[Il 15 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.]
Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l'onorevole Pieri. Ne ha facoltà.
Pieri. Prendo la parola nella mia doppia veste di segretario di un'importante sezione italiana del movimento federalista europeo e di deputato socialista: noi socialisti siamo federalisti per definizione, perché internazionalisti. Intendo, dunque, parlare per esprimere il mio, il nostro compiacimento nel vedere codificata nell'articolo 4° della Costituzione quell'aspirazione propria della democrazia, e che è viva e profonda nella classe lavoratrice: l'aspirazione alla creazione dei vincoli federali fra gli Stati europei.
Il movimento federalista è di origine italiana. Anche a prescindere che esso deriva dalle dottrine di Mazzini e di Cattaneo, resta di fatto che la prima organizzazione federalista è stata creata nell'isola di Ventotene da un gruppo di confinati politici, nel giugno 1941. Questi lanciarono un manifesto-programma, fondarono un giornale clandestino: L'Unità europea, e scrissero opuscoli sui vari problemi del movimento federalista.
Quasi tutti coloro che facevano parte di questo gruppo sono morti nella lotta per la liberazione, ed essi appartenevano ai vari partiti di sinistra: Ginsburg, del Partito di azione, morì in carcere a Roma, a Regina Coeli; Jervis, del Partito di azione, fu impiccato a Villarpellice; Colorni, socialista, fu trucidato a Roma dagli sgherri della banda Koch; Barbera, socialista, fu fucilato a Torino.
Nel breve periodo di libertà che seguì la caduta del regime di Mussolini il movimento federalista tenne il suo primo congresso a Milano il 27-28 agosto 1943.
Nel frattempo l'idea federalista aveva fatto strada ed era penetrata anche in altre Nazioni. Nel maggio del 1945 si riunì a Parigi il comitato per il movimento federalista, che decise la fondazione di una rivista: L'Europe fédéraliste e pubblicò i Cahier du fédéralisme européen.
In Italia, dopo la fine della guerra, il movimento federalista tenne un congresso a Milano nel settembre 1945, ed un altro congresso a Firenze nel gennaio 1946, e decise la pubblicazione di un periodico quindicinale: L'Unità europea, che si stampa a Torino.
Ora, noi federalisti ci teniamo a distinguere il nostro federalismo, che è un federalismo realista, da un federalismo utopistico, le cui idee ed origini risalgono a quei pensatori che hanno predicato la pace e la fraternità dei popoli partendo da presupposti filosofici, a cominciare da Seneca e discendendo ad Erasmo da Rotterdam e giù giù fino a Spinoza, Voltaire, Tolstoi ecc. Un federalismo utopista ispirò anche i vari tentativi destinati a fallire in partenza, come la Società per la pace fondata da Nicola I all'Aja, la Società delle Nazioni, la Paneuropa di Coudenhove-Kalergi, il recentissimo movimento unionista promosso da Churchill, al quale noi opponiamo una ostilità pregiudiziale per il fatto di rappresentare un federalismo in funzione antirussa, diretto cioè a scopi non di pace, ma di guerra.
Noi ci teniamo a definirci federalisti realisti, perché la nostra dottrina si basa non su principî astratti ed eterni, ma sopra interessi concreti ed attuali.
E ciò, perché il nostro movimento si basa sulla necessità, sulla urgenza di ricostruire questa vecchia e rissosa Europa, in modo che da essa non partano più le scintille di un incendio che, questa volta, potrebbero divorare tutto l'edificio della civiltà.
Ora, noi dobbiamo domandarci: perché l'Europa è un continente stremato economicamente ed irrequieto politicamente? Lo è, sia perché numerose guerre hanno dilapidato completamente le ricchezze del continente, e lo è anche perché le barriere nazionali bloccano la produzione e i mercati.
Quindi necessità di abolire, se non le frontiere politiche, almeno in primo tempo le frontiere economiche; e noi vediamo che questa abolizione avrebbe una importanza grandissima, anzitutto perché permetterebbe una riorganizzazione razionale della economia e darebbe un grande incremento alla produzione, per il fatto che ogni Paese dovrebbe produrre le merci per le quali ha l'attrezzatura e le materie prime, quelle, cioè, per le quali, si trova nelle condizioni più favorevoli; e ciò si applicherebbe anche all'agricoltura, nel senso che ogni Paese dovrebbe coltivare i prodotti della terra per i quali è più adatto. Poi avrebbe la conseguenza di aprire ai singoli paesi non il piccolo mercato nazionale, ma l'intiero mercato europeo.
Ora è chiaro che ciò non può avvenire, se non si arriva all'abolizione delle barriere doganali. E questo è il lato economico del problema.
C'è poi un lato politico: noi riteniamo necessario che le singole nazioni rinuncino ad una parte della loro sovranità, delegando ad un consiglio federale i problemi che riguardano la politica estera e l'esercito; le nazioni dovrebbero avere esclusivamente delle forze di polizia.
La Francia, con l'intuito politico che le è caratteristico, nel preludio alla sua Costituzione ha inserito un periodo che dice: «La Francia, a condizioni di reciprocità, è pronta a rinunciare ad una parte della sovranità, quando ciò si renda necessario per l'organizzazione e per la difesa della pace».
Ora, io penserei che il nostro articolo 4 ci potrebbe mettere in condizioni di entrare in intese con la Francia, in modo da costituire un primo nucleo federalista, al quale si aggiungerebbe quasi certamente la Svizzera e poi, probabilmente, le altre nazioni europee. Noi non riteniamo che il movimento federalista possa, almeno in principio, estendersi in tutta l'Europa; pensiamo che con tutta probabilità si formerà un nucleo centro-occidentale federalista, perché da una parte l'Inghilterra e dall'altra la Russia con la catena degli Stati satelliti, probabilmente resteranno fuori dall'organizzazione.
Ma, in fondo, Inghilterra e Russia sono paesi che possiamo considerare marginali per l'Europa, che hanno il loro centro di gravità fuori dell'Europa: l'Inghilterra lo ha sull'Oceano, la Russia in Asia. Ma è anche possibile che in seguito al trattato di alleanza concluso recentemente a Dunkerque tra la Francia e l'Inghilterra, questa possa essere attirata nell'orbita dell'organizzazione federalista europea. È anche probabile che la Russia si avvicini sempre più al resto dell'Europa e possa in seguito inserirsi nell'organizzazione federale dell'Europa.
Ma quand'anche ciò non accadesse, noi potremmo realizzare un blocco federalista centro-occidentale europeo, sinceramente democratico e pacifista, omogeneo politicamente e vitale economicamente, che potrebbe esercitare un'utile funzione di pacificazione, e rappresentare come un cuneo interposto fra i due blocchi russo e angloamericano. E, nella deprecabile ipotesi di un conflitto fra i due blocchi, la presenza di questo cuneo potrebbe stornare dall'Europa la tempesta che si scaricherebbe lontano da noi, nell'altro emisfero.
Ora, qualcuno potrà domandarsi: non può l'Italia cercare di trovare la tutela del suo pacifico sviluppo nell'Organizzazione delle Nazioni Unite? Noi riteniamo che ciò non sia possibile, per almeno tre ragioni.
Anzitutto l'Organizzazione delle Nazioni Unite ha una struttura che ricorda molto da vicino quella della Santa Alleanza. In fondo, sono cinque popoli che si sono assunti la tutela di tutti gli altri popoli del mondo, e l'Organizzazione appare destinata a fallire come la prima Santa Alleanza.
Poi, l'organizzazione delle Nazioni Unite si è messa sul terreno della politica delle zone d'influenza, di equilibrio politico, di blocchi; politica che ha sempre condotto alla guerra e che non ha risolto nessuno dei problemi fondamentali, ma tende a dividere il mondo in due blocchi antagonisti, e davanti a problemi scottanti, né è uscita con espedienti (quando il Consiglio di sicurezza discusse il problema dei rapporti fra l'Iran e la Russia fu tolta la questione dall'ordine del giorno; così il Consiglio rinunziò a formulare una decisione sulla questione della presenza delle truppe inglesi in Grecia); politica che ha prodotto l'atmosfera di sospetto e di equivoco che si addensa minacciosa sugli attuali colloqui di Mosca.
Infine, noi crediamo che l'O.N.U. sia in grado di evitare la guerra fra le nazioni minori, ma che non sia in grado di evitarla fra le nazioni maggiori, e che molto meglio servirebbe la causa della pace il movimento federalista europeo, in quanto verrebbe ad unificare quell'Europa che è stata finora il focolaio di origine delle recenti guerre.
Bisogna anche pensare che la tendenza federalista sia implicita nel dinamismo della evoluzione politica moderna; infatti, vediamo che forma federale hanno raggiunto gli stati più progrediti politicamente: la Svizzera, con la sua Confederazione, l'Inghilterra col suo Commonwealth; così gli Stati Uniti e la Russia.
Ora, onorevoli colleghi, questa nostra propaganda per la idea federalista trova adesioni non solo in questi banchi, ma anche in altri settori ed anche presso personalità politiche di primo ordine. Mi limiterò a citare il Conte Sforza, gli onorevoli Pam, Einaudi, Calamandrei.
Questo ci dà affidamento, non solo che l'articolo 4° sarà approvato, ma che l'idea federalista in esso affermata non resterà lettera morta, non resterà come una platonica affermazione di principio, ma rappresenterà la forza viva ed operante della politica estera della nuova Italia.
Terminerò il mio dire con un augurio: questa nostra Italia, povera, e fieramente bistrattata dal destino, è stato sempre il paese più ricco di vita spirituale. Essa ha dato in ogni tempo al mondo le idee nuove. L'ultima è quella del federalismo. Qualora, come ne abbiamo fede, l'idea federalista, possa realizzarsi, l'Italia si riscatterà dalla involontaria colpa di aver dato al mondo il fascismo. (Applausi).
[...]
Presidente Terracini. Riprendiamo la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l'onorevole Targetti. Ne ha facoltà.
Targetti. Onorevoli colleghi, i primi 7 articoli del progetto di Costituzione che stiamo discutendo non sono i più adatti per permettere una discussione che mantenga rigorosamente il carattere di discussione generale, perché, come i colleghi sanno, non sono collegati da uno stretto nesso, non costituiscono un tutto omogeneo.
Si può anzi dire che ciascuno di questi articoli ha una vita autonoma, una vita a sé. La discussione generale di questo gruppo di articoli viene quindi a confondersi con la manifestazione del concetto che dei vari articoli si è fatta chi vi interviene e deve servire alla manifestazione del suo pensiero relativamente a modifiche proposte e non ancora illustrate o ad emendamenti che si possono considerare già svolti in questa discussione generale. Questo per evitare ripetizioni in quest'occasione più dannose di sempre.
L'Assemblea sa che nel discutere questo progetto noi siamo combattuti da due esigenze opposte, senza che si possa scegliere quale sacrificare e quale soddisfare: la necessità di far presto e la necessità di discutere con la massima ampiezza tutti i problemi relativi al compito per il quale siamo stati mandati qui dalla volontà popolare. D'are all'Italia repubblicana la sua Carta costituzionale è il compito storico di quest'Assemblea.
Qualche osservazione sull'articolo primo, e, prima ancora, qualche dubbio su la proprietà, sull'esattezza della qualifica di «disposizioni generali», data a questi primi articoli. Il nostro collega onorevole Oro Nobili propone che venga sostituita con la parola: Stato. Ma, con tutto il desiderio che avrei di dargli ragione, non mi sembra giustificata, ragionata, neppure questa denominazione. E ciò per ragioni intuitive. Nello Statuto della Repubblica romana queste disposizioni ebbero il titolo di «Principî fondamentali». Forse sarebbe più consona alla natura dell'argomento questa dizione.
«L'Italia è una Repubblica democratica», così dice l'articolo 1 del Progetto. È stato presentato da noi e dai comunisti un emendamento aggiuntivo inteso a specificare la natura di questa Repubblica: «Repubblica democratica di lavoratori».
Ricordo all'Assemblea che questa stessa proposta fu strenuamente sostenuta nella Commissione elaboratrice di questa prima parte della Costituzione, dai nostri colleghi onorevoli Basso, Togliatti e Mancini e ci corse poco che non raggiungesse la maggioranza. Io non facevo parte di quella Sottocommissione, ma, se ricordo bene, la formula «Repubblica democratica dei lavoratori» non passò, perché raccolse 7 voti contro 8: Non voglio dire quali rappresentanti della democrazia cristiana furono favorevoli a questa formula, perché non si sa mai quale servizio si rende a mettere troppo in rilievo il particolare atteggiamento di qualche appartenente a partito diverso dal nostro. Specialmente poi in questo momento in cui, a quanto ho letto stamani nel suo organo, anche la Democrazia cristiana si preoccupa non poco del formarsi di tendenze, se è vero che la Direzione del Partito è intervenuta a proibirne l'organizzazione.
Quindi io non faccio il nome di quei colleghi — ma lo dovrei fare a tutto loro onore — della Democrazia cristiana che si trovarono d'accordo con i rappresentanti del Partito socialista e comunista in questa specificazione di «Repubblica dei lavoratori».
Ma io non intendo svolgere ora il nostro emendamento. Richiamo più che altro l'attenzione dell'Assemblea sopra la portata, il significato politico e le conseguenze degli emendamenti, in senso contrario, presentati da altri colleghi, i quali vorrebbero che, non solo non si aggiungesse la specificazione «di lavoratori», ma che, nel secondo comma dell'articolo, non si dicesse neppure «la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Alcuni propongono di attribuire al lavoro un concorso nell'organizzazione della vita della Repubblica. Altro che concorso!
Altri vorrebbero affermare che il fondamento della Repubblica non sta nel lavoro, ma nella libertà e nel lavoro, mentre, poi, mettono da parte i lavoratori per sostituirli con i cittadini nell'indicare l'organizzazione del Paese.
Altro collega, di altro settore, propone di sopprimere senz'altro la parola «lavoro» con tutti i suoi derivati.
Per concludere su questo punto, per noi oggi non si tratta di un'affermazione di principî, quanto di una constatazione storica. Il nostro Paese se risorgerà, come vogliamo che risorga, come, nonostante tutto, sta risorgendo, se troverà, e la deve trovare, certezza di vita e di prosperità, sarà un Paese di lavoratori.
La fatica della ricostruzione sarà gigantesca. Diranno i credenti che richiederà un aiuto divino. Certo ci vorranno sforzi e fatiche, che il lavoro potrà compiere soltanto se avrà la certezza di non servire interessi egoistici, ma di giovare a tutti, alla collettività. Devono i lavoratori avere questa certezza e la sensazione che la Repubblica è cosa e casa loro.
Un accenno all'ultima parte dell'articolo 1°: «La sovranità emana dal popolo».
Alcuni colleghi non sono entusiasti in questo caso del verbo «emana». C'è chi propone «promana»; altri «risiede». È questione di forma.
Credo, piuttosto, dover richiamare l'attenzione sull'espressione «ed è esercitata, nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».
Io non esiterei a togliere questa specificazione. Probabilmente essa è dovuta al ricordo dello strapotere della volontà statale sotto il nefasto regime fascista, e la soppressione di questa aggiunta potrebbe dare il sospetto, non di fascismo, venendo da parte nostra, ma di totalitarismo, di dittatura. Spettri, questi, che si evocano tanto di frequente! Quindi mi astengo dal proporne l'abolizione.
Ma, secondo me, occorre, se non altro dire: «La sovranità promana — o deriva — dal popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».
Altrimenti non si sa con precisione da chi questa sovranità viene esercitata, mentre dovrebbe risultar chiaro che viene esercitata dal popolo o direttamente o attraverso i suoi delegati, i suoi rappresentanti o, insomma, attraverso quegli organi e con quelle modalità e con quei mezzi che le leggi e la Costituzione dovranno determinare.
Un'altra osservazione, anche questa di carattere generale, vorrei fare sopra la prima parte dell'articolo 6.
I colleghi sanno che a questo Progetto, fra i tanti appunti che gli sono stati mossi, vi è stato quello, ripetuto con maggiore insistenza di ogni altro, di essere troppo ricco di affermazioni finalistiche. Ebbene, forse qui abbiamo un'affermazione finalistica che, se non è dannosa, è certo superflua. Basterebbe dichiarare — e la norma risulterebbe più eloquente nella sua concisione — che la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui e alle formazioni sociali; senza parlare di principî inviolabili e sacri. Si potrebbe forse trovare qualche altro aggettivo. Ma sopprimere senz'altro l'affermazione non sarebbe che bene.
Vi è poi l'articolo 7 che dice: «i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e di lingua, di opinioni religiose e politiche sono eguali davanti alla legge».
Siamo tutti d'accordo nella sostanza e la sostanza è che la legge è uguale per tutti e che tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge. Anche qui evidentemente, in questa specificazione, si sente la condanna del regime nefasto che si caratterizzò nella sua attività criminosa, anche più barbaramente che in qualsiasi altro modo, con la persecuzione razziale; e si è voluto stabilire un principio di eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di razza.
Ma questa parola «razza», suona tanto male. Mi pare sia stato l'onorevole Lucifero a proporre in seno alla prima Sottocommissione di sostituirla con la parola «stirpe». «Razza» fa pensare più che agli uomini, agli animali. Ma esaminando la questione dal punto di vista linguistico, storico, scientifico è difficile sostituirlo e anche «stirpe», non credo che potrebbe essere un termine proprio. Comunque ho voluto richiamare l'attenzione dei colleghi anche su questo punto della disposizione. Certo, che se non si cede a certi tristi ricordi ed al bisogno di condannare, ogni volta che se ne presenta l'occasione, inumane, odiose distinzioni che nel passato portarono a tante iniquità, basterebbe dire che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge, salvo poi colpire la eventuale propaganda antirazziale, annoverandola tra le attività criminose, e dando così vita ad una forma di reato che dovrebbe trovar nel Codice penale una severa sanzione.
Egregi colleghi, io dovrei ora avvicinarmi a quello che mi sembra l'onorevole Marchesi abbia chiamato un roveto ardente; il roveto ardente dell'articolo 5.
Mi ci avvicino cercando di non bruciarmi. Vorrei dire di più, cercando di non scaldarmi neppure a tanta fiamma.
Onorevoli colleghi, il problema è divenuto di una importanza capitale. Ha già dato luogo qui ad elevatissime discussioni in tutti i settori. Bisogna riconoscerlo. Non dobbiamo diminuire noi stessi e disconoscere il valore di quest'Assemblea. Io posso affermarlo, perché sto per dirvi delle cose così semplici su questo tema che nessuno può pensare che io mi voglia includere fra gli oratori ai quali in questo momento mi riferisco. Dobbiamo riconoscere che la discussione di questo importantissimo problema ha raggiunto delle altezze che farebbero onore all'Assemblea di qualsiasi altra Nazione. (Approvazioni).
Io invece, egregi colleghi, mi permetto di fare alcune osservazioni, mettendomi dal punto di vista di un cittadino, non dico qualunque, perché questo aggettivo è ormai un po' compromesso, ma dirò dal punto di vista di un cittadino qualsiasi che abbia potuto seguire con attenzione questa discussione ed abbia anche ieri ascoltato il discorso dell'onorevole Jacini, veramente eletto nella sostanza, come nella forma.
L'onorevole Jacini ci portò alla conclusione dei Patti Lateranensi con una chiarezza di esposizione, che dimostrò la sua grande padronanza della materia. Ma egli tirò l'acqua, se non al suo mulino, certamente a quello della democrazia cristiana, giacché i fatti si prestano spesso ad essere ricostruiti come meglio si vuole. Vedete, e si tratta di episodi del nostro tempo, io ancora non sono riuscito a sapere chi ha ragione fra l'onorevole Nitti e l'onorevole Orlando, a proposito della priorità dell'iniziativa della Conciliazione.
Nitti. Glielo spiegherò.
Targetti. Ed io gliene sarò proprio grato. Dall'onorevole Orlando abbiamo sentito dire con ricchezza di particolari, che è stato lui a Parigi a condurre le cose in buon punto. Ma quando l'onorevole Orlando disse questo, l'onorevole Nitti incominciò a scuotere la testa. Il contrasto è evidente. Questo per dire quanto sia difficile essere precisi. L'onorevole Jacini alla sua volta ha detto molte cose utili, più utili però alla sua tesi che inconfutabili, anche in linea di fatto. Comunque, tutti abbiamo ammirato la sua competenza, la nobiltà del suo pensiero, ed io l'ho tanto più apprezzato, il mio vecchio amico, quando ha detto che le religioni diverse dalla religione cattolica debbono, appunto perché sono religioni di minoranza, essere ancor più difese e protette.
Ma, o che io in quel momento mi sia distratto, o sia colpa della cattiva acustica di questa sala, o sia stata dimenticanza dell'onorevole Jacini, fatto è che io non ho saputo da lui perché i Patti Lateranensi debbano figurare nella Carta costituzionale. Non ho saputo quello che più mi premeva di sapere.
Jacini. Vuol dire allora che io mi sono spiegato molto male.
Targetti. O sarò io che non avrò capito: giacché non voglio ammettere che l'onorevole Jacini si sia spiegato male. Questa, comunque, è la questione che dovrebbe essere chiarita e che, per ora, è rimasta oscura. Almeno per me.
Che questi Patti esistano è una realtà. Se la democrazia cristiana si accontentasse, pertanto, della constatazione della sussistenza attuale di questi Patti, credo non troverebbe nella sua pretesa alcun ostacolo. Sarebbe la constatazione di un fatto storico. Ma qui si tratta di ben altro. Parlo — ripeto — col linguaggio di chi non abbia troppa confidenza né con la storia né col diritto, e mi domando: perché questa insistenza della democrazia cristiana ad includere nella Carta costituzionale il richiamo dei Patti Lateranensi? Quando si tiene presente che l'autore, il creatore di questa formula è stato l'onorevole Tupini, si capisce che la ragione ci deve essere, anche se non si vede da parte di un osservatore superficiale ed ingenuo; la ragione ci deve essere e deve avere un grande significato.
Lasciamo da parte — lo ripeto — le questioni storiche, le questioni giuridiche, le questioni tecniche. L'onorevole Orlando — e qualcuno si è azzardato a dire che questa è stata una malizia cui il grande parlamentare è ricorso — si trincerò dietro il tecnicismo e disse che questa non era materia giuridica, materia di Costituzione. No! queste sono eccezioni che dobbiamo superare. Poco ci interessano: è la sostanza che ci interessa. Noi ci chiediamo: a che cosa mira questa disposizione? Essa dice: «I loro rapporti — cioè fra lo Stato e la Chiesa cattolica — sono regolati dai Patti Lateranensi». Se ci fosse l'avverbio «attualmente» si sarebbe tutti d'accordo, perché — ripeto — questa è una realtà storica. Ma poi si aggiunge: «Qualsiasi modificazione dei Patti bilateralmente accettata non richiede procedimento di revisione costituzionale». Qui è ammirevole la forma, perché chi si avvicini per la prima volta a questa parte dell'articolo ha quasi l'impressione che sia una disposizione più a favore dello Stato, che della Santa Sede. Dicendo: «qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede», ecc. ecc. sembra si tratti di una concessione, di una facilitazione a modificare i Patti.
Tupini. Comunque, questa seconda parte non è mia; la prima si.
Targetti. Ma meritava di esserlo anche la seconda, perché è piena di significato e di conseguenze; è un capolavoro. (Approvazioni a sinistra).
Ma io domando ai colleghi che cosa significhi questo? Significa che i Patti Lateranensi sono e rimangono quello che sono, che se si trova un accordo fra lo Stato e la Santa Sede allora — bella forza! — si possono modificare come si vuole. Siamo d'accordo. Questa è l'ipotesi della volontà bilaterale. Ma se questo accordo non si trova? Eh, caro mio collega Dossetti, se si trattasse soltanto di aprire le braccia come ella fa, poco male. Ma per arrivare a qualsiasi modificazione, a qualsiasi ritocco, qualsiasi correzione, pensi, pensi l'Assemblea a quale cammino si dovrebbe fare. Eppure di ritocchi, di correzioni, in senso opposto sia pure, anche l'on. Jacini ieri ammise che ce ne fosse bisogno. L'onorevole Jacini non è d'accordo che se la nomina dei Vescovi, degli Arcivescovi, non è più sottoposta all'«exequatur», debba essere, in fondo in fondo, di gradimento dello Stato. Non è d'avviso che gli ecclesiastici siano esclusi dalla vita politica. Una esclusione, onorevole Jacini, più di forma che di sostanza. Un sacerdote non si può iscrivere alla democrazia cristiana; ma, che da questo si desuma che nessun sacerdote vive la vita della democrazia cristiana e non agisce nell'orbita del Partito democratico cristiano il passo è un po' lungo, tanto lungo che è un po' difficile farlo. Comunque, qualsiasi modificazione, in conseguenza di quest'articolo 5 attraverso una legge di revisione costituzionale. L'Assemblea mi insegna che la revisione costituzionale non si può fare che attraverso una legge approvata da tutti e due i rami del Parlamento, in due letture e fra l'una e l'altra lettura deve correre un intervallo non minore di tre mesi ed in seconda lettura, la legge deve riportare la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna Camera. Ma, quando si sia arrivati in fondo a questo lungo cammino, basta che un quinto dei componenti della prima e della seconda Camera lo richieda, e questa legge di revisione della Costituzione dovrà essere sottoposta a referendum popolare. Questo che cosa significa? Questa difficoltà di revisione di qualsiasi parte, di qualsiasi articolo della Costituzione, quali conseguenze porta, o, meglio, che cosa impone? Che nella Costituzione non si collochino principî, norme che valgano soltanto per oggi e neppure soltanto per domani o domani l'altro.
Ciò che oggi noi nella Costituzione affermiamo o neghiamo, deve valere, come comando o come divieto, od almeno come direttiva anche per un lontano domani. Si deve, quanto meno, presumere che valga. Ed allora, colleghi della democrazia cristiana, voi che non siete la maggioranza in questa Assemblea, come potete pretendere di inserire nella Costituzione una norma che impedisca qualsiasi modificazione dei Patti lateranensi? Mi dispiace che la lancetta dell'orologio mi ricordi il dovere che io ho di concludere per non trasgredire una regola che abbiamo fissata, tutti d'accordo, allo scopo di non prolungare eccessivamente queste nostre discussioni.
È certo che va fatta una distinzione fondamentale fra il Trattato ed il Concordato. Fra la portata dell'uno e quella dell'altro. Ma l'onorevole Togliatti ha ragione quando dice, a proposito del Trattato, che l'articolo 1° fa rivivere l'articolo 1° dello Statuto Albertino. Ha ragione di dolersi di ciò anche se non è perfettamente esatto dire che sia senza altro travasato nella Costituzione attraverso l'articolo 5, l'articolo 1° dello Statuto. C'è una differenza. È vero che con quell'articolo 1° si attribuisce allo Stato italiano una specie di religione di Stato; ma, mentre nello Statuto Albertino si dice delle altre religioni che sono tollerate, ciò non è ripetuto nell'articolo 1° del Trattato.
Togliatti. Può essere anche peggiore.
Targetti. Comunque sia, e dovendo affrettarmi alla conclusione, io sono costretto a limitarmi a ricordare all'Assemblea che nel Concordato esistono norme le quali contrastano in pieno con principî solennemente affermati dal nostro Progetto di Costituzione, norme che qui sono già state ricordate. Questo contrasto è così innegabile e forte che, a quanto ricordo, lo stesso onorevole Dossetti (non so se gli si fa del bene o del male a ricordarlo come esempio di una grande comprensione in alcuni campi), non sia stato dei più contrari a riconoscere nella prima Sottocommissione che qualche ritocco sia necessario. Certamente l'onorevole Merlin deve averlo convenuto, se non altro, relativamente a quell'articolo 5, al quale non ha certo dato buona fama il doloroso episodio Bonaiuti. Noi non possiamo oggi parlare della questione della scuola, cioè dell'azione, che spetta allo Stato, alla Repubblica, in questo campo. Ma, egregi colleghi democristiani, mettetevi una mano sulla coscienza e diteci se, al nostro posto, voi potreste mai accedere ad una proposta di legge che tramandi ai posteri questo principio stabilito nell'articolo 36:
«L'Italia considera fondamento è coronamento dell'istruzione pubblica l'insegnamento della dottrina cristiana», e si aggiunge: «secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica». Eppoi si aggiungono le norme regolatrici di questo insegnamento, per le quali l'autorità ecclesiastica entra in pieno nella scuola dello Stato. Tutto ed a parte la questione della giurisdizione matrimoniale, che non può certamente considerarsi sepolta. Egregi colleghi, noi non diciamo cose non vere quando diciamo che è lontana da noi l'idea di creare motivi, pretesti per una discordia religiosa.
Io, del resto, sono dell'opinione che questa famosa pace religiosa, che si dice conquistata nel 1929, non sia mai stata neppure antecedentemente turbata. Intendo turbamento della pace religiosa un impedimento od almeno una limitazione dell'esercizio del culto, intendo episodi di contrasti religiosi. Ma questo non si è verificato neppure a questione romana aperta, neppure prima che la Santa Sede riconoscesse Roma capitale d'Italia.
Comunque, voi sapete che è un atteggiamento ufficiale del Partito socialista, confermato recentemente qui dall'onorevole Nenni come anche del Partito comunista questo: di non fare niente che possa turbare questa pace religiosa.
Monterisi. Allora, perché ve ne preoccupate tanto?
Targetti. Questa volta mi azzardo a dire che è il collega interruttore che non ha compreso o non vuol comprendere. Noi diciamo chiaramente che non possiamo accettare di essere vincolati ad eternare includendoli nella Costituzione, questi determinati rapporti fra la Chiesa e lo Stato. Rivedremo questi rapporti al momento opportuno; ci metteremo tutti la migliore buona volontà per raggiungere un'intesa sulle modificazioni, gli aggiornamenti da apportarvi. Non mercanteggiando, ma comprendendoci a vicenda. Ma intanto nessuno può pretendere che noi, col nostro modo di pensare, di sentire, di considerare la vita e il mondo, non voglio dire con la nostra filosofia, per non adoperare parole troppo grosse, si sottoscriva, come se corrispondesse alle nostre convinzioni, ciò che non pensiamo, ciò che va contro le nostre convinzioni.
Noi che abbiamo un grande rispetto per la vostra fede ci limitiamo a chiedere eguale rispetto per quella che, se non è una fede religiosa è una convinzione, un'idea di cui siamo gelosi quanto lo siete voi delle vostre credenze.
L'onorevole Marchesi vi diceva: «Concedeteci, ammettete che anche senza una fede religiosa si può vivere onestamente».
Una vece a destra. Vi sia concesso!
Targetti. Io aggiungo che non solo si può vivere onestamente senza nessuna fede religiosa; ma si può essere anche capaci dei più grandi sacrifici, dei più puri eroismi, come tanti dei nostri fratelli hanno dimostrato, lottando, cadendo per il socialismo, per la libertà.
Una voce a destra. Concesso anche questo!
Targetti. Questo va riconosciuto, onorevole interruttore, e non concesso. E non ci sembra di pretendere troppo, onorevoli colleghi della democrazia cristiana, se vi chiediamo di riconoscere parità di diritto alla difesa ed al rispetto delle proprie idee anche a quanti, come noi, non riescono a vedere nella volta celeste, che stelle, stelle e stelle. (Vivi applausi a sinistra — Congratulazioni).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Giordani. Ne ha facoltà.
Giordani. Onorevoli colleghi. L'onorevole Targetti ha detto benissimo che il dibattito sui rapporti fra Chiesa e Stato, in questa Assemblea, è stato veramente degno dell'alto argomento, e si può dire che l'altezza del tema ha tratto quasi tutti gli oratori al livello di essa. L'Assemblea ha scritto una degna pagina su questo punto.
In fondo, noi ancora una volta siamo portati ad esaminare un problema che ha appassionato la coscienza dell'umanità da 20 secoli.
Prima questo problema non esisteva; prima, come è stato detto da uno studioso — Fustel de Coulanges — lo Stato era clericale: era Stato e Chiesa nello stesso tempo. Infatti Giulio Cesare era dittatore politico e Pontefice massimo.
E ancora l'anno scorso, il Mikado impersonava la suprema autorità politica e religiosa del Giappone.
È nata col Cristianesimo la distinzione fra la sfera di Cesare e quella di Dio. La distinzione porta conseguenze drammatiche ed ha prodotto una delle forze dinamiche più poderose della storia umana. Difatti, questa distinzione della sfera di Cesare da quella di Dio, significa che la sfera di Cesare non è più totalitaria, non comprende più tutta la vita dell'uomo, ma soltanto una parte di essa.
Nasce così la libertà morale. In questo senso, volevo dire, lo Stato laico, lo Stato cioè distinto dalla Chiesa, è una conquista cristiana. E badate che non è soltanto accorgimento polemico o apologetico. Lo dicevano due anni fa i vescovi francesi che se per laicismo si comprende questo, un tale laicismo lo accettiamo anche noi cattolici.
Ieri l'onorevole Rossi Paolo, citava un articolo sul Popolo, che diceva appunto questo; ma io lo trovo affermato anche su un documento che potrei chiamare ufficiale, un quaderno intitolato La Chiesa, edito dall'Istituto cattolico di attività sociale, l'I.C.A.S., dove è detto: «Molti tuttavia sono tornati a richiedere lo Stato laico e nello stesso tempo assumono di volere assicurare il rispetto alla concordia. In questa concezione, lo Stato laico sarebbe quasi sinonimo, che non subisce l'influenza della Chiesa, e se i suoi sostenitori fossero in buona fede, anche i cattolici potrebbero sostenere tale nuova coniazione di concetti».
Io ritengo che i sostenitori siano in buona fede e quindi possiamo sostenere tale nuova coniazione di concetti.
La definizione del problema fra Chiesa e Stato è veramente ardua. Questi rapporti si possono risolvere o nell'accordo o naturalmente nel disaccordo. L'accordo favorisce quella pace spirituale, quella pace interiore che ha formato la grandezza dell'Italia.
Nei tempi più felici l'Italia aveva il popolo che godeva della pace religiosa e politica, cioè che non conosceva il contrasto fra le due attività.
Il disaccordo invece, danneggia tanto la Chiesa quanto lo Stato, perché se le due società sono indipendenti, come è detto giustamente nell'articolo 5 del progetto, però i loro rapporti vanno regolati tenendo presente che cosa significhi Chiesa e che cosa significhi Stato. Qui veramente vorrei introdurre una concezione democratica che manda un po' per aria le concezioni giurisdizionalistiche che ancora sopravvivono e che tuttora impediscono di vedere nella sua vera realtà il problema, perché si pensa che la Chiesa sia qualche cosa al di fuori di noi. Si vede soltanto la Curia, il Vaticano, i vescovi. Certo, anche questi sono la Chiesa: anzi sono le basi della Chiesa; ma nessun edificio consiste solo nelle basi. La Chiesa, come diceva al suo popolo di africani Sant'Agostino di Ippona, la Chiesa siamo noi. Ciascuno di noi è cittadino ed è credente; in quanto cittadino, potremmo dire, è Stato; in quanto credente, è Chiesa; sicché siamo la stessa persona su cui si esercitano le due attività. Ed allora il problema si risolve, se si risolve dentro la coscienza di ciascuno di noi. Non vale fare delle leggi esterne e degli istituti esterni, se poi si lasciano il dissidio e l'incertezza nel nostro spirito. Quindi la risoluzione va ricercata nel popolo cristiano, il quale è, secondo San Paolo, la Chiesa. La Chiesa non è altro che il popolo sovrano, o, come allora egli lo chiamò, «il popolo regale». Ed allora si vede che la difficoltà dell'accordo e del disaccordo sta appunto nella possibilità di trovare questa conciliazione dentro la coscienza dei cittadini.
Il disaccordo porta a varie soluzioni.
La prima è quella per cui lo Stato ignora la religione del cittadino. Che lo Stato ignori la religione del cittadino significa che io cittadino ignoro me credente. È un assurdo e lo diceva bene Mazzini in quella prefazione al suo libretto Dei doveri che scrisse per i lavoratori, ed in cui spiegava come sia impossibile separare in questo senso l'attività politica e l'attività sociale dalla concezione filosofica e ideologica del popolo.
«Quando andate da un affittacamere» diceva Chesterton «non domandategli il prezzo della camera, ma domandate la sua concezione dell'universo. Da quella dipende il prezzo della camera». Noi siamo cittadini e credenti nello stesso tempo e non possiamo separarci da noi stessi. Ciascuno di noi non può essere vivisezionato in due parti: una parte naturalmente reagisce sull'altra; una parte non può ignorare l'altra. Io, quando esco di casa, non posso lasciare all'attaccapanni la mia coscienza di cristiano.
La seconda soluzione è, potremmo dire, la soluzione stupida, cioè la persecuzione. Tante volte lo Stato ha tentato di liberarsi da questo problema perseguitando la Chiesa! Ma perseguitare la Chiesa significa perseguitare i propri cittadini battezzati, cioè significa in sostanza svenare il proprio organismo sociale. È un atto di emorragia che si pratica al proprio organismo sociale, e difatti ogni persecuzione si risolve non soltanto in danno della Chiesa, ma anche e sopratutto dello Stato, e si arriva sempre al punto che questo Stato deve fare macchina indietro.
La terza soluzione, e questa è la più scaltra, consiste nel crearsi una Chiesa ancella, una Chiesa fatta a libito e servizio dello Stato. Questo è stato tentato in Oriente.
C'è quel bellissimo libro dello scrittore russo Soloviev, stampato a Parigi, perché la censura di Mosca non ne permise la stampa a Mosca, La Russie et l'Eglise universelle, che spiega come tutte le eresie in Oriente nascessero nella Corte imperiale, dove i sovrani si mettevano a teologizzare, come facevano i nostri sovrani giurisdizionalisti, non per il gusto della religione, ma per il desiderio di rendersi indipendenti dalla morale religiosa; perché quella morale che era di non rubare, non uccidere, risultava, incomoda moltissimo ai tiranni.
Ed allora, in Oriente, tutte le eresie — alle volte contemporaneamente due eresie contraddittorie nello stesso tempo — furono manipolate nella Corte imperiale, cioè al centro della politica. E questo avvenne finché non si riuscì a separarsi da Roma. Separatosi l'Oriente da Roma, non ci fu più bisogno di manipolare eresie. Qualcosa di simile successe per i principi germanici nel secolo XVI.
L'Italia non fece questo, perché non poteva separarsi dalla matrice, non voleva separarsi da Roma; l'Italia, anzi, fu la nazione più fedele all'idea cattolica, quindi all'idea della distinzione tra Chiesa e Stato.
In Italia, il problema dei rapporti è estremamente facile e, nello stesso tempo, estremamente difficile. È estremamente facile, onorevole Targetti, perché la grande maggioranza del popolo italiano è cattolica. Guardate i censimenti, anche anteriori al fascismo, e voi trovate il 97 per cento circa di cattolici. In democrazia, la maggioranza significa qualcosa; cioè il popolo cattolico, che ha la maggioranza, vuole una sua pace religiosa, ha bisogno di una sua pace religiosa. Non concederla, non realizzarla, significa fare il danno di questa grande maggioranza.
Ma, il problema è per noi anche estremamente difficile e delicato, perché ci troviamo nelle condizioni di albergare una capitale politica che è anche la capitale del mondo cattolico, che è la capitale considerata tale da 300, 400 milioni di esseri; quella città, la quale, come ricordava ieri l'onorevole Rossi, era considerata da quel pellegrino che veniva a farsi macinare a Roma, come frumento, dalle tigri nel secolo II, come la città che ha la presidenza dell'amore. E l'amore è anti-limite, l'amore è quello che ci obbliga a superare di continuo anche i particolarismi di razza, i particolarismi di casta ed i particolarismi di nazione. Quindi, vedete quale problema grave devono risolvere il popolo italiano ed il Governo italiano.
Ma non basta. Questa capitale del mondo cattolico contiene uno staterello, il più piccolo Stato del mondo, che ospita la più grande autorità spirituale del mondo. Quindi, ci si pone sempre questo problema: conciliare il particolarismo, gli interessi nazionali, con gli interessi supernazionali religiosi, mantenere d'accordo queste due funzioni che spesse volte vanno in disaccordo.
Il capo di questo Stato piccolissimo, che è albergato dentro Roma, è un sovrano: è il Papa, che è un sovrano indipendente, ma non straniero, come qualcuno pensa; e non è straniero, non soltanto perché da 400 anni i Papi sono sempre italiani, e magari romani, ma non è straniero per il fatto che questo sovrano è vescovo di Roma, è il primate d'Italia. Quindi, è cosa nostra, appartiene alla nostra comunità, virtualmente è il nostro Capo. Arduo problema, quindi, che è stato assegnato al popolo, italiano, e i medioevali avrebbero detto per una ragione provvidenziale, grandissima, perché il popolo italiano più di qualunque altro possiede il senso della universalità.
Lo diceva una rivista francese L'Esprit, all'epoca dell'elezione dell'ultimo Papa. Ai francesi diceva: Non vi sorprendete se i Papi sono italiani; lo sono perché il Papa è il Vescovo di Roma, ma lo sono soprattutto perché nessun popolo come l'italiano è capace di accogliere e di difendere il sentimento dell'universalità. In questo senso il popolo nostro è erede dell'antica Roma che, pure nella razionalità pagana, già realizzò quel magistero cosmopolita che fu proprio degli stoici.
Bisogna riconoscere che il mondo cattolico attorno a noi, col quale noi siamo intimamente legati, perché questo mondo cattolico guarda di continuo a Roma, ha capito e apprezza questa funzione, questa sensibilità del popolo italiano. Io credo che nessuno vorrebbe che la Santa Sede fosse al di fuori dell'Italia, perché ritiene che nessun popolo come il popolo italiano ne sappia fare la più accorta, la più prudente, la più intelligente difesa esterna.
Per tutti questi motivi, quando nel 1870 si produsse la frattura fra lo Stato e la Chiesa, si creò un disagio nello spirito degli italiani e nello spirito dei cattolici di tutto il mondo, disagio che la legge delle guarentigie cercò di risolvere. Badate che la legge delle guarentigie, come ha detto ieri l'onorevole Jacini, è stata una grande legge, la quale tra l'altro permise ai Conclavi di tenersi in tutta libertà. Ma era un atto unilaterale e quindi non poteva sussistere, e quindi sopravvisse il disagio e sopravvisse la speculazione su quel disagio, speculazione all'interno, ma speculazione soprattutto all'esterno.
Ieri c'è stato raccontato come anche nel Gabinetto della Maestà apostolica di Francesco Giuseppe fosse preparato un disegno di legge con un progetto di Stato in miniatura per la città del Vaticano. Ma ricordate che un disegno simile voi lo potevate trovare anche nei cassetti di Presidenti di Repubbliche laiche, perché quando si trattava di mettere gli occhi nelle cose nostre e di inserire possibilmente un'azione nociva nelle cose italiane, tutti quanti si pareggiavano. Questo era un problema grave, ma il grave e l'importante, onorevole Rossi, non è che ci fosse della gente che pensasse di intervenire in Italia per risolvere la questione romana, l'importante è che il Papa non volle mai questo intervento, non volle mai saperne di questi progetti e li respinse tutti, perché la Santa Sede voleva la risoluzione del problema dalla coscienza libera del popolo italiano e tanto aspettò fino a che questo non avvenne e fu il popolo italiano che risolse la questione romana. (Applausi al centro — Interruzione dell'onorevole Tonello).
E qui ha ragione l'onorevole Marchesi, il quale ha detto che la risoluzione della questione romana si poté avere perché finalmente le classi popolari espulsero quella egemonia che aveva conquistato quella borghesia volterriana e anticlericale, la quale aveva arricchito i propri patrimoni domestici con la spoliazione delle chiese e dei monasteri ed arricchiva la propria posizione politica mediante la coltivazione del dissidio interno della nazione, e viveva anzi del dissidio della nazione. (Applausi al centro).
C'è stato bene spiegato come si addivenisse alla conclusione della Conciliazione: il tentativo di Nitti e il tentativo di Orlando; e veramente la Conciliazione era matura negli spiriti quando venne Mussolini, che colse il frutto maturato dall'albero, maturato nella coscienza del popolo italiano. Mussolini lo fece per aggiungere al proprio prestigio e al proprio regime un'aureola la quale sapeva, dalle dichiarazioni di Cavour e di Crispi, quanto sarebbe stato grande; e difatti gli giovò enormemente presso le Nazioni estere. Sennonché, incostante com'era, si affrettò a sciupare colle sue mani questo prestigio; e difatti si può dire che il conflitto ideale, il conflitto di principio tra fascismo e cattolicesimo, tra totalitarismo e cattolicesimo cominciò all'indomani della Conciliazione. Già c'era prima, ma l'urto, che portò quasi alla rottura nel 1931, fu all'indomani della Conciliazione.
Questa Conciliazione comporta, come sapete bene, un Trattato ed un Concordato.
Il Trattato si riferisce al territorio; un territorio così piccolo, che potremmo definirlo un territorio simbolico, come il corpo di San Francesco; così piccolo, che — l'abbiamo visto nei cinque anni di guerra — costituisce un vero blocco attorno all'azione del Papato; tanto che per cinque anni il Papa non ha potuto comunicare coi vescovi e coi popoli cattolici, quasi non ha potuto ricevere nessuno dei rappresentanti dei popoli che erano in conflitto con l'Italia; così piccolo, che non c'è neppure un campo di atterraggio per aeroplani stranieri.
Non solo; ma, per riguardo all'Italia, in quei cinque anni il Papato, la Santa Sede non partecipò a nessun genere di convegni internazionali, neppure culturali, per non parere di compromettere la posizione dell'Italia. Aspettò.
Sennonché il Papa — lo sapete — non fa questione di territorio. La sua difesa non sta nell'estensione del territorio o nelle mura del Vaticano e neanche in quel cannone di stagno, che serve solo a tenere una gabbia con un canarino; sta in quel baluardo costituito dalla simpatia, dall'onestà, dalla coscienza del popolo italiano. Il baluardo del Papato, della Città del Vaticano è la coscienza del popolo italiano. Ma questa coscienza il Papa vuole salvata, custodita, ed ecco il Concordato, che fa parte integrante ed è completamento necessario del Trattato; appunto perché raggiunge questa difesa della sua indipendenza e della sua sovranità, che territorialmente non è raggiunta.
Ora, il problema che si pone è questo: questo Trattato e questo Concordato devono essere inseriti nella Costituzione?
O meglio ancora: avendoli la Sottocommissione e la Commissione dei Settantacinque inseriti già nel progetto di Costituzione, dobbiamo oggi noi toglierli?
La risoluzione di questo problema ci lascia molto tranquilli, perché su tutti i settori dell'Assemblea è stata affermata la volontà di pace religiosa. Questa volontà, a mio parere, è uno degli elementi di fortezza maggiore della nuova Repubblica italiana; se la sapremo mantenere, nascerà dalla pace religiosa ogni forma di solidarietà, di cooperazione, anche nel campo politico, anche nel campo sociale!
Da lì partono per noi tutte le energie, che muovono la ricostruzione.
Ora, noi desideriamo che questa pace in nessun modo si turbi; e perché non si turbi, riteniamo che sia meglio non toccare niente o — come diceva l'onorevole Tupini — quieta non movere.
Questa costruzione, che il genio politico degli italiani ha preparata, è così delicata, ci è costata tante lagrime e tanta fatica, che oggi il toccarla, il comprometterla significa veramente sciupare un capolavoro e non si capisce a beneficio di chi, sé non dei re di... Prussia.
Perché noi vogliamo inserire i Patti Lateranensi nella Costituzione? Perché vogliamo affermare la loro enorme ed unica importanza di Patti internazionali. Non si tratta del solito Trattato fra due potenze, fra due sovrani. Quando si fa un Trattato col Presidente di una Repubblica d'America, al popolo interessa ben poco sapere come si chiami il Capo di questa Repubblica e che vita faccia. Ne ignora forse anche il nome e non se ne cura; è cosa estranea alla sua coscienza. Ma qui il Trattato è stato concluso con un Capo che è il Capo spirituale della nostra religione, che è il fondamento della nostra Chiesa, e nel quale s'impernia tutta l'autorità e il prestigio della nostra fede. È dunque qualcosa di unico. Non si tratta qui di interessi economici pattuiti fra due Stati, ma dei più alti interessi spirituali che hanno trovato la loro sistemazione; sistemazione che non riguarda soltanto noi in Italia, ma i cattolici di tutto il mondo.
Ecco perché noi vogliamo che questi Patti siano consacrati in un documento che ne affermi la solennità, l'unicità e la stabilità. Perché se noi oggi, amici miei, cominciassimo con l'estrometterli dal progetto di Costituzione, noi li indeboliremmo, e questo è il primo risultato che se ne avrebbe.
Guardiamo le cose sotto l'aspetto dell'interesse politico: se noi oggi ripudiassimo il progetto che ci è stato offerto dalla Commissione, si verrebbe a dire che questi Patti si sono, per la strada, indeboliti, e che la loro stabilità oscilla. Il popolo non si potrebbe sottrarre a questa impressione, che già a 15 o 16 anni di distanza si pensi a modificarli, quasi che tutta quella stabilità sia per tramontare.
Quindi, alla stregua di questa esigenza fondamentale, tutti i dubbi che sono stati sollevati, tutte le perplessità a cui accennava adesso l'onorevole Targetti e il tecnicismo a cui accennava l'onorevole Orlando, hanno una importanza subordinata.
Noi vogliamo contemplarli sotto l'aspetto dell'interesse politico. Per il popolo italiano oggi conviene quieta non movere, conviene lasciare che il Trattato e il Concordato siano là dove li ha messi la Commissione. E badate, anche la legge delle guarentigie, per gli stessi motivi, fu dal Consiglio di Stato in Italia, il 2 marzo 1878, «qualificata come legge fondamentale dello Stato». E si trattava di una legge unilaterale, di una cosa molto al disotto dei Patti lateranensi.
Noi, nell'interesse del popolo, per una ragione soprattutto democratica, chiediamo la consacrazione nella Costituzione di questi documenti. Questo è l'importante.
Per il resto si sono fatte critiche ad alcuni articoli. Ma sappiamo che c'è la valvola della revisione o di «qualsiasi modificazione bilateralmente accettata». E noi conosciamo dall'esperienza quanto generosa ed indulgente sia la Chiesa nell'accedere ad istanze ragionevoli.
Non parliamo di menomazione di libertà per nessuna minoranza, perché io ho fatto un raffronto nel mio giornale, da cui risulta che non c'è paese d'Europa in cui regni una libertà religiosa così ampia come in Italia. Vi raccontavo come neppure in Isvizzera, neppure nei paesi scandinavi si faccia ai cattolici il trattamento che qui si fa alle altre religioni. Qui c'è piena libertà per tutti; quindi cerchiamo di tener presenti le conseguenze rovinose che verrebbero oggi dal ripudio di questa inserzione. E, badate, io sono sicuro — e lo sappiamo ormai dalla storia — che la Santa Sede non dà nessun peso alle rimostranze dei cattolici esteri; ma noi sappiamo che queste sono noiose e nocive, perché la politica è fatta anche delle simpatie dei popoli: se infatti vi sono negli altri Paesi dei nuclei che dubitano della nostra serietà nel trattare il problema delicatissimo dei rapporti tra Chiesa e Stato e nel proteggere il Papato nell'esercizio delle sue funzioni, questo rappresenta un danno anche alla nostra politica che noi dobbiamo eliminare.
Veramente la Conciliazione ci ha procurato simpatie dappertutto; il che, in politica, significa anche aiuti economici. Teniamone conto. Questa è la politica: fare l'interesse del popolo, facendo anche qualche sacrificio ideologico.
Per tutte queste ragioni, sarebbe bene che questa Assemblea dichiarasse solennemente di nuovo di voler consacrare questa Conciliazione, conferendole il crisma democratico e repubblicano. La Conciliazione porta la firma di Mussolini, porta la firma della monarchia decaduta; ebbene, noi, inserendola nella Costituzione, la facciamo democratica e repubblicana.
Una voce a sinistra. Meno male!
Giordani. Questa democraticità cui alludo nasce proprio dalle scaturigini della nostra fede. Oggi c'è anche nei settori protestanti un risveglio di quello che si chiama Sensus ecclesiae: il senso della Chiesa, come popolo che agisce nel campo dello spirito. Orbene, questo avviene in Italia; e il popolo agisce nella concordia e nell'unità, con enormi frutti e benefici nella politica stessa.
I Patti lateranensi consacrarono e saldarono l'unità politica in Italia. L'onorevole Togliatti tiene molto a questa unità del popolo italiano: ebbene, su quale base noi possiamo fondarla meglio, che sulla base religiosa? Specialmente in questo momento, che stiamo attraversando, di enorme crisi, noi abbiamo bisogno di ciò per creare gli istituti della nuova repubblica, per creare e per operare quelle riforme sociali che saranno possibili soltanto in uno stato di euforica concordia. Questo si farà, se noi considereremo definitivamente chiusa questa partita con i Patti lateranensi del 1929, conferendo ad essi quella consacrazione che la coscienza cattolica detta.
L'altro ieri, l'onorevole Marchesi ha detto così belle cose sulla concordia, che veramente commuovono. E allora io mi domando: perché dobbiamo sciupare questa concordia? Perché dobbiamo sciuparla in un punto così delicato? Qui non si parla più della Democrazia cristiana, ma di un interesse che sta a cuore ai cattolici di tutta l'Italia.
Si direbbe veramente che questo riavvicinarsi al tema religioso abbia irradiato su di noi un senso di fraternità dal quale molto c'è da sperare. Io credo che un riconoscimento simile conferirà all'Italia un nuovo prestigio dentro e nuovo prestigio fuori. Tra l'altro io credo che aiuterà a conquistare alla Repubblica italiana anche vari gruppi di monarchici, per esempio quei monarchici, i quali fino al 1929 erano contro i Savoia, proprio per causa della questione romana, e dopo si convertirono ai Savoia per la risoluzione della questione romana.
Con queste ragioni, Roma, sotto un duplice aspetto, per l'impulso di una doppia corrente, avrà le forze per concorrere, nell'ordine delle idee più che in quello delle potenze economico-politiche, alla creazione di un'Europa pacifica, dove, muovendo guerra alla guerra, superando i nazionalismi, si realizzi il primo atto della fondazione di quella che è stata vaticinata come la nuova cristianità giuridica dell'avvenire. E questo attraverso la trasformazione, di cui parla il Profeta, delle armi omicide in utensili di fecondo lavoro. (Vivi applausi — Molte congratulazioni).
[...]
Presidente Terracini. Riprendiamo la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l'onorevole Ravagnan. Ne ha facoltà.
Ravagnan. Onorevoli colleghi, mi propongo di svolgere davanti a voi succintamente la materia che è contenuta negli articoli 6 e 7 del progetto della nostra Costituzione. È una materia che è in connessione diretta, a mio modo di vedere, con l'articolo 1.
Qual è il contenuto fondamentale degli articoli 6 e 7? Mi sembra che essi contengano tre elementi essenziali:
1°) Essi riconoscono e riaffermano quelli che si conviene di chiamare i diritti di libertà, già sanciti nelle varie Costituzioni dell'800, aggiungendo a questi il riconoscimento di quelli che conveniamo di chiamare i diritti economici e sociali;
2°) Questi diritti di libertà e diritti economici e sociali non sono soltanto riconosciuti al singolo, ma anche alle formazioni sociali nelle quali gli individui sviluppano e perfezionano la loro personalità;
3°) Non solo è dato questo riconoscimento, ma è data la garanzia dell'effettivo godimento di questi diritti, cioè la garanzia della rimozione degli ostacoli che si frappongono al libero godimento dei diritti di libertà e dei diritti economici e sociali.
Un primo problema si pone a questo punto, ed è stato sollevato da parecchi oratori che mi hanno preceduto, ossia: è necessario che nella Costituzione, accanto ai tradizionali diritti di libertà, si riconoscano ai cittadini anche i diritti economici e sociali? Alcuni colleghi hanno proposto che i diritti di libertà vengano, come è logico, riconosciuti, ma che i diritti economici e sociali vengano confinati e relegati in un preambolo.
Io affermo che non è possibile, allo stato attuale dello sviluppo storico della società, di tornare indietro e negare la evoluzione che la società moderna ha compiuto dal 1789 ad oggi è nella coscienza universale, nella coscienza di tutti, il riconoscimento di questa situazione di fatto: che, per poter affermare la democrazia, per poter far sì che i diritti politici e le libertà politiche siano effettive, nella loro realtà, e non solo nella forma, è necessario che a tutti i cittadini siano riconosciuti i diritti economici e sociali che la nostra Costituzione elenca nel prosieguo degli articoli.
Già ai principî del secolo scorso i più avveduti, i più profondi pensatori, mentre riconoscevano che il nuovo Stato moderno, con l'affermazione, dell'uguaglianza politica di tutti i cittadini e con la libertà riconosciuta a tutti i cittadini, aveva fatto compiere alla società un grandissimo passo in avanti e che questa era la premessa del grandissimo sviluppo delle forze produttive, riconoscevano che, esistendo delle disuguaglianze sociali, la libertà, in fondo, non sarebbe stata che libertà delle classi possidenti di sviluppare liberamente la concorrenza fra di esse. Il movimento della concorrenza ha creato il monopolio e le classi lavoratrici hanno continuato, ad aspirare alla loro libertà politica, lottando per la rimozione degli ostacoli economici che impedivano il raggiungimento da parte loro — nella effettività, nella realtà — dell'uguaglianza e della libertà politica.
Le lotte sociali che hanno percorso tutto il secolo passato e che si ripercuotono ai nostri giorni, in fondo non costituivano e non avevano per scopo se non la conquista effettiva dell'uguaglianza e della libertà politica. Se noi guardiamo che cosa fu, in fin dei conti, che significato, che carattere ebbe l'avvento al potere del fascismo, noi possiamo constatare oggi la cecità degli uomini politici e delle classi dirigenti, che diedero torto ai lavoratori nel loro sforzo, nella loro lotta per raggiungere una effettiva libertà ed uguaglianza politica, e praticamente diedero ragione, fecero trionfare e vincere coloro che, diventati monopolisti della produzione, integrarono il loro monopolio economico col loro monopolio politico ed instaurarono la dittatura fascista; liquidando cioè anche la libertà politica.
E se noi osserviamo ciò che avviene al giorno d'oggi, possiamo constatare che in molte plaghe d'Italia i lavoratori sono sottoposti ad ammonizione per il semplice fatto che essi aderiscono a partiti o ad organizzazioni che non sono di gradimento dei proprietari; cioè, essi sono impediti di realizzare la pienezza della loro partecipazione alla vita pubblica;
I monopoli e le industrie che hanno un carattere pubblico e generale, la cui estensione è diffusa su tutto il territorio nazionale e che sono in mani private, sono praticamente nelle condizioni di dettare leggi a tutti i cittadini; vi è quindi una disuguaglianza di fatto che si attua ed esiste fra la generalità dei cittadini e dei piccoli gruppi dominanti.
È chiaro, che noi non possiamo dire di poter instaurare l'uguaglianza, la perfetta uguaglianza, nel campo delle libertà politiche, finché queste disuguaglianze di fatto non saranno scomparse o non saranno per lo meno attenuate.
Quindi, se vogliamo che la nostra Costituzione abbia un carattere effettivamente moderno, aderente alla realtà attuale, se vogliamo che la democrazia non sia soltanto una democrazia formale, ma che sia effettiva, dobbiamo integrare il riconoscimento dei diritti di libertà con i diritti economici e sociali. Ne viene, come corollario, che non si tratta soltanto del riconoscimento, ma che è necessaria anche la garanzia epperciò gli articoli 6 e 7 giustamente affermano che è garantito l'esercizio dei diritti di libertà e dei diritti economici e sociali, prendendo lo Stato impegno di rimuovere gli ostacoli di carattere economico e sociale che si frappongono all'esercizio e al godimento di questi diritti.
Ora, coloro i quali sostengono che questa affermazione, che questo riconoscimento non hanno che un semplice carattere programmatico, errano, a mio modo di vedere, perché questa garanzia rappresenta, effettivamente, una norma costituzionale, ossia un impegno che il legislatore costituzionale affida al legislatore ordinario, quello di emanare leggi e disposizioni, le quali attuino questa garanzia e la rendano effettiva.
Ora, se noi siamo convinti, e, come io credo, se la grandissima maggioranza di questa Assemblea è convinta della necessità, della opportunità che solennemente la Carta costituzionale riconosca i diritti di libertà ed i diritti economici e sociali a tutti i cittadini, è logico che noi, definendo il carattere della Repubblica, dobbiamo definirlo francamente, correttamente una Repubblica democratica di lavoratori. Se ci limitassimo a definire semplicemente la Repubblica come una Repubblica democratica, metteremmo in ombra i diritti economici e sociali, cioè affermeremmo che la Repubblica non è altro che una Repubblica di democrazia formale, quale era lo Stato anteriore al fascismo.
Se vogliamo invece che i lavoratori siano ammessi nello Stato, che il lavoro abbia il primato nella Repubblica italiana, come deve essere in uno Stato moderno, è logico che in testa alla nostra Costituzione, noi francamente adottiamo la definizione di Repubblica democratica di lavoratori.
Le obiezioni mosse da taluni, cioè che questa definizione avrebbe un carattere restrittivo, ossia consacrerebbe una specie di privilegio di una parte dei cittadini soltanto, sono obiezioni che non reggono, poiché l'articolo 7, al primo comma, stabilisce l'eguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione né di sesso, né di razza, né di nazionalità, né di condizioni economiche, né di opinioni politiche e religiose. Ecco quindi che questa definizione di Repubblica democratica di lavoratori non contiene né di più, né di meno di ciò che deve contenere e corrisponde al senso ed ai concetti fondamentali che ispirano gli articoli 6 e 7.
Vi è un problema secondario che, secondo me, deve essere anche risolto, quello di vedere se la formulazione degli articoli 6 e 7 corrisponda effettivamente ai concetti che la Commissione ha creduto di introdurre, e che, secondo noi, sono giusti, ai concetti cioè della dichiarazione del riconoscimento dei diritti di libertà e dei diritti economici e sociali e della loro garanzia.
E qui è da rilevare, come già è stato rilevato dall'onorevole Togliatti nel suo precedente discorso, che fra il testo della prima Sottocommissione ed il testo del progetto che ci è presentato è occorso un processo di levigazione, vi è stato una specie di laminatoio, io penso, che ha operato sopra questo testo, nel senso che il rilievo è stato perduto o è stato attenuato. Io domanderei agli onorevoli colleghi di confrontare il testo degli articoli 6 e 7 come è stato redatto dalla prima Sottocommissione con il testo del progetto. Questo afferma che la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui e alle formazioni sociali; il testo della prima Sottocommissione dice: «riconosce e garantisce i diritti dell'uomo sia come singolo, sia nelle forme sociali nelle quali esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona».
Mi pare che sia più corretto il testo della prima Sottocommissione.
Nell'articolo 7 — testo del progetto — è detto: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d'ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana»; mentre il testo della prima Sottocommissione è il seguente: «È compito della società e dello Stato eliminare gli ostacoli di ordine economico o sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana ed il suo completo sviluppo».
Io penso che sia più corretto, nel senso e nella forma, il testo della prima Sottocommissione che non il testo del progetto che ci è presentato, ed a questo proposito noi ci riserviamo di presentare le opportune proposte di emendamento in sede di discussione degli articoli.
Onorevoli colleghi, io sono convinto — e credo che il maggior numero di noi sia convinto — che questi articoli contenuti nelle disposizioni preliminari costituiscano l'essenza e la caratteristica fondamentale della nostra Costituzione. Essi, se, come noi speriamo, saranno approvati, daranno effettivamente alla nostra Costituzione il carattere di una Costituzione moderna, di una Costituzione corrispondente all'attuale stadio di svolgimento della società.
Credo che la nostra Costituzione, inspirata a questi principî, avrà non soltanto un altissimo valore di carattere interno, nel senso cioè che mentre nel passato, sotto la vecchia Costituzione, i lavoratori, le masse lavoratrici erano fuori dello Stato, con questa Costituzione i lavoratori, ai quali sono riconosciuti i diritti economici e sociali, la grande massa cioè dei cittadini italiani, non si sentiranno estranei allo Stato, ma saranno nello Stato e si realizzerà così una unità essenziale fra la grande massa dei cittadini e lo Stato, cioè la Repubblica. Penso che la nuova Costituzione, se sarà inspirata, come noi fermamente crediamo, a questi principî, avrà un altissimo valore di carattere interno, nel senso che aiuterà lo sviluppo pacifico della nostra rinascita e del nostro rinnovamento, ed avrà altresì un altissimo valore di carattere internazionale.
La politica internazionale è fatta dai popoli, in ultima analisi. E sarà di grandissima importanza e di grandissimo interesse per noi italiani che i popoli di tutto il mondo riconoscano in questo documento il volto nuovo dell'Italia, la prova che l'Italia si avvia ad essere e vuole essere un paese libero, democratico, orientato e indirizzato verso il progresso sociale, fondato sulla preminenza del lavoro. Penso che questo documento costituzionale riuscirà a disperdere le incomprensioni che ancora sussistono nei nostri riguardi nel mondo, a correggere le ingiustizie che sono state commesse contro di noi.
Io credo che sia necessario, per il nostro rinnovamento, l'approvare ed il sancire questi concetti fondamentali, che sono contenuti, nelle disposizioni preliminari del nostro progetto, i quali hanno valore non soltanto per realizzare l'unità e lo sviluppo pacifico del popolo italiano, ma altresì per realizzare la nostra rivalutazione internazionale. (Applausi).
(La seduta, sospesa alle 18,10, è ripresa alle 18,30).
Presidente Terracini. È iscritto a parlare l'onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.
Condorelli. Onorevoli colleghi, mai come in questo momento sento il valore del vocativo col quale apriamo i nostri discorsi. Perché se noi collaboriamo sempre, anche nei momenti di più rigida tensione, anche quando esplichiamo da una parte l'attività dell'opposizione e dall'altra quella della maggioranza, in questo momento collaboriamo pienamente, perché di massima i principî che debbono informare la nostra Costituzione sono stati fissati in quello che si è chiamato il compromesso dei partiti, ma che è poi il presupposto di ogni legge, giacché ogni legge è la risultante di un rapporto di forze e di tendenze che in essa si compongono e questa legge è, come tutte le altre, una risultante. A noi in questa fase tocca prevalentemente un problema tecnico, che è quello di scolpire nelle formule legislative i principî «risultati» e poi quello, forse più importante, di creare un apparato costituzionale che valga a rendere attuosi e fecondi questi principî, talché la Costituzione, che noi dobbiamo creare su quei principî, si possa attuare e per il più lungo tempo possibile.
Noi trovandoci di fronte alle disposizioni di carattere generale abbiamo uno solo di questi problemi: formulare esattamente i principî. Poi, esaminando gli altri titoli e principalmente la seconda parte, dovremo risolvere l'altro: creare l'apparato tecnico che attui efficace mente questi principî.
Sui principî formulati, si è di massima d'accordo, però la formulazione ha bisogno di essere riveduta.
Si è voluto creare uno Stato democratico, uno Stato di diritto e libero, uno Stato sociale e si sono formulati, in queste sette prime disposizioni, i principî corrispondenti.
Il principio informatore dello Stato democratico è consegnato principalmente all'articolo primo, il quale si apre con questa dichiarazione: «L'Italia è una Repubblica democratica».
La formulazione mi sembra inesatta: è prima di tutto generica. Non si è usata questa formula nelle altre Costituzioni. In queste si dice: lo Stato si regge a monarchia rappresentativa, o a Repubblica democratica e non che è quella o questa. Evidentemente l'esigenza dell'esattezza nella redazione di un testo legislativo è la prima. E qui non si tratta soltanto di esattezza linguistica, si tratta di esattezza tipicamente tecnica. Quell'«è» esprime un concetto di qualificazione.
L'Italia è qualificata come Repubblica democratica.
Già la qualificazione non è esatta, perché non definisce l'Italia.
L'Italia è una nazione, è una civiltà, è una storia.
Invece: «L'Italia si regge a Repubblica democratica» ha un significato anche profondamente politico, perché vi è scolpito il concetto di attività, di autogoverno, che è proprio dello Stato libero e democratico. Si pone che è l'Italia che regge se stessa.
A me sembra che la formulazione del progetto sia inesatta e che, da tutti i punti di vista, sia consigliabile sostituirla con l'altra, che io ho proposto: «L'Italia si regge a Repubblica democratica».
L'onorevole Crispo, nel suo intervento, ha proposto di aggiungere «parlamentare». Non credo che sia necessario, perché nella stessa Costituzione si dice di volere fare una repubblica parlamentare; infatti, nella parte seconda, che segue immediatamente, si dice di volere creare questo apparato parlamentare.
Sarà, dunque, questione di vedere se veramente un apparato di repubblica parlamentare si è formato nella seconda parte della Costituzione e, se non si è formato, di formarlo. Se fossero esatte le istanze mosse dall'onorevole Orlando nel suo magistrale intervento, dovremmo dire che una Repubblica parlamentare non è stata evidentemente avvisata dal progetto di Costituzione.
Allora, nulla varrebbe la definizione iniziale, se mancasse la sostanza là dove si crea l'apparato costituzionale.
Vi è poi la seconda parte di quest'articolo:
«La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Cosa vuol dire che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro?
Si è detto qui: una Repubblica senza lavoro non può sussistere; argomento indiscutibile.
Vi dico subito che io sento profondamente, non soltanto la nobiltà, ma la santità del lavoro, perché il più alto orgoglio della mia vita è di essere professore universitario, cioè un lavoratore che conosce l'aspra sudata e non remunerata fatica.
E l'altro orgoglio della mia vita è di non aver nulla, che non sia frutto del mio lavoro e del lavoro di mio padre.
Poi, io sento profondamente la santità del lavoro, perché sono cristiano e so che laborare est orare. Sento la nobiltà del lavoro perché sono italiano e so che il lavoro è l'unica ricchezza del nostro Paese, come ha dimostrato la tragedia in cui viviamo, nella quale, fra tanto disastro, si è verificato questo prodigio: che noi siamo ancora in qualche modo in piedi e che con la nostra lira si compra ancora qualche cosa. Questo è avvenuto perché la nostra economia è imperniata sul lavoro, che è una ricchezza che non si è potuta distruggere e non ci si è potuta espropriare. Si è verificato per la nostra famiglia nazionale quello che si verifica nelle famiglie di lavoratori che perdono il loro patrimonio: rimangono in una situazione presso a poco uguale, perché se manca il cespite patrimoniale, rimane il lavoro di cui vivono. Le famiglie, invece, che vivono di patrimonio, perduto questo, cadono anch'esse.
Per tutte queste ragioni io sento altamente la nobiltà e la santità del lavoro. Non sono dunque preconcetti che mi spingono a queste osservazioni.
Che cosa vuol dire, dicevo, che il lavoro è il fondamento della Repubblica? Si osservava: una Repubblica senza lavoro non può esistere. Indubbiamente. Ma ciò non vale ad identificare la Repubblica, perché non solo la Repubblica ma nessuna associazione umana si regge senza lavoro, soprattutto la società economica, la famiglia, il comune, la società internazionale di tutti gli uomini. Nessuna di queste forme si reggerebbe senza il lavoro.
Dunque il lavoro non identifica l'essenza della Repubblica in modo da poterne essere il fondamento. Ma poi, soprattutto, è da osservare che non si può dire che il lavoro sia da solo il fondamento della repubblica.
Abbiamo prima imparato e poi insegnato nelle università che gli elementi fondamentali, costitutivi dello Stato, e perciò anche della repubblica, sono tre: il popolo, il territorio, l'organizzazione giuridica. Qualcheduno aggiunge anche l'organizzazione dell'economia e del lavoro, e allora diventano quattro questi elementi fondamentali dello Stato.
Ma è chiaro che la parola «fondamento» non è stata usata in questo senso, direi, fisico, di base su cui consiste la Repubblica, ma in un senso deontologico, cioè nel senso di titolo che dà diritto a partecipare alla Repubblica. In questo senso il lavoro è stato chiamato fondamento della Repubblica: è il fondamento ideale, etico, giuridico. E allora se è così — ed è certo che è così, perché è chiarito dall'articolo 31 dello stesso progetto, là dove è affermato il dovere dei cittadini di partecipare all'organizzazione del Paese con una funzione che concorra allo sviluppo della società e si aggiunge che chi si sottrae a questo dovere è privato dei diritti politici — non c'è dubbio, o amici, che qui, non so se claris verbis o surrettiziamente, come diciamo noi giuristi, si è tentato di far rientrare dalla finestra quel che è uscito per la porta. Si voleva dire che la Repubblica italiana è la repubblica degli operai, dei contadini e degli intellettuali: si sono trovate opposizioni e si è escogitata quest'altra formula che vale perfettamente lo stesso. Ora se è stata questa la vostra intenzione, noi non possiamo essere d'accordo, e se non è stata questa la vostra intenzione, l'espressione che avete usato va modificata.
Il nostro dissenso è dunque necessario e irriducibile, perché siffatta repubblica non sarebbe una repubblica se, come dicevamo giorni addietro riecheggiando il dialogo ciceroniano De republica, la repubblica è la res populi, la res dunque di tutti i cittadini, nessuno escluso. E Cicerone ci insegnava che, quando la Repubblica diventa di parte, quando la Repubblica diventa disponibilità di una parte, o è amministrata nell'interesse di una parte, cessa di essere res publica, e diviene res privata, sia questa parte un monarca, o sia un'Assemblea, o sia anche una larga collettività, che non comprenda però tutta quanta la collettività politica.
Diventa comunque uno Stato di parte; ed è mirabile come il filosofo nostro tragga dallo stesso nome la legge deontologica dell'essenza della repubblica. Voi, lasciando invariata la formula del progetto, non avreste creato una repubblica e, tanto meno una repubblica democratica.
La Repubblica democratica è invece fondata sulla sovranità popolare. Io vi propongo questa formula: «La Repubblica italiana ha per fondamento la sovranità popolare». Io so che questa è un'espressione scientificamente discutibile, perché la scienza del diritto pubblico insegna che l'attributo della sovranità non appartiene ad una parte dello Stato o ad un elemento dello Stato, sia pure al popolo che può essere l'elemento principale. La sovranità è attributo dello Stato nella sua pienezza ed è soprattutto l'attributo dell'ordinamento giuridico, talché si potrebbe e si dovrebbe dire che sovrana in uno Stato è la legge.
Però l'espressione «sovranità popolare» ha un significato ormai acquisito alla storia. La sovranità popolare è un sistema di vita statale nel quale la volontà dello Stato vien formata dal popolo. Noi dunque, con questa espressione che, attraverso l'uso tradizionale, ha acquistato un significato ben fisso e stabile, affermiamo veramente ed integralmente la democraticità dello Stato.
Per altro, quando noi diciamo la partecipazione effettiva non dei lavoratori, ma dei cittadini, anzi io direi di «tutti i cittadini», all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese, in fondo noi veniamo a riaffermare che si è cittadini attivi dello Stato in quanto si partecipa con la propria attività, o economica, o sociale, o morale, o politica, alla vita della collettività.
Solo a questo titolo si è cittadini dello Stato. No, no: togliete quell'espressione che creerebbe dei cittadini optimo iure e dei cittadini minoris iuris. E poi è un'espressione pericolosa che potrebbe sopprimere la libertà, nella quale io penso anche voi crediate. (Proteste a sinistra).
Pertini. Quell'«anche» è esagerato: ci siamo battuti venti anni per la libertà. Anche! Quale generosità!
Condorelli. Io penso che non ci sia aderenza nella vostra dottrina alla libertà, ma che ci sia aderenza nel vostro sentimento.
Ora, se conservassimo questa espressione, potremmo cadere in errori gravissimi. Perché voi dite: «Ma noi con questa espressione vogliamo raggiungere soltanto questo effetto: che i lavoratori siano immessi nella cittadella dello Stato, ma non che ne siano esclusi gli altri».
Ma guardate come può essere interpretata questa parola «lavoratori». Io vi porto l'esempio di un economista, non dell'avvenire, ma di oggi, uno dei più celebrati economisti di oggi — Pareto — che distingue le classi sociali in rapporto alle occupazioni, e fa una distinzione quadruplice: parla di occupazioni dirette a produrre beni economici o servizi; poi di occupazioni che producono indirettamente dei beni economici — e sarebbero appunto le occupazioni ausiliarie; probabilmente gli avvocati, nella migliore delle accezioni, potrebbero appartenere a questa categoria subliminale di lavoratori — poi c'è una terza categoria: gli oziosi; e infine una quarta, che sarebbe costituita da coloro che attraverso un'attività legale o illegale si impadroniscono dei beni altrui. Le prime due classi sono probabilmente di lavoratori; dico probabilmente, perché per la seconda si potrebbe discutere; ma gli oziosi non sono certamente dei lavoratori; e nessuno si sentirebbe di mettere fra i lavoratori coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni altrui.
Ora, lo sapete da chi è costituita la terza classe, quella degli oziosi? Da coloro che vivono di rendita e amministrano il loro patrimonio. Questi sono degli oziosi, in quanto traggono dal loro patrimonio qualche cosa di più, o molto di più, di quella che potrebbe essere la remunerazione della loro attività di amministratori. Quel di più che traggono li fa diventare degli oziosi, cioè dei non lavoratori. Nella quarta categoria, naturalmente, ci entrerebbero tutti i proprietari, perché, secondo la vostra dottrina, la proprietà è un mezzo attraverso il quale si espropria il lavoro degli altri.
Voi vedete, anche interpretando le cose alla luce del pensiero di un grande economista moderno, a che cosa si potrebbe arrivare. Ma poi, guardiamo anche soltanto alla prima categoria. Oggi sareste tutti pronti a dirmi che persone che rendono certi generi di servizi, che tutti consideriamo poco leciti e poco decenti, certamente non sono dei lavoratori. Come i sacerdoti, i religiosi, che pregano o che esercitano un ministero di assistenza spirituale, sono dei lavoratori, perché esercitano una funzione che concorre allo sviluppo della società. Ma lasciate che cambino queste posizioni mentali, che divenga comune un certo modo di pensare, che è affiorato in questa Assemblea, in questo dibattito, e allora vedrete che i sacerdoti, i religiosi, gli spirituali saranno messi subito al livello degli indovini, dei fattucchieri, degli stregoni, e perciò relegati senz'altro nella quarta categoria, di coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni altrui.
Voci a sinistra. No!, No!
Condorelli. Ma certamente sarebbe così! Noi consideriamo in questo modo gli stregoni delle tribù primitive, in quanto sappiamo che sono superstiziose le loro pratiche. Ma solo che prevalga l'opinione che anche la religione di Cristo è una superstizione (e non sarebbe la prima volta nella storia che si sono relegati senz'altro i religiosi, i sacerdoti, nella quarta categoria nella quale sono posti i parassiti, e non sarebbe la prima volta che si sentono chiamare parassiti i sacerdoti, i frati, i discepoli di San Francesco), e che le etere esercitano una funzione sociale, voi vedrete le etere entrare trionfanti nella prima categoria e le monache uscirne per passare nella quarta!
Ma, per niente hanno scritto gli studiosi! Per niente si insegna nelle Università! Ma non per il prevalere di formule trite, che se ebbero un significato in un certo momento storico, lo hanno totalmente perduto ora!...
Affermiamo che la nostra Repubblica è fondata sulla sovranità popolare e noi veramente avremo formulato ed affermato un principio democratico!
E nella ultima parte di questo articolo non si dica che la sovranità emana dal popolo o è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e della legge.
Si dica che il potere spetta al popolo ed è esercitato nelle forme e nei limiti, ecc., perché la sovranità popolare non è che una formula. Si può usare questa formula e non dare un briciolo di potere al popolo. Bisogna che il potere sia dato al popolo, che è la concretezza della società.
Una voce a sinistra. Il potere è un aspetto della sovranità.
Condorelli. Non è un aspetto della sovranità; il potere è il potere, e la sovranità è un attributo che si dà allo Stato e quindi anche ai poteri dello Stato.
Badate, da questo punto di vista credo di passarvi avanti.
Noi abbiamo premesso che il problema di cui ora ci interessiamo è un problema essenzialmente tecnico. Se avete voluto, come anche noi vogliamo, affermare il principio dello Stato democratico, voi dovete dire che esso è fondato sulla sovranità popolare e che il potere, e cioè la concretezza della sovranità, spetta al popolo.
Si è voluto, dicevo, creare lo Stato libero e formularne i principî. Lo Stato libero è Stato di diritto. Ciò è stato affermato acconciamente nell'ultima parte dell'articolo 1, dove si dice che la sovranità — io direi il potere — è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi. E lo Stato di diritto è pienamente lo Stato di diritto quando esso è limitato non solo dal diritto interno, ma anche dal diritto esterno, cioè dal diritto internazionale. Avrete pertanto completa la figura dello Stato di diritto con l'articolo 3 delle disposizioni generali nel quale si dice che l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto. Nella formulazione, vi è qualche cosa di superfluo che può intorbidare: quella aggiunta, cioè: «generalmente riconosciuto».
Io credo di intuire la genesi di questa aggiunta.
È una tesi scientifica che è stata autorevolmente sostenuta, ma è meglio non introdurre questa questione dottrinale nella legge. Il diritto internazionale sappiamo che cosa è. Il diritto internazionale risulta da tre fonti: i trattati internazionali — trattati-accordo o trattati normativi — le consuetudini ed una fonte, non da tutti ammessa, che è il diritto tacito fondamentale.
Evidentemente questa espressione «generalmente riconosciuto» non si può riferire ai trattati, si riferisce alle consuetudini. Forse, si pensa che una consuetudine non è tale se non è generalmente riconosciuta. In fondo, ci si ricollega alla teoria del riconoscimento come fondamento obbligatorio della consuetudine. È una opinione che non solo io, ma la generalità non condivide, perché il riconoscere una consuetudine non dat esse alla consuetudine, non è un atto di volontà creativo della consuetudine, è soltanto la constatazione dell'esistenza della consuetudine, è solo un atto di intelligenza. La consuetudine esiste da per sé, a prescindere dal riconoscimento.
Io penso che bisognerebbe toglierla, questa aggiunta, perché potrebbe essere interpretata come volontà di attenuare la subiezione del nostro ordinamento giuridico al diritto internazionale, che invece perfeziona la figura dello Stato di diritto, che volontariamente si limita, col diritto interno all'interno, col diritto internazionale nei rapporti esterni, nei rapporti con gli altri Stati.
Voi avete voluto creare e noi vogliamo creare lo Stato sociale, imprimere un carattere fortemente sociale allo Stato italiano. La rivoluzione francese era sorta con l'accordo teorico o con la spinta, non sappiamo, dell'individualismo razionalista che metteva l'individuo al centro di tutti i valori, talché lo Stato assumeva una giustificazione in quanto mezzo per l'individuo, come garanzia della sua libertà. Il diritto, nella formulazione di Kant, era considerato come la condizione della coesistenza dell'arbitrio di ciascuno con l'arbitrio di tutti. Si svolge tutto un travaglio spirituale dal secolo XIX a questo secolo, che pone in evidenza il carattere sociale e storico dell'uomo: l'individuo non è che una astrazione. La realtà sostanziale che deve essere il centro di tutto quanto il sistema etico, giuridico, economico, non è questo scarnito individuo che è una astrazione, ma l'uomo, che è contemporaneamente, come diceva poco fa il collega Giordani, famiglia, classe economica, Nazione, Stato, Chiesa. È l'uomo sociale. Questo voi avete voluto affermare. Da ciò un nuovo concetto di libertà che, per altro, era acquisito alla scienza, alla filosofia, al nostro stesso diritto positivo. La libertà, intesa non più in senso soltanto negativo, ma anche e più in senso positivo, cioè come possibilità data all'uomo di attuare sé stesso, di svolgere la sua personalità. E questo mi pare che voi abbiate voluto affermarlo nell'articolo 6.
Ma l'affermazione è difettosa, gravemente difettosa. Io so qual è l'alchimia delle deliberazioni collettive. Ad un certo punto, di fronte a tante tendenze, si trova un compromesso ed una formula che non soddisfa nessuno, ma che è il mezzo per uscire da una discussione che si prolunga. Ma, questa volta, la formula sortita non può meritare l'approvazione di nessuno dei giuristi che hanno dato prestigio alla Commissione dei Settantacinque.
L'articolo 6 dice che «per tutelare i principî inviolabili e sacri di autonomia e dignità della persona e di umanità e giustizia fra gli uomini, la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui ed alle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità e richiede l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale».
Garantisce i diritti essenziali? Perché solo quelli? E gli altri diritti non li garantisce?
Garantisce tutti quanti i diritti soggettivi, ma non transige su quelli essenziali: in sostanza il vostro pensiero doveva essere questo. Viceversa avete fatto una formulazione palesemente difettosa perché pare che la Repubblica garantisca soltanto i diritti essenziali e che gli altri li sacrifica, non li considera.
La Repubblica, che è un ordinamento giuridico, non può garantire altro che tutti i diritti che essa dà, cioè tanto i diritti essenziali, quanto quelli accidentali e secondari. Ma poi dove è stata trovata questa distinzione fra diritti essenziali e diritti non essenziali? Forse in qualche trattato di diritto naturale di un secolo e mezzo fa? Ma nella terminologia moderna, che io sappia, non c'è. Che cosa sono questi diritti essenziali? I diritti innati? Ma oggi nessuno, né nella filosofia, né nelle scienze del diritto crede nelle idee innate né tanto meno nei diritti innati. Tutti i diritti in senso tecnico si hanno dallo Stato, si hanno dall'ordinamento. Ci sono diritti che hanno un fondamento naturale, ma non sono diritti innati. Si voleva dire i diritti naturali? Ci siamo ingolfati nelle nebbie del giusnaturalismo che, non so se a ragione o a torto, se per il bene o per il male dell'umanità, non è più di attualità. L'espressione non è certo felice ed io sono certo che i giuristi me né daranno atto.
Presidente Terracini. Onorevole Condorelli, tenga conto che la mezz'ora stabilita per ciascun oratore è passata già da cinque minuti.
Condorelli. E poi c'è che la Repubblica richiede l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale, cioè di tutti i doveri umani. Ma così il diritto soffoca. Come lo richiede, la Repubblica, l'adempimento di questi doveri? come il maestro può richiederlo al suo discepolo, il padre al figlio, il precettore allo scolaro?
Vi accorgete che questa è una posizione attraverso la quale lo Stato può diventare un convento, una caserma o, peggio, un carcere! Si può creare un regolamento di disciplina che regoli in tutti i modi, fino agli ultimi dettagli, tutte quante le azioni, a incominciare dall'ora della levata, passando a quella dei pasti, a quella di andare a letto. Stiamo attenti! Sono anch'io convinto che sono disposizioni che non avrebbero nessuna efficacia pratica; ma voi sarete i primi a riconoscere che noi italiani, che ci vantiamo soprattutto di una grande tradizione giuridica, proprio a Roma, non possiamo fabbricare un documento nel quale ci siano di queste espressioni.
Dell'articolo 6, secondo me, non c'è altro da fare che sopprimerlo e passare l'affermazione di questi principî di solidarietà sociale fra gli uomini nel preambolo. Non c'è altro da fare. Mi sono sforzato a pensare come quest'articolo potesse essere conservato, ma devo dichiarare che mi sono trovato assolutamente impotente a trovarlo. Non è possibile.
C'è poi nell'articolo 7 un'espressione che ha richiamata l'attenzione anche del nostro collega dottor Capua. L'espressione è la seguente: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d'ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana». Stiamo attenti alla espressione «rimuovere gli ostacoli». Badate, che si parla di ostacoli economici e sociali cioè di ostacoli umani, di ostacoli che vengono dagli uomini. Come rimuove lo Stato questi ostacoli? Noi già avvisiamo nella stessa Costituzione delle leggi che tendono a favorire la conquista di questa eguaglianza di fatto. Non basta infatti enunciare una eguaglianza di diritto — è vero, Mancini? — perché l'eguaglianza ci sia. L'eguaglianza deve essere di fatto. Naturalmente, come tendenza. L'eguaglianza di fatto non si può raggiungere. Dunque, lo Stato prometta di aiutare l'uomo nella conquista di questa eguaglianza di fatto. Gli dia l'eguaglianza di diritto e poi gli permetta di integrare la sua attività per conquistare l'uguaglianza di fatto, ma non gli può promettere di rimuovere gli ostacoli economici e sociali. Gli può promettere di aiutarlo a superare questi ostacoli, ma non di rimuovere gli ostacoli.
Io sento il richiamo del signor Presidente. Perciò rinuncio ad illustrare altri punti che mi riprometto di illustrare in sede di discussione degli emendamenti, e vado a quello che è stato chiamato il punto incandescente, il campo infuocato dell'articolo 5, che io chiamerei, veramente, il campo fertile di equivoci: equivoci che sono giuridici e che sono politici e che ora, in gran parte, sono stati chiariti dal discorso veramente illuminante dell'onorevole Jacini e dall'altro discorso, che gli è buon secondo, che oggi abbiamo avuto il piacere di sentire in quest'aula dalla bocca del collega Giordani. Equivoco giuridico perché il problema, dal punto di vista giuridico non è stato, secondo me, posto esattamente; equivoco politico perché io sento che in questa lunga discussione riaffiorano i motivi che si sono scontrati in Italia nell'evo cristiano nelle dispute tra papocesaristi e cesaropapisti, tra curialisti e regalisti, tra guelfi e ghibellini. E poi ritornano i fermenti del nostro Risorgimento, che si dovette fare fatalmente contro la Chiesa, talché residuarono, specialmente negli uomini della vecchia generazione, che oggi volge al tramonto, sentimenti di ostilità verso la Chiesa che aveva costituito un intralcio, forse plurisecolare, alla realizzazione della nostra unità nazionale. Il certo si è che la nostra Nazione, pur essendo una delle Nazioni più chiaramente determinate geograficamente, linguisticamente, religiosamente, storicamente, è l'ultima che sia pervenuta all'unità politica. Probabilmente era la presenza di questo grande potere spirituale che ne sosteneva uno temporale ed ostacolava il processo di unificazione che il potere temporale avrebbe travolto. Da ciò una eredità, forse inconscia, di avversione verso la Chiesa, avversione superstite, che si rivela in considerazioni giuridiche e in considerazioni politiche, che vorrebbero essere spassionate, ma che sono certamente condizionate da questi vaghi fermenti non ancora eliminati.
Ma io non rifarò la questione storica che è stata fatta egregiamente ieri; cercherò soltanto di porre il problema nei suoi termini strettamente giuridici.
Nel primo comma di questo articolo si afferma una verità di carattere giuridico-storico: che Chiesa e Stato sono sovrani e indipendenti nei loro rispettivi ordini. Non è una novità della nostra Costituzione. La Chiesa, cioè la Santa Sede, che poi rappresenta la Chiesa, è stata sempre un soggetto di diritto internazionale. Sarebbe grave errore pensare che soggetti di diritto internazionale siano soltanto gli Stati. Soggetti di diritto internazionale sono tutti gli ordinamenti giuridici sovrani. Abbiamo soggetti di diritto internazionale come la Chiesa, o meglio la Santa Sede, come, per esempio, il sovrano Ordine di Malta, che è anch'esso un soggetto di diritto internazionale. Chiesa e Stato sono dunque ambedue entità di diritto internazionale, dunque sovrani ognuno nel suo campo. Qui la sovranità vuol dire, come ho avuto occasione di accennare poco fa, originarietà della potestà. Ossia — per quanto riflette la Chiesa — potestà che non proviene dallo Stato od aliunde, ma potestà originaria propria, connaturata, onde il diritto canonico non è diritto perché lo riconosce lo Stato, ma è diritto perché emana da un potere sovrano, che è la Chiesa. Nel primo comma dell'articolo 5, dunque, non si è affermato niente che non fosse già consacrato dalla scienza e dalla storia al cospetto delle quali la Chiesa è apparsa sempre come un ordinamento sovrano.
Posto questo principio, la conseguenza è ovvia: i rapporti tra Stato e Chiesa non si possono regolare che paritariamente, cioè per atto consensuale: si regolano per concordato. Esistono delle materie che i canonisti chiamano res mere spirituales, e queste sono di competenza esclusiva della Chiesa; vi sono delle materie che la scienza dei canonisti chiama mere corporales, e queste sono di competenza dello Stato. Vi sono delle interferenze, vi sono le cosiddette res mixtae, cioè delle res spirituales che hanno ripercussioni e propaggini nel mondo temporale e di quelle corporali o temporali che hanno ripercussioni nel mondo spirituale.
È ovvio che queste materie miste vadano regolate con concordati fra le due potestà.
Ed allora, se la Chiesa è un ordinamento sovrano, come lo Stato, se i rapporti tra questi due enti nelle cose miste si devono regolare con concordati, era ben logico che nella formulazione della norma costituzionale si uscisse dall'astratto e si venisse al concreto, dicendo: i rapporti sono regolati dai Patti lateranensi.
È una constatazione di fatto.
Qui sono nate delle discussioni, che hanno particolarmente appassionato questa Assemblea.
Ed io raggruppo gli argomenti, per ragioni di rapidità e di chiarezza, in due ordini: vi sono questioni di carattere formale e questioni di carattere sostanziale.
Coloro che fanno questione di carattere formale affermano di non avere niente da dire contro quegli accordi, di essere lieti di questa situazione di accordo tra lo Stato e la Chiesa, che non vogliono modificare, ma di ritenere antigiuridico ed anticostituzionale che questi accordi siano recepiti nella Costituzione.
Coloro — e purtroppo sono molti — che sono contrari a questi accordi, dicono che, quanto meno, essi dovrebbero essere riveduti, perché consacrano dei principî contrastanti con quelli dello Stato democratico. Ci sarebbe, insomma, incompatibilità su diversi punti, tra gli accordi e l'ordinamento della Repubblica democratica.
Ora, io non accetto nessuno di questi due ordini di idee, perché, francamente, mi sembrano infondati.
Qual è la difficoltà a che questi accordi siano recepiti dalla nostra Costituzione?
Si dice che sarebbe una limitazione della nostra sovranità.
Si è scritto all'articolo 3 (ed era superfluo, perché si sa che lo Stato moderno è soggetto al diritto internazionale) che noi volontariamente ci sottoponiamo al diritto internazionale.
Ora, gli accordi vaticani constano d'un Trattato, stipulato con la Santa Sede, nel quale si crea lo Stato del Vaticano, e del Concordato, con cui si regolano i rapporti tra Chiesa e Stato, queste res mixtae.
Sono: l'uno, un trattato internazionale; l'altro, un contratto di diritto pubblico interno, stipulato fra due enti sovrani.
Lo Stato volontariamente si è autolimitato. Qual è l'offesa alla nostra sovranità? Non la vedo, a meno che non si pensi, non da un punto di vista giuridico, ma da un punto di vista storico-geografico, alla perdita dei 44 ettari di territorio nazionale. Non è questo.
È un errore che questa cosiddetta recezione degli accordi sia una limitazione della nostra sovranità.
Qualcuno, onorevole Presidente, ha financo detto che è un assurdo giuridico, perché noi creiamo ex novo l'Italia e non possiamo, perciò, recepire relitti del passato.
Guardate come va a risorgere il mito del contratto sociale: noi costituenti rinnoviamo i nostri favolosi progenitori che si incontrano alla foresta e fanno il contratto sociale!
Guardiamo le cose come sono. Noi, grazie a Dio, non stiamo creando lo Stato italiano. Non ha bisogno di essere creato; esso è una realtà storica, che ha basi ben più solide di questa Costituzione, che speriamo soltanto lo rafforzi. Dire che noi creiamo lo Stato e che dobbiamo ignorare ogni presupposto giuridico, è un'eresia.
Qualche altro ha detto che la difficoltà consiste in questo: che noi veniamo a limitare il nostro potere di denunziare gli accordi.
Noi, in rapporto al Trattato col quale si crea la Città del Vaticano, non abbiano nessuna facoltà di denunzia. Uno Stato, una volta creato attraverso un trattato, si può debellare, ma non si può distruggere revocando o denunciando un trattato. Nessuna maggioranza né di metà più uno né qualificata, né la totalità della nostra Assemblea può distruggere il trattato. Ripeto, noi possiamo aggredire la Città del Vaticano, distruggere lo Stato del Vaticano, ma non possiamo denunziare il Trattato: nell'ordine del diritto questa facoltà non c'è.
Però, si dice, noi abbiamo la facoltà di denunziare il Concordato e siccome esso viene incluso nella Costituzione noi non lo potremmo denunziare come prima. La Costituzione in cui è recepito ci obbliga a considerarlo come una legge costituzionale, e per modificarlo unilateralmente, cioè denunciarlo, dobbiamo raggiungere quelle determinate maggioranze necessarie per il processo di revisione.
Presidente Terracini. Scusi, onorevole Condorelli, a questo punto dovrei chiedere ai colleghi se, nonostante che ella parli da 55 minuti, ritengano che ella debba proseguire.
Voci. Sì, sì; ascoltiamo tutti con molto interesse.
Presidente Terracini. Fo soltanto rilevare che uno strappo alle norme regolamentari impedirà poi di potersi opporre a che lo stesso strappo non valga per altri colleghi. Comunque, onorevole Condorelli, continui, ma tenga conto che c'è un'intesa accettata dal rappresentante del suo Gruppo.
Condorelli. Dunque, questo Trattato non potremmo denunziarlo che raggiungendo quella tale maggioranza.
Anche sulla denunciabilità del Concordato ci sono molti dissensi, molto gravi, perché la formula della Chiesa è: «simul cadent simul stabunt». Perciò, siccome non può cadere il Trattato, non può cadere nemmeno il Concordato. Questa è la tesi della Chiesa, condivisa anche da giuristi laici, i quali peraltro trovano argomenti nell'articolo 44 del Concordato nel quale è prevista l'interpretazione d'accordo in caso di dissenso. Il conflitto che potesse nascere tra Chiesa e Stato non si dovrebbe mai risolvere con una denunzia, ma in nuove trattative, in una interpretazione fatta concordemente.
Checché sia di questa tesi si ha, comunque, se la necessità di adottare le forme della revisione, per modificare unilateralmente le norme concordate, apparisse troppo gravosa, che non c'è niente di irrevocabile, nulla di fatale, nessun ostacolo dinanzi al quale si debba fermare la intelligenza dei giuristi di questa Assemblea. Non c'è che da fare un ritocco agli articoli 76 e 83 della Costituzione, là dove è prevista l'autorizzazione alla ratifica dei trattati da parte del Parlamento e la ratifica da parte del Presidente della Repubblica. Perché dunque parlare solo di ratifica dei trattati internazionali di natura politica o di arbitrato? Si parli anche dei Concordati: è una lacuna che si è lasciata e che può essere colmata, giacché lo Stato fa anche dei Concordati che debbono essere logicamente anche essi sottoposti alla ratifica del Presidente della Repubblica previa autorizzazione del Parlamento. Si parli anche della denunzia, che deve essere opportunamente autorizzata, e il grande problema è risolto.
Io non so che cosa residui di questo problema, di fronte ad una Costituzione che è ancora in fieri e nella quale possiamo mettere quello che vogliamo. E badate che non mettiamo niente di arbitrario, ma qualche cosa di ragionevolissimo. Prevediamo il processo di formazione e di disfacimento anche dei Concordati e i Concordati si creeranno e si disfaranno come si creano e come si disfanno i trattati.
Non rimane che l'avversione di merito al Concordato e questa non so se sia molto o poco diffusa; ma è certo che c'è ed affiora nelle discussioni.
Il nostro compagno — consentitemi che usurpi per un momento questa vostra espressione — onorevole Crispo ha esposto degli argomenti secondo i quali, a suo giudizio, il nuovo diritto pubblico italiano, quale risulta dal progetto di Costituzione, è incompatibile con il Concordato. Egli ha espresso autorevolmente, con un discorso che non esito a definire notevole, un suo punto di vista che non è il mio e che non è neanche quello, penso, della maggioranza del gruppo liberale e che non è niente affatto il pensiero del liberalismo italiano. Il liberalismo italiano infatti, nella sua genuina scaturigine, non ha mai avuto di questi preconcetti, al punto che — come è noto — Cavour, per risolvere la questione romana, nel 1861, pochi giorni prima della morte, era disposto ad avere Roma con il re d'Italia quale vicario del papa. In ciò non trovava niente di straordinario il progenitore del partito liberale italiano.
Ora, esaminiamo in merito le eccezioni di carattere giuridico che si trovano nel Concordato.
Presidente Terracini. Onorevole Condorelli: è interessantissimo il suo discorso, ma ricordi l'invito che le faccio per la terza volta.
Condorelli. Lo Stato che risulta dal Trattato è uno Stato confessionale, perché l'articolo primo dello Statuto diceva che la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato e l'articolo primo del Trattato si rimette all'articolo primo dello Statuto, trascrivendone anzi la formula. E come ciò si mette d'accordo con la norma che tutti i cittadini sono uguali, senza distinzione di opinioni religiose, che lo Stato è uno Stato libero e democratico?
Ora, non da solo, ma appoggiandomi a quella che si può dire la costante opinione dei giuristi italiani, nego che lo Statuto albertino, quali che fossero le intenzioni di colui che lo emanò, abbia creato uno Stato confessionale. Malgrado quella dichiarazione, lo Stato piemontese prima e lo Stato italiano poi non furono mai degli Stati confessionali. Era una dichiarazione che aveva soltanto questo significato: ove lo Stato avesse avuto bisogno di accompagnare dei suoi atti con riti propiziatori o di ringraziamento, avrebbe dovuto ricorrere al rito cattolico e ai sacerdoti cattolici. Non ebbe mai altro significato, e non ne ha acquistato nuovo, quando è stato trascritto nel Trattato. Il significato è rimasto identico.
E poi, d'altro canto, ormai negli Stati moderni può esistere più questo confessionalismo? Non può esistere, perché lo Stato moderno si è spersonalizzato; sia monarchia, sia Repubblica, è una istituzione, un istituto che non si confonde col sovrano, con colui che detiene il potere: un istituto — è ovvio — non si può né battezzare, né confessare, né comunicare, ecc.; non ha la possibilità di essere cattolico. Le dichiarazioni di confessionalismo hanno soltanto questa importanza, che dicevo poco fa, formale.
Badate che non vengo meno a quel rispetto che debbo alla Chiesa. È un'esigenza di concetti. Questo è il significato moderno di confessionalismo, tanto è vero che ormai quelle vecchie distinzioni tra unione, separazione, confessionalismo, ecc. sono state relegate fra i ricordi scolastici, non hanno più nessun significato fuorché storico. Noi abbiamo oggi dei casi di separazione sostanziale e di unione meramente formale; separazione sostanziale, perché lo Stato è un'entità laica; formale, perché si dà forma giuridica, attraverso il Concordato, a certi rapporti intercorrenti fra Stato e Chiesa. Lo Stato italiano è veramente questo: è uno Stato sostanzialmente separato dalla Chiesa, formalmente coordinato per regolare le materie comuni.
E giacché più di una volta il nostro onorevole Presidente mi ha richiamato alla fatalità del termine, io devo rinunciare...
Presidente Terracini. Onorevole Condorelli, ormai non si può più dare la parola ad un altro oratore; quindi può continuare. Lei è riuscito brillantemente ad assorbire il tempo di tre oratori: è un esempio di dottrina, ma forse non di disciplina.
Condorelli. Questo è un argomento che tocca così profondamente un lato tanto geloso della nostra coscienza, che avrei sentito di mancare ad un preciso dovere, se non avessi detto chiaramente il mio pensiero, e ne avrei conservato il cruccio per tutta la vita. (Commenti).
Presidente Terracini. Onorevole Condorelli, poteva limitare a questo argomento di così profondo interesse il suo intervento e rinunciare a tutta la prima parte, che era anche interessante, ma forse non un problema di coscienza. (Approvazioni).
Condorelli. Dunque, quali sono questi conflitti tra il nuovo diritto pubblico e il Concordato? Quello del confessionalismo non ha significato. Non è confessionale il nostro Stato. Se lo fosse, lo sarebbe nel senso che ho detto, meramente formale. Non vi ha certo conflitto in quel famoso articolo 5, che è stato richiamato da tutti, e nel quale in sostanza non si dicono che delle cose ovvie, che credo sarebbero state, almeno in parte, sancite dallo Stato, anche fuori del Concordato. Quando un sacerdote o un ecclesiastico ricopre un ufficio italiano deve essere autorizzato dai suoi superiori ecclesiastici e se questo diritto e questa autorizzazione è revocata, lui deve lasciare l'impiego. È una limitazione della libertà umana? Ma da quando in qua le limitazioni volontarie sono limitazioni della libertà? Ma anche i contratti sono allora limitazione della libertà. Io divenendo sacerdote, accetto le limitazioni che mi vengono dalla disciplina dell'organizzazione della quale volontariamente vengo a far parte e so benissimo qual è la mia sorte. È un po' come la indissolubilità del matrimonio: è una limitazione di libertà? Io, allorché mi sposo, so benissimo quali sono gli effetti dell'atto a cui vado incontro. È così quando si prende l'ordine sacro. Si dice che un sacerdote apostata o irretito da censura non può esercitare uffici particolarmente esposti al pubblico, per esempio non può fare il professore. Ma è una invenzione del Concordato che il 97 per cento degli italiani sono cattolici e che lo Stato, tenendo delle scuole, le deve mantenere accettabili e frequentabili dalla maggioranza dei cittadini? Ma chi di noi — non parlo del mio caro amico Tonello — manderebbe un figlio in una scuola in cui insegna uno scomunicato?
Tonello. Io non lo manderei da un prete!
Condorelli. Ma la scuola deve essere accettabile dalla maggioranza, dalla quasi totalità degli italiani. Non si possono creare dei servizi pubblici dei quali si possa servire solo qualcuno in via sporadica.
Si parla poi delle particolari sanzioni per chi vilipende la Chiesa, per chi bestemmia la divinità o i santi, o per chi offenda il Papa, ecc. Ma vi pare che sia lo stesso bestemmiare Allah o Budda, o Gesù o la Madonna? Ma è evidente che per la maggioranza degli italiani bestemmiare Allah o Budda potrà essere soltanto uno scherzo. La bestemmia a Bacco la fanno tutti. Non è che una celia! Un altro significato ha la bestemmia alla Divinità, ai santi che sono venerati da tutti gli italiani. Non devono esprimere le leggi la coscienza pubblica del Paese?
L'insegnamento religioso: altro equivoco! L'insegnamento religioso è libero in Italia. Il padre che la pensa come l'amico Tonello fa sapere ai professori che non vuole che il suo figliolo sia contaminato da sì prava dottrina e lo fa dispensare dall'insegnamento religioso. Nessuno lo costringe a mandarvelo. Ce ne sarà uno su 10 mila, ma la libertà di quest'uno è anche rispettata. E così nessuno vuole che si insegni ad alcuno la religione contro la sua volontà. Ma, signori, dove sono queste incompatibilità col nuovo diritto pubblico che noi andiamo a creare in Italia? Non ne esiste nessuna. A meno che non si insista su quella dei titoli nobiliari, che la Chiesa ammette e lo Stato no.
Ora, signori, io chiudo con un dilemma: c'è contrasto tra il diritto pubblico nuovo e il Concordato? Non c'è contrasto, si può rispondere, e non c'è, allora, nessuna ragione valida per escludere dalla Costituzione il richiamo dei Patti Lateranensi. C'è contrasto? Soltanto questa potrebbe essere la ragione della esclusione. Ma allora, se c'è contrasto, effettivo o anche soltanto supponibile, non vi accorgete che, legiferando così voi venite a denunziare il Concordato, cioè a distruggere quella pace religiosa che tutti quanti dite di volere conservare?
Badate che legiferare contro il Concordato equivale a denunziarlo nella maniera più solenne, perché un Concordato non è esso stesso fonte di diritto, fonte di obblighi per i cittadini. È fonte di obblighi soltanto per lo Stato che deve legiferare conformemente al Concordato. Finché il Concordato non è trasfuso in una legge non ha nessun effetto nel diritto pubblico interno; lo acquista quando è trasfuso nella legge.
Ora, se noi invece di trasfondere nella legge il Concordato, legiferiamo contro il Concordato...
Una voce a sinistra. Ma non contro!
Condorelli. ...contro il Concordato, noi lo denunziamo. È così e non ammetto che in campo di diritto si possa sostenere il contrario, perché non è possibile. Proprio se si potesse sostenere qualche incompatibilità tra il Concordato ed i principî della nuova Costituzione, il richiamo dei Patti lateranensi diverrebbe ancora più indispensabile onde escludere il significato di denuncia implicita!...
Mancini. In questo modo si mutano i termini della discussione!
Condorelli. Ed allora badate a quello che fate! Si sono create tante ragioni di dissenso tra gli italiani e non c'è bisogno di crearne un'altra per una questione dottrinale che interessa, se interessa, uno sparuto numero di liberi pensatori male informati.
Tonello. Non è sparuto il numero!
Condorelli. È sparuto!
Tonello. I Patti del Laterano li ha fatti Mussolini!
Condorelli. E per questo si crea una questione che separerebbe ancor di più gli Italiani e che accrescerebbe, assommandosi agli altri scontenti, il distacco, già grave agli inizi, tra il popolo della nascente Repubblica italiana e la nuova Costituzione? (Applausi al centro e a destra — Congratulazioni).
A cura di Fabrizio Calzaretti