[Il 28 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo primo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti civili».]
Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l'onorevole Codacci Pisanelli. Ne ha facoltà.
Codacci Pisanelli. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, nel prendere a parlare per la prima volta a questa Assemblea sul progetto di Costituzione, mi sia consentito rivolgere un pensiero deferente al mio primo maestro di diritto costituzionale, di cui abbiamo pochi giorni fa celebrato le nozze d'oro con la politica.
Ritengo non sia inutile questo saluto, che non rivolsi l'altro giorno e che intendo rivolgere oggi, perché vedo in lui il genio tutelare della Costituzione italiana. Uno dei suoi meriti, spesso riaffermati, è stato quello di aver ricondotto l'Italia dagli amari giorni del 1917 alla vittoria del 4 novembre 1918, che non fu solo vittoria di armi, ma soprattutto successo ottenuto nel pieno rispetto della Costituzione.
Sembrò per alcuni giorni, per alcuni anni, che questo vanto fosse superfluo. Gli eventi hanno dimostrato che il rispetto per la Costituzione porta a successi, come quello cui ho accennato, mentre il dispregio della legge fondamentale dello Stato porta, come abbiamo veduto, alla catastrofe.
Ed io completo questo saluto; accennando a quelle parole, che il Presidente disse con accorato accento l'altro giorno: «Che a lui era stata riservata l'amara sorte di vivere tanto a lungo da vedere la rovina della Patria».
Se ancora ha vissuto, ritengo che ciò sia perché a lui è riservata la soddisfazione di vedere come, nel pieno rispetto della nuova Costituzione, la Patria possa risorgere. Ed allora a lui rivolgo l'augurio che vigili appunto fra noi e per tutto il tempo necessario per la non breve nostra ripresa, vigili a lungo tra noi, genio tutelare della Costituzione italiana, il Presidente di Vittorio Veneto!
E se a queste mie parole dovessi dare un titolo, penserei di accennare alle conquiste dei giuristi nel campo della vita sociale, ed in particolare nel campo della giustizia amministrativa. Si è discusso a lungo sopra i difetti e i meriti dei giuristi. Forse le accuse non sono state del tutto infondate, perché essi, nella ricerca della certezza, che è uno dei loro scopi, hanno spesso dimenticato come uno dei loro scopi sia anche la ricerca della verità, verità che per essi è la giustizia. Vi sono stati, però, coloro che non hanno dimenticato questa meta; e nel perseguirla sono stati raggiunti alcuni risultati non trascurabili, che mi propongo di mettere in evidenza, sia pure nel circoscritto ambito al quale mi riferisco, per dimostrare come alle conquiste dei movimenti politici italiani facciano riscontro le conquiste dei movimenti giuridici.
Mi soffermerò in particolare sopra la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi e sopra la responsabilità dei pubblici impiegati e delle pubbliche amministrazioni. In altri termini, mi occuperò del 1° capoverso dell'articolo 19 e del 1° capoverso dell'articolo 22. L'uno e l'altro rappresentano profonde innovazioni; ma, nella rinnovazione del nostro sistema, ritengo che gli autori del progetto siano rimasti fedeli ai principî della nostra migliore scuola giuridica.
Per quanto riguarda la formulazione degli articoli, qualche ritocco sarà necessario: le parole non sempre riescono ad esprimere completamente i concetti che vorremmo formulare, ma questi concetti ormai già sono compresi nel progetto della Costituzione, e spetta a noi esprimerli con la maggior precisione possibile.
Quanto ai diritti e agli interessi, è notevole il fatto che sia stata mantenuta una delle distinzioni teoriche, le quali hanno, anche nel campo pratico, conseguenze non indifferenti. Come è noto, specialmente nel campo del diritto pubblico, non sempre ad ogni dovere fa riscontro un diritto. L'ordinamento raggiunge i suoi scopi imponendo doveri ai quali non sempre fa riscontro una pretesa di altri e protetta in maniera così completa come avviene per il diritto. Mi basta accennare all'esempio dei doveri che vengono imposti dalla pubblica amministrazione, per esempio nei procedimenti che debbono precedere la emanazione degli atti amministrativi, procedimenti che implicano la osservanza di doveri e dal cui rispetto derivano per alcune persone particolari vantaggi, che non possono però essere considerati veri e propri diritti.
Si è notato in passato che il limitare la difesa giurisdizionale ai soli diritti non accordava una sufficiente protezione ai cittadini, e allora si è cercato di giungere a proteggere anche queste aspettative, che dovevano rappresentare semplici vantaggi; vantaggi innegabili, ma che non potevano essere trascurati, se si fosse voluto raggiungere l'ideale della giustizia a cui uno Stato, che voleva ispirarsi al rispetto del diritto, doveva pur aspirare.
L'articolo dice che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi». In questa maniera, si è provveduto ad assicurare la tutela giurisdizionale degli interessi, che trovano la loro protezione nella legge. Ma, forse, l'espressione non è del tutto completa, perché vi sono anche alcuni vantaggi, alcune utilità particolari dei singoli, i quali non trovano la loro protezione in una vera e propria norma giuridica, ma nel buon uso del potere discrezionale.
A questi particolari vantaggi è stata già accordata la tutela giurisdizionale e non ritengo che l'articolo abbia voluto toglierla.
Per esprimere con maggiore chiarezza il mio pensiero, richiamo la diversa gradazione di protezione che l'interesse può avere nel campo giuridico: dal diritto incondizionato — come per esempio il diritto al nome — passiamo al diritto condizionatamente protetto — come il diritto di proprietà, che può venir meno di fronte al pubblico interesse — per arrivare poi a interessi, la cui protezione giuridica è innegabile, senza che essi possano essere classificati come veri e propri diritti soggettivi.
E in questi interessi noi distinguiamo quelli legittimi, che trovano la protezione in una norma giuridica, da quelli discrezionalmente protetti, i quali non vengono tutelati da una vera e propria norma giuridica, ma dai principî cui deve ispirarsi il buon uso del potere discrezionale, potere e principî di cui lo stesso ordinamento impone il rispetto. Finalmente, abbiamo interessi di carattere generale che non si impersonano in alcun soggetto e quindi non possono essere muniti di tutela giurisdizionale; non sono cioè azionabili, come normalmente si dice.
Da questa classificazione è derivato l'articolo cui accenno. Specialmente nei confronti della pubblica amministrazione è frequente l'esempio di doveri, cui non fanno riscontro veri e propri diritti da parte dei singoli. Ma anche queste utilità, che tuttavia esistono nei singoli, hanno trovato adeguata protezione nel nostro sistema amministrativo e non è stato inutile accennarvi espressamente, anche per sanzionare nella Carta costituzionale i risultati innegabili che sono stati raggiunti.
Senza dubbio, in questa materia entrano dei criteri strettamente giuridici, che hanno però la loro importanza pratica e che hanno consentito, in particolare, la difesa del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
È noto, infatti, che se la Rivoluzione francese è riuscita a liberare il cittadino dalle degenerazioni del feudalesimo, dalla prepotenza che il signore feudale poteva esercitare nei confronti del singolo, viceversa non è riuscita ad evitare che il posto del signorotto feudale fosse preso da un altro soggetto, che molte volte non era meno prepotente del primo. Alludo allo Stato e agli inconvenienti della statolatria.
Come un tempo non era accordata la difesa nei confronti del signore feudale, così, dopo la Rivoluzione francese, rimasero in gran parte senza difesa i vari diritti e interessi che potevano accamparsi nei confronti dello Stato. A questo inconveniente si giunse per un duplice ordine di considerazioni: da una parte per la concezione del diritto esclusivamente come volontà dello Stato, ed è stata questa una delle più gravi conseguenze della statolatria, di cui a lungo si è parlato nei giorni scorsi. Ma dall'altro lato, una seconda ragione di questa sostituzione della prepotenza dello Stato alla prepotenza del signorotto feudale deve ricercarsi nel principio della divisione dei poteri rigidamente e meccanicamente concepito. Secondo la concezione del Montesquieu, il giudice non poteva immischiarsi in quel che riguardava l'amministrazione, e per conseguenza l'amministrazione finiva per essere completamente sottratta al sindacato giurisdizionale. L'attività da essa svolta non aveva altri limiti oltre i cosiddetti criteri di discrezione, che molte volte era discrezione indiscreta.
Di fronte a questi inconvenienti che avevano posto il cittadino in una posizione non molto dissimile da quella in cui si trovavano gli individui nei confronti dei signori feudali, fu necessario promuovere adeguati rimedi. Tali rimedi si ricercarono appunto nella istituzione di ricorsi giurisdizionali e di controlli, i quali garantissero con sufficienti cautele d'imparzialità i singoli nei confronti dello Stato, soprattutto dello Stato in quanto amministratore.
Accenno semplicemente a questo problema, che è soprattutto un problema di giuristi e che conferma l'idea a cui mi sono ispirato fin dall'inizio, cioè l'apporto dei giuristi alle conquiste nel campo sociale. Accenno a questo proposito e ricordo il celebre discorso di Silvio Spaventa sulla giustizia nell'amministrazione.
In base a questo principio, dopo avere assicurato al diritto soggettivo adeguata tutela da parte dell'autorità giudiziaria ordinaria, ci si accorse che rimanevano sprovviste di protezione adeguata altre utilità dei singoli, e precisamente gli interessi.
Si provvide allora a dare a tali interessi una tutela adeguata e si discusse sulla natura giurisdizionale o amministrativa di essa. A tale scopo furono istituite la quarta e poi la quinta sezione del Consiglio di Stato, appunto per la protezione delle particolari utilità predette, la cui protezione permetteva di conseguire una maggiore giustizia nel campo amministrativo.
Ma, considerando i concetti elaborati da questo ramo del diritto, che ha vita relativamente giovane, perché risale a poco più di un secolo — di fronte alla vita plurisecolare degli altri rami del diritto — ci si è accorti che potevano trovare applicazione anche in altri rami dell'ordinamento. Ci si è accorti che, anche nel diritto privato, esiste qualche cosa di analogo a quello che in diritto amministrativo è stato chiamato interesse legittimo.
Accenno semplicemente a quello che avviene, per esempio, in materia di invalidità; per quanto riguarda le invalidità, esse possono essere fatte valere, specialmente in relazione ad alcuni negozi giuridici, da parte di tutti coloro che vi abbiano interesse. Non si ha un diritto a far valere questa invalidità, ma un interesse ed anche questo interesse trova protezione nel campo della giurisdizione.
Degli uni e degli altri, cioè dei diritti e degli interessi in ogni ramo del sistema, ci si è occupati nell'articolo qui considerato, ma, ritengo, non in maniera completa, perché mentre si parla soltanto di interessi legittimi, penso che non si siano voluti escludere anche quegli altri interessi che trovano tutela giurisdizionale; benché il loro riconoscimento non derivi direttamente da una norma giuridica, ma soltanto dal buon uso del potere discrezionale.
La tutela degli interessi nel campo del diritto privato si riscontra ancora in un'altra figura che consente di passare ad un ulteriore principio, che già si intravede nella Costituzione, ma che forse dovrebbe essere meglio formulato.
Accenno al divieto dell'abuso del diritto. Tra gli esempi di interessi protetti giuridicamente nel campo del diritto, si ricorda il divieto degli atti emulativi. È noto che per molto tempo si ritenne impossibile giungere fino al divieto degli atti che il proprietario compie, disponendo del proprio bene in maniera per lui inutile e per gli altri dannosa. Si è ritenuto, secondo i principî della legislazione più remota, che la concezione individualista della proprietà non consentisse di giungere ad un divieto di questi atti, benché essenzialmente contrari alle esigenze della vita sociale. A poco a poco, però, nei vari sistemi legislativi d'Europa, si riscontrò come l'ammissione di questi atti emulativi fosse del tutto incompatibile col nuovo svolgimento che ogni nuova società andava compiendo, e fu stabilito, prima nel codice germanico, e poi in quello svizzero, che gli atti emulativi fossero vietati.
La tendenza trovò riscontro nella preparazione del nostro Codice civile vigente, preparazione che durò vari decenni e alla quale presero parte i nostri migliori giuristi. In tale occasione, il problema fu riesaminato. Si vide come l'ammissibilità completa degli atti emulativi ed in genere dell'abuso del diritto fosse in contrasto sempre maggiore con le nuove esigenze sociali.
Già nel Codice civile vigente è sancito il divieto dell'abuso del diritto per quanto riguarda la proprietà. In altri termini, non è possibile usare di questo diritto in maniera contrastante con la utilità sociale. È una prima affermazione giuridica della funzione sociale della proprietà, ma in quei lavori preparatori si nota che, secondo il desiderio di coloro che vi parteciparono, sarebbe stato necessario giungere ancora più oltre. Si riteneva, cioè, necessario sancire in genere il divieto dell'abuso del diritto.
Ritengo che in questa prima parte del nostro progetto e della Costituzione che dovremo completare sarebbe opportuno sancire, in tema di diritti e di doveri civici, questo principio del divieto dei diritti. Nell'articolo in cui ci si occupa della possibilità di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi giuridicamente protetti non starebbe male una premessa nella quale fosse appunto stabilito che non è ammesso l'abuso del diritto.
Anche a questo proposito può essere interessante notare come al divieto dell'abuso del diritto si è giunti, utilizzando principî che erano stati affermati in un altro ramo dell'ordinamento. La teoria relativa all'abuso del diritto ha tratto, cioè, nuova luce dai principî che già nel campo della giustizia amministrativa si erano andati svolgendo a proposito dell'eccesso di potere e della sua particolare figura costituita dallo sviamento di potere.
Come nel campo del diritto pubblico, ogni autorità deriva il suo potere in relazione a un fine determinato, così si è arrivati a concludere che quando l'autorità pubblica si serve del proprio potere per un fine diverso da quello per cui le è stato conferito, l'atto emanato deve ritenersi viziato. Nello stesso modo, applicando questi principî nel diritto privato, si è visto come ogni facoltà, ogni interesse protetto in modo particolare ed attribuito ai singoli, venga attribuito e tutelato in vista di uno scopo determinato.
Quando il diritto viene usato per uno scopo diverso da quello per cui è stato attribuito, evidentemente si commette un abuso dannoso alla società, che sarebbe opportuno fosse vietato in genere proprio nella Costituzione.
Per tale ragione propongo il seguente emendamento alla prima parte dell'articolo 19: «Nessuno può esercitare il proprio diritto per uno scopo diverso da quello per il quale gli è stato attribuito».
E quanto alla formula del primo comma propongo che venga così corretta: «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi giuridicamente protetti». In tal modo ci si occupa anche di quegli interessi detti semplici, i quali trovano anche oggi un'adeguata tutela giurisdizionale.
E passo ad occuparmi della responsabilità dei pubblici impiegati per gli atti che essi abbiano compiuto nell'esercizio delle loro funzioni.
Si tratta di un articolo veramente innovatore, di un articolo contro il quale non sono mancati gli strali della critica.
Tupini. Non tanti.
Codacci Pisanelli. L'articolo evidentemente rappresenta una profonda innovazione nel nostro campo, ma non è inutile che si costituisca in un certo senso una sanzione, una conferma costituzionale di principî che già in altri campi hanno trovato accoglimento. L'articolo stabilisce, in primo luogo, la responsabilità dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti da essi compiuti. La formulazione non può dirsi assolutamente precisa, perché non si intende bene se si tratta soltanto degli atti compiuti nell'esercizio delle pubbliche funzioni attribuite a questi pubblici dipendenti, o se si tratti invece di qualunque atto da essi compiuto.
Evidentemente gli autori del progetto hanno voluto alludere semplicemente al primo significato. Ma, l'articolo non esclude anche per la seconda ipotesi la responsabilità dello Stato e degli enti pubblici; dice, anzi, che essi sono garanti per l'adempimento dell'obbligo di risarcire i danni causati dai loro dipendenti. Sono due principî di particolare interesse perché, in tal modo, viene risolto nella Costituzione il problema della responsabilità dei dipendenti pubblici e della responsabilità dello Stato, in particolare della pubblica Amministrazione.
Nei giorni scorsi ci si è occupati, soprattutto, della difesa dei diritti del cittadino nei confronti dello Stato come giudice, nei confronti dello Stato come legislatore, perché, sancendo i diritti inviolabili dell'uomo e le libertà fondamentali dell'uomo, si è voluto assicurare che il cittadino venga tutelato nei confronti della legislazione, nei confronti della giurisdizione.
Mi sto soffermando oggi, in particolare, sulla tutela del cittadino nei confronti della pubblica Amministrazione, nei confronti, in generale, della terza funzione sovrana, di quella funzione di Governo che comprende l'attività politica e l'attività amministrativa.
L'affermazione relativa ai diritti e agli interessi, contenuta nell'articolo 19, è interessante, anche perché, secondo me, risolve taluni problemi i quali erano stati finora risolti in termini del tutto diversi da quanto sarà consentito quando sarà approvato un simile articolo. In altri termini, mentre in passato si riteneva che di fronte all'attività politica non vi fosse alcun rimedio giurisdizionale — per quanto alcuni tentassero di ammettere, se non altro, il ricorso all'autorità giudiziaria ordinaria — oggi può ritenersi che una simile affermazione della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi non escluda neppure la possibilità di far valere i diritti dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria e di far valere la tutela degli interessi, ove sia necessario, dinanzi alle magistrature amministrative, delle quali ci occuperemo in seguito perché il progetto ne prevede la conservazione.
Accenno semplicemente al problema dell'atto politico. È noto che bastava la possibilità di qualificare come politico un determinato atto della pubblica Amministrazione, perché i rimedi contro questi atti fossero gravemente limitati, se non addirittura soppressi. Soppressi per quanto riguarda il ricorso al Consiglio di Stato, cioè soppressi per quanto riguarda la tutela degli interessi; ma non completamente soppressi, almeno secondo alcuni, qualora l'atto politico avesse leso diritti. Sennonché molti rispondevano a questa affermazione che l'atto politico era essenzialmente discrezionale e che di fronte all'atto discrezionale non potevano sussistere diritti. In dottrina e nella stessa giurisprudenza si è tentato di replicare a questa affermazione, si è tentato di dimostrare che anche contro l'atto politico, qualora avesse leso diritti, dovrebbe ammettersi, se non altro, la possibilità di ricorso all'autorità giudiziaria ordinaria.
Ritengo che la disposizione del progetto esaminata, sancendo in generale la possibilità di difesa giurisdizionale per i diritti e per gli interessi, consente anche di risolvere l'annoso problema della tutela del cittadino di fronte ai cosiddetti atti politici.
E, sempre in tema di diritti e di interessi, ritengo che sia ancora utile accennare a una delle questioni che abbiamo risolto questa mattina, cioè alla possibilità di esercizio dell'azione popolare. Nelle modificazioni alla legge comunale e provinciale è stato questa mattina riammesso il principio dell'azione popolare e siccome si tratta di un interesse che appartiene al singolo, in quanto membro di una collettività, ritengo che questo principio sia stato esattamente riaffermato in una Costituzione che si ispira alla concezione della società come solidarietà.
Ma, tornando ai principî della responsabilità, mi permetto di richiamare quali erano i risultati a cui si era giunti secondo il sistema vigente. Non si ammetteva la responsabilità dello Stato, non si ammetteva in passato, per varie ragioni e soprattutto perché si diceva che lo Stato, essenzialmente inspirato al diritto, non poteva commettere atti tali da far sorgere una responsabilità. Si è arrivati a fare la distinzione tra la personalità giuridica cosiddetta privata e la personalità giuridica pubblica dello Stato, tra il fisco e lo Stato propriamente detto, e si ammetteva la responsabilità dello Stato in quanto fisco, mentre la si escludeva in quanto esso agisse quale persona giuridica pubblica.
Successivamente si cominciò a pensare che l'assoluta irresponsabilità dello Stato di fronte al danno eventualmente derivante dall'attività dei suoi dipendenti non poteva essere ammessa, e per varie strade si cercò di giungere a riconoscere la responsabilità della pubblica Amministrazione per i danni arrecati dall'attività dei suoi dipendenti.
Presidente Terracini. Onorevole Codacci Pisanelli, l'avverto che ha già superato il tempo concesso.
Codacci Pisanelli. Ho quasi finito. Si arrivò in tal modo ad ammettere questa responsabilità della pubblica Amministrazione e vi si arrivò ritenendo che gli organi dello Stato esplichino attività pubblica e che questa attività è pubblica e resta attività dello Stato, anche se viziata. Si pensò quindi che gli atti, rimanendo sempre atti statali e in particolare rimanendo atti amministrativi, dovevano far sorgere quell'obbligazione di risarcire i danni derivanti dal proprio operato in cui consiste in fondo la responsabilità.
Fatto questo passo, che portò a riconoscere, in linea generale, la responsabilità della pubblica Amministrazione, si giunse a concludere che, anche nei confronti dei pubblici impiegati, doveva ammettersi il principio della responsabilità e l'obbligo di risarcire i danni derivanti dalla loro attività. Sennonché, quest'obbligo incombeva non sopra un singolo dipendente dallo Stato, almeno per quanto riguarda i terzi, ma sulla stessa Amministrazione. Gli impiegati poi, a loro volta, erano responsabili nei confronti della pubblica Amministrazione per i danni derivanti dalla loro attività.
In base ai principî accolti nel progetto, si ha al riguardo una notevole innovazione, perché gli impiegati non sono soltanto responsabili nei confronti dello Stato o dell'ente pubblico, da cui dipendono, ma sono responsabili nei confronti dei terzi, ai quali siano derivati danni dalla loro attività.
È un principio dalle gravi conseguenze, senza dubbio, ma la gravità delle conseguenze deve essere valutata in relazione al fatto che non si tratta d'una innovazione radicale. Anche per altri impiegati esiste già qualcosa di simile. Non dobbiamo dimenticare che per i dipendenti dello Stato, i quali esplicano la funzione giurisdizionale, cioè per i magistrati, per i cancellieri e per gli stessi ufficiali giudiziari, è stabilita anche oggi la responsabilità personale. Lo stesso principio vale per taluni organi dell'Amministrazione finanziaria, come i conservatori dei registri immobiliari; il conservatore delle ipoteche, ad esempio, è personalmente responsabile. Si è detto che si tratta di ragioni storiche, ma, in ogni modo, si è di fronte a un'ampia categoria di dipendenti dello Stato, i quali sono personalmente responsabili per i danni derivanti dalla loro attività.
Col nuovo sistema non bisogna pensare che venga abbandonato il principio delle responsabilità dello Stato o della pubblica Amministrazione per atti compiuti dai suoi dipendenti; viceversa, il principio viene integrato con l'altro della responsabilità estesa anche alle persone fisiche preposte ai pubblici uffici.
A questo proposito può essere interessante osservare come, per quanto riguarda la responsabilità nel campo del diritto pubblico, si sia arrivati ad ammettere anche la responsabilità per atti legittimi. Cioè: non soltanto dalla iniziale esclusione completa d'una responsabilità degli organi statali si è arrivati ad ammettere questa responsabilità in caso di atti illegittimi, ma si è giunti fino ad ammettere la responsabilità per atti legittimi.
Basti pensare alla espropriazione per pubblica utilità, un istituto che potrà esserci molto utile per gli sviluppi ai quali si presta; basti pensare che in questo campo abbiamo, in fondo, atti senza dubbio legittimi, perché previsti dalla legge, dai quali deriva, però, un danno per i singoli, danno che deve essere risarcito.
È il principio, appunto, della responsabilità per atti legittimi.
Presidente Terracini. La prego di concludere, onorevole Codacci Pisanelli...
Codacci Pisanelli. Completo subito; purtroppo i due argomenti che ho toccato sono abbastanza complessi. Si tratta qui di un principio abbastanza nuovo, che mi proporrei di illustrare.
Presidente Terracini. Non c'è argomento trattato dai colleghi che non sia molto importante; tuttavia, ciascuno deve cercare di svolgere il proprio argomento entro i limiti di tempo stabiliti.
Codacci Pisanelli. Sto per concludere. Per quanto riguarda la responsabilità personale degli impiegati, non dobbiamo meravigliarci. Teniamo presente che qualcosa di simile avviene anche in sistemi diversi dal nostro.
In Inghilterra da secoli si applica questo principio, fin da quando, nel 1763 ci fu il famoso contrasto tra Giorgio III ed uno dei deputati, il Wilkes, il quale scrisse un articolo contro il re. Il re dispose, attraverso il primo ministro, perquisizioni domiciliari e arresti; il Parlamento insorse; l'autorità giudiziaria dichiarò la incostituzionalità della esecuzione dell'ordine impartito di eseguire quei sequestri e condannò colui il quale aveva eseguito l'ordine al risarcimento dei danni.
Risale a questo tempo l'affermazione del principio della responsabilità personale dei pubblici impiegati per gli atti da essi compiuti. Il sistema anglosassone è rimasto completamente diverso dal nostro. Secondo tale sistema, non deve ammettersi un diritto amministrativo, in quanto si ritiene che questo sistema giuridico serva a garantire quasi una tirannia della pubblica amministrazione; e si ritiene preferibile estendere a tutti il solo diritto privato, detto «legge comune». Le necessità storiche hanno però imposto anche in quel sistema l'adozione di principî analoghi ai nostri, per cui si è venuto a formare un diritto amministrativo, tanto che vi sono oggi anche in Inghilterra cattedre universitarie di diritto amministrativo.
Ma il nostro sistema, senza dubbio evoluto, perché (cosa che non si riscontra in altri ordinamenti) consente persino la tutela degli interessi discrezionalmente protetti, può essere opportunamente integrato con il principio della responsabilità personale dei pubblici impiegati di fronte ai cittadini; principio non nuovo, perché, come ho già detto, esiste già nell'amministrazione della giustizia.
Integrando i due principî, ritengo che noi otterremo di migliorare il nostro sistema di giustizia amministrativa, il quale ha fatto molti passi avanti, ma che, come la realtà ci dimostra, non è ancora sufficiente ad assicurare quella giustizia sociale alla quale aneliamo.
Ho voluto volgere uno sguardo al passato, esponendo quello che è lo stato della nostra legislazione e quelli che sono i risultati raggiunti dalla nostra dottrina. E questo ho fatto, non già per ammirazione verso il passato, ma solo per far notare a quali risultati fossero giunti coloro che ci hanno preceduto e perché sia in tal modo maggiore la spinta che deve animarci verso ulteriori conquiste per l'attuazione di quell'ideale della giustizia nell'amministrazione, perseguito con tanto entusiasmo nel secolo scorso e che noi dobbiamo perseguire oggi con non minor decisione.
Ad ogni modo, da queste mie considerazioni, ritengo si possa trarre la conclusione che molte conquiste sociali sono dovute ai giuristi, i quali, anche lontani dalla vita normale, perché spesso rinchiusi nelle biblioteche, non cessano di rappresentare un anelito verso quella ricerca della verità che per loro è la giustizia di cui non debbono mai dimenticarsi, anche se preoccupati soprattutto di stabilir la certezza.
All'aspirazione della giustizia noi dobbiamo ispirarci, ed a tali principî si ispira la nostra Costituzione; la quale, appunto con la tutela dei diritti e degli interessi, con l'assicurazione della responsabilità personale dei pubblici impiegati, tende a realizzare il nostro ardente anelito di giustizia che, secondo la divina promessa, sarà certamente appagato. (Applausi al centro).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Schiavetti. Ne ha facoltà.
Schiavetti. Onorevoli colleghi, è stato giustamente osservato in una delle passate sedute che questa discussione sul Titolo I costituisce una specie di beneficiata degli avvocati e dei cultori di discipline giuridiche, che sono numerosissimi in questa Assemblea. È inutile dirvi che io, occupandomi dell'articolo 16, il quale regola il regime di stampa, mi porrò invece da un punto di vista prevalentemente politico e in un certo senso professionale...
Le Costituzioni sono per solito elaborate dopo dei profondi sconvolgimenti politici e sociali. E in ognuna di queste elaborazioni è quasi sempre evidente una doppia ispirazione: c'è la preoccupazione di redigere una Charta che possa valere per i tempi di normalità e c'è l'esigenza di redigere una Charta che serva anche a difendere i valori politici e morali che sono stati affermati nello sconvolgimento da cui ha tratto origine la Costituzione stessa. Un caso storico tipico di questa doppia ispirazione nell'elaborazione delle Costituzioni è quello famoso della Costituzione francese dell'anno I, durante la grande rivoluzione, la quale assicurava le più ampie autonomie ai francesi — era una di quelle Costituzioni che noi diremmo oggi «autonomistiche» — e tuttavia, poche settimane dopo averla votata, la Convenzione dovette rinviarla indefinitamente, appunto perché obbediva a questa seconda esigenza di tutti i costituenti, obbediva cioè all'esigenza di difendere i valori politici, i valori storici che la Rivoluzione francese doveva opporre in quel momento a tutta l'Europa che si era coalizzata contro di lei.
Leggendo i resoconti delle riunioni della Commissione preparatoria di questo progetto, ho notato, per quel che riguarda l'articolo 16, appunto la presenza di questa duplicità di ispirazione. E ne è venuto fuori il testo che è sottoposto oggi al nostro esame; un testo nel quale, mentre da una parte si afferma e si esalta la libertà assoluta della stampa, da un'altra parte invece, al capoverso quarto, si tollera l'intervento della polizia, l'intervento del potere amministrativo per disciplinare gli eventuali eccessi della stampa. Si consente, in altre parole, il sequestro preventivo della stampa periodica, operato per via amministrativa con l'intervento della polizia.
Ora, onorevoli colleghi, io appartengo ad un partito il quale sente molto profonda l'esigenza di difendere i valori politici che sono emersi nella lotta contro il fascismo e nella rivoluzione — o, per meglio dire, nella mezza rivoluzione — che si è affermata il 25 aprile 1945 a Milano. Tuttavia, nonostante il sentimento di questa profonda esigenza, noi non intendiamo in nessun modo di valerci, al di sopra dello strettamente necessario, dell'intervento della polizia per quello che riguarda la disciplina della stampa. Il nostro punto di vista — io non so se posso impegnare anche l'opinione dei miei colleghi — è che la stampa, qualora se ne debba consentire il sequestro preventivo, debba essere sottoposta all'esclusiva vigilanza del potere giudiziario. Del resto, questa opinione l'afferma pure, con alcune cautele, il Presidente della Commissione, onorevole Ruini. Egli dice ad un certo punto della sua relazione: «È da sperare che si realizzi un assetto tale da offrir il modo al magistrato di intervenire sempre tempestivamente». Questo è ciò che noi ci auguriamo: che si trovi cioè il modo di costituire un organo, affidato all'autorità giudiziaria, il quale possa, qualora sia necessario, intervenire per sequestrare immediatamente quei giornali, che si presume possano portare un turbamento all'ordine pubblico o alla pubblica morale.
Questo monopolio affidato alla magistratura, per quello che riguarda la disciplina della stampa, ci garantisce che non si verificheranno i soliti casi di sconfinamento, che sono estremamente graditi al potere esecutivo. Quando il sequestro preventivo di un giornale dovrà essere non più affidato ad un funzionario di pubblica sicurezza, ma ad un magistrato, il quale dovrà giustificarlo con una sua ordinanza, noi crediamo che le garanzie per la tutela della libertà della stampa saranno maggiori. Noi diffidiamo a questo proposito della iniziativa del potere esecutivo e della fertilità della sua fantasia: quelli che hanno vissuto venticinque anni or sono la lotta di ogni giorno contro il fascismo, ricorderanno a quale artificio ricorresse l'onorevole Federzoni nel 1925 per giustificare la soppressione della libertà della stampa, allorché ricorse all'articolo 19 della legge provinciale e comunale. Era un arbitrio totale. La sua naturale ipocrisia non consentì al Ministro Federzoni di assumere un atteggiamento aperto e chiaro, come in una circostanza di ben altro rilievo ebbe ad assumere nel 1914 il Ministro tedesco Bethmann Hollweg, quando giustificò l'invasione del Belgio con il motto: «Not kennt kein Gebot», la necessità non conosce legge.
Nei rapporti interni il potere esecutivo non può assumere un atteggiamento così brutale e così sfrontato come i Governi assumono spesso nei rapporti internazionali, facendosi usbergo delle necessità superiori dello Stato e della Nazione.
Recentemente qui a Roma noi abbiamo assistito, ad esempio, al sequestro di un foglio anticlericale, sotto il pretesto che questo foglio facesse della pornografia; ma il processo che ne è seguito alcune settimane or sono ha portato ad una assoluzione totale dell'imputato dalla accusa di pornografia, mentre è rimasta l'altra accusa, dal punto di vista morale molto più lieve, dell'offesa al Pontefice. Evidentemente la polizia aveva agito qui a Roma per ordine superiore ed aveva pensato che il solo pretesto valido per poter sequestrare quel giornale, che dava fastidio da un punto di vista politico, fosse di accusarlo di fare della pornografia.
Ora, noi non vogliamo dar modo per l'avvenire al potere amministrativo della polizia di adottare provvedimenti di questo genere. Vogliamo che la libertà della stampa, la vigilanza sulla stampa, sia affidata esclusivamente al potere giudiziario.
Una voce a destra. Siamo d'accordo.
Schiavetti. Noi sappiamo benissimo che la Repubblica ha bisogno di difendersi: è una necessità che noi sentiamo altissima. Ma pensiamo che si possa difendere anzitutto con le leggi. In un certo senso, la Repubblica si difende con l'azione, con la volontà, con lo spirito di sacrificio, con l'iniziativa dei repubblicani; ma, sul terreno giuridico, si difende con le leggi.
Noi dobbiamo fare il minor uso possibile degli interventi di polizia. È naturale che, da un punto di vista astratto, vi sia un regime di libertà della stampa che può apparire il più perfetto: è il regime per cui si può intervenire contro un giornale soltanto in seguito ad una sentenza irrevocabile dell'autorità giudiziaria. È il regime che ho sentito esaltato recentemente da quei banchi, il regime che in questo momento fa molto comodo ai nostri avversari dell'estrema destra.
Permettete che io vi dica che quando sentivo uno dei nostri colleghi difendere in questo modo l'assoluta libertà della stampa, non potevo fare a meno di ricordare tutto quello che molti di noi hanno sofferto 20 e 25 anni or sono per la difesa della libertà di stampa. E vorrei che tutti coloro che in questo momento si entusiasmano per l'assoluta libertà di stampa potessero vantare nel loro passato delle battaglie per la difesa di questa libertà che si avvicinino a quelle combattute dai socialisti, dai repubblicani e dai comunisti! (Applausi a sinistra).
Non è la prima volta, onorevoli colleghi, che il sacro nome della libertà è usato per manovre politiche di questo genere: basti ricordare che, quando nel 1920 le squadre fasciste cominciavano a scorrazzare per il nostro Paese — e trovavano allora il conforto e l'aiuto da parte dei giornali di quella parte là — esse parlavano in nome della libertà. E c'era anche nell'inno fascista un appello, appunto, alla difesa della «nostra» libertà.
Per tanti anni abbiamo sentito parlare in questo senso di libertà e i nostri colleghi di quella parte dell'Assemblea ci consentiranno, quindi, di essere alquanto diffidenti quando essi fanno queste esaltazioni della libertà.
Per quello che riguarda il regime della stampa, un regime di assoluta libertà in questo periodo dello sviluppo economico e sociale del nostro paese non mi pare possibile, soprattutto per due ordini di motivi. Voglio spiegare che quando parlo di assoluto regime di libertà della stampa intendo dire regime di libertà per cui il sequestro dei giornali sia consentito soltanto in seguito a sentenza irrevocabile dell'autorità giudiziaria.
Vi sono dunque due ordini di motivi per i quali non si può consentire la formazione di un regime di questo genere. Innanzitutto, e questo lo dico con profondo dolore, per lo scarso livello di educazione politica di una parte dei giornalisti italiani; e non solo dei giornalisti italiani, ma anche dei giornalisti di altri paesi. Le peripezie politiche di questi ultimi decenni hanno mostrato in Italia una classe giornalistica la quale non ha saputo resistere con dignità e con fermezza agli assalti della reazione e della dittatura. Io non parlo di quei giornalisti che erano giovani quando il fascismo s'impadronì del potere. Per molti di quelli noi possiamo avere della simpatia e quasi un senso umano di pietà e di comprensione. Ma parlo soprattutto di quegli avanzi della vecchia classe politica italiana i quali si piegarono e si afflosciarono come cani davanti alla frusta del dittatore. Molti di quegli elementi sono ancora rimasti. Possiamo dire che molti di essi ricoprono ancora nel giornalismo dei posti di alta responsabilità. In seguito alla recente amnistia molti di quei giornalisti sono tornati in circolazione e hanno ripreso la loro opera di avvelenamento della vita italiana.
E allora bisogna, onorevoli colleghi, tener conto di questo fatto, che è un fatto altamente triste per il nostro paese. Bisogna tenerne conto, perché l'assoluta libertà richiede anche la massima educazione politica e il più alto senso di responsabilità. Se avessimo nel nostro passato esempi sicuri di coscienza civile e di educazione politica, noi potremmo fare oggi l'esperimento di un'assoluta libertà nella stampa. Ma poiché questi esempi non li abbiamo, noi siamo costretti a tenere un contegno di realistica prudenza.
A proposito di questa indegnità di una parte dei giornalisti italiani e perché voi non crediate che vi sia della avventatezza da parte mia, voglio leggervi alcune poche righe di una pubblicazione recente — in certo senso non recente, perché si tratta in gran parte di una ristampa — dovuta ad uno dei nostri maestri in giornalismo, maestri non solo dal punto di vista professionale ma anche dal punto di vista morale. Intendo parlare di Mario Borsa. Nella ristampa del suo volumetto sulla libertà di stampa Mario Borsa scrive ad un certo punto queste parole nei riguardi del giornalismo italiano:
«Bisognerà dire cosa che sanno tutti. La maggior parte dei giornalisti di questa stampa asservita al regime non era in buona fede!... Presi ad uno ad uno i giornalisti dicevano corna del regime e del loro «duce». E vada per quei poveri diavoli che dovevano stare attaccati ai seggiolini per poter mangiare, loro e le loro famiglie; ma i denigratori — a quattr'occhi e molto sottovoce — del regime dell'amato «duce» erano in molti casi i giornalisti che andavano per la maggiore, direttori di quotidiani e di riviste; burattini che passavano come i più fervidi sostenitori della politica pazza e rovinosa che doveva portare l'Italia al disastro! Gli uomini sono responsabili della sincerità e del disinteresse delle loro opinioni, non della loro giustezza.
«Si può essere nel vero o nel falso, pur di esservi in buona fede e non per calcolo. Ora la cosa più obbrobriosa ed insieme più odiosa, più umiliante, più grave, dell'epoca ignominiosa attraverso cui è passata la stampa italiana, è che molti, troppi giornalisti non credevano affatto in ciò che scrivevano e non avevano alcuna fede nell'uomo e nel regime che sostenevano. Questo è il vero, il grande avvilimento; perché tutto si può scusare, meno la insincerità e la mancanza di carattere».
Vi è poi un secondo ordine di considerazioni per cui non riteniamo possibile un regime di assoluta libertà, ed è il formidabile pauroso potere che è venuto ad assumere in questi ultimi tempi la stampa periodica. Essa è venuta ad assumere questo potere a causa del suo progresso tecnico, ma soprattutto a causa dell'enorme ed accresciuta moltitudine dei lettori ai quali essa si rivolge.
Bisogna, onorevoli colleghi, tener sempre presente, nell'esame di molti dei fenomeni più caratteristici di questo nostro tempo e di questa nostra società, le enormi conseguenze che sono state prodotte e che continueranno a esser prodotte nel Paese dalla inserzione nella vita politica nostra d'una moltitudine enorme di italiani, che prima ne erano assenti e lontani.
Prima del 1882, il paese legale, costituito dagli italiani che avevano facoltà di nominare i loro rappresentanti e di governare il Paese attraverso i loro rappresentanti, era rappresentato, su 27 milioni di abitanti, soltanto da 570.000, da poco più di mezzo milione. Il paese legale era dunque circa un cinquantesimo del paese reale. Dopo la riforma elettorale del 1882, realizzata dall'avvento della sinistra al potere, gli elettori furono da 2 a 3 milioni: il paese legale fu portato da un cinquantesimo ad un decimo. Trent'anni dopo, nel 1912, con la famosa riforma del suffragio universale voluto da Giolitti, gli elettori divennero 8.000.000 su 40.000.000 di abitanti. Il paese legale passava da un decimo ad un quinto. E, finalmente nel 1946, con le ultime elezioni, su una popolazione di circa 45.000.000 si sono avuti oltre 22.000.000 di elettori: siamo a metà; il paese legale è la metà del paese reale.
Ho voluto ricordare queste cifre perché voi possiate comprendere quale profondo cambiamento sia avvenuto nella vita politica del nostro Paese. E notate che la inserzione di questa vasta moltitudine di italiani nella vita politica attiva, è avvenuta attraverso due cataclismi successivi, quali sono quelli rappresentati dalle due ultime guerre mondiali.
Ora voi capite benissimo che il giornalismo, il quale parla a questa moltitudine di italiani, ha un potere enormemente più forte e più penetrante di quello che non potesse avere il giornalismo di 60-70 anni fa, giornalismo che parlava a mezzo milione di italiani, i quali rappresentavano una piccola minoranza del Paese, una minoranza che, dal punto di vista della cultura e della preparazione politica, aveva senza dubbio un livello maggiore di quello che non abbia oggi questa vasta moltitudine di 22-23 milioni d'italiani.
Il giornalista oggi, quando scrive una sola parola nel suo giornale, dovrebbe sempre tener presente questo infinito potere che ha nelle sue mani. Il giornalista dovrebbe esser consapevole del fatto che ha, in un certo senso, cura di anime.
Orbene, io vi posso dire che nel costume della pratica quotidiana si è ancora lontani dall'affermazione di questa coscienza.
Cosattini. Solo la libertà può sanarla.
Schiavetti. Siamo d'accordo, ma vi sono delle necessità politiche per cui si può graduare la libertà, soprattutto quando questa graduazione non avviene da parte di un potere paternalistico o esterno al popolo, ma da parte dei rappresentanti stessi della volontà popolare.
Il potere di questa stampa è un potere enorme ed è naturale quindi che vi siano delle cautele di ordine legislativo e di ordine giuridico per cui in una situazione come l'attuale non si possa consentire un regime di assoluta libertà della stampa. È necessario che ci sia una tutela più vigile della stampa, una tutela che può essere esercitata in certi casi dagli stessi organismi del giornalismo organizzato. È necessario anche che vi sia una difesa della indipendenza e della dignità del giornalismo da un altro punto di vista. La stampa deve infatti difendere la propria indipendenza e la propria dignità anche contro la potenza del denaro, contro le minoranze plutocratiche faziose le quali si vogliono servire della stampa per introdurre dei veleni nel cuore del Paese, per giovare a interessi particolari sotto la veste, come avviene sempre, di una difesa degli interessi nazionali. Ed è a questa necessità che si ispira il capoverso dell'articolo 16, là dove dice che la legge può stabilire controlli per l'accertamento delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento della stampa periodica. Una proposta di questo genere ha provocato una reazione netta e precisa da parte di un oratore dell'estrema destra...
Badini Confalonieri. ...che ricordava il discorso del senatore Ruffini in difesa della libertà di stampa del 1926, ed il senatore Ruffini era liberale e non azionista.
Schiavetti. Questa è, se è riferita esattamente, un'opinione del senatore Ruffini. Non è la mia. La cosa non mi fa né caldo né freddo.
Si tratta dunque di esercitare il controllo finanziario sulle fonti di certi giornali, un controllo che purtroppo è di una efficacia relativa, perché è impossibile, per ragioni pratiche, di esercitare un controllo assoluto; ma è un controllo il quale, ad ogni modo, porrà a disposizione della pubblica opinione delle cifre e dei dati per mezzo dei quali sarà più difficile, a coloro che vogliono compiere queste specie di manovre, di muoversi a loro piacimento.
Questo controllo non significa affatto che si voglia impedire a certi interessi particolari di farsi valere.
Purtroppo, data la società attuale e la sua organizzazione economica, non è assolutamente pensabile che si possa togliere il diritto ad un interesse particolare di creare un giornale e di affermarsi in mezzo al Paese sotto veste di difendere l'interesse generale. Ma quello che importa è che la buona fede del pubblico possa essere difesa, quello che importa è porre a disposizione del pubblico il maggior numero possibile di dati per cui esso possa sapere di che genere è il giornale che legge. Quando si saprà, ad esempio, come è avvenuto nel passato, che un giornale finanziato dagli industriali dello zucchero difende delle tesi protezionistiche e anti-liberistiche, allora il pubblico saprà orientarsi e capirà benissimo quale valore morale e politico si possa attribuire agli argomenti di quel giornale; oppure quando si saprà che gli industriali siderurgici finanziano un certo giornale, il pubblico apprezzerà con precisione quale è il grado di moralità e di sincerità che si possa dare agli argomenti del giornale che sostiene una politica nazionalistica e di provocazione alla guerra. (Interruzioni a destra).
Nessun giornale può sostenere e difendere, da un punto di vista obiettivo, gli interessi generali, perché è soltanto Iddio, in un certo senso, che può difendere gli interessi generali. Ciascuno di noi, in un giornale, difende i propri interessi particolari; ma vi è una bella differenza fra gli interessi particolari di un partito politico, il quale esprime gli interessi di alcuni ceti della popolazione, e gli interessi invece di un giornale, dietro cui ci sono dei gruppi finanziari e degli uomini i quali ogni giorno, si può dire, cercano di frodare la semplicità e la buona fede del pubblico, affermando di parlare per degli interessi generali, mentre difendono esclusivamente degli interessi particolari, interessi che sono spesso in contrasto con quelli generali e preminenti della nazione.
Bellavista. La libertà vigilata del giornalismo!
Schiavetti. Noi ci auguriamo, in ogni modo, che vi possa essere un regime, la cui attuazione è riservata all'avvenire, in cui la stampa divenga una specie di servizio pubblico e ogni partito possa vedersi attribuire dallo Stato una quota parte di questa possibilità di esprimere la propria opinione.
L'organizzazione attuale della nostra società non permette una cosa di questo genere; ma voi consentirete, io spero, che vi esprima la speranza che si possa addivenire, in un futuro più o meno prossimo, ad una riforma di questo genere.
Il fatto che i partiti politici vengono ad assumere, nella evoluzione dei nostri costumi democratici, un'importanza sempre maggiore, e che possano esser loro attribuite delle funzioni di carattere costituzionale, mi fa pensare che una riforma di questo genere possa essere meno lontana di quella che alcuni non vogliono vedere.
Prima di finire, vorrei accennare ad un aspetto di questo problema il quale, credo, ci troverà tutti consenzienti. Finora io ho parlato della stampa come portatrice di valori politici; ora intendo parlare della stampa come portatrice di valori, in un certo senso, morali. Voi sapete che ci sono delle preoccupazioni gravissime per i turbamenti che la stampa, una certa stampa, può portare alla moralità e al buon costume.
È una cosa di cui abbiamo parlato più volte e su cui io credo tutti siamo d'accordo. A questo proposito vorrei notare che l'articolo 16 del nostro progetto di Costituzione parla quasi esclusivamente di libertà di stampa e dei problemi della stampa, mentre vi sono altre Costituzioni, come quella di Weimar del 1919 e quella irlandese del 1937, in cui si parla non soltanto della stampa ma, tenuto conto dei progressi tecnici di questi ultimi decenni, si parla anche del cinema e della radio, di questi mezzi potentissimi di avvicinamento al pubblico e di propaganda.
Orbene, noi vogliamo considerare un aspetto della libertà di stampa che deve trovarci tutti consenzienti: l'aspetto per cui questa libertà di stampa ci preoccupa dal punto di vista della morale pubblica e soprattutto dal punto di vista della difesa e della protezione della gioventù. Ho visto che questa preoccupazione è apparsa nelle discussioni della Commissione; ma poi, nell'ultimo capoverso di questo articolo 16, non si è voluto parlare di protezione della gioventù. Badate, onorevoli colleghi, che questo è uno dei problemi più gravi del nostro tempo: questa gioventù è insidiata o, per meglio dire, la rinascita, la risurrezione morale di questa gioventù è insidiata non soltanto — e credo, in un certo senso, in minima parte — dalle pubblicazioni di carattere pornografico, ma anche da altre pubblicazioni. Quando vedo dei settimanali i quali hanno per unico scopo della loro pubblicazione l'illustrazione e lo sfruttamento dei fatti di cronaca nera per presentarli dinanzi ai giovani, e in generale dinanzi ai loro lettori, in modo affascinante e tale da esercitare una specie di suggestione sullo spirito, quando penso che, nella stessa letteratura dedicata ai ragazzi, vi sono dei periodici, dei piccoli giornali, i quali esaltano continuamente gli istinti di violenza, gli istinti della forza cieca e brutale, l'istinto in una parola, e cercano di suscitare il bisogno di eroismo nei ragazzi, facendo appello a imprese che non hanno nulla di eroico e nulla di morale, quando penso a tutto questo, e vedo che nel nostro Paese si consentono simili pubblicazioni, credo che fatti di questo genere debbano interessare e preoccupare profondamente l'Assemblea Costituente italiana. (Applausi al centro).
Io ritengo che, pur tutelando sempre la libertà della stampa, noi dobbiamo trovare il modo per difendere la nostra gioventù dalle insidie di questi veleni che le sono quotidianamente propinati. È una cosa assolutamente necessaria; è un provvedimento che si impone e il fatto che noi ci manteniamo sul terreno dell'intervento esclusivo dell'autorità giudiziaria nella disciplina della stampa ci permette di pensare che si possa trovare facilmente la possibilità di rimediare a questo gravissimo inconveniente e di difendere l'anima, difendere la vita morale dei nostri figli e di tutta la gioventù italiana.
Onorevoli colleghi, vorrei ripetervi, a chiusura del mio intervento, l'abusata frase carducciana «Noi troppo odiammo e soffrimmo»; e ancora odiamo e soffriamo perché è necessario odiare e continuare a soffrire; tuttavia permettete che aggiunga che noi vogliamo preparare ai nostri figli una vita migliore, se non proprio dal punto di vista economico e materiale, almeno dal punto di vista della atmosfera morale che essi saranno destinati a respirare. (Applausi).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Della Seta. Ne ha facoltà.
Della Seta. Onorevole presidente, onorevoli colleghi, nel mio primo discorso su tutto il testo del progetto di Costituzione e nel mio secondo discorso sulle disposizioni generali e, in modo speciale, sul famoso articolo 5, non ho potuto non esprimere alcune critiche; critiche dettate da nessuna prevenzione, ma dall'intima coscienza, per fedeltà a quei principî, che ritengo fondamentali per la retta vita dello Stato e della Nazione.
E perciò sono tanto più lieto oggi di esprimere alla Commissione il mio compiacimento, per avere non equivocamente affermate, in questo titolo primo della parte prima del progetto, le pubbliche libertà; libertà che tanto più oggi apprezziamo dopo avere sperimentato l'amarezza della loro perdita, sotto la insolenza di un regime che non si peritò di definire la libertà un cadavere putrefatto.
Non terrò, per esteso, sopra un dato argomento, un vero e proprio discorso; ma seguirò il testo, fedelmente, articolo per articolo, limitandomi ad alcune osservazioni, che, più che critiche, vogliono essere suggerimenti e richieste di chiarimenti. Qualcuno della Commissione gentilmente vorrà darmeli.
Articolo 8. — Nulla ho da eccepire. Molto bene è stata affermata la inviolabilità della libertà personale, la quale non può essere limitata da arbitrarie perquisizioni o restrizioni di polizia; né tanto meno, in caso di detenzione, può essere offesa da violenze fisiche o morali. Una tale libertà è la esplicazione del valore della personalità umana, al cui riconoscimento tutto il progetto si ispira.
Articolo 10. — Qui si parla della libertà di circolazione del cittadino nel territorio italiano. In verità, vedere consacrato in una Costituzione il diritto della libertà di circolazione mi fa quasi la stessa impressione come se fosse consacrato il diritto del cittadino a respirare; ma poiché nel testo una tale libertà è consacrata non posso non rilevare che, là dove dice: «In nessun caso la legge può limitare questa libertà per ragioni politiche», dovrebbe aggiungersi che, per ragioni politiche, non può neppure essere limitato il diritto del cittadino non solo di emigrare, come poi si dice nel testo, ma anche di trasferirsi momentaneamente all'estero, per ragioni turistiche, commerciali o di studio.
Quante volte — e più d'uno di noi lo ha esperimentato — è stato, per ragioni politiche, limitato questo diritto! Ecco, perché desidererei che in questo articolo si avesse la seguente dizione: «Né per ragioni politiche può essere negato al cittadino il diritto di emigrare o di trasferirsi momentaneamente all'estero».
Moro. Siamo d'accordo: abbiamo già pensato a fare quest'aggiunta.
Della Seta. Speriamo poi che giunga un tempo nel quale non si dovrà più parlare di passaporti. Mi sembra ad ogni modo necessaria, per ora, quest'aggiunta che ho proposto.
Passo all'articolo 11. Questo reca al primo comma: «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali». Io peccherò, onorevoli colleghi, di soverchio idealismo; ma desidererei che questa «condizione giuridica» non fosse condizionata dalla reciprocità. Se venisse in Italia uno straniero, vorrei che a questo straniero noi riconoscessimo quegli stessi diritti, che noi riconosciamo ad altri stranieri di altre nazioni, quand'anche la nazione dalla quale lo straniero proviene non riconoscesse per noi quei diritti che noi allo straniero riconosciamo. Roma si dice, è madre del diritto: cominciamo noi, dunque, a dare agli altri una lezione di diritto, anzi di una maggiore civiltà.
Moro. Sì, sì.
Della Seta. Con ciò naturalmente non intendo escludere che una tale materia possa essere disciplinata da accordi internazionali: dico che in tale materia dovrebbe predominare un criterio etico molto più alto che non sia quello della reciprocità. Criterio etico, cui s'inspira anche il terzo comma dello stesso articolo 11, consacrante una norma ormai consacrata dalla morale internazionale, cioè la non concessione della estradizione dello straniero per reati politici.
Moro. Era precisamente questo il senso della disposizione.
Della Seta. Articolo 12. Diritto di riunione. Ho qui bisogno di un chiarimento. C'è un comma che non soltanto a me, ma a parecchi colleghi dei vari settori, è riuscito alquanto oscuro. Si fa distinzione, nell'articolo 12, fra riunioni in luogo aperto al pubblico e riunioni in luogo pubblico. Addurrò un esempio: se io vado a tenere un discorso politico in un teatro o in un cinema, lo terrò in luogo pubblico o in luogo aperto al pubblico?
Moro. In luogo aperto al pubblico.
Della Seta. Se invece io parlo in un comizio nella pubblica piazza, parlo evidentemente in luogo pubblico. Ora, questo articolo dice che, se la riunione si svolge in luogo pubblico, allora ci vuole il preavviso; se invece si svolge in luogo aperto al pubblico, allora non è richiesto alcun preavviso. Io vi dirò, onorevoli colleghi, che, per democraticissimo che io mi senta, non posso non fare una distinzione: cioè trovo strano, trovo anzi poco convenevole e molto imprudente che, se domani si intendesse di tenere in un teatro, cioè in luogo aperto al pubblico, una grande manifestazione politica, non si ritenesse doveroso dare il tempestivo preavviso all'autorità di pubblica sicurezza, non certo perché questa intervenga per proibire o per vessare poliziescamente, ma per essere presente e provvedere immediatamente in caso di gravi turbamenti dell'ordine pubblico. E questo sia detto per confermare ancora una volta che quando noi diciamo Repubblica non diciamo anarchia: diciamo un regime più di qualsiasi altro fondato sull'ordine e sulla disciplina. Mi sembra, quindi, necessaria una distinzione. Si dovrebbe distinguere tra riunioni di carattere culturale, per le quali, certo, non occorrerà il preavviso e riunioni politiche, per le quali non può la pubblica autorità non essere tempestivamente preavvisata.
Moro. La questione era già stata sollevata.
Della Seta. E vengo all'articolo 13. Su questo articolo, onorevole Presidente, io ho presentato un emendamento. Desidererei dalla sua gentilezza un chiarimento: posso, non parlandone ora, svolgere la mia proposta in sede di emendamenti?
Presidente Terracini. Onorevole Della Seta, poiché ha la parola, parli anche del suo emendamento.
Della Seta. Ma posso svolgerlo dopo, non parlandone ora?
Presidente Terracini. A rigor di termini, lei ha diritto di parlare in sede di emendamenti.
Della Seta. Allora abbrevio, riservandomi di parlarne a suo tempo.
Presidente Terracini. Sta bene.
Della Seta. Ed eccomi all'articolo 14. Se nell'articolo 5, o meglio nell'articolo 7, il problema specifico è quello dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato, qui si parla in genere di libertà religiosa, qui si riconosce, per tutti, il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato ed in pubblico atti di culto. La norma, nella formulazione, concerne tutti i cittadini; ma, in realtà, qui si hanno presenti le minoranze religiose. E per questo, come già è stato osservato, anch'io non trovo troppo rispettosa verso le minoranze la restrizione espressa nell'inciso: «purché non si tratti di principî o riti contrari all'ordine pubblico o al buon costume». Non che la restrizione, in sé, non sia giusta; è ingiusto riferirla solo alla fede religiosa delle minoranze. Degenerazioni, sotto la parvenza della spiritualità, del sano sentimento religioso, con credenze superstiziose e riti paganeggianti, se ne possono avere in tutte le fedi, in tutte le Chiese. E perciò, ripeto, questo inciso dovrebbe essere eliminato, in quanto riferito esclusivamente, alla religione delle minoranze.
Moro. Questo va coordinato con l'ultima parte dell'articolo 7, che deve essere trasferita qui.
Della Seta. Per quanto per noi rimanga sempre in piedi la pregiudiziale dell'articolo 5 del progetto, di quell'articolo che, in attesa della ineluttabile revisione, ha ormai consacrato, nella Costituzione, la confessionalità dello Stato e con questa, rispetto alla maggioranza dei credenti, una innegabile inferiorità, morale e giuridica, negli istituti e nelle leggi, delle minoranze religiose; per quanto la legge che disciplina la vita di queste minoranze sia sempre la legge del 24 giugno 1929 sui culti ammessi, tuttavia non possiamo non esprimere il nostro compiacimento pel fatto che in questo articolo 14 non è dato trovare né la espressione offensiva di culti tollerati, né la espressione ambigua ed insidiosa di culti ammessi, poiché ciò che oggi si ammette si potrebbe domani, accampando chi sa quali misteriose ragioni politiche, non ammettere. Ciò che vale in questo campo è che i giusti principî consacrati nella Costituzione non siano, subdolamente, smentiti da violazioni di fatto che risolvono la conclamata libertà religiosa in una ironia, se non in una beffa. Non debbono ripetersi fatti, che i veri e buoni cattolici saranno i primi a deplorare, fatti di cui noi abbiamo la prova inoppugnabile.
Io non sono un evangelico; ma dico che, in una fiera del libro, non deve essere proibito agli evangelici di avere anch'essi un loro banco per vendere le loro Bibbie. Si teme forse la diffusione della Bibbia? Io dico che non si deve rinnovare la beffa di autorizzare gli evangelici a costruire un tempio, e, dopo che questo è stato costruito, proibire l'apertura del tempio per l'esercizio del culto, costringendo i fedeli, per la celebrazione del rito, a riunirsi nel sottosuolo. Non si deve impedire ad un pastore evangelico di accorrere a presenziare un rito funebre, adducendo il pretesto che egli non può varcare il territorio della propria giurisdizione. Fatti deprecabilissimi, che i buoni cattolici, ripeto, saranno i primi a condannare e che io ricordo non a scopo di recriminazione, ma perché desidero che non abbiano più a rinnovarsi, offendendo, non solo le minoranze religiose, ma la nostra stessa civiltà e il nostro buon nome presso gli altri popoli civili.
Nulla dirò sull'articolo 16, per quanto concerne la libertà della stampa. Chi si è dibattuto, come scrittore, sotto il passato regime, tra gli artigli della censura, sa quale valore debba attribuirsi a questa libertà, con la quale si immedesima lo spirito stesso della democrazia. Ne ha parlato, or ora, ampiamente ed eloquentemente, l'amico onorevole Schiavetti, e tornerà a parlarne un collega del mio Gruppo, l'onorevole Facchinetti, quale relatore della nuova legge sulla stampa. La stampa è davvero il quarto potere, come espressione dell'opinione pubblica, di quella opinione, che il vero uomo di governo, lungi dal disprezzare, ascolta, vigila e segue, come il pilota tien d'occhio la bussola nella non facile navigazione. Tutto è questione di misura. Né illegittimi interventi, da una parte, dell'autorità giudiziaria e tanto meno degli ufficiali di polizia giudiziaria, che sappiano di reazione e di vessazione; né, dall'altra, una libertà che non è libertà, in quanto si identifica con la licenza. Licenza tanto più condannabile quando, in nome di una presunta libertà dell'arte, si vorrebbero autorizzare spettacoli, pubblicazioni e illustrazioni, che sono contrarie al buon costume. L'articolo 16 bene ha fatto ha consacrare tutto questo nella Costituzione.
Ma l'articolo 16 ha un'ombra o, per meglio dire, si proietta sulla sua luce l'ombra di un altro articolo ormai famoso. L'articolo 16 proclama la libertà del pensiero. La libertà del pensiero è diritto di ogni libera critica. Critica religiosa, filosofica, scientifica, letteraria, storica e via dicendo. Oh, se io non fossi in un'Assemblea vorrei innalzare un cantico alla gloria di questa libertà! Ma come armonizzare con questa libertà di pensiero, come armonizzare con la libertà dell'insegnamento, sancita nell'articolo 27 del progetto e che con l'altra è strettamente connessa, come armonizzare con queste due libertà — è la terza volta che lo pongo in rilievo — il famoso articolo 5 del Concordato (Commenti al centro), cioè con l'articolo che pone il divieto, nella scuola pubblica, del pubblico insegnamento ad un uomo, al quale si fa una colpa di essere giunto, nelle sue indagini, serenamente, obiettivamente, a date conclusioni scientifiche? Qui emerge, chiara, quella contraddittorietà, che già rilevai, nel mio primo discorso, come una nota negativa di questo progetto di Costituzione. (Commenti al centro — Interruzione dell'onorevole Micheli).
Quanto all'articolo 17 due brevi osservazioni: io non accennerei solo al fatto della privazione, ma anche alla semplice menomazione di certi diritti; inoltre, avendo presenti troppo recenti amarissime esperienze, non limiterei ai motivi politici quei motivi che non possono legittimare menomazioni o privazioni della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome; ma direi esplicitamente: nessuno può essere menomato o privato, per motivi razziali, religiosi o politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome.
Quanto all'articolo 21, superfluo dire che concordiamo pienamente sul fine educativo che debbono avere le pene. Queste, oltre ad una necessità di difesa sociale, oltre il richiamare il colpevole alla responsabilità espiatrice delle proprie azioni, obbediscono anche all'esigenza etica di riabilitare, se possibile, il condannato, attraverso un lavoro che, oltreché riabilitazione, sia in certo qual modo riparazione del danno, del turbamento che all'ordine sociale ha apportato il fatto delittuoso. Fine pedagogico della pena che determina, naturalmente, tutto un nuovo orientamento dell'ordinamento penitenziario. Ed è necessario, dopo questo, il dichiarare che anche noi siamo, incondizionatamente, per i delitti comuni, per l'abolizione della pena di morte? Se anche ragioni umane già per sé stesse non esistessero, la irreparabilità dell'errore giudiziario è tale un argomento che dovrebbe far tacere i più tenaci fautori di questa pena.
Quanto alle pene, di cui si parla nell'articolo 21 del progetto, mi si consenta un'ultima osservazione.
Voi ricordate, onorevoli colleghi, la storica seduta del 25 marzo. Voi ricordate come il Presidente del Consiglio, il Ministro De Gasperi, pur difendendo, come democristiano, i Patti lateranensi, dichiarò, in risposta al mio discorso poco prima pronunciato, dichiarò, fra il consenso unanime dell'Assemblea, che avrebbe assunto, dopo maturo esame, formale impegno di fare eliminare dal Codice penale vigente quelle disposizioni che, in rapporto al reato di offesa al sentimento religioso, comminano pene diverse secondo il contenuto teologale della religione dell'offeso; pena più grave se l'offeso è cattolico, meno grave se viene offesa la religione delle minoranze.
Orbene, come buono auspicio a più ampie rivendicazioni, perché non consacrare, nell'articolo 21, la promessa solenne del Presidente del Consiglio e lì dove si parla di pene non aggiungere un inciso che dica: le pene — eguali nella qualità e nella gradualità, pel medesimo reato, senza discriminazioni confessionali — devono tendere alla rieducazione del condannato, ecc.?
Ho finito. Concludo augurando che la patria abbia dei reggitori che rispettino e sappiano far rispettare le pubbliche libertà. Auguro che la patria abbia dei cittadini che queste libertà sappiano gelosamente custodire e, se manomesse, strenuamente difendere. Auguro che da una scuola che sappia non solo informare le menti, ma anche formare le coscienze, escano uomini capaci di sentire e di intendere che la prima difesa, la prima vera garanzia della libertà sta nell'ordine e nella disciplina, in quella disciplina, individuale e collettiva, che sola può salvare la nazione dall'avventura di ogni dittatura e nella quale la patria, perduta la libertà, perduta la sua dignità, tornerebbe ad essere travolta in nuove rovine, in nuove irreparabili catastrofi. (Applausi).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Montagnana Mario. Non essendo presente, s'intende che vi abbia rinunziato.
(La seduta, sospesa alle 18,20 è ripresa alle 18,45).
Presidenza del Vicepresidente Conti
[...]
Presidente Conti. Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l'onorevole Fusco. Ne ha facoltà.
Fusco. Farò delle brevi dichiarazioni sul titolo primo della parte prima, senza eccessive prolissità, anche perché questo titolo è stato considerato largamente e molto autorevolmente commentato, in modo che agli oratori che parlano alla fine della discussione poco è avanzato da dire.
Io sono in linea di massima favorevole al contenuto delle disposizioni del titolo primo, e innanzitutto lodo la Commissione, che al titolo di «libertà civili» abbia sostituito l'altro «rapporti civili», perché «libertà civili» era espressione troppo indeterminata, mentre la dizione «rapporti civili» riconsacra, rinnuova, rinverdisce le civiltà basate sul criterio della coesione, dell'associazione, dell'integrazione; ed è inutile ricordare ancora una volta quello che era accaduto durante il periodo nefasto della dittatura, quando gli italiani sembravano che non fossero più degli uomini capaci di socievolezza, ma fossero addirittura un'accozzaglia di gruppi sbandati e sopra di essi stava il dominio di una masnada di avventurieri.
Questo titolo di «rapporti civili», vale a significare l'ardente desiderio di uno sviluppo democratico, l'ansia di un perfezionamento integrale della personalità umana, ed il bisogno di creare quel rinnovamento spirituale cui abbiamo anelato per lunghissimi anni: anche se non si è avuto il triste destino di stare in carcere o al confino, vivendo però in un carcere spirituale che talvolta è stato peggiore dello stesso carcere fisico. Ecco perché noi non possiamo non lodare l'intento determinato ed appassionato dei componenti la Commissione, che hanno cercato di far rivivere i rapporti civili fra questo nostro popolo che è stato sempre squisitamente civile e che soltanto in un momento fosco e sventurato ha avuto una frattura ed una intermittenza, dalla quale fortunatamente siamo usciti.
Ma, egregi colleghi, io trovo che se un tenue torto può ravvisarsi in questa stesura del titolo primo, è soltanto quello di un certo arresto di slancio democratico.
Io sono liberale, ma non sono né reazionario, né conservatore e tanto meno un ostinato custode di un passato politico cristallizzato e stagnante. Mi vanto di essere stato in una democrazia liberale, a capo della quale era Giovanni Amendola, al cui fianco ho combattuto la battaglia elettorale del 1924, che fu utile, perché schietta e coraggiosa. Ed ho avuto un compito: quello di rimanere a questo posto, perché quando baciai le ferite sanguinanti di Giovanni Amendola, Egli mi lasciò un testamento spirituale che ho religiosamente rispettato.
Dicevo, dunque, che nella formulazione di questo titolo primo vi è un tenue peccato. Alcuni slanci democratici — (e cito, ad onore loro, Pietro Mancini ed il compianto professore Giovanni Lombardi di Napoli) — diretti a consacrare riforme democratiche più radicali, sia dal punto di vista giuridico che da quello politico, furono spenti dalla indecisione e dalla perplessità di quanti temettero di arrischiarsi troppo in articoli costituzionali di nuova creazione. Perché, o signori, io non riesco a comprendere che cosa valga l'articolo 8 di fronte al criterio di libertà ed al criterio di democrazia, come non riesco a comprendere che cosa sia il capoverso dell'articolo 16, in materia di stampa libera e schiettamente democratica.
L'articolo 8 infatti, se da una parte tende a sottrarre l'indiziato che eventuali abusi della polizia giudiziaria, affidandolo senz'altro alla serena imparzialità del magistrato, per via di necessità e di urgenze, poco chiare e molto equivoche e pericolose, lo riconsegna sconsigliatamente nelle mani dell'ufficiale di polizia giudiziaria: mettendo così egualmente in discussione l'inviolabilità della libertà personale. Né vale osservare che l'ufficiale di polizia giudiziaria può prendere soltanto delle misure provvisorie, e che quelle vanno comunicate nelle 48 ore all'autorità giudiziaria, che non le convaliderà se non le avrà trovate giuste. A parte che l'espressione «misure provvisorie» non è felice, né dal punto di vista filologico né da quello giuridico, non si capisce in che cosa consistano: tanto esse sono generiche, indeterminate, elastiche e perciò eventualmente pericolose e talvolta anche perniciose. Né tanto meno può essere invocata, a sostegno ed a difesa della libertà, quella «convalida» che dovrebbe fare da schermo all'indiziato.
«Convalida» innanzitutto non mi pare che sia anche esso un vocabolo esattamente giuridico. Mi appello all'autorità di Pietro Mancini che, come sapete, oltre ad essere un filosofo, un professore, è un giurista esimio, il quale ha fatto rilevare, proprio durante i lavori della Commissione, l'inesattezza della usata terminologia. Ma vi ha di più e di peggio: la convalida per me non ha nessun valore e non ha nessuna importanza, né pratica né giuridica. Non pratica, perché, come è stato già osservato, conosciamo quale sarà l'atteggiamento del nostro magistrato di fronte alla richiesta della convalida: non sarà altro che un atteggiamento formale, che non varrà a sottrarre l'indiziato a quella mancanza di garanzie che noi invece vogliamo accordargli. Non giuridica, perché l'intervento del giudice o arriva troppo tardi o arriva senza efficacia di sorta.
Io credo che questo non sia un articolo di Costituzione, ma un articolo che oscilla fra una legge di pubblica sicurezza ed un Codice di procedura penale. Che l'indiziato possa rimanere 48 ore alla mercé della pubblica sicurezza e poi debba aspettare la convalida o meno da parte del magistrato, questo, signori, credo che non debba far parte di una Costituzione. E faccio appello all'autorità del presidente della Commissione, onorevole Ruini, perché egli riesamini la questione per tentare di risolverla in una forma più concreta, più adeguata, più rispondente a quelle che sono le vere necessità alle quali vogliamo provvedere: cioè alla effettiva, concreta e sicura tutela della libertà personale.
Preoccupandomi poi dell'ultima parte dell'articolo 8, trovo molto a ridire sull'opportunità o meno di inserire nella Costituzione l'ultimo comma del detto articolo. Che bisogno abbiamo noi di stabilire nella Costituzione la punizione della violenza fisica, usata contro l'indiziato, se essa è punita dal Codice penale? Ci dobbiamo preoccupare della violenza morale, che eventualmente sia esercitata dall'ufficiale di polizia giudiziaria sul disgraziato che capita nel suo ufficio. Noi dobbiamo trovare un mezzo — ed io presenterò in proposito degli emendamenti — per far sì che questo infelice che capita nelle unghie della polizia (questo lo dico non per ingiuriare la pubblica sicurezza e gli ufficiali di polizia giudiziaria, ma per correggere quei casi isolati che pur si sono verificati) possa avere la sua difesa e le sue garanzie. Il magistrato che interroga l'imputato ha il dovere, cioè per legge, di farsi assistere dal cancelliere; e si tratta di un magistrato!
L'ufficiale di polizia giudiziaria, cioè il brigadiere dei carabinieri, l'agente investigativo, un sottufficiale qualsiasi della pubblica sicurezza, invece, stanno da soli a contatto con l'indiziato ed hanno questo privilegio singolare che quello che essi consacrano nel verbale si imponga come frutto della verità, anche se incontrollata ed incontrollabile. Questo contatto tra l'ufficiale di polizia giudiziaria e l'indiziato, questo colloquio a due, senza alcuna garanzia e senza alcun controllo, deve essere assolutamente eliminato dalla Costituzione, e se deve esservi inserita una formula veramente etica e di orientamento per quelle che dovranno essere le disposizioni legislative, tutto ciò deve essere subordinato a un concetto solo: che si trovi il modo per cui l'ufficiale di polizia giudiziaria non debba essere il solo, dispotico ed arbitrario, investigatore di una verità talvolta molto discutibile. Badate che abbiamo al riguardo un'esperienza molto notevole e molto sconfortante. Che cosa, per esempio, sono le confessioni rese all'ufficiale di polizia giudiziaria? Chi le garantisce? La Corte di cassazione ha insegnato che le confessioni fatte dinanzi all'ufficiale di polizia giudiziaria non sono prove, sono soltanto indizi, che il magistrato può utilizzare; mentre la confessione resa spontaneamente dinanzi al magistrato, con le garanzie di legge, è prova completa e definitiva. Dunque, neppure la Corte di cassazione ha fiducia nell'opera del potere esecutivo, dell'ufficiale di polizia giudiziaria. Onde abbiamo il diritto di dichiarare che tra l'arrestato od il fermato che parla, e l'ufficiale di polizia giudiziaria, che lo interroga, sia pure senza alcuna fraudolenza, per solo amore del mestiere, o per una visione erronea dell'evenienza e del fatto delittuoso, bisogna frapporre una garanzia ed un controllo che non potrà determinare la Costituzione, ma dovranno opportunamente e convenientemente fissare le leggi penali.
Né diversamente è a dire della libertà di stampa, di cui nella seconda parte dell'articolo 16 sostengo che la stampa deve veramente riacquistare, se non l'ha già riacquistata, piena libertà, intesa e diretta ad una funzione di educazione, di critica, di controllo e di vigilanza.
Ma che la stampa possa anche essa cadere sotto l'arbitrio dell'ufficiale di pubblica sicurezza, o dell'ufficiale di polizia giudiziaria, il quale non ha sempre la visione giusta della stampa delittuosa, vuoi per incompetenza, vuoi per ignoranza, quando non lo animi il capriccio o l'eccesso di zelo, è una stortura giuridica e politica. La stampa va invece interamente affidata alla imparzialità del magistrato, se essa sconfina dai suoi limiti e dalla sua funzione.
Le osservazioni fatte ex adverso non hanno, a mio modo di vedere, una opportunità vincolante di orientamento. Quando si dice, per esempio, che in casi di delittuosità della stampa periodica sia necessario l'intervento (sequestro) della polizia, perché potrebbe scomparire il corpo del reato, non solo si afferma cosa assurda in via di fatto, ma non si oppone che una parvenza di argomento.
Vuole l'ufficiale di polizia giudiziaria compiere il suo dovere? Raccolga la copia di un giornale e la consegni al magistrato; provvederà il magistrato a tutto il resto, magari cominciando con un atto di sequestro.
Io certo non difendo la stampa oscena e desidero che essa sia subito sottratta alla malsana curiosità del pubblico, e non avrei alcuna difficoltà che ciò avvenisse per mezzo dell'ufficiale di polizia giudiziaria, per impedire la diffusione dell'oscenità, ma si dica che il sequestro della polizia è facultato quando la stampa è palesemente oscena. Può darsi che l'ufficiale di polizia giudiziaria scambi come osceno un nudo artistico: una stampa riproducente un amplesso carnale non può dar certo luogo a dubbi ed in questo caso ognuno intende che l'intervento della polizia sequestrante è non solo giustificato, ma logico e doveroso.
Per quanto riguarda l'abolizione definitiva della pena di morte, si è osservato che non sarebbe questo il luogo della statuizione: l'ha sostenuto un mio illustre amico e valoroso penalista, l'onorevole Giovanni Leone. Ebbene, io mi permetto di dissentire. La pena di morte, per noi, è definitivamente soppressa; è così sacro il rispetto della vita umana, che noi intendiamo sia consacrato, con la più esplicita e incondizionata esclusione dell'abominevole pena, soprattutto nella nostra Costituzione. E ci teniamo perché, quando l'onorevole Giovanni Leone avverte che potrebbero sorgere delle possibilità, in tempi futuri, per le quali potrebbe essere ristabilita la pena di morte, io — che vivamente mi auguro che tali possibilità non siano per sorgere mai — vorrei sapere quali siano, secondo lui, queste possibilità, e perché e come dovrebbero sorgere.
O si è favorevoli alla pena di morte, o si è contrari: io sono decisamente contrario. E me ne sono convinto non già per ragioni di carattere dottrinario, né per le grandi ed ammonitrici voci del passato, a cominciare da Cesare Beccaria, e del presente (la più recente è stata quella dell'onorevole Paolo Rossi); ma soprattutto per quello che è stato l'esperimento della pena di morte nel periodo fascista. Noi non potremo, infatti, se non inorridire di fronte al caso Sbardellotto, che va a morire, sotto il piombo del plotone di esecuzione, non per altro che per avere avuto l'intenzione di uccidere Mussolini. E l'episodio dei due condannati di Caltanissetta? Qualche ora prima del momento fissato per l'esecuzione della sentenza, il duce comunicò che ad uno dei due condannati era stata accordata la grazia. Colui che ricevette l'ordine perdette la bussola e non comprese quale dei due era stato graziato. E la sentenza si doveva eseguire di lì a qualche ora. La situazione drammatica fortunatamente si risolse per l'intervento di un funzionario che aveva seguito lo svolgimento della domanda di grazia, ma intanto — chi me l'ha raccontato è un ufficiale di polizia che merita tutta la credibilità — ma intanto, dicevo, fu tale il terrore di quel povero funzionario, il quale, neanche a farlo apposta, si chiamava Capobianco, che tornato alla propria casa, si vide respingere dalla propria moglie che non lo riconosceva, perché tutti i capelli gli erano diventati bianchi in quella tragica notte.
E il caso Uras, chi non lo ricorda? Gennaro Escobedo ne fece l'ultima grande battaglia della sua carriera professionale, strappandolo alla morte, cui era stato condannato. E la storia di quell'imputato che fu condannato a morte dalla Corte d'Assise di Udine e che fu invece posteriormente assolto, perché alla Corte d'Assise di Trieste venne fuori una prova lampante di innocenza?
Io non so quanto sia esatto e quanto voi lo apprezziate quello che un componente della Commissione disse: che in definitiva lo Stato, uccidendo un condannato, commette un altro assassinio. Questa non è, s'intende, che un'opinione, la cui responsabilità va tutta a chi l'ha formulata. Si può anche quindi dissentire da essa. Ma è certo che la persona umana deve essere tutelata nella sua integrità fisica: la persona umana, voluta dal Creatore, deve morire quando è destinato che muoia: non un minuto prima.
E dirò di più: io non mi accontento dell'abolizione della pena di morte in periodi normali; non la vorrei, questa pena, neppur nei periodi di guerra. C'è stato l'onorevole Cevolotto che ha detto, durante i lavori preparatori della Commissione, che essa è assolutamente necessaria in periodi di guerra. Io non mi sono convinto di questa necessità. Valga quel che valga la mia opinione, io dico e sostengo che proprio durante il periodo di guerra, per quello spirito di tumultuosità, di confusionismo, per quella che è la frettolosità del contenuto dei provvedimenti, senza pacatezza, senza calma, senza la tranquillità che è necessaria in giudizi di così grande importanza e che possono avere conseguenze letali, io dico che proprio durante i periodi di guerra è ancora più pericolosa la condanna a morte. Si potrebbero segnare dei confini, dei limiti; si potrebbero stabilire con precisione quali sono i casi nei quali questa pena di morte è un'espressione di giustizia vera e propria: il delitto di lesa Patria, l'aiuto al nemico, o un'altra di queste circostanze. Ma lasciate che io pensi che sia un paradosso che colui che uccide il proprio padre, magari con sevizie e brutalità, non sia più passibile della pena di morte, ma della condanna all'ergastolo, mentre il soldato che si renda colpevole di una insubordinazione, con vie di fatto, verso un superiore, debba andare alla morte.
E da ultimo io domando che sia consacrata nella Costituzione che noi andiamo formando una garanzia, che ci è stata negata nella maniera più astiosa e velenosa durante il periodo fascista.
Intendo parlare della difesa processuale. Chi non ricorda che cosa era diventata la difesa in quel periodo? Non parlo della difesa dinanzi al tribunale speciale, dove era una mortificazione quando dovevamo parlare in difesa dei nostri amici o dei nostri clienti, che avevano sacrificato la loro esistenza per un ideale politico, avendo alle spalle otto carabinieri od otto militi fascisti, i quali misuravano financo il nostro atteggiamento. Non ricorderò che cosa era il nostro calvario, allorquando partivamo dalle province e venivamo a Roma, per andare a quel maledetto tribunale speciale sul Lungotevere Mellini; e salivamo dall'illustre segretario generale — che è stato amnistiato per grazia di Dio e non per volontà della Nazione — per chiedergli notizie intorno ai processi, mentre avevamo intorno dei parenti piangenti e lacrimanti. Credevamo che dovesse essere la nostra funzione più importante quella di informarci circa la sorte incombente su quei disgraziati. Dopo che eravamo passati sotto il controllo del carabiniere, del caporale, del maresciallo, quell'illustre segretario generale, dopo averci chiesto nome e cognome — il nostro — e dopo averci fatti accomodare, sapete che cosa rispondeva: «Lei vuole sapere a che punto è il processo, ecc. È in istruttoria!» — «Possiamo parlare con qualcuno?» — «È severamente proibito!».
Ecco a che cosa era ridotta la nostra difesa! Con l'aggiunta che nel tribunale speciale il presidente era libero, ad un certo momento del dibattimento, quando non gli garbava un avvocato o una difesa, di mandarlo via, lasciando l'imputato senza difensore.
Io non parlo di questi tribunali speciali, caduti sotto l'infamia e che saranno completamente estirpati per quella specifica accezione della nostra Costituzione; che non sorgeranno mai più e staranno soltanto a rappresentare quelle che furono le nefaste ore di quel triste periodo. Io parlo del magistrato ordinario.
Ora, signori, è nota la dizione dell'articolo 19: «La difesa è diritto inviolabile, in ogni stato e grado del procedimento».
Io mi permetterò di suggerire un'altra formula: «La difesa è garantita a tutti in modo inviolabile ed in ogni stato e grado del procedimento». Perché, me lo consentano i colleghi, altrimenti noi faremmo un'affermazione un po' troppo empirica, filosofica ed indeterminata, mentre noi vogliamo essere più vicini alla realtà, stabilendo che la difesa sia garantita a tutti, in modo inviolabile ed in ogni stato e grado del procedimento.
Durante il periodo del fascismo, noi che abbiamo fatto gli avvocati, abbiamo ancora nella nostra gola le parole che non potemmo dire, abbiamo ancora l'impressione di avere la lingua a metà legata, così fu lungo il tempo nel quale non ci fu possibile scioglierla, e perché talvolta non potemmo seguire il nostro impeto e emettere il nostro grido... (Interruzioni a sinistra). Io intendo per impeto e per grido l'estremo coraggio del difensore, che durante il fascismo spesso rimase dentro di noi, a stento contenuto.
Ma a me non basta la dizione: «in ogni stato e grado del procedimento». Reclamo di più. Comprendo l'osservazione che mi si potrà fare: abbiamo un Codice di procedura basato sul sistema inquisitorio, e molte sue norme dovranno essere riformate per mezzo della Camera legislativa. Me ne rendo conto, ma mi rendo anche conto che quando noi diciamo «ogni stato e grado del procedimento», non abbiamo esaurito tutti i bisogni ed i diritti della difesa. Vorrei far presente che fra il Codice del 1913 ed il Codice del 1930 c'è stato un peggioramento graduale a danno della difesa, peggioramento evidente ed iniquo. Lasciamo stare il Codice del 1930, che era astioso e che era più contro gli avvocati che contro gli imputati, e che ci mise in questa condizione: ogni magistrato era anche nostro giudice disciplinare, dimodoché in udienza il magistrato, a torto o a ragione, poteva sospenderci, infliggerci dei castighi e poteva fare quello che voleva a nostro danno. Questa subordinazione dell'avvocato al magistrato soltanto dal Codice fascista fu posta in essere.
Noi invece vorremmo non solo che fossimo equiparati nella dignità, compostezza e collaborazione al magistrato, ma soprattutto che la nostra opera a vantaggio dell'imputato cominciasse non già quando credesse il magistrato, ma piuttosto, secondo il sistema francese ed il sistema inglese, fin dall'interrogatorio dell'imputato stesso. Propongo, perciò, che si dica: «La difesa è garantita a tutti in modo inviolabile, in ogni stato e grado del procedimento, a cominciare dall'inizio della processura fino alla sua conclusione».
Non sto a dirvi i torti che ci sono stati fatti: negazione del diritto di partecipare all'ispezione dei luoghi, di partecipare alle osservazioni peritali, ai confronti, al riconoscimento delle persone, alla ricognizione delle cose. Tutto ciò forma materia di Camera legislativa. Ma, signori, un punto vorrei che fosse consacrato in questo articolo: che, cioè, la difesa non solo sia garantita in modo inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, ma che soprattutto questa difesa abbia inizio fin da quando l'imputato sia tratto davanti al magistrato e fino alla conclusione del processo.
In ultimo, signori, io vi domando che per davvero l'articolo che riguarda il trattamento umano da fare ai condannati sia tale; e sia tale in maniera efficiente, non in maniera soltanto empirica ed astratta; perché noi conosciamo che non si può raggiungere una rieducazione del reo, se non lo si mette in una condizione in cui egli non senta ogni giorno la desolazione e l'asprezza di un sistema carcerario che in Italia deve essere modificato alle fondamenta.
Non ho altro da dire. Altri argomenti hanno interessato altri oratori; io ho creduto soltanto di dare un indirizzo per gli articoli di cui ho parlato.
Io sono convinto che, con questi ristabiliti rapporti civili, incomincia in Italia quella ricostruzione morale, quella coesione e socievolezza che sono necessarie per lo sviluppo democratico della Repubblica, la quale, oggi accettata da tutti, deve essere feconda di bene e di felici risultati per i cittadini che ad essa appartengono. (Applausi).
[...]
Presidente Conti. Riprendiamo la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l'onorevole Mortati. Ne ha facoltà.
Mortati. Mi propongo di parlare brevemente sull'articolo 14, che riguarda la libertà religiosa.
A proposito di questo articolo, bisogna tener presente una recente deliberazione dell'Assemblea con la quale fu disposto lo spostamento dell'ultima parte dell'articolo 7 o l'inserimento di essa in questo articolo 14.
Desidererei preliminarmente fermarmi in breve, precisamente su questa deliberazione dell'Assemblea, perché mi pare che essa non sia stata sufficientemente meditata; talché la sua attuazione potrebbe portare a qualche disarmonia nel sistema che stiamo fissando.
Lo stesso onorevole Ruini, nell'esprimere il parere della Commissione su questa proposta di spostamento, dichiarò che era opportuno sospenderla; invece l'Assemblea procedette alla sua deliberazione senza, ritengo, sufficiente meditazione.
Infatti, l'articolo 14 riguarda i rapporti dei cittadini come tali, nei riguardi della loro libertà di esplicazione di sentimenti e di fede religiosa; invece l'ultimo comma dell'articolo 7 riguarda una materia diversa, cioè riguarda le confessioni, viste nella loro organizzazione, e i rapporti di queste confessioni organizzate verso lo Stato. Quindi la sede opportuna della disciplina di questa materia mi pare sia proprio quella delle disposizioni generali e precisamente della parte che riguarda i rapporti fra lo Stato e gli altri ordinamenti.
L'onorevole Lucifero, nel presentare la proposta di spostamento, poi approvata dall'Assemblea, fece riferimento ad una deliberazione della Commissione dei Settantacinque in questo senso. Ma in realtà una deliberazione di tal genere non ci fu; anzi si deliberò la sospensiva sul collocamento dell'ultima parte dell'articolo 7.
Ho voluto richiamare l'attenzione sull'opportunità dello spostamento deliberato, perché penso che si possa tornar sopra alla decisione, la quale riguarda non il merito degli articoli, ma solo la loro coordinazione.
Propongo pertanto il riesame della questione e questa proposta io affido al Presidente perché sia presa in considerazione.
Venendo al merito dell'articolo 14, è da mettere in rilievo come le garanzie di libertà religiosa in esso contenute siano fra le più ampie di quante siano disposte nelle Costituzioni moderne.
L'onorevole Preti, che si è occupato di questo argomento, pur ammettendo che il contenuto dell'articolo 14 sia in sé liberale, ha osservato come su questa disposizione gravi l'ombra dell'articolo 7, cioè ha sostenuto che il carattere confessionale derivante allo Stato dai Patti del Laterano influisce dannosamente sull'attuazione della libertà religiosa consacrata dall'articolo 14.
Non mi fermo sull'inesattezza della tesi che fa derivare il carattere confessionale dello Stato dai rapporti con la Chiesa cattolica, quali sono consacrati nel Concordato del Laterano, perché già in sede di discussione nell'articolo 7 essa è stata dimostrata abbondantemente. Mi pare di poter osservare che se una correlazione volesse farsi fra le situazioni che verranno a determinarsi in virtù delle due disposizioni, deve ritenersi che essa operi in senso inverso a quello affermato dall'onorevole Preti, cioè nel senso che lo spirito liberale che informa l'articolo 14 offra una riprova del carattere non confessionale dello Stato, e del proposito del costituente di porre i vari culti in posizione di parità fra di loro.
L'esattezza di tale affermazione può desumersi da una breve analisi delle disposizioni contenute nell'articolo 14, che considerano la libertà religiosa sotto tre aspetti.
In primo luogo, esse concedono la libera professione della propria fede ad ogni cittadino, e in questa libera professione di fede si devono ritener comprese tutte le manifestazioni del pensiero e della convinzione religiosa. Questa libertà implica l'attribuzione di diritti in senso negativo, cioè nel senso di potere respingere coazioni da parte di altri, o comunque di non subire limitazioni nella fede professata; implica altresì una serie di diritti positivi di esplicazione della propria opinione religiosa, in tutte le forme, sia individuali, sia associate.
In secondo luogo esse concedono libertà di propaganda; innovando in ciò alla legge del 1929 sui culti ammessi, la quale ne taceva.
In terzo luogo, infine, concedono piena libertà di esercizio degli atti di culto. Come si vede, non vi è nessun lato della libertà religiosa che venga trascurato, nessuna espressione che non venga espressamente tutelata.
Forse, per eliminare ogni dubbiezza di interpretazione, sarebbe opportuno (e mi riservo di presentare un emendamento in questo senso) di trasferire l'inciso «in qualsiasi forma individuale e associata» subito dopo la parola «tutti», nel senso che sia chiaro che questa libertà di esercizio, in qualsiasi forma individuale e associata, si riferisce a tutte le estrinsecazioni della libertà religiosa. Un rimprovero che ha mosso l'onorevole Preti all'articolo 14, e che mi pare sia stato richiamato stasera anche dall'onorevole Della Seta, si riferisce al limite che l'ultima parte dell'articolo stesso pone per quanto riguarda i principî, o i riti contrari all'ordine pubblico o al buon costume.
L'onorevole Preti ha affermato che le sue indagini di legislazione comparata lo hanno portato alla conclusione che limiti del genere non si rinvengono nelle Costituzioni moderne liberali, mentre invece essi si troverebbero o in Costituzioni antiche o in Costituzioni moderne di spirito antiliberale.
Ma, evidentemente, le indagini dell'onorevole Preti non sono state molto diligenti, perché altrimenti esse lo avrebbero portato a rilevare che anche le Costituzioni più moderne e più democratiche contengono limitazioni di questo genere e anche più gravi.
Ne cito alcune. Quella cecoslovacca, agli articoli 122 e 125, fa riferimento non solo alla pubblica moralità, ma anche ai regolamenti; la Costituzione della Repubblica socialista della Spagna del 1931 subordina all'articolo 27 il riconoscimento della libertà religiosa al rispetto della pubblica moralità; del pari la Costituzione Svizzera e così ancora quella di Weimar che all'articolo 135 poneva come limite la legge generale dello Stato, nella quale dizione devono ritenersi compresi anche il limite relativo all'ordine pubblico.
Non cito poi la Costituzione russa moderna che mentre afferma, in genere, la libertà di coscienza, limita poi la propaganda ammettendola solo in senso antireligioso.
Bisogna aggiungere che il limite posto dall'articolo 14 relativo all'ordine pubblico sarebbe operante di per sé, anche nel silenzio della Costituzione, e quindi la proposta che vedo enunciata in un emendamento dell'onorevole Binni, in cui si tace di questo limite, anche se fosse accolta, non muterebbe la situazione, perché il limite dell'ordine pubblico è imminente a ciascun ordinamento e la ragione è ovvia. Il limite dell'ordine pubblico trova la sua giustificazione in quelle esigenze di conservazione dell'assetto costituzionale dello Stato, che non potrebbe attuarsi se non con la conservazione dei principî fondamentali dell'ordinamento stesso.
Si tratta di un principio generale, un'esplicazione del quale si trova nelle disposizioni preliminari del Codice civile, secondo cui tutti gli atti delle autorità straniere sono subordinati a questo limite, che opera sempre nel senso di circoscrivere l'ambito delle autonomie concesse dallo Stato.
È però da rilevare che l'ammissione di tale limite non importa la conseguenza che ne faceva derivare l'onorevole Preti. Ossia, non è vero che per esso la libertà religiosa sarebbe affidata all'arbitrio della polizia. È ovvio che il giudice dell'esatta osservanza di questi limiti non può essere in ultima istanza se non il magistrato, al quale, del resto, è affidata la tutela di ogni altra forma di libertà. Ed allora la preoccupazione deve essere quella di formare una magistratura che sia veramente capace di esprimere quello che è il sentimento popolare; ed appunto a questo scopo è diretto il nuovo ordinamento che alla magistratura dà questo progetto di Costituzione. Attraverso un'interpretazione delle leggi in materia, che traduca fedelmente lo spirito di libertà, che ha mosso i compilatori del progetto, si potrà far valere in pratica la parità dei culti, parità che però non potrà non incontrarsi in certi limiti naturali che derivano dalla situazione di fatto, e che neppure il legislatore può eliminare. Questo si dica, per esempio, nei confronti della proposta, segnalata ai membri della Costituente dal Consiglio delle Chiese evangeliche, con cui chiede di osservare le festività e il riposo festivo non secondo il calendario e le prescrizioni della Chiesa cattolica ma secondo le prescrizioni dei vari culti e quindi consentire agli appartenenti dei vari culti di godere del riposo festivo disposto dal proprio culto. Evidentemente una norma del genere sarebbe di impossibile applicazione, date le esigenze del coordinamento delle attività lavorative, che implicano la contemporaneità del lavoro.
Ho voluto citare questo esempio, ma se ne potrebbero citare altri precisamente per dimostrare come quella disparità che si rimprovera al nostro legislatore è, a volte, una disparità che nasce dalla situazione di fatto, e che non è modificabile. Così anche il rilievo che si è fatto della disuguaglianza dell'applicazione delle pene per quanto riguarda le offese ai vari culti, non tiene conto del principio, secondo cui le pene sono graduate in relazione a quella che è la gravità del danno arrecato: proporzionate alla reazione della pubblica opinione, del sentimento pubblico. Ed è evidente che questa reazione, quest'offesa è più grave quando tocca le convinzioni della grande maggioranza dei cittadini ed è meno grave negli altri casi.
Non potrebbe a questo proposito invocarsi quanto affermava l'altro giorno l'onorevole Calosso, circa la parità del valore spirituale del singolo rispetto alla moltitudine, poiché il diritto penale, per sua natura, procede alla sua tutela in base a considerazioni di media.
In ogni caso, è da notarsi che la Costituzione non impone nessun principio in ordine alla graduazione delle pene, e su questo problema si potrà decidere in modo diverso quando il futuro legislatore si convinca che sia opportuno tutelare allo stesso modo le offese alle varie fedi.
Quello che importa rilevare — e con questo concludo — è che la Democrazia cristiana non porrà mai ostacolo ai provvedimenti che saranno proposti allo scopo di attuare una sempre maggiore uguaglianza di trattamento fra i vari culti, nei limiti in cui tale uguaglianza sarà resa possibile dalla situazione di fatto.
Essa rifugge dall'invocare un intervento dello Stato, diretto a comprimere il sentimento e l'attività delle confessioni diverse dalla cattolica. Ciò non solo perché tale intervento urta contro un sentimento profondamente radicato nella coscienza moderna, ma altresì per il pericolo che esso può presentare di attenuare lo slancio combattivo dei cattolici, nell'azione diretta all'espansione dell'idea che li muove. Tale espansione deve essere assicurata solo dal fervore dell'apostolato, esplicato in tutte le direzioni della vita associata, per recare in tutte, attraverso la libera discussione e la spontanea adesione, la luce e l'ispirazione del messaggio evangelico. (Applausi al centro).
A cura di Fabrizio Calzaretti