomenti ben più importanti di quello ora accennato. Per continuare a citare statistiche è, intanto, un fatto assodato che l'intelligenza media, il grado di educazione, e la varietà degli strati sociali rappresentati sono, negli eserciti di coscritti, assai più grandi che negli eserciti professionali. A parte questo, il servizio militare obbligatorio, esteso a tutti i giovani fisicamente idonei, può e deve, anzi, servire alla loro educazione. Nessuno potrebbe negare che il servizio militare costituisca un potente fattore di educazione dei giovani, come quello che li abitua alla disciplina, all'ordine, e sopratutto a considerare il bene collettivo della Nazione talmente al di sopra di ogni interesse particolaristico da comportare per la sua difesa perfino il sacrificio supremo, che è quello della vita.
Il sistema di coscrizione agisce come strumento di democrazia assai meglio, assai più efficacemente che non il diritto stesso di voto: esso converte il governo del proprio Paese in una realtà concreta. Esso è profondamente democratico, perché sotto l'uniforme del militare ogni differenza di ceto sociale scompare. Fra uomini accomunati nella vita di caserma le differenze di educazione, di strati sociali tendono ad eliminarsi. Un profondo processo di democratizzazione ed unificazione ha luogo fra giovani, che, provenienti da varie parti del Paese, parlando diversi dialetti, ed aventi diverse mentalità ed educazione, sono obbligati a vivere in comune. Se ci riflettete bene, due sono i tipi di organismi collettivi oggi esistenti, che, facendo appello alle qualità superiori dell'animo umano, rappresentano esempi quasi perfetti di organizzazione democratica: un reggimento di soldati e un ordine religioso.
È indubitabile che un esercito i cui effettivi vengano reclutati mediante la coscrizione obbligatoria costituisca un fattore unificatore tra i vari elementi nazionali di cui è composto. Da questo punto di vista bisogna riconoscere che l'esercito in Italia ha efficacemente contribuito a cementare l'unità nazionale; e ora che davanti a noi è la prospettiva di un ordinamento regionale che comporta i più gravi rischi di disgregazione del Paese si rende più che mai necessario conservare quel grande fattore di unificazione, che è rappresentato dal servizio militare obbligatorio, purché, ben inteso, non si commetta l'enorme errore di adottare un reclutamento regionale. Questo, invero, sarebbe il più grande dei mali che dall'ordinamento regionale potessero derivarci: l'esercito, allora, anziché unire, tenderebbe a disunire ancora più gli italiani.
Contro l'obbligatorietà del servizio militare si sono levate obiezioni. Si è detto anzitutto che il servizio obbligatorio non si potrebbe estendere alla totalità dei giovani fisicamente idonei a causa dei ristretti effettivi consentitici dal Trattato di pace. Tale obiezione mi sembra destituita di fondamento. Rilevo infatti, dalle statistiche delle leve militari di un decennio antecedente alla prima guerra mondiale, che in Italia in media si arruolano otto giovani per ogni mille abitanti. Con l'attuale popolazione la leva ammonterebbe, quindi, a 360.000 uomini, mentre il Trattato di pace ci consente un esercito che, carabinieri compresi, non deve superare le 250.000 unità, cui si aggiungono poi 25.000 unità per la Marina ed altrettante per l'aviazione, giungendo così a un totale di 300.000 uomini sotto le armi.
Ma qui entra in gioco la durata del servizio militare, che può e deve essere inferiore ad un anno. Lo stesso onorevole Gasparotto ha sostenuto tale tesi. Del resto la cosa non è nuova. Nel '32, come si rileva da una pubblicazione della Società delle Nazioni, vi erano già paesi d'Europa nei quali la durata del servizio militare era di un solo anno: il Belgio e la Francia. In Olanda, essa era di soli sette mesi!
In Italia, basterebbe ridurre il servizio militare a nove mesi perché, pur restando entro i limiti degli effettivi impostici dal Trattato di pace, si potessero chiamare sotto le armi, ogni anno, nei vari corpi armati, 400.000 uomini, cioè anche più di quell'8 per mille che costituiva il numero degli arruolati negli anni antecedenti la prima guerra mondiale.
Né si dica che un periodo di nove mesi sia insufficiente per l'addestramento: questo non è. Non è vero specialmente se si intensifica l'addestramento, come può farsi allorquando il servizio è limitato a un periodo così ristretto. Il giovane soldato, se è ben nutrito, ben alloggiato, ben curato in tutto, sia fisicamente che moralmente, può senza inconvenienti essere sottoposto, durante un breve servizio militare, ad una attività intensa.
Nove mesi, a mio avviso, non soltanto sono sufficienti per addestrare militarmente il coscritto, ma, se bene utilizzati, possono servire anche a completarne l'istruzione professionale, o ad iniziarla, nel caso che il soldato non abbia già da civile appreso un mestiere.
Da questo punto di vista sarebbe anzi ottima cosa se l'istruzione professionale venisse impartita non soltanto agli operai, che nel 1908 non raggiungevano che il quaranta per cento degli arruolati, ma anche a tutti gli altri. Bisognerebbe cioè, io penso, approfittare del servizio militare per ovviare ad una fra le più gravi manchevolezze dell'attuale ordinamento scolastico italiano: che una quantità di giovani, al termine degli studi liceali od universitari, non abbiano appreso il maneggio nemmeno dei più semplici utensili, quali la pialla o la lima. Il servizio militare potrebbe ben rimediare a questa deficienza che non si presenta in altri paesi più progrediti: non in Russia, dove generalmente non si perviene agli studi superiori senza essere passati prima per l'officina; non nell'America del Nord dove i ragazzi vengono nei collegi abituati ad eseguire lavori di carattere pratico. A tale riguardo sono d'avviso che dovrebbero completamente cessare le facilitazioni che si sono fino ad oggi accordate agli studenti universitari, consentendo loro di rimandare il servizio militare al 26° anno di età, la qual cosa poteva forse giustificarsi allorquando la durata del servizio militare era di due o tre anni o più; ma che, con un servizio che durasse solo pochi mesi, non sarebbe più giustificabile. Neppure si dovrebbe facilitare ai giovani universitari l'accesso ai ranghi degli ufficiali di complemento. Tutti indistintamente i giovani, da qualunque ceto provenienti, dovrebbero fare il loro servizio militare nelle medesime condizioni; altrimenti quell'opera di educazione che deve essere uno dei principali obiettivi del servizio militare in tempo di pace viene ad essere intralciata.
Per terminare con questo argomento dell'obbligatorietà del servizio militare, vorrei permettermi di togliere all'onorevole Gasparotto un'illusione che egli sembra avere, e cioè che il volontariato militare in Italia tenda a svilupparsi. Non credo che sia così; e per mio conto me ne rallegro, perché ritengo che il volontariato non debba incoraggiarsi all'infuori del periodo di guerra. L'onorevole Gasparotto a sostegno della sua tesi ha citato alcune cifre secondo le quali attualmente si avrebbero nell'Esercito il 24 per cento di volontari, nella Marina il 61 per cento e in Aeronautica il 64 per cento. Sta bene, ma questo gran numero di volontari si spiega col fatto che oggi vi sono soldati, marinai, avieri, i quali non avendo la possibilità di trovare facilmente un'occupazione civile preferiscono arruolarsi, o se arruolati continuare a restare sotto le armi. Siamo, dunque, in presenza di un fenomeno transitorio. Permanente potrebbe, forse, considerarsi soltanto l'afflusso di volontari in Marina e in Aeronautica; ma si tratta, credo, di giovani che, obbligati al servizio militare, preferiscono scegliere quelle due armi invece dell'esercito.
E vengo ora alla seconda proposizione dell'articolo 49, la quale stabilisce che l'adempimento del servizio militare non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino né l'esercizio dei diritti politici. Qui, anzitutto, osservo che il privilegio di mantenere inalterata la posizione di lavoro deve naturalmente intendersi limitato solo a quelli che sono arruolati obbligatoriamente, ed ai volontari in tempo di guerra. Tale limitazione è, forse, implicita nel testo del comma; ma, a scanso di ambiguità sarebbe, forse, opportuno precisare meglio.
In quanto ai diritti politici, sarebbe forse preferibile che durante il breve periodo di tempo del servizio militare obbligatorio, se la mia proposta di un servizio obbligatorio non superiore ai nove mesi venisse accolta, come mi auguro, sarebbe forse opportuno che essi fossero sospesi. Non si può ammettere che la caserma si tramuti in un circolo di propaganda politica, qualunque essa sia.
Eccoci infine al terzo comma: «L'ordinamento dell'esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana». Che vuole dire questo? L'onorevole Azzi ne ha dato una interpretazione che, per mio conto, non posso in alcun modo accettare.
Se ho bene inteso quello che egli diceva ieri in quest'aula, democratizzare l'esercito vorrebbe per lui sostanzialmente significare questo: diminuire la severità del regolamento di disciplina militare! Pare che egli dia molta importanza al fatto che un militare non debba salutare in istrada il superiore se lo sorpassa venendo dalla medesima direzione, o che debba essere consentito ad un ufficiale di mostrarsi in pubblico in dimestichezza con un inferiore. Tutte queste sono quisquilie assai discutibili, perché — secondo me — la disciplina militare o è o non è, e un esercito non è un esercito senza una severa disciplina. Non credo che la Commissione dei settantacinque, nel proporci quel testo, abbia voluto intenderlo nel senso in cui l'ha interpretato l'onorevole Azzi. L'esercito, quando è costituito da soldati arruolati in base ad una coscrizione generale, è per se stesso una istituzione capace di rispecchiare le istituzioni del Paese a cui appartiene. Se queste non sono democratiche, l'esercito nemmeno è tale. Non era democratico, essenzialmente democratico, l'esercito nazista, ma lo è sempre stato quello dell'Unione Sovietica. Comprendo perciò, onorevoli colleghi, che taluni abbiano proposto la soppressione di questo terzo comma, che, se interpretato nel senso giusto, può apparire superfluo, e se interpretato nel senso che l'ha interpretato l'onorevole Azzi, sarebbe assurdo. Del resto bisogna riconoscere che l'espressione in esso adoperata per lo meno non è felice, giacché si presta a interpretazioni così meschine come quella cui ho accennato.
Un ordinamento delle forze armate che si conformi allo spirito delle istituzioni democratiche della Repubblica vuol dire per me — e credo anche per gli amici di questa parte dell'Assemblea — un esercito il quale anzitutto abbracci tutto intero il Paese: che non si distacchi dalla nazione, come fatalmente avverrebbe per un esercito di professionisti; un esercito che sia alla nazione intimamente collegato, i cui quadri siano — in parte almeno — i quadri stessi industriali della nazione, sicché in questo legame fra esercito e nazione, fra quadri dell'esercito e quadri della nazione, risieda la forza vera dell'esercito. Solo così la sua potenza potrà risultare considerevole, anche se la sua forza numerica sia piccola.
Ho terminato, onorevoli colleghi. Purtroppo sull'orizzonte internazionale le nubi foriere di temporale non sono ancora dileguate. La tragica possibilità di un terzo immane conflitto mondiale, sia pure a lontana scadenza, è davanti a noi. L'incubo di una nuova spaventosa conflagrazione in cui decine, forse centinaia, di milioni di esseri umani periranno, opprime il nostro animo. Dio voglia che i due mondi oggi in antagonismo si avvicinino e s'intendano per creare finalmente quella democrazia mondiale, la quale significhi eliminazione di ogni violenza; che metta fine agli Stati sovrani; che significhi giustizia per tutti e che permetta di raggiungere quel benessere economico di cui oggi la scienza assicura la possibilità a tutti gli umani: di quella democrazia universale nella quale a ogni fanciullo, dovunque nato, siano assicurate le medesime possibilità di sviluppo intellettuale e morale. Per una tale democrazia varrà bene la pena di vivere e di morire; ed a baluardo di essa staranno gli eserciti nazionali, non più chiamati a combattere l'uno contro l'altro, ma a salvaguardare la comune libertà ed il comune benessere.
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Ruggiero. Ne ha facoltà.
Ruggiero. Onorevoli colleghi, prendo la parola per richiamare la vostra attenzione su un solo articolo del titolo che ci occupa: precisamente sull'articolo 47. Mi sembra che questo articolo possa diventare, onorevoli colleghi, il più significativo e anche il più importante della Carta costituzionale per la grande influenza che può esercitare sulla vita politica nazionale. Questo articolo dice: «Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Come vedete, con questo articolo si stabilisce la norma per cui tutti i partiti, quando esprimano una attività che vada al di là dell'ambito del partito stesso, cioè un'attività che concorra alla formazione della politica nazionale, devono usare il metodo democratico. È un articolo il quale ha un contenuto di grande portata politica ed etica ed io penso che noi concordemente lo voteremo. Però, modestamente, mi pare che debba essere completato da una proposizione integrativa che dovrebbe risolversi in un piccolo emendamento da me proposto. L'emendamento è questo:
«Sostituirlo col seguente:
«Tutti i cittadini hanno il diritto di organizzarsi in partiti che si formino e concorrano, attraverso il metodo democratico, alla determinazione della politica nazionale».
Dirò subito che questo emendamento trova i suoi precedenti nei lavori della prima Sottocommissione, dove fu fatta una proposta che aveva affinità con l'emendamento, una proposta un poco vaga, che non aveva limiti di completezza precisa. Gli onorevoli Togliatti e Marchesi vi si opposero e quindi non se ne fece più niente in sede di Sottocommissione.
In che cosa sta la divergenza tra l'articolo 47 contenuto nel progetto ed il mio emendamento? Sta in questo: che mentre l'articolo 47 considera l'attività dei partiti come fatto esterno, cioè come fatto che vada al di là dell'ambito del partito, come attività la quale opera in un campo nazionale per la determinazione della politica del Paese, nel mio emendamento, invece, si chiede che il metodo democratico venga affermato, usato ed esercitato anche nell'ambito della vita del partito, cioè venga considerato come un principio imprescindibile anche per la struttura interna di un partito.
Ripeto, la proposta fu avversata dagli onorevoli Togliatti e Marchesi. L'onorevole Togliatti ebbe a dire in proposito: «Domani potrebbe svilupparsi in Italia un movimento nuovo, anarchico, per esempio. E io mi domando su quali basi si dovrebbe combatterlo. Io sono del parere che bisognerebbe combatterlo sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee. Ma non si potrà negargli il diritto di esistere e di svilupparsi, solo perché rinunzia al metodo democratico».
L'onorevole Togliatti affermava così il principio imprescindibile della libertà di riunione da parte di tutti i cittadini; però, naturalmente, implicitamente anzi, riconosceva il diritto anche alla esistenza delle formazioni antidemocratiche. E per far valere la sua tesi faceva rilevare, come voi stessi avete osservato, che sarebbe leso quello che è il sacro principio della associazione da parte di tutti i cittadini nel caso (in ciò consiste il mio emendamento) in cui venisse imposto il metodo democratico anche nell'interno dei partiti.
Io mi permetto di osservare che non vi sarebbe nessuna lesione e nessuna menomazione al diritto di associazione in caso di approvazione del mio emendamento. E ciò per motivi i quali, secondo me, hanno una grande evidenza pratica ed anche un contenuto giuridico certo.
Primo motivo: possiamo noi tutelare e garantire il diritto di libertà, nella specie di libertà di associazione, nei confronti di quelli i quali spontaneamente, con una forma di cosciente, volontaria, deliberata abdicazione, hanno rinunziato a questo diritto? Perché in effetti quando c'è della gente che dice: io accetto il metodo antidemocratico nella struttura intima del mio partito, questa gente rinunzia implicitamente, anzi esplicitamente, al principio della libertà; onde, quando la legge intervenga per dire: non è concesso a voi il diritto della esistenza, perché voi non volete portare alla libertà il rispetto che a questo principio è dovuto, mi sembra che dall'altra parte non si possa muovere legittimamente nessuna forma di lagnanza o protesta o querela, perché in effetti si nega a costoro il diritto che costoro hanno già calpestato, inquantochè il metodo antidemocratico è incompatibile con il principio della libertà.
Vi è un secondo motivo, questo di ordine, diremo, strettamente pratico, perché trova la sua applicazione nell'azione concreta di cui è fatta la politica.
Coloro i quali abbiano adottato il principio dell'antidemocraticità nella struttura interna, cioè nei confronti di sé stessi, direi quasi contro sé stessi, quando poi entrano in rapporto con altri, quando operano cioè in campo nazionale, quando entrano nella lotta politica, avendo già questo principio, questa concezione, questa natura, questo carattere, rinunceranno al metodo antidemocratico? Mi pare che se fossimo di questa opinione urteremmo un po' contro la logica ed anche un po' contro il principio che la storia ci suggerisce attraverso la sua grande esperienza; perché la storia dice che tutti i grandi partiti i quali adottano, nell'ambito interno, la forma antidemocratica, hanno per principio la conquista violenta del potere e quindi la soppressione della libertà. Quindi per questo secondo motivo mi pare che non vi sia ragione di lagnarsi da parte degli enti democratici della menomazione o della lesione del principio della libertà.
Vi è un terzo ed ultimo motivo che dovrebbe, secondo me, legittimare e giustificare giuridicamente la richiesta contenuta nell'emendamento.
Che cosa succederebbe nel caso in cui una formazione antidemocratica venisse soppressa, appunto perché antidemocratica? Avremmo una soppressione di diritto, e sia pure. Però, tutti sappiamo che non tutte le soppressioni di diritto sono illegittime e che non tutti i diritti meritano una tutela e una garanzia. Se, nella specie, ci troviamo di fronte ad un diritto che è un diritto particolare, cioè il particolare diritto all'esistenza da parte dell'associazione antidemocratica, si vede come questo principio automaticamente si pone in una posizione di antitesi, di conflitto, di dissidio con l'interesse generale, cioè con l'interesse della collettività; perché l'interesse della collettività è quello di vedere rispettato il principio della libertà. Il principio che viene adottato dalla singola formazione è un principio particolare che deve essere considerato in rapporto al principio generale; per cui non possiamo non far valere quella grande affermazione di diritto secondo la quale tutti i principî particolari ed individuali, anche quando meritano la tutela e la garanzia della legge, devono cedere se si trovano in contrasto con quello che è il diritto della collettività, che è un diritto veramente sovrano ed intangibile. Quindi, anche per questo motivo di ordine strettamente giuridico, mi sembra che non patisca il diritto della libertà nessuna forma di menomazione o di lesione.
Vi è un'altra considerazione. Non tutte le associazioni, per il solo fatto che esiste il principio della libertà di associazione, hanno diritto ad essere tutelate, perché il diritto all'esistenza di ogni associazione è subordinato al fine, cioè alla natura ed al carattere del fine che l'associazione persegue. Se l'associazione ha fini antisociali o antigiuridici, o contrari ai principî del diritto o dell'etica, essa non ha diritto di esistere. Quindi, se noi riconosciamo, onorevoli colleghi, che la formazione antidemocratica, per il fatto stesso che è antidemocratica, cioè costituisce una minaccia immanente a quello che è l'apparato democratico della vita nazionale, non persegue un fine legittimo o giuridico, per questa ragione, l'eventuale soppressione di questa formazione non costituisce nessuna lesione di diritto.
Io vi dirò (per portare il principio alle estreme conseguenze, perché, come si dice generalmente, il principio si saggia, nella sua portata e nel suo valore normativo, quando è portato ai suoi limiti estremi) che nessuno di voi potrebbe lagnarsi nel caso che la legge colpisse, per esempio, un'associazione di carattere terroristico. Nessuno di voi potrebbe querelarsi. Perché? Perché il fine che quell'associazione persegue è antigiuridico e contrario agli ordinamenti sociali, e non è concepibile, per le leggi che regolano la nostra vita, che quella istituzione possa esistere. E la legge non aspetta che una organizzazione terroristica abbia dato una manifestazione concreta della sua esistenza, per impedirla; la legge interviene per il solo fatto che il fine perseguito dall'associazione è antigiuridico e contrario all'ordinamento sociale.
Voi vedete dunque che, nella specie, non vi può essere diritto di asilo in una repubblica veramente democratica, per queste formazioni che, come prima dicevo, si risolvono in una minaccia immanente per i principî così faticosamente raggiunti dalla democrazia in Italia. Vi è l'obiezione dell'onorevole Marchesi, il quale nella Sottocommissione, citando l'esempio del partito comunista che molti ritengono come favorevole ed incline alla violenza ed alla dittatura, faceva osservare che un governo, sulla base di questa falsa interpretazione del partito comunista, servendosi del disposto del testo del progetto, potrebbe arbitrariamente abolire tale partito.
L'obiezione dell'onorevole Marchesi si risolve nella tema che il Governo, in malafede o per una falsa interpretazione della norma, possa metter fuori legge il partito comunista sotto l'incriminazione di essere un partito antidemocratico. Io non debbo entrare in merito alla questione, ma faccio osservare che non si può tener presente questa osservazione fatta dall'onorevole Marchesi, per questi motivi: se tutte le volte che si fa un complesso di norme, si pensa a quella che potrà esserne l'applicazione eventuale, e si considera quali possano essere le difficoltà di interpretazione, noi non avremo mai nessun complesso di norme che possano essere tradotte nel fatto concretamente normativo.
Le difficoltà di interpretazione sorgono per ogni legge perché la legge passa attraverso quello che è il vaglio dell'uomo. Ora, io penso che dalla Carta costituzionale fino al regolamento, per esempio, di polizia urbana, non si avrebbe mai la possibilità di creare una legge, se si sia sempre tenuti dalla tema di una falsa interpretazione da parte di chi deve considerare ed applicare la norma stessa. Quindi, mi pare che non possa essere sostenuta questa tesi, anche perché il rischio di essere colpito da questa sanzione da parte del partito comunista secondo me non ha ragione di essere, perché è un rischio che potrebbe correre ogni partito. Ogni partito il quale si mettesse su una via illegittima potrebbe essere colpito da questa sanzione, né mi pare che le idee arbitrarie che da parte di qualcuno si possono fare sul partito comunista valgano a determinare una struttura ed una natura diversa in questo partito. Questo partito è quello che è, e quindi necessariamente non subirà arbitrarie interpretazioni.
Del resto, non è detto che la valutazione sulla struttura democratica di un partito debba essere fatta necessariamente dal Governo. Può essere fatta da una Corte costituzionale o da una Commissione paritetica di tutti i partiti esistenti.
A me pare che non possa reggere l'obiezione dell'onorevole Marchesi per questo altro motivo: perché in tutti gli articoli consacrati nella Carta costituzionale noi possiamo trovare difficoltà di una giusta interpretazione. Potrei farvi moltissimi esempi; basta invece farvene uno: quello dell'articolo 50, e ve lo faccio perché è molto prossimo all'articolo 47, di cui mi occupo. Il secondo comma dell'articolo 50 dice: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all'oppressione è diritto e dovere del cittadino». Come vedete, questa norma è affidata, per la sua interpretazione, a 45 milioni di cittadini italiani. Molti di questi cittadini possono interpretare la norma onestamente, molti arbitrariamente; molti gruppi facinorosi potrebbero approfittare di questa norma per ritenere illegittima l'azione del Governo e per insorgere. Quindi, è inerente a questa norma la difficoltà di interpretazione. Ma, non per questo, secondo la mia modesta opinione, si deve rinunciare all'articolo 50. Non si può rinunciare all'articolo 50 per il fatto accessorio ed estrinseco dell'interpretazione; non si può rinunciare alla sua portata essenziale, etica e giuridica, perché noi siamo convinti che l'articolo 50 costituisce una remora per tutti i poteri ed una garanzia per i diritti del cittadino.
Quindi, dicendo che vi è difficoltà di interpretazione di una norma, noi ci troviamo di fronte a tanti esempi, che potrebbero moltiplicarsi. Potrei fare un altro esempio: noi abbiamo approvato, in questa Assemblea, l'articolo che consacra il diritto da parte di un agente di pubblica sicurezza di sequestrare la stampa. Ora, se ciò è avvenuto, che cosa significa? Significa che noi abbiamo affidato ad un agente di pubblica sicurezza la valutazione di un'attività che è fondamentale per il diritto della libertà del cittadino.
Ora, mi domando se questo, che è stato fatto nei confronti della stampa, non possa anche essere fatto per ciò che ha riferimento alla struttura democratica di un partito. D'altra parte mi pare che non sia logico dare tanto affidamento ad un agente di pubblica sicurezza e non dare correlativamente la stessa fiducia nel Governo che dovrebbe valutare la struttura interna di un partito. Specie se consideriamo che, in effetti, il Governo è formato da un complesso di organi responsabili ed è sottoposto al controllo del Paese e deve dare conto di tutto a tutti e offrire quindi una garanzia assai maggiore di quella che può offrire un agente di pubblica sicurezza.
A me pare che sia più esposto il diritto di libertà di stampa in confronto di quello che è il diritto di organizzazione di un partito. Quando un partito antidemocratico si vedrà colpito da una sanzione, questo partito cercherà di far valere le sue ragioni, ed io penso che ove ci siano dei motivi legittimi potrà essere anche reintegrato nei suoi diritti di esistenza e di formazione. Ma lo stesso non può avvenire per la stampa. Perché la stampa, per sua natura, ha una vita effimera e contingente che dura un giorno o una settimana. Quindi, se la stampa viene colpita da quel provvedimento fulmineo che è il sequestro dell'agente di pubblica sicurezza, anche quando essa viene posta in mano al giudice per essere reintegrata nei suoi diritti, potrà anche conseguire la reintegrazione, ma tale reintegrazione dei suoi diritti ha luogo quando la stampa è stata superata nel tempo ed ha perso tutto il suo valore. Quindi, se è vero che noi abbiamo usato il principio della valutazione e della soppressone per la stampa, non vedo perché questo principio stesso, che ha una portata minore, non debba essere usato per i partiti eventualmente antidemocratici. Non mi pare dunque che ci sia serio motivo perché non debba essere accettato quell'emendamento mio che rappresenterebbe proprio una garanzia per la vita democratica del popolo italiano.
Si fa anche un'altra obiezione, ed è questa: si dice che sarebbe assai difficile individuare e valutare la struttura o la volontà antidemocratiche di un partito. Perché? Perché sfuggono certi elementi, oppure certi elementi non sono suscettibili di una valutazione esatta e precisa, per cui si può restare perplessi verso un partito e non saper determinare se questo sia o meno democratico.
A questo proposito faccio osservare che un partito, per lo stesso fatto che è una collettività, ha necessariamente una vita esteriore, che non può sfuggire alla valutazione di chi è chiamato a compierla. Che, se questa formazione è un'associazione segreta e quindi tale da non poter essere sottoposta a nessuna valutazione, allora noi cadremmo nella disposizione di cui all'articolo 13, dove è detto che le associazioni segrete non possono trovare asilo in Italia. Quindi, o questa associazione non è segreta, o è segreta. Nel primo caso cade nelle sanzioni della disposizione citata; nel secondo caso può essere agevolmente giudicata alla stregua del mio emendamento. A questo proposito, io debbo richiamare opportunamente quella che fu una istanza avanzata in sede di Commissione dall'onorevole Togliatti, una istanza che era intesa a consacrare che una norma vietasse esplicitamente l'organizzazione del partito fascista. In effetti, noi troviamo che all'articolo primo delle disposizioni transitorie, l'istanza è diventata disposizione. Infatti l'articolo primo delle disposizioni transitorie dice: «È proibita la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista».
Condividendo naturalmente l'opinione dell'onorevole Togliatti, non posso non pensare che anche qui sarebbe molto difficile individuare in una formazione politica, in una organizzazione qualsiasi, un carattere tale da poter identificare in questa organizzazione il carattere fascista.
Anche qui, permane quindi la stessa difficoltà di valutazione ravvisata dagli onorevoli Togliatti e Marchesi circa quello che è l'oggetto ed il fine del mio emendamento. È evidente infatti che, se si forma un'associazione che sia intimamente fascista, questa non verrà mai alla ribalta con il corteggio dei fasci littori e col volo delle aquile imperiali; ma verrà sotto mentite spoglie ed allora noi ci troveremo nella condizione di non poterla individuare.
Allora io mi domando: se è stata riconosciuta, da parte della Sottocommissione, la necessità di questa disposizione, pur esistendo per questa motivi di ardua individuazione ed applicazione, mi pare non ci debba essere luogo ad opposizione, quando si chiede un emendamento mirante a che vengano soppressi tutti quei partiti i quali non abbiano un'istanza profondamente democratica e non portino il rispetto necessario verso il principio della libertà. Infatti, per la disposizione dell'articolo 13 e per il mio emendamento, le difficoltà tecniche sono le stesse.
Passando ad altro, io penso, — e credo che pensiamo un po' tutti in questa maniera — che forse una disposizione del genere, cioè una disposizione la quale tenda alla soppressione di tutte le organizzazioni a struttura antidemocratica, si inserisca, direi quasi naturalmente, nel processo storico della vita nazionale che faticosamente si sta svolgendo ai nostri giorni.
Il popolo italiano infatti, in certe sue sfere, non ha potuto ancora permearsi, nella sua intima sostanza spirituale, di quello che è il concetto della libertà, perché abbiamo avuto una dittatura lunga e grave: lunga, perché è durata un quarto di secolo; grave, perché ha inciso in tutti i settori della coscienza nazionale.
Le nuove generazioni infatti non intendono certe forme della democrazia, perché non vi sono abituate; le vecchie generazioni, molte volte per desuetudine della prassi democratica, non intendono anch'esse qualche volta la democrazia. E allora si impone questa norma, per imporre il dovere della libertà, più che il diritto, il dovere di tutti alla libertà.
Ma c'è poi anche un'altra considerazione, ed è che il popolo italiano appare un po' disancorato e disorientato. Il popolo italiano infatti è premuto da tante esigenze, da tante ansie, da tante angosce, per cui è lontano dal principio della democrazia.
Ecco quindi perché io penso che, una volta che il popolo non partecipa ancora, nella sua più grande maggioranza, alla vita politica, una volta che il popolo non sente ancora profondamente la democrazia, non sarebbe molto difficile che domani una fazione bene organizzata potesse approfittare di questo stato di impreparazione per instaurare un nuovo regime antidemocratico e compiere una nuova marcia su Roma.
Quindi è necessario spezzare alla base, quando sono ancora allo stato potenziale, inespresso, queste associazioni anti-democratiche che poi si sviluppano e si configurano e prendono fisionomia e struttura e lineamento che possono risolversi veramente nella minaccia a cui accennavo poco fa, cioè nella minaccia al principio della libertà. E ritengo che quando una disposizione che vieti ogni forma anti-democratica venga consacrata nella Carta costituzionale — che è sempre un documento della civiltà di un popolo — questo potrebbe accrescere il prestigio del nostro popolo anche presso gli altri popoli, perché non dobbiamo dimenticare che chi ha voluto la guerra, la grande, feroce, selvaggia guerra, è stata la dittatura; e noi appartenevamo purtroppo ad una dittatura. Quando si è inserita nella Costituzione una norma di questo genere, io penso che ciò potrebbe accrescere il nostro prestigio nei confronti degli altri popoli, perché noi dobbiamo apparire come quelli che vogliono, ad ogni modo rinnovati da questo nuovo spirito democratico, affermare sempre e categoricamente in forma veramente solenne il principio della libertà.
Questo non dico perché la Carta costituzionale debba essere subordinata all'approvazione anche morale degli altri popoli, no; ma perché io penso — e forse anche voi pensate così — che una politica interna nello stretto senso della parola, che non debba avere nessun riferimento col grande mondo internazionale, oggi non ci può essere. Quindi dobbiamo inserirci in questo mondo internazionale; non — badate bene — in questo o quel blocco che oggi si contendono il mondo. Io penso che dovremmo inserirci nel mondo internazionale, in quello che esso ha di universale, cioè attraverso i principî della libertà, della giustizia che sono i cardini della civiltà per ogni popolo.
Vi dirò un'ultima cosa, ed ho finito. Badate che larghi strati del popolo italiano oggi non sentono la politica in forma ideologica, ma in una forma che io chiamerei economica. Questo è un po' il vizio profondo della nostra democrazia: vi sono larghi strati i quali oggi vanno orientandosi verso forme di destra estremistiche, che vanno al di là degli stessi programmi dei partiti di destra che siedono nell'Assemblea, perché questi larghi strati intendono la politica come una forma di tutela degli interessi capitalistici, come irriducibile, tenace difesa di interessi capitalistici; quindi in termini economici. Dall'altra parte esistono larghi strati del nostro popolo che vanno orientandosi verso forme di sinistra estremistiche, che vanno al di là degli stessi partiti di sinistra che siedono in questa Assemblea. Sapete perché? Perché intendono la politica come uno spossessamento violento, come una forma di attacco feroce alla proprietà che dovrebbe risolversi a loro vantaggio: cioè intendono la politica anche in termini prettamente economici.
Ora, badate bene, se è vero che questi larghi strati di popolo che appartengono all'uno o all'altro gruppo sono presi da forme estremistiche, se è vero che questi strati non sentono la politica in forma ideologica, ma in forma bruta, sarà anche vero che questi strati vogliono far valere le loro istanze attraverso metodi antidemocratici.
Questi gruppi, automaticamente, per il fatto che si trovano in posizione di contrasto, di dissidio, di conflitto, cercano di buttarsi l'uno addosso all'altro per la prevalenza dell'uno sull'altro. Il che significa pericolo di dittatura. Quindi è necessario porre freno a questa forma di enucleazione, che non trova nessuna sistemazione attraverso un partito che abbia il suo statuto, la sua insegna, tendendo fatalmente all'organizzazione che domani o in avvenire prossimo si presenterà anti-democratica.
Per tutti questi motivi, penso che il mio emendamento dovrebbe essere accolto, perché in effetti porta con sé questa grande istanza verso la libertà, che è il bene di cui oggi abbiamo più bisogno, più che di ogni altro bene, forse anche più del pane.
Io penso, onorevoli colleghi, e mi auguro che questa disposizione non dovrà essere applicata perché — alla fine — anche il popolo italiano, che è un gran popolo, ritroverà la sua grande anima nelle tradizioni che non possono essere rinnegate o smentite. È vero che l'anima italiana è stata umiliata, percossa, vergognosamente calpestata, è vero che l'anima italiana ha subìto la disfatta e la dittatura, che sono le più grandi sventure della storia, ma ciò non toglie e non diminuisce la grandezza del popolo italiano. Io spero che questo mio emendamento non trovi mai concreta applicazione, perché penso che non vi sarà un'associazione antidemocratica in Italia, e questo per il bene superiore della libertà, ed anche perché sono convinto che il popolo italiano ritroverà — sia pure faticosamente — la sua grande anima. (Applausi).
Presidente Terracini. È inscritto a parlare l'onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.
Condorelli. Onorevoli colleghi, la rapidità con la quale si è conclusa questa discussione è prova dell'ineccepibilità dei principî che il quarto Titolo ha consacrato. E veramente, non sembra che — salvo paradossi che, del resto, hanno fatto amabile capolino in questa discussione e che sono valsi un po' ad agitarla — salvo paradossi, oggi non si può più discutere di certi principî che appaiono ovvi: suffragio universale, equiparazione dei sessi dinanzi al diritto pubblico e ai diritti pubblici soggettivi, servizio militare obbligatorio. Sono tutti principî che possiamo dire perfettamente coerenti, che stanno alla base della nostra società nazionale e che sono conformi a quella che è la coscienza collettiva delle nazioni progredite. Di talché, a mio avviso, i dubbi si appuntano, più che attorno alla sostanza dei principî, piuttosto verso la formulazione di essi, formulazione che mi pare difettosa.
Può sembrare il mio solito assillo, l'assillo della forma, che a qualcuno è parso pedanteria professorale, ma che invece, vi assicuro, è manifestazione del profondo amore che sento per la mia nazione.
Io desidero vivamente, come lo desiderate tutti voi, che questa Carta costituzionale sia perfettamente adeguata all'alto livello di civiltà che ha raggiunto il nostro Paese, e specificamente all'alto livello che ha raggiunto il pensiero giuspubblicistico in Italia, che veramente in questi ultimi 50 anni ha conquistato un primato.
Io perciò farò delle osservazioni di carattere essenzialmente formale. La prima osservazione si riferisce alla seconda parte dell'articolo 45, allorché, a proposito del voto, si afferma che il suo esercizio è dovere civico e morale. È la prima volta, a dire la verità, che mi capita di studiare un sì audace tentativo di scalata all'Olimpo da parte del legislatore. I legislatori di tutti i tempi hanno avuto la coscienza di non poter creare dei principî morali e di non poter creare dei doveri morali. Pare che il legislatore italiano del 1947 abbia pensato ad un volo audace al di là di quelli che sono stati ritenuti sempre i confini naturali del suo ministero.
Il legislatore umano, il legislatore statuale non può creare dei doveri morali. Il legislatore del mondo morale è uno solo. È Dio, o, per chi crede in una morale autonoma, è la coscienza. Il legislatore non crea dei doveri morali, e quindi non ha significazione una espressione simile in una norma giuridica.
Il legislatore può prestare la sanzione giuridica ad un dovere morale. È il processo che dà base alla dottrina del minimo etico di Jellineck, il quale afferma che il diritto è appunto questo minimo etico, è la parte essenziale dell'etica che il legislatore fa diventare coattiva ed obbligatoria, aggiungendo la sua sanzione.
Ma che il legislatore possa creare o soltanto proclamare dei doveri morali è veramente una assurdità. Talché, quando i futuri vorranno leggere questa norma ed intenderne il contenuto, non potranno assolutamente pensare che il legislatore italiano sia caduto in una simile ingenuità (chiamiamola così); ma la interpreteranno piuttosto in questo senso, che il legislatore italiano abbia voluto che il dovere del voto sia soltanto un dovere morale, che abbia voluto, cioè, porre una inibizione al futuro legislatore a rendere giuridicamente obbligatorio il voto. Né è possibile altra interpretazione. Ed allora si potrebbe pensare che, di soppiatto, si sia voluto troncare qui una questione che così vivamente ha interessato l'opinione pubblica italiana e che del resto era già stata recepita nella nostra legislazione positiva, proprio nella legge in forza della quale noi siamo qui, che poneva appunto la obbligatorietà del voto.
Qui è il caso di uscire dagli infingimenti, dagli equivoci. Si è voluto porre questo problema della obbligatorietà o meno del voto, ed allora questo problema si ponga chiaramente e si inviti la Costituente a decidere se il voto debba essere obbligatorio o libero, se la Costituzione debba creare una preclusione all'obbligatorietà del voto.
È bene porre il problema apertamente e discuterlo in questi termini, perché se passasse l'articolo del progetto così com'è stato presentato, a me pare che l'obbligatorietà del voto non si potrebbe introdurre nella nostra legge elettorale altro che attraverso un procedimento di revisione della Costituzione. In altro modo non sarebbe possibile.
Ed io non credo che nello scorcio di questa discussione si possa introdurre quest'altra vastissima discussione che impegnerebbe tutti quanti i partiti a rivangare le tesi già note e ripetute. E allora è il caso di usare un termine che lasci libero il legislatore di provvedere in un modo o nell'altro. Saremo noi stessi a provvedere fra quindici giorni, ex informata conscientia, quando decideremo sulla legge elettorale. Per ora non c'è altra alternativa: o sopprimere la seconda parte di questo comma, che è perfettamente inutile (per me le definizioni nel diritto sono sempre superflue, quando non sono pericolose) e far passare l'articolo senza questa inutile ed errata pregiudiziale; o fermarci all'affermazione che dice: «il diritto è un dovere civico». E questo basta, perché i doveri civici possono essere sanzionati e non sanzionati. Ci sono tanti doveri civici che non sono sanzionati, come ce ne sono degli altri sanzionati. Sarà il legislatore che dovrà decidere. Qui la parola «civico» sta nel senso di dovere politico, con una notazione di giuridicità: perché «civico» è il perfetto corrispondente, su tema latino, dell'aggettivo «politico», che è su tema greco. Evidentemente sono due parole che si corrispondono nel loro contenuto sostanziale. Ma la parola «civico» è più pregnante di giuridicità e perciò appare più propria. Parliamo soltanto di dovere civico, se non vogliamo totalmente sopprimere questa aggiunta; o, altrimenti, sopprimiamola, che sarà il miglior partito, come del resto è stato proposto da un emendamento presentato da colleghi del mio stesso Gruppo parlamentare.
Vi è un secondo punto di questo titolo, l'articolo 47, il quale veramente costituisce una delusione, perché mi pare che siamo venuti meno ad uno dei temi fondamentali della nostra Costituzione: un tema che peraltro era stato annunciato nel solenne discorso con cui il nostro grande maestro Vittorio Emanuele Orlando aprì, come decano, i lavori di questa Assemblea. Noi eravamo chiamati a prendere atto di questa nuova realtà, di questa realtà che, se non è totalmente nuova, adesso si colorisce di nuovi aspetti e di nuova importanza: del partito e dello stato di partiti, che, non so se per un processo fisiologico o patologico dello Stato moderno, sono alla base della presente politica. A me pare che la Costituzione abbia rinunciato non solo a regolare questa realtà, ma addirittura a conoscerla, perché si occupa del partito in una norma che è perfettamente superflua, che non è che un inutile scolio della norma che pone la libertà di associazione. Si reca, alla norma che pone la libertà di associarsi, l'aggiunta che ci si può associare anche in vista di fini politici. Non si aggiunge altro che questo. E, del resto, è ovvio che è fine perfettamente lecito, per il quale, dunque, ci si può associare, quello di concorrere alla formazione ed alla determinazione della politica del proprio Paese. Nessuno ne poteva dubitare.
Il diritto di associazione produce di per se stesso, per ovvia conseguenza, il diritto di associarsi in partiti.
L'articolo, se rimane quale è, è perfettamente inutile; dunque, da togliersi, perché le cose inutili in un testo legislativo non hanno ragione di essere. Le ridondanze sono già un difetto. Credo che l'unica ragione che potrebbe giustificare la presenza di questo articolo nella Costituzione si potrebbe ricavare da qualcuno degli emendamenti presentati; per esempio da quello che testé ha illustrato l'onorevole Ruggiero: far divenire il metodo democratico non soltanto elemento del fine, che l'associazione vuole raggiungere, ma principio regolatore della struttura dei partiti.
Ed allora, sì, avremmo dettato una regola della esistenza dei partiti.
Poi, è superfluo andare ad indagare oggi, in sede costituzionale, chi dovrà affermare o negare la democraticità d'un partito. Ci penserà il legislatore. Certo, onorevole Ruggiero, non potrà essere il Governo ad indagare ciò; sarà la Corte costituzionale, come propone l'onorevole Mortati, o sarà l'autorità giudiziaria.
Non dobbiamo essere noi a tirare queste conseguenze.
Non sarà certo male, per la stessa sincerità della funzione che i partiti devono avere, che essi si organizzino democraticamente, in modo che la loro azione sia veramente espressione della volontà dei consociati.
Infine, l'articolo 51 pone la questione del giuramento. Su questo io non mi intrattengo. Ho già parlato a lungo su questo tema, allorché si è discusso della formula provvisoria del giuramento di fedeltà alla Repubblica.
Dunque, non mi ripeto; ma tengo ferme tutte le ragioni, che allora esposi.
L'obbligo del giuramento è contro la libertà di coscienza, che è stata così strenuamente difesa da altri settori in quest'aula e che noi stessi abbiamo difeso, secondo quelle che ci sembravano le direttive della coscienza moderna, e che oggi torniamo a difendere nell'opporci alla inclusione dell'obbligo del giuramento nella nostra Costituzione.
Io mi intratterrò, invece, più diffusamente — ma, certo, signor Presidente, nei limiti della mezz'ora assegnatami — sull'articolo 50, che è certamente il più difettoso di quanti si contengono in questo Titolo.
Nei due commi dell'articolo 50 sono contenute, in sostanza, due disposizioni: nella prima disposizione, cioè nel primo comma, si pongono insieme ai cittadini il dovere di osservare la Costituzione e le leggi, il dovere di adempiere con onore e con zelo alle funzioni che al cittadino sono affidate.
Questo articolo è, prima di tutto, superfluo ed inutile, e poi è anche difettoso dal punto di vista dei termini usati.
Si comincia con l'attribuire questi doveri ai cittadini, come se il dovere di osservare la Costituzione e le leggi fosse dei soli cittadini e non fosse di tutti i subietti alla legge, di tutti i soggetti alla sovranità dello Stato che non sono, come è ovvio, i soli cittadini, ma sono tante altre persone che vivono nel territorio dello Stato ed alcune volte anche all'estero.
Questo è un dovere che spetta a tutti i destinatari delle leggi e della Costituzione. Non sono soltanto i cittadini, sono tutti i soggetti, siano cittadini o non cittadini.
E poi, questa fedeltà alla Repubblica! Non pensino gli amici della sinistra che ci sia in ciò una idiosincrasia di monarchici; c'è semplicemente l'alto senso di devozione, che raggiunge la religiosità, quando io pronunzio e sento la parola e l'idea Stato. Lo Stato, che è la concretizzazione storica della stessa idea etica, che è qualcosa di molto più alto di tutte le repubbliche, di tutte le monarchie, che non sono che dei regimi, mentre lo Stato è la stessa essenza della nostra realtà morale e storica.
Io preferirei che ai cittadini fosse inculcato il senso della devozione, della fedeltà allo Stato, quella religio civilis che fece grande Roma e che potrebbe fare grandi anche noi, se la sentissimo come la sentivano i nostri antichi padri.
Peraltro, la fedeltà alla Repubblica, che è un regime, è contenuta nel membro successivo della proposizione, allorché si impone ai cittadini il dovere di osservare e rispettare la Costituzione e le leggi. E la Repubblica, non essendo che un ordinamento politico, non è altro che l'insieme delle leggi costituzionali e politiche considerate unitariamente.
Noi arricchiremmo certamente il significato etico di questo comma, se alla parola «Repubblica» sostituissimo quella tanto più augusta di «Stato».
Però, dicevo, il difetto di questo articolo non è tanto nel dettaglio o nella terminologia usata, quanto in tutto il suo insieme. Esso è una superfluità, e consentitemelo, per la sua quasi totalità, una inavvertita, ingenua petizione di principio.
Che significato ha una legge che impone ai cittadini l'osservanza della Costituzione e delle altre leggi?
Ma le leggi o hanno il vigore in se stesse, o se no, non lo possono ricevere da altro, e tanto meno da un'altra legge la quale non ha altro valore che quello che hanno le leggi a cui essa vuole dare valore.
Forse per le stesse ragioni logiche avremmo bisogno di un'altra legge che dicesse che è obbligatorio osservare l'articolo 50 che impone di rispettare la Costituzione e le leggi, e poi di un'altra che dicesse che è obbligatorio rispettare quel tale articolo che garantirebbe l'articolo 50. E così all'infinito.
È troppo evidente. Rassomiglia molto l'articolo 50 a certe ingenue clausole testamentarie del '700 ridondante, con le quali il testatore, dopo aver steso il suo testamento, aggiungeva: «Voglio che questo testamento sia osservato perché questa è la mia volontà e nessun'altra, e voglio che la mia volontà sia legge per i miei successori e aventi causa».
E poi ripeteva ancora questo, quando era troppo chiaro che se la sua volontà aveva valore lo aveva in quanto era stata enunciata e non per tutte queste clausole che si aggiungevano e che erano perfettamente superflue.
Questo articolo 50 è proprio barocco.
Sarò lieto di sentire l'opinione dell'autorevole Commissione su quello che io osserverò. Questo articolo può avere un valore se impegna la devozione allo Stato e alla Repubblica, se aggiunge l'obbligo di adempiere con onore alle mansioni affidate, ma in quanto afferma che è obbligatorio rispettare ed osservare la Costituzione e le leggi, è certamente una superfluità che nessun giurista, né presente né futuro, saprà giustificare.
Sì, tante volte noi abbiamo sentito ripetere, nel corso di queste discussioni, che questa nostra Costituzione ha un valore pedagogico. Insomma, forse, si vuole dire che è una tavola di diritti e doveri da divulgare.
Ecco, un valore pedagogico non lo ha soltanto questa Costituzione, ma lo hanno tutte le leggi, perché tutte le leggi vogliono enunciare dei doveri per ottenerne l'osservanza.
E condizione prima per ottenere l'obbedienza è quella di far comprendere i comandi. Tutte le leggi, per la loro natura, per la loro essenza, hanno una finalità pedagogica né più né meno di come l'ha la Costituzione. Non c'è niente di più né niente di meno. Ma questa finalità pedagogica — e qui mi appello ai molti professori ed insegnanti che onorano questa nostra Assemblea — questa finalità pedagogica si raggiunge con un solo mezzo o, per lo meno, con questo mezzo principale: la precisione, che si origina nella chiarezza e che è raggiunta attraverso la semplicità delle espressioni.
Se voi volete che la Costituzione sia facilmente appresa da chi la deve osservare e fare osservare, fatela chiara e precisa, in modo da non creare aloni di dubbio intorno alle sue disposizioni.
È questo il precetto che dobbiamo seguire se vogliamo raggiungere quel tale effetto pedagogico al quale tutti quanti teniamo, ma che non si raggiunge certamente usando espressioni improprie, anzi profondamente errate, come quelle che io, non sempre inteso, ho denunciato a questa Assemblea. Noi così non chiariremo la mente dei meno colti e confonderemo la mente dei colti; e confonderemo i profili essenziali della futura elaborazione scientifica.
Quello, poi, che merita una particolare attenzione è il secondo comma di questo articolo, nel quale c'è un errore tecnico, che non è solo errore tecnico che disadorna e forse compromette la venustà della nostra Costituzione, ma che è politicamente pericoloso: il famoso diritto di resistenza.
Il diritto di resistenza non è certamente una trovata della nostra Assemblea. È una vecchia dottrina, ed è una dottrina contro la quale non posso avere preconcetti di scuola, perché il primo formulatore e teorico scientifico di questa dottrina è Locke, che a ragione fu chiamato il padre del liberalismo. Giustamente, dicevo, il Locke primo teorico di questa dottrina, perché egli ha certamente la paternità scientifica di questa, che come dottrina morale e para-giuridica è però antica, in quanto rimonta al Medio-Evo con le lunghe dissertazioni de tiramno e de tiramnicidio. Si costruì una complicata teoria sul tirannicidio. Ricordiamo Coluccio Salutati, e sopra tutto, non per il tirannicidio, perché a questo egli non giunse, ma per la teoria della resistenza, il Dottore Angelico, vale a dire San Tommaso d'Aquino. Sopra tutto per la famosa tripartizione del diritto in lex humana, lex naturalis e lex divina, e dei rapporti che tra queste varie leggi vi sono, e dei conflitti che sorgono tra la legge umana e le altre superiori leggi. Pose così l'Aquinate la legittimazione della resistenza, allorché la lex humana contraddiceva la lex divina.
Ripeto: in me non è nessun preconcetto di scuola né politica, né religiosa, contro questa dottrina del diritto di resistenza. La mia opposizione è materiata soltanto da concetti e da esigenze concettuali scientifiche e politiche. Esaminiamo la portata di questo articolo.
Il diritto di resistenza è ammesso, dal progetto, contro l'azione di tutti i poteri pubblici, nessuno escluso, perché si parla in genere di «pubblici poteri i quali violino le libertà fondamentali od i diritti concessi o protetti dalla Costituzione». Dunque resistenza contro gli atti violatori, da qualunque potere pubblico essi provengano, sia dal potere legislativo, che dal potere esecutivo, che dal potere giudiziario. Non c'è esclusione. Perciò insorgenza eventuale non soltanto contro gli atti del Governo o della pubblica amministrazione, ma anche contro atti della autorità giudiziaria e contro la legge stessa! Questo indubbiamente significa! Prospettiamoci tutta la infinità di ipotesi di resistenza individuale o collettiva, attiva o passiva, che può fare l'individuo o il cittadino, come singolo o come complesso, di fronte alle violazioni che provengano dalla legge o da atti singoli del pubblico potere. Certo non esaminiamo l'infinita gamma di tutte queste ipotesi, ma basta raggrupparle.
Esamino da principio il diritto di resistenza di fronte agli atti singoli, cioè di fronte agli atti del potere esecutivo e del potere giudiziario. Esamineremo poi questa posizione di resistenza del cittadino di fronte agli atti del potere legislativo, cioè degli atti che si concretano nella posizione di una norma generale, che è un comando di una classe di azione, e non di un'azione determinata, o di legittimazione di un'azione determinata. Qui le ipotesi che si possono fare sono sostanzialmente quattro: un atto nullo o giuridicamente inesistente, perché mancante di un requisito essenziale per la sua esistenza, posto in essere da una pubblica autorità (per esempio, una sentenza emessa da un sindaco; una deliberazione comunale presa da un primo presidente di Corte d'appello). Evidentemente, questo è un atto inesistente giuridicamente. Non vi è dubbio che il subordinato alla legge ha la possibilità di resistere ad un atto di questo genere; ha la possibilità, la facoltà di non obbedire ad una disposizione di questo genere. Ma questo — me ne dia atto l'onorevole Ruini, grande maestro di queste discipline — non è il diritto di resistenza; questa è l'esplicazione della libertà o del diritto che quell'atto giuridicamente inesistente voleva violare, ma non è riuscito a violare perché non ha esistenza. Io ho agito nel mondo del diritto come se quell'atto non fosse esistito; io non ho esercitato un diritto di resistenza ma ho invece esercitato quel tale diritto o quella tale libertà contro cui si appuntava la pubblica amministrazione.
Un'altra ipotesi è quella dell'atto non nullo ma annullabile, cioè dell'atto che può essere annullato dopo un procedimento giudiziario o amministrativo. E qui le ipotesi sono due: o questi atti sono esecutori o non lo sono. Se non lo sono, evidentemente io ho la possibilità giuridica di disobbedire. Ovviamente. Ma qui, al solito, non vi è affatto il diritto di resistenza; io non ho di fronte a me un ostacolo giuridico a cui resistere; è l'esplicazione di quella tale mia libertà, di quel tale mio diritto contro cui l'atto annullabile è diretto. Vi è invece l'ipotesi dell'atto annullabile ma esecutorio. Ed allora, di fronte all'atto annullabile esecutorio la mia insorgenza contro l'esecutorietà — che naturalmente deve nascere da legge — vale come insorgenza contro la legge.
Io divento in fondo giudice in causa mia, divento giudice della mia causa. Tutto ciò è profondamente contraddittorio. In fondo, se ci si pone per questa via, lo stesso giudicato non direbbe nulla, perché dopo che il magistrato avesse deciso, io potrei dire: ma quest'atto, siccome è ingiusto, questa sentenza, siccome è ingiusta, io non li voglio seguire. Quest'atto, per quanto conforme alla legge nella sua essenza di atto, ma contrario alla legge per il suo contenuto, perché viola una libertà fondamentale od un diritto riconosciuto dalla Costituzione, non ha per me alcun valore ed io vi resisto.
Questa è inammissibile sovrapposizione del singolo al giudicato ed all'atto amministrativo. È semplicemente contraddittorio affermare il valore di questi atti e poi dare facoltà all'individuo di insorgere contro di essi.
In fondo, sia che si tratti di atti ormai definitivi o soltanto esecutori, ma contrari alla legge, sia che si tratti di atti esecutivi conformi alla legge, ma ad una legge che violi i diritti fondamentali e le libertà fondamentali del cittadino, il problema è sempre quello: del valore obbligatorio della legge, della possibilità che ha il singolo di insorgere di fronte alla legge, o della possibilità che ha la collettività di insorgere.
Ora, è sommamente contraddittorio ed addirittura anarchico pensare che gli individui, come singoli, o anche associati al di fuori degli organi predisposti dall'ordine giuridico per esprimere unitariamente la volontà popolare, questi individui amorfamente riuniti, possano distruggere il valore obbligante della legge. Questo valore, come potremo stabilire a proposito delle garanzie costituzionali, si potrebbe distruggere attraverso, per esempio, la Corte costituzionale, o attraverso una dichiarazione di incostituzionalità della autorità giudiziaria. Ma il giudizio che dovrebbero dare i singoli, che potrebbero sospendere in ogni istante il valore della legge, è semplicemente una qualche cosa che non può entrare in nessuna mente sensata, perché è contraddittorio con lo stesso concetto di legge. Bisogna riconoscere che questo diritto di resistenza, che si manifesta attraverso insurrezioni, colpi di Stato, rivoluzioni, non è un diritto ma è la stessa realtà storica, la sola che abbia il potere di investire e di deporre. Sono fatti jurigeni, sono perciò fatti logicamente anteriori al diritto. Perché un colpo di Stato od una insurrezione che si affermino, una rivoluzione che veramente «revolva», creano un nuovo ordinamento giuridico. Questa è la storia che passa, dinanzi alla quale il legislatore è impotente. Egli, se la vuole regolare, può solo commettere delle ingenuità» degli errori. (Applausi a destra — Congratulazioni).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Colombi. Ne ha facoltà.
Colombi. Onorevoli colleghi, noi siamo d'accordo sull'articolo 49 del progetto di Costituzione che stabilisce il servizio militare obbligatorio. Noi pensiamo che sia fare della cattiva poesia allorché si parla di neutralità assoluta o di pace perpetua. La terribile esperienza dell'ultima guerra, dove i diritti delle genti sono stati calpestati con una assenza completa di scrupoli, ci insegna che non vi può essere una neutralità disarmata e ci insegna soprattutto quanto sia pericoloso creare o fomentare illusioni pacifiste.
Una politica di pace può essere una politica forte, può essere una politica virile; ma un atteggiamento pacifista ci abbandonerebbe alla mercé del primo Paese straniero che volesse fare dell'Italia una terra di conquista o un campo di battaglia.
Noi non vogliamo che il nostro Paese divenga né una cosa né l'altra; e perciò dobbiamo fare una politica di pace, una politica di amicizia con tutti, con le potenze occidentali e con le potenze orientali; soprattutto dobbiamo fare una politica di pace con i nostri vicini.
Ma ciò non basta; l'esperienza ha provato infatti che non è sufficiente volere la pace, voler essere neutrali, per avere effettivamente pace e tranquillità. Noi pensiamo che sia necessario uno strumento per difendere la neutralità e per difendere la pace. È certo che l'Italia oggi, e forse anche domani, non può e non potrà pensare di possedere un grande esercito, una grande flotta aerea e navale, così da potere affrontare battaglie campali con le grandi nazioni del mondo. Tuttavia, dato che non abbiamo alcuna velleità imperialistica, che non vogliamo far guerra a nessuno, che non abbiamo mire di conquista, non abbiamo neppure bisogno di avere un grande potenziale offensivo.
Ma per difendere la nostra neutralità e la nostra pace, è necessario che abbiamo un'armata capace di farlo, un'armata cui affidare il compito di difendere le nostre frontiere e che soprattutto, sia in grado di dimostrare a qualsiasi eventuale nemico che, se intenda minacciare le nostre frontiere, o tenti occupare il nostro suolo, non potrà farlo impunemente. Bisogna cioè che l'eventuale nemico sappia che troverà una forza armata capace di affrontarlo, che in ogni città, in ogni borgata, in ogni casolare, troverà un centro di resistenza e che in ogni caso troverà chi gli rende la vita difficile nel nostro territorio.
Le nostre forze armate saranno certamente di modesta entità; bisognerà quindi curarne al massimo grado l'efficienza qualitativa. Ma se noi vogliamo creare le condizioni per cui il nostro esercito sia un esercito popolare, sia un esercito in condizioni di assicurare la difesa del nostro Paese, è necessario che riusciamo a dare l'istruzione militare al maggior numero possibile di cittadini italiani. Il nostro esercito, nel momento del pericolo, deve poter essere integrato coll'accorrere sotto le bandiere di tutti i cittadini validi; ed essi non potranno farlo, se non saranno stati in precedenza addestrati all'uso delle armi e alla guerra di difesa.
A questo proposito, è necessario che utilizziamo a fondo l'esperienza della guerra partigiana, la quale non è stata soltanto un fatto politico di estrema importanza, ma anche una grande esperienza militare, della quale bisogna tenere conto.
Nelle condizioni in cui ci troviamo, non potendo avere un esercito che abbia la forza e i mezzi necessari per affrontare battaglie campali con gli eserciti meccanizzati dei grandi Paesi, la guerra partigiana costituisce per noi un elemento difensivo di primo ordine.
Noi dobbiamo riuscire ad ottenere una forza difensiva efficiente con il minimo di peso per i cittadini e per lo Stato italiano. La ferma di dodici mesi può essere sufficiente per fare di un giovane un ottimo soldato, a condizione che le forze armate della Repubblica sappiano liberarsi dei gravami morali, burocratici ed economici delle forze armate della monarchia.
Vi potranno essere diverse forme di reclutamento; vi potrà essere una seconda e una terza categoria, a ferma più breve, che sia tuttavia sufficiente per dare un addestramento militare e guerrigliero. L'essenziale è che il principio affermato nella Costituzione, che la difesa della Patria è un sacro dovere del cittadino, non rimanga un'affermazione retorica, ma si traduca nella vita, mettendo il cittadino nella condizione materiale e spirituale di poter adempiere con onore questo sacro dovere.
È giusto quello che è stato osservato: che non si tratta solo di un'educazione militare: si tratta anche di educazione morale; che non si tratta solo di fare dei soldati, ma anche di fare degli uomini, dei patrioti. Il servizio militare obbligatorio fa dell'esercito una scuola di unità nazionale: lo è stato in una certa misura nel passato; noi vogliamo che esso lo sia sempre di più nella nuova Italia democratica.
Noi respingiamo l'idea di un esercito di quadri; non possiamo pensare di affidare la difesa della libertà e dell'indipendenza della Patria esclusivamente a dei militari di mestiere, che finirebbero per estraniarsi dalla Nazione, diventando una casta chiusa e reazionaria, costituendo un pericolo per la pace e per la libertà. L'esempio della Germania ci ammonisce a questo proposito. È evidente che senza la casta militare degli «Junkers» prussiani, Hitler non avrebbe potuto mettere sotto i piedi la democrazia in Germania, né avrebbe potuto mettere a ferro e a fuoco l'intera Europa.
Si è parlato qui dell'Inghilterra, la quale avrebbe trovato la sua prosperità e la ragione delle sue fortune nel fatto di non avere un esercito con coscrizione obbligatoria. È sufficiente ricordare che l'Inghilterra è una isola e che l'Italia non lo è. Del resto, anche i tempi aurei, nei quali l'Inghilterra poteva espandersi e impadronirsi di gran parte del mondo facendo combattere gli altri, sono ormai passati, anche in Inghilterra si ricorre al servizio militare obbligatorio. L'Italia non è un'isola, l'Italia non è l'Inghilterra; non ha le sue risorse e le sue possibilità; l'Italia non è nemmeno un giardino, come l'hanno decantata i poeti; purtroppo noi dobbiamo fare dei grandi sforzi per strappare alla nostra terra il pane per le nostre popolazioni; dobbiamo fare dei grandi sforzi per far sì che le nostre fabbriche diano i mezzi e gli strumenti necessari per la vita; noi dobbiamo lottare ancora per conquistare e affermare la nostra indipendenza nazionale, dobbiamo preoccuparci della difesa della nostra indipendenza e della nostra libertà che sono ancora minacciate.
Noi siamo d'accordo con l'articolo 47 così come è redatto nel progetto di Costituzione. Nessuno può disconoscere l'alta e importante funzione che hanno i partiti nella vita democratica del Paese. Essi non sono solo uno strumento di organizzazione delle masse, ma sono anche uno strumento di educazione politica, di educazione civile, sono un mezzo per elevare la coscienza delle masse. Sono i partiti democratici, uniti nei Comitati di liberazione, che hanno organizzato la resistenza e l'insurrezione nazionale salvando l'Italia dall'estrema rovina. È l'azione dei partiti democratici che ha gettato le fondamenta della nuova democrazia italiana che è una conquista delle masse popolari, e non una concessione graziosa. Sono i partiti, con la loro organizzazione, con la loro politica, che hanno contenuto entro limiti democratici e civili la lotta politica e sociale di questo travagliato dopo guerra portando la vita democratica verso un livello più elevato. Da taluna parte si è parlato di introdurre degli emendamenti che comportino «un controllo dello Stato sui partiti», si è parlato di «riconoscere solo quei partiti che abbiano una natura e una struttura democratiche». Noi respingiamo ogni formulazione che possa fornire pretesti a misure antidemocratiche, prestandosi ad interpretazioni diverse ed arbitrarie.
Vi è chi ha detto, per esempio, che «certi partiti potrebbero esprimere pensieri solo apparentemente democratici, ma che poi sotto sotto vi potrebbero essere chissà quali diabolici disegni». È evidente che lo stabilire un controllo sui partiti creerebbe situazioni per cui l'arbitrio potrebbe manifestarsi. Noi respingiamo perciò ogni formulazione dell'articolo che possa fornire pretesti a misure antidemocratiche; noi pensiamo che ogni controllo statale sui partiti costituirebbe una limitazione della libertà e ogni limitazione posta al principio della libertà costituisce un pericolo per la democrazia stessa. I partiti hanno un controllo: il controllo sui partiti lo esercita il Parlamento, lo esercita sopra tutto il Paese. È evidente che in regime democratico i partiti hanno tutte le possibilità per combattere democraticamente e con efficacia eventuali partiti o movimenti che si ispirassero ad idee false o antidemocratiche. È evidente che il Paese, attraverso le elezioni, attraverso le più diverse manifestazioni della vita democratica, giudica i partiti e i loro programmi e le loro azioni; è questo il vaglio migliore, il vaglio più democratico dei partiti, è questo il controllo, il vero controllo che il popolo esercita democraticamente sui partiti stessi. Noi pensiamo che, qualora sorgano partiti e correnti che nella loro attività escano dalla legalità democratica e impieghino la violenza come metodo di lotta politica, vi sono le leggi di pubblica sicurezza, vi sono le leggi dello Stato democratico per reprimere gli attentati alla vita democratica. Se fosse necessario, altre leggi possono essere fatte per difendere la Repubblica e la libertà, ma in ogni caso la repressione della illegalità deve essere fatta senza portare pregiudizio ai principî della libertà e della democrazia. (Applausi).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Chatrian. Ne ha facoltà.
Chatrian. Dopo quanto è stato detto così degnamente e ampiamente dai colleghi di vari settori dell'Assemblea sugli articoli del Titolo quarto, io mi limito ad illustrare, anzi ad ampliare la illustrazione — perché mi sembra un contributo doveroso ed opportuno — del seguente emendamento relativo all'articolo 49: «La prestazione del servizio militare è obbligatoria. Le modalità sono stabilite dalla legge». L'emendamento ha due scopi: di chiarificazione e di completamento.
Nobilmente affermato nel primo comma che la difesa militare è sacro dovere del cittadino, il corollario della obbligatorietà del servizio militare ne è naturale conseguenza in linea morale, in linea equitativa ed in linea tecnica. Tanto più questa obbligatorietà si rivolgerà ad un numero ampio di cittadini, tanto più il comandamento del sacro dovere di difesa della Patria sarà concreto ed effettivo: in guerra, ove il sacrifizio richiesto è quello supremo, l'olocausto della vita; in tempo di pace, quando ogni prestazione militare per il cittadino costituisce pure un onere e un peso, una parentesi nella vita normale del cittadino stesso.
Questa obbligatorietà è la forma che meglio risponde al carattere etico degli Stati moderni, ed è indubbiamente la più democratica. Sennonché, l'espressione del testo della Commissione — il servizio militare è obbligatorio — può, a mio avviso, determinare qualche equivoco e qualche limitazione in linea tecnica, specie se lo si interpreti, o lo si voglia interpretare, troppo letteralmente.
Servizio militare obbligatorio significa, tecnicamente: coscrizione; come servizio militare volontario significa volontariato.
Sono le note due diverse forme storiche, classiche, della prestazione del servizio militare. Ora, nel testo della Costituzione, noi vogliamo affermare che la prestazione del servizio di sacra difesa della Patria è obbligatoria, non stabilire delle modalità tecniche: vogliamo precisare un rapporto politico, come tutti quelli considerati dal Titolo quarto, non vogliamo formulare un criterio tecnico.
Desidero d'altronde sgomberare, cercare di sgomberare, subito un equivoco o, per lo meno, un errore di prospettiva, che è stato segnalato poco fa dall'onorevole Nobile, circa il volontariato: invocato dagli uni, deprecato dagli altri.
Esistono, onorevoli colleghi, anzi, forse meglio, sono esistiti, tre sistemi di volontariato: quello mercenario delle compagnie di ventura, delle truppe straniere assoldate, del racolage, dei quali fece giustizia la rivoluzione francese con la legge Carnot sulla leva obbligatoria e, successivamente, con la legge Jourdan, prima legge moderna sulla coscrizione; un secondo sistema di volontariato è quello cosidetto professionale, proprio, o già proprio, dei paesi anglosassoni, noto nella sua struttura, ben diverso dalla coscrizione, che i due Stati hanno peraltro abbandonato nei due conflitti mondiali ed anche nel presente periodo storico. Sistema d'altronde di lusso, fuori causa per noi, perché non consentito dalla finanza italiana, a prescindere da ogni altra considerazione. Ma esiste un terzo sistema di volontariato, che definirò «volontariato integrativo della coscrizione»; per cui determinati cittadini che sono vincolati al servizio militare nei termini e con le modalità ordinarie danno invece una prestazione più ampia: nel tempo, per determinati vincoli, con particolari obblighi. Ora, questo volontariato integrativo è imposto da esigenze di inquadramento e di addestramento (ufficiali, sottufficiali, determinate categorie di graduati di truppa) e da esigenze di tecnicismo (specialisti che devono impiegare determinati materiali più delicati, da quelli di collegamento a quelli meccanizzati ovvero che assolvono a particolari incarichi e cariche speciali). Ma, mentre i due sistemi di volontariato, mercenario e professionale, sono sostitutivi della coscrizione — e perciò possono essere ravvisati in contrasto con il sacro dovere di difesa della Patria, perché esimono parte dei cittadini a vantaggio di altri cittadini — il sistema di volontariato integrativo non è assolutamente in contrasto con questo obbligo generale e personale; solo esso determina un'attenuazione del peso e dell'onere dell'obbligo generale stesso. Nessun sistema di volontariato sostitutivo esiste nell'attuale legislazione militare italiana. L'ultimo istituto, che alcuni di noi ancora ricordano, è stata la surrogazione di fratello la quale pure aveva un fondamento di utilità e, vorrei dire, di equità familiare.
In conclusione, di fatto, la prestazione del servizio militare viene oggi resa, in tempo di pace, con un sistema misto, basato sulla coscrizione, ma sussidiato, per ragioni tecniche ed anche a vantaggio di numerose categorie di cittadini, dal volontariato integrativo. Sembra che, entro certi limiti, questo sistema misto possa soddisfare anche gli zelatori del volontariato. Do alcuni indici dell'apporto di questo volontariato, già citati da altri oratori, ma che non ritengo inopportuno ripetere: il volontariato integrativo costituisce circa il 64 per cento nell'Aeronautica, il 61 per cento nella Marina, il 25 per cento nell'Esercito esclusi i carabinieri (il 30 per cento compresi i carabinieri); esso concerne, poi, la totalità dei carabinieri e delle guardie di finanza.
Ma anche l'espressione «la prestazione del servizio militare è obbligatoria», sic et simpliciter, è troppo generica. In realtà, questa obbligatorietà soffre notevoli e ampie eccezioni: in tempo di guerra, quelle del sesso e dell'età, per accennare solo alle principali; in tempo di pace, esenzioni e temperamenti nell'interesse: della famiglia, degli studi, dell'economia, della religione, dei residenti all'estero ed in colonia, della selezione fisica del contingente: quest'ultima, si noti, non solo a vantaggio delle forze armate, ma anche a tutela dei giovani meno robusti, specie in questo duro periodo di denutrizione.
Quali le conseguenze di fatto?
Che si verifica una notevolissima differenza tra contingente chiamato alle armi e contingente incorporato, o, se mi consentite di usare altra espressione, tra contingente al lordo e contingente al netto.
Alcuni dati relativi alle ultime classi chiamate regolarmente alle armi o in corso di richiamo. Per la classe 1925, il contingente chiamato alle armi è stato di 354.000 uomini (compresi i rinviati da classi precedenti); viceversa, sono stati incorporati soltanto 97.000 uomini, ossia il 27 per cento del contingente al lordo. Per il primo quadrimestre, in corso di chiamata, del 1946, i chiamati sono 185.000, mentre si prevede di incorporarne soltanto 40 mila; ossia il 22 per cento.
Esiste, infine, un secondo aspetto della prestazione del servizio militare obbligatorio, su cui reputo opportuno richiamare l'attenzione degli onorevoli colleghi, che dovrà essere regolato dal futuro legislatore, e del quale non mi pare sia stato fatto cenno.
Il servizio militare di pace è, ancora oggi, per molti, sinonimo di servizio alle armi, di ferma una volta tanto.
Ora, le moderne forze belligeranti, come ci hanno insegnato i due più recenti conflitti mondiali, non sono più costituite, se non in minima parte (sovrattutto per quanto concerne le forze terrestri e, alquanto meno, le forze aeree) dagli armati sotto le bandiere al momento dello scoppio delle ostilità, ma sono costituite, nella quasi totalità, da riservisti, ossia da militari in congedo.
È noto ai colleghi che l'Italia mobilitò nel primo conflitto mondiale circa 5 milioni e mezzo di uomini, e nel conflitto ultimo circa 6 milioni.
Ora, non basta che questi riservisti di ogni grado abbiano ricevuto a suo tempo una preparazione militare; occorre che lo Stato conservi loro, entro certi limiti, tale capacità, per la difesa del Paese ed anche per la difesa loro personale, fino all'età limite dell'obbligo del servizio militare (ora ridotta dal 55° al 45° anno di età).
Il continuo evolversi della tecnica dei mezzi e dei procedimenti di lotta fa sì — non si può disconoscerlo — che, a pochi anni di distanza dalla prestazione del servizio militare alle armi, il militare non sia più aggiornato.
Non solo per ragioni tecniche, ma anche per ragioni di coscienza occorre, invece, che questo aggiornamento venga conferito con adeguati periodi di richiamo; come nella quasi totalità degli Stati avveniva, prima di questo conflitto, ed è previsto tuttora.
Un tecnico — che può non esserci simpatico, ma che va ricordato come un tecnico di valore — il Von Seckt, affermava: «Le riserve non istruite, chiamate in guerra, sono greggi consegnati alla brutalità del nemico».
Gli otto milioni di baionette che, per la teorica e balorda affermazione della riserva unica e per l'inesistenza di una sistematica dei richiami, ignoravano molti procedimenti e molti mezzi fondamentali relativi alla loro arma, sono un indice di questo grave errore di prospettiva. Ora, un sì tragico errore, una così grave omissione non dovranno essere ripetuti dal futuro legislatore.
E perciò, la prestazione di servizio militare del cittadino dovrà, dalle leggi di reclutamento, essere impostata in due distinti cicli: il primo, breve ferma alle armi (ferma organica, non soltanto ferma istruttiva) riducibile, a mio parere, a nove mesi; il secondo, periodi di richiami, indispensabili, fra il congedamento e il 45° anno di età (nel complesso, ad esempio, tre mesi).
Solo così, onorevoli colleghi, si avranno militari adeguatamente preparati alla difesa della Patria: alla difesa di quel bel giardino d'Europa che tutti i cittadini, militari o civili, degni di tal nome auspicano sia coltivato e fecondato dal lavoro italiano; non percorso da carri armati od arato dalle bombe degli aerei di forze armate nemiche che, una volta di più nella storia, vogliano presceglierlo per le sue allettanti basi navali e aeree (se non per esse soltanto) come campo di battaglia per le loro contese.
Per le ragioni di chiarificazione e di completamento che ho accennato, per orientare il legislatore ordinario in linea politica, senza per contro vincolarlo in linea tecnica, io ritengo che la formula proposta possa essere accolta dalla Costituente.
A puro titolo informativo leggo, molto brevemente, alcune formulazioni di Costituzioni estere moderne e contemporanee, relative all'obbligo del servizio militare ed alla formulazione che lo concerne:
Costituzione di Weimar (articolo 133): «Gli obblighi militari sono fissati dalle norme della legge del Reich sulle forze armate».
Costituzione cecoslovacca: «Ogni suddito valido della Repubblica cecoslovacca è tenuto a sottomettersi agli obblighi militari e a rispondere alla chiamata disposta per la difesa dello Stato. I particolari sono regolati dalla legge».
Costituzione polacca: «Tutti i cittadini sono obbligati al servizio militare e ai servizi per la difesa dello Stato. Il Presidente della Repubblica ordina ogni anno la leva delle reclute entro i limiti di un contingente stabilito. Il contingente di leva può essere stabilito mediante disposizioni di legge».
Costituzione estone: «Tutti i cittadini sono obbligati a partecipare alla difesa della Repubblica secondo i principî e le norme stabilite dalla legge».
Costituzione finlandese: «Ogni cittadino finlandese è obbligato a partecipare alla difesa della Patria o a contribuirvi, in conformità alle disposizioni di legge».
Costituzione lituana: «Tutti i cittadini partecipano alla difesa dello Stato».
Costituzione sovietica (articolo 132): «La legge prevede l'obbligo militare generale. Il servizio militare nell'Armata rossa è un dovere onorevole per ogni cittadino dell'URSS».
Progetto di Costituzione francese (elaborato dalla prima Assemblea Costituente, dichiarazione dei diritti, articolo 39): «Les citoyens doivent servir la République, la défendre au prix de leur vie». (Applausi).
Presidente Terracini. Dichiaro chiusa la discussione generale. Ha facoltà di parlare il Relatore, onorevole Merlin Umberto.
Merlin Umberto, Relatore. Onorevoli colleghi. Quale relatore alla Commissione dei settantacinque su questo titolo speciale della Costituzione che tratta «Dei rapporti politici» mi onoro di riferire all'Assemblea e di rispondere, per quanto brevemente, alle osservazioni che sono state fatte a questi 7 articoli compresi nel Titolo. Dico subito che il mio compito sarebbe estremamente difficile, se volessi rispondere analiticamente a tutti i 19 oratori che hanno così autorevolmente interloquito su questo argomento; anche perché su qualche specifico tema (almeno io che sono ignorante in moltissime cose) confesso che dovrei definirmi ignorantissimo, e quindi io mi permetterò soltanto di rispondere ai punti più importanti, a quelli che toccano argomenti di carattere politico e non tecnici e mi limiterò a rispondere sommariamente. Dopo questa discussione di carattere generale vi sono non meno di 90 emendamenti, e su ciascuno di questi la Commissione dirà il suo parere. Avrò pertanto la possibilità di replicare a ciascuno degli oratori, che non fossero da me, non per scortesia, ma per ragioni di brevità, ricordati nella mia presente risposta.
Veramente devo dire che di tutti questi 7 articoli sono stati oggetto soprattutto di discussione gli ultimi: 49, 50 e 51, mentre gli articoli 45, 46, 47, 48, (a parte alcune questioni di forma) non hanno dato oggetto a critiche di una certa importanza. Segno questo che l'Assemblea, per la voce di coloro che sono intervenuti nella discussione di questi punti fondamentali, che riguardano l'elettorato attivo e passivo, il diritto di voto, la parità e l'eguaglianza perfetta di tutti i cittadini per l'accesso ai pubblici uffici, non ha manifestato differenze di vedute con quelli che sono stati i principî accolti dalla Commissione, ed era perfettamente giusto che fosse così perché, se le libertà politiche sono il corollario e nello stesso tempo anche la premessa delle libertà civili e sociali e formano un tutto unico con queste libertà, un'Assemblea come la nostra, eletta nelle elezioni del 2 giugno con un programma condiviso da tutti, di libertà e di democrazia, non poteva certamente essere discorde sulla riaffermazione di queste libertà politiche.
Anzi, se non ci fosse stato il fascismo, per ripetere una frase già detta da Herriot alla Camera francese, non ci sarebbe stato neanche bisogno di riaffermare questi principî sui quali la coscienza civile del Paese, prima del fascismo, era unanime.
Io ricordo, allora ero giovane, che nella scuola, nella stampa e nelle assemblee politiche, non si discuteva neanche su questi punti e pareva che su di essi vi dovesse essere fra gli italiani unanimità di vedute. Purtroppo è intervenuto il fascismo, il quale, disprezzando i cosiddetti ludi cartacei, ha creduto di innovare e trovare una dottrina nuova, che non era altro che la ripetizione di vecchi errori, ed ha distrutto quella formazione della democrazia che avrebbe potuto in vent'anni perfezionare la educazione democratica dei cittadini, riparare anche ad errori commessi nel turbinio del dopoguerra ed avviare il popolo italiano, col metodo della libertà, a forme sempre più alte di civiltà e di progresso.
Ma, come ha già detto nel suo importante discorso l'onorevole Caristia, l'affermazione di questi principî basilari e fondamentali non ha oggi che un divenire faticoso, ed una lenta possibilità di poter permeare di sé tutta la vita del Paese. Noi dobbiamo riaffermare precisamente questo contro alcuni — pochi io spero — che irridono alle nostre fatiche e che forse sentono anche — non qui dentro certo, ma fuori di qui — qualche nostalgia per la dittatura, dobbiamo dire a costoro che dovrebbero avere almeno il pudore di tacere, perché le difficoltà che la democrazia incontra nel suo formarsi e nel suo divenire non sono altro che le conseguenze del triste periodo fascista e dittatoriale. (Applausi).
Comunque io spero, onorevoli colleghi, anzi ho ferma fiducia, nonostante le nostre difficoltà e la lentezza dei passi che la democrazia compie, io ho ferma fiducia che il popolo italiano non dimenticherà mai quella che è stata la conseguenza del fascismo. Poiché le dottrine si giudicano con un termometro infallibile, che è il termometro dei fatti, il popolo italiano non dimenticherà che tutte le sue sventure e le sue rovine sono la conseguenza della dittatura e perciò ci aiuterà in questo progredire, lento sì, ma sicuro della nuova democrazia. (Applausi).
Come ho detto, le osservazioni che furono fatte sui primi articoli (45, 46, 47 e 48) non sono molto importanti. L'onorevole Rodi, per esempio, nel suo forbito discorso, ed oggi ha fatto seguito a lui il professor Condorelli con un discorso tanto eloquente, hanno trovato molto a ridire su quelle parole (che si riferiscono all'esercizio del voto): «Il suo esercizio è dovere civico e morale». Ha parlato anche il collega Sullo su questo argomento. Il giovane collega, nel suo felice debutto, vorrebbe che questa formula venisse modificata. Rispondo a tutti ed in particolare al professor Condorelli: se con le vostre proposte di emendamento soppressivo volete riaprire la discussione sul voto obbligatorio badate che combattete con un uomo come me, che alla Consulta, in occasione proprio della legge che ci ha portati qui, ha strenuamente combattuto per l'obbligatorietà del voto. Mi sono battuto allora col mio Gruppo, ed ho avuto la soddisfazione di vedere che la Consulta a maggioranza accoglieva il principio della obbligatorietà del voto, e questo principio è diventato legge dello Stato (come risulta dall'art. 1 cap. 2 della legge 10 marzo 1946 n. 74). Però le difficoltà della introduzione della obbligatorietà del voto non dipendono dalla affermazione del principio, ma dalle sanzioni, e il Governo, quando ha dovuto dare sanzione giuridica a questo principio — voi lo sapete — ha stabilito soltanto questa sanzione: che l'elenco degli astenuti fosse pubblicato, per il periodo di un mese, nell'albo comunale, e che il certificato di moralità e di buona condotta che il cittadino chiedesse, recasse aggiunta la menzione: «Non ha votato». Perché è evidente che malgrado il numero notevole di cittadini, che le elezioni del 2 giugno hanno portato alle urne (un numero addirittura insperato), ugualmente, se fate il conto, su 24 milioni di elettori la percentuale del 20 per cento comporta quattro o cinque milioni di astenuti, ed è evidente (voi lo capite) che lavoro immenso sia necessario per accertare, per ciascuno di essi, la posizione personale, e poi applicare la sanzione.
Io esprimo in questo momento il pensiero della Commissione, ma dovevo pure ricordare questi particolari perché non posso dimenticare i miei più importanti atti politici.
Ora, mi perdoni l'onorevole Condorelli e mi perdonino gli altri colleghi Rodi e Sullo, io non vedo quale eresia giuridica si compia se nella legge diciamo che questo del voto è un dovere civico e morale. Sì signori, anche morale. Perché non dobbiamo affermare questo dovere morale? L'onorevole Condorelli ha detto che è una eresia giuridica. Ma, badate, non è che questa Costituzione debba essere un trattato di pedagogia, ma deve indubbiamente insegnare anche dei doveri, deve essere anche il codice dei diritti e dei doveri dei cittadini. Meglio se sarà, come voleva Mazzini, prima il codice dei doveri e poi il codice dei diritti. Ora che c'è di male se la Commissione ha ottenuto l'unanimità dei consensi su questa formula? Questa formula in sostanza vuole esprimere questo: che i Commissari non erano d'accordo sul principio della obbligatorietà del voto, ma sono andati d'accordo su un principio forse più alto del dovere civico. Abbiamo affermato in forma solenne il dovere di andare a votare, il dovere del cittadino, che gode dei benefici di questo regime democratico, che gode della libertà, che gode della sicurezza personale, che insomma è ritornato ad essere in questo nuovo clima che la democrazia ha creato un essere libero, questo cittadino abbia anche il dovere di andare a votare. Un disturbo da poco, un disturbo insignificante, al quale però, sopratutto nelle elezioni anteriori al regime, una percentuale altissima di cittadini si era sempre sottratta.
Io non sono di avviso che la questione non possa essere riproposta, sono anzi del parere che la formula della Costituzione permetta in pieno di ripresentare la questione quando discuteremo la prossima legge elettorale, che verrà fra giorni in discussione all'Assemblea e di questo parere è stata anche la Commissione. L'espressione «dovere civico e morale» rappresenta una formula conciliativa che l'Assemblea farà propria.
L'onorevole Giolitti ha ripreso ieri sera la vecchia questione della età dell'elettore. Dico all'onorevole Giolitti due sole parole, tanto per non mancare di cortesia al collega e per rispondere alla sua proposta. La Commissione, nella sua maggioranza, ha accettato l'età di ventun'anno ed ha rifiutato l'emendamento, che da qualcuno veniva proposto, di ridurre l'età a diciotto anni. Perché abbiamo fatto questo? Per una ragione molto semplice: prima di tutto perché tutte le Costituzioni hanno fissato l'età per essere elettori, e poi perché a noi pareva che, se il Codice civile, nell'articolo 2, fissa la maggiore età e quindi la pienezza della capacità giuridica ad anni ventuno, proprio per una funzione che secondo noi dovrebbe esigere una maggiore maturità, una maggiore competenza, una maggiore conoscenza dei problemi, ci pareva contraddittorio che proprio per questa funzione, che noi non esitiamo a dire più alta, l'età, anziché essere aumentata, venisse abbassata. Ecco perché pregherei l'onorevole Giolitti di non insistere e di accettare la formula che la Commissione propone.
Più serie critiche vennero fatte agli articoli 49, 50 e 51. L'onorevole Gasparotto con l'autorità che gli deriva dal suo ufficio attuale, ed oggi il collega Chatrian — che gli è venuto, per quanto superfluo, in aiuto — si sono battuti per una formula diversa da quella che la Commissione ha proposta. Il pensiero dell'onorevole Gasparotto fu ripreso poi dagli onorevoli Azzi e Calosso.
Io prima di scendere a qualche delucidazione sul pensiero della Commissione su questo punto, voglio sottolineare la prima parte di questo articolo, e lo faccio perché è un dovere; lo faccio perché è giusto che la Camera ripeta quello che tutti sentiamo. L'articolo dice: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».
Ora, queste sono parole da fondersi nel bronzo o da scolpirsi nel marmo, parole che noi vorremmo penetrate così nella coscienza del nostro popolo da non doversi mai più discutere su di esse, ed è con soddisfazione che io ricordo all'Assemblea che la Commissione fu unanime nel votare questa formula, e ricordo ancora le parole di pochi minuti fa, che il collega onorevole Colombi ha pronunciato e che dimostrano essersi raggiunto (ricordiamolo noi che siamo sempre avvezzi a dirci male l'un l'altro ed a roderci tra di noi) sul concetto della Patria e sull'amore verso di essa, una unanimità che deve essere e sarà cresimata indubbiamente dal voto dell'Assemblea. (Applausi).
La Patria non è più la matrigna che il fascismo aveva tentato di creare, ma è la madre generosa che accetta ed accoglie tutti i suoi figli con identico animo. (Applausi).
Ma l'onorevole Gasparotto ha spezzato una lancia per il volontariato. Ho detto prima quanto io sia ignorante e come di questo argomento debba trattare molto superficialmente; ora, ho sentito qui il parere dei competenti e mi inchino al parere del mio ottimo collega Chatrian, che può insegnare a me come a tutti, ho sentito il parere anche del valorosissimo generale Bencivenga, e non intendo in nessuna maniera discutere o mettere in dubbio quello che fu nella storia il valore del volontarismo; perché il volontarismo ha creato sempre spiriti generosi, capaci di ogni sacrificio, i quali hanno formato la storia. Quindi, lungi da me qualsiasi idea di mettere in dubbio o diminuire questo valore. Ma io parlo come uomo politico, e ricordo che i miei maestri, fino dai banchi dell'università, insegnandomi proprio le leggi create dalla Rivoluzione francese e dopo di essa, mi dicevano che la coscrizione obbligatoria è segno di democrazia, che il servizio militare deve essere generale per tutti, perché solo così si mettono tutti i cittadini nella condizione di adempiere al loro dovere in perfetta parità, senza eccezioni, senza distinzioni di classi e senza privilegi.
Vogliamo tornare indietro? No, certo. L'articolo 61 del Trattato di pace, che ci è stato dettato, dà all'Italia un contingente di 185.000 uomini per il suo esercito e di 75.000 uomini per i carabinieri. Però in quel dettato c'è una parte che io amo sottolineare: che, a differenza di quello che ha fatto il Trattato di Versailles per la Germania, non ha imposto il volontarismo. Ora, io sono d'accordo con l'onorevole Gasparotto che il nostro esercito, anche per la sua modestia come numero, non deve avere altro compito se non quello di assicurare la pace; ma, con le opportune ferme e con le opportune rotazioni, vogliamo dare a tutti i cittadini un minimo di conoscenza delle armi? Certamente, perché io conosco l'animo dell'onorevole Gasparotto e sono sicuro che egli risponde affermativamente a questa mia domanda.
Sono infatti di certo presenti alla mente di tutti i pericoli cui si andrebbe incontro se così non fosse. Voglio dire anzi all'onorevole Calosso che è vero che l'Italia è il giardino d'Europa, ma molto spesso sono calati su questo giardino gli stranieri da tutte le parti del mondo ed hanno colto le rose più belle, lasciando agli italiani soltanto le spine. (Applausi).
È perciò che la Commissione non può accogliere il principio della non obbligatorietà del servizio militare. Tuttavia, per non aver l'aria di volerci irrigidire in una formula che sia incompleta, e venendo incontro alle giuste osservazioni che il collega onorevole Chatrian ha fatto oggi, ed ammettendo precisamente che il volontarismo è sempre stato una delle forme di reclutamento dell'esercito italiano, noi siamo disposti ad accettare una formula che dica così:
«Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge».
Ma l'emendamento che la Commissione non può accogliere è quello che l'onorevole Calosso ha sostenuto ieri, in un discorso come al solito spumeggiante.
La Commissione plaude all'intenzione dei presentatori e trova che queste idee sono degne di considerazione e di studio; ma non basta venire all'Assemblea ad esporre delle belle idee, perché allora, per esempio, io potrei esporne una migliore di quella dell'onorevole Calosso, ove io proponessi un emendamento il quale suonasse: «Le spese per la pubblica istruzione devono essere il doppio di quelle per l'esercito e per la difesa del Paese».
Ma come è possibile interloquire, su questi argomenti, se ancora non abbiamo visto un bilancio? Come è possibile porre dei limiti, se non sappiamo ancora quello che tale piccolo esercito ci costerà? Questa idea dell'onorevole Calosso della parità fra le spese della pubblica istruzione e quelle militari fu già accennata anche dall'onorevole ministro Gonella; è un'idea che sentiamo tutti, è un'idea che corrisponde a una nobilissima aspirazione: ma lasciamo tempo al tempo e non vogliamo, in questa Assemblea, dissertare de omnibus rebus et quibusdam aliis; non vogliamo ragionare di tutto, anche di quello su cui non abbiamo potuto meditare; lasciamo cioè che questi bilanci siano esaminati, siano discussi e sopratutto studiati con quella competenza che è necessaria.
Ma l'onorevole Calosso, che ha certamente un ingegno portentoso, ha detto che la riorganizzazione dell'esercito deve essere compito dei politici e non dei tecnici. Sarebbe come dire che la ricostruzione delle nostre ferrovie e delle nostre case deve essere compito degli avvocati e non degli ingegneri. Ora, io non posso associarmi a queste sue affermazioni; io credo che la riorganizzazione dell'esercito debba essere invece prevalentemente ed essenzialmente oggetto dello studio dei tecnici, di coloro cioè che hanno consumato la loro vita al servizio del Paese e che concorsero in ogni momento a dare lustro al nostro esercito, che noi vogliamo sempre che sia presente al nostro affetto ed al nostro cuore. (Applausi).
L'onorevole Rodi e qualche altro collega hanno vivamente criticato il comma 3° dell'articolo 49 che dice così:
«L'ordinamento dell'esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana».
Ora qui io espongo il pensiero della Commissione e spero che esso possa soddisfare tutti gli onorevoli colleghi. Non si intese dalla Commissione di far penetrare la politica nell'esercito; questo fu lontano dalla nostra mente nel senso più assoluto; no, noi vogliamo l'esercito come istituzione al di fuori e al di sopra della politica, composto di uomini dediti soltanto al servizio della Patria. Ma la democrazia in Italia non è un partito: è il regime che il popolo italiano si è dato con piena libertà; e nella democrazia vivono e lottano tra di loro numerosi partiti. Ora, domandare che l'ordinamento dell'esercito si informi allo spirito democratico che deve informare tutta la vita del Paese, è domandare cosa lecita. La democrazia è lo stato non di fatto, ma di diritto del nostro Paese; domandare che l'esercito lo riconosca è fare opera d'unione e di concordia, non divisione politica. Vuol dire ancora quella formula che l'esercito, senza venire meno al principio di unità e di disciplina, nella sua organizzazione e nei suoi regolamenti non deve venir meno a quel rispetto della dignità e della libertà umana che è l'elemento fondamentale del progresso civile. Con ciò non si nuoce all'esercito, ma lo si rafforza rendendolo aderente allo spirito ed alla volontà nazionale.
Furono fatte osservazioni all'articolo 50, a tutto l'articolo 50; e in ispecie il più fiero oppositore di questo articolo fu il collega onorevole Condorelli.
Ora, io mi domando, e domando anche a lui e ai suoi colleghi Rodi, Sullo e Terranova, che hanno voluto parlare su questo argomento, se essi per avventura non abbiano esagerato: intanto per quella che è la prima parte di questo articolo 50 che dice così: «Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate», cosa c'è che possa turbare la coscienza di alcuno? Potevamo forse dire che ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla... monarchia? Potevamo dir questo dopo l'esito del referendum del 2 giugno? No, certamente, ed allora noi non potevamo che domandare fedeltà alla Repubblica, che è la forma di Governo che il popolo italiano si è dato, e alla quale forma anche voi da quella parte (Accenna a destra) avete detto di rendere omaggio, affermando che non volete turbare in nessun modo quello che è lo stato di diritto del Paese in questo momento. Del resto io, guardi, onorevole Condorelli, le do ragione quando ella dice che si dovrebbe avere il senso dello Stato, della difesa dello Stato; ma le ricordo ancora che la parola «Repubblica» in latino vuol dire precisamente Stato e noi la vogliamo adoperare in questo senso, perché anche a tutti coloro che eventualmente non avessero ancora aderito alla Repubblica con pieno animo, ma che hanno sempre servito con devozione lo Stato, anche a costoro noi domandiamo ugualmente l'osservanza delle leggi, la fedeltà allo Stato, in nome di quei nobili sentimenti in base ai quali anche loro hanno sempre servito lo Stato come la più alta organizzazione della vita civile di un popolo.
E vengo all'ultima parte, la seconda parte. Io qui debbo tranquillizzare le coscienze dubbiose di parecchi dei colleghi del mio Gruppo. L'onorevole Terranova, per esempio, mi vuole mettere perfino in contrasto con la dottrina cattolica. Ora, ha fatto benissimo l'onorevole Condorelli a ricordare San Tommaso d'Aquino, perché in San Tommaso d'Aquino io leggo queste parole: «In terzo luogo bisogna dire che il regime tirannico non è giusto perché non è ordinato al bene comune, ma al bene privato di colui che governa. Per tale ragione il sovvertimento di questo regime non ha carattere di sedizione». Ecco il pensiero che è trasfuso in questo articolo e che deve tranquillizzare non solo i miei amici democristiani ma, vorrei dire, deve persuadere anche il collega onorevole Condorelli. Perché ricordiamoci tutti: chi c'è stato fra i moralisti cattolici che abbia trovato da ridire sul movimento dei partigiani? Chi non ha riconosciuto invece la legittimità di questo movimento contro un regime tirannico, che voleva imporsi con le baionette straniere e con la violenza e voleva ancora governare non per la salvezza del Paese ma per la fortuna di un uomo? Nessuno c'è stato mai che abbia voluto indubbiare la liceità di questo movimento. E allora lei, onorevole Condorelli, non mi faccia tutta quella casistica che mi ha fatto oggi nel suo eloquente discorso per combattere l'articolo 50!
Quei casi non si riferiscono all'articolo 50; quei casi ammettono una tutela e una difesa giurisdizionale sia davanti ai magistrati sia davanti alla giustizia amministrativa, e qui abbiamo il collega onorevole Ruini che potrà eventualmente intervenire, con l'autorità che gli è particolare e per l'alto ufficio che occupa, per chiarire questo punto. Qui, in questo articolo, noi abbiamo affermato invece il diritto legittimo di difesa contro gli atti della pubblica autorità che violino le libertà fondamentali del cittadino, abbiamo fatto una ipotesi del tutto analoga a quella del 1943, quando il tiranno uscì da ogni limite e dimostrò con i fatti di voler togliere ai cittadini ogni libertà ed ogni diritto.
Del resto, voi credete che questo principio sia del tutto nuovo? Io ricordo che nell'articolo 199 del Codice Zanardelli, sia pure in embrione, vi era lo stesso principio perché diceva: «Le disposizioni contenute negli articoli precedenti (oltraggio, violenza o minaccia a pubblico ufficiale) non si applicano quando il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto eccedendo con atti arbitrari i limiti della sua funzione». È il principio del vim vi repellere licet affermato dal Codice penale contro il pubblico ufficiale. Il Codice Rocco naturalmente ha abolito tutto questo ed il Ministro Tupini, dopo la liberazione, ha ripristinato quella disposizione col decreto 14 settembre 1944, n. 288.
Quindi credetelo: l'articolo 50 — capoverso 1° — non è che favorisca le rivoluzioni e le rivolte. Io auguro che non ci siano queste rivoluzioni, io auguro che non ci siano queste rivolte; ma se esse dovessero scoppiare, ciò non avverrà per l'articolo 50 ma per ben altre cause e per ben altre ragioni. L'articolo 50 sarà invece un monito per i pubblici poteri: dirà a tutti che non è possibile offendere queste libertà fondamentali del cittadino. E anche se fu detto che noi vogliamo trasformare questa legge in un trattato di pedagogia, è bene abbondare e ricordare a tutti quale è il loro dovere.
Finalmente — e sto per concludere — l'articolo 51 riguardante il giuramento. Furono dette tante cose su questo punto. Ma noi che abbiamo già votato la legge 3 dicembre 1946, — l'onorevole Condorelli no — ma noi che abbiamo votato a favore di quella legge non possiamo naturalmente che volere che la Costituzione ribadisca l'obbligo del giuramento. Forse la formula dell'articolo 51 potrà essere modificata in senso migliore, ma il principio che il cittadino che copre pubbliche funzioni debba prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica mi pare sia bene ripeterlo. Del resto, non è vero quello che fu detto: che il giuramento sia una semplice formalità. Non è vero per gli uomini d'onore, e le categorie dei cittadini che sono indicate nell'articolo — magistrati, ad esempio, ed ufficiali dell'esercito — sono uomini di altissimo onore, e per questi uomini di altissimo onore il giuramento ha indubbiamente una grande importanza.
Restano due punti soltanto, ed io li ho tenuti per ultimo volutamente per sottolinearne l'importanza.
Vi è il punto che riguarda la organizzazione dei partiti e vi è il punto del voto degli italiani all'estero. Per la organizzazione dei partiti, coloro fra i colleghi (non saranno certamente tutti, ma spero almeno alcuni) che abbiano letto la mia relazione, sanno che le stesse preoccupazioni, che ha manifestato il collega Ruggiero in questa Assemblea, le ho scritte prima io nella mia relazione. Quindi ho sentito anch'io questo desiderio di perfezionare la norma. Però, faccio osservare che con la formula votata nella Costituzione tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale; il principio che sta a cuore al collega Ruggiero è sufficientemente affermato.
Qui si potrebbe discutere se questa formula riguardi il lato esterno o interno dei partiti; ma faccio osservare che l'articolo 47 fu pesato parola per parola dalla Commissione, che esso è frutto indubbiamente di qualche transazione fra i commissari, ma che molti altri punti restano ancora da definire, per esempio il riconoscimento giuridico dei partiti, il loro spirito e metodo democratico, i fini che i partiti si propongono, l'esame dei bilanci dei partiti, e soprattutto le funzioni costituzionali da affidare ai partiti. Lasciamo fare qualche cosa anche al legislatore futuro. Non preoccupiamoci di scrivere nella Costituzione tutto quello che su ciascun argomento può essere detto. Qui affermiamo il principio del riconoscimento dei partiti. Venire poi all'applicazione di questo riconoscimento e vedere l'ampiezza che avrà, sarà compito importante del legislatore futuro.
Ultimo argomento, gravissimo: noi abbiamo sentito dalla parola dell'onorevole Piemonte, che è un vero apostolo della emigrazione, seguito dagli onorevoli Schiavetti e Caporali, abbiamo sentito ripetere tutta la nobiltà, tutta l'importanza e tutta l'umanità di questo problema.
Invero, riunire attraverso il voto l'emigrante italiano, costretto ad abbandonare il suo paese, alla madre patria, è tale problema che indubbiamente ci accende tutti del legittimo desiderio di vederlo risolto.
Ma possiamo farlo noi in questa Assemblea, o lo si potrà fare in sede della legge elettorale specifica che verrà fra giorni in discussione?
L'argomento è gravissimo, ho detto, e gli stessi proponenti non hanno nascosto le difficoltà.
L'onorevole Piemonte, nel suo bellissimo discorso, ha tentato lui stesso la confutazione di queste difficoltà; ma basti dire poche parole per capire qual è l'importanza pratica che il problema presenta.
Bisogna prima di tutto distinguere fra emigrazione temporanea e permanente, occorre fare i conti con la suscettibilità e le diffidenze degli Stati che ospitano i nostri emigranti. Bisognerebbe risolvere il problema della doppia nazionalità, e risolverlo, non solo da noi, con atto unilaterale, ma, come gli stessi proponenti hanno detto, con atto bilaterale, cioè con trattati con i vari Stati. Ma più di tutto (badate che io mi fermo forse alle parti secondarie del problema) come darvi attuazione? Immaginate voi, con l'ansia che hanno le nostre folle elettorali, di sapere immediatamente l'esito delle urne, che si dicesse loro: «Badate, dobbiamo aspettare i risultati dell'estero, perché dobbiamo ricevere i voti di New York, di Londra e di Parigi?». E quando questi voti che verrebbero dall'estero fossero delle piccole differenze, ma sufficienti a far perdere o guadagnare un quoziente: apriti cielo! Di fronte al timore che questi voti non fossero sufficientemente segreti o garantiti si avrebbero agitazioni, proteste, contestazioni. Non ho accennato a tutto questo per fare la parte del diavolo e quindi voler dire che il problema è insolubile: no! L'Inghilterra, per esempio, lo ha risolto per i suoi militari. Io non conosco bene il sistema elettorale inglese; ma mi pare, se ben ricordo, che esso permetta delle proclamazioni immediate e delle proclamazioni a quindici giorni data, per modo che nel termine di quindici giorni vi sia la possibilità che i voti affluiscano. Comunque, voi capite quali mezzi poderosi occorrano: telegrafo, posta, sezioni elettorali presso i consolati ed altri ancora. Vi fate subito il concetto che non è possibile soltanto seguire la legge del nostro cuore e scrivere nella Costituzione questo voto, quando esso dovesse rimanere sterile.
Con ciò io credo di avere modestamente risposto a tutti gli interlocutori. Con l'approvazione di questi sette articoli che l'Assemblea darà, io sono certo che noi metteremo l'ultima pietra alle fondamenta della nostra Costituzione; poi verrà il primo piano, poi il secondo, poi il tetto. Noi compiremo il nostro dovere con sincerità di fede, sperando di dare al Paese una Costituzione che non può morire. (Applausi — Molte congratulazioni).
Presidente Terracini. Dobbiamo ora passare all'esame dei numerosi emendamenti presentati sui singoli articoli.
[Il seguito della discussione viene riportato a commento dei singoli articoli.]
A cura di Fabrizio Calzaretti