[Il 12 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Prima di iniziare la discussione, l'onorevole Lucifero chiede di parlare sul processo verbale.]
Lucifero. Chiedo di parlare sul processo verbale.
Presidente Terracini. Ne ha facoltà.
Lucifero. Onorevoli colleghi, l'onorevole Togliatti ha voluto celebrare ieri, sia pure in senso negativo, la mia serata d'onore, perché mi ha nominato almeno una ventina di volte nel suo discorso. Devo però soltanto su tre punti richiamare la vostra attenzione.
Il primo punto è un fatto personale e si riferisce a quella invocazione a Dio che ho ritenuto di introdurre nel mio Preambolo; invocazione a Dio che non rappresenta niente di nuovo, perché c'è in altre Costituzioni. Per esempio, la Costituzione irlandese comincia con la Santissima Trinità. Ad ogni modo io non vi trattengo sulla frase in cui si scherza su questo Dio votato a maggioranza. Dio non ha bisogno di voti. Dio c'è, e quello che c'è non si vota.
Ma c'è una frase del discorso Togliatti che mi ha fatto pensare; la frase è la seguente: «Quando ho sentito il nostro collega parlare di Dio col tono con cui i nostri oratori di comizio, parlano alla fine quando si tratta di avere gli applausi degli elettori, mi sono ricordato del primo comandamento».
Ora, onorevoli colleghi, questa è un'osservazione grave; grave per un cristiano — ed io sono cristiano — e grave per un uomo politico. È grave per un cristiano, perché io avrei nominato il nome di Dio invano; è grave per un uomo politico, perché avrei portato in quest'aula — che deve ignorarla — un'oratoria da comizio. Capirete quindi che io ho fatto il mio esame di coscienza e l'esame di coscienza non poteva essere che quello di rileggere il testo di ciò che avevo detto. Le mie parole erano le seguenti: «Vi prego di notare che sarebbe l'unico punto della nostra Costituzione in cui Dio è invocato ad assisterci e ad aiutarci. Quel Dio che non è di questa o di quella Religione, ma di tutti gli uomini; quel Dio Ente supremo, Spirito superiore che anima l'umanità, e che da noi latini, nella nostra terra, che ha dato tanto fervore e tanto cuore alla Religione nostra attuale ed a quelle che l'hanno preceduta, non può essere dimenticato nella legge fondamentale che deve regolare la vita del nostro Paese».
Vi dico francamente che queste mie parole non hanno nulla di comiziesco e nulla per strappare l'applauso; io vedo in esse l'espressione di una profonda convinzione che è di molti altri italiani, anzi della stragrande maggioranza degli italiani. Non credo quindi di essere incorso nell'errore cui ha accennato l'onorevole Togliatti; anzi, caso mai, sono caduto nell'errore di eterodossia, tanto vero che l'onorevole Lussu mi mandò un bigliettino con la scritta: «Rischi di finire scomunicato»; l'onorevole Lussu se lo ricorderà. Tengo perciò a dichiarare che non sono state parole comiziesche dette per strappare l'applauso, tanto più che, con il conformismo che vige ormai nella nostra Camera, è acquisito che gli applausi sono soltanto quelli dei compagni di gruppo; e io dichiaro che sarei pronto a ripetere integralmente quella frase, perché risponde alla mia profonda convinzione.
In secondo luogo, ho chiesto la parola per una rettifica. L'onorevole Togliatti ha detto, a proposito dell'ultimo capoverso dell'articolo primo del progetto di Costituzione queste parole:
«Ad esempio, all'articolo primo avevamo proposto la formula: la sovranità risiede nel popolo, i poteri emanano dal popolo». Ora, per esattezza storica ed anche per un significato politico, sono voluto andare ad illuminare la mia memoria e ho preso i resoconti sommari della prima Sottocommissione e della Commissione plenaria. Dal resoconto sommario della prima Sottocommissione risulta che la proposta che si modificasse l'articolo nel senso che la sovranità risiede nel popolo, già contenuta in certo qual modo nell'articolo originario del relatore onorevole Cevolotto e controbattuta nella relazione dell'onorevole Dossetti, fu da me fatta in questi termini; e l'onorevole Togliatti si associò alla tesi dell'onorevole Dossetti; la mia proposta fu respinta con due soli voti favorevoli, il mio e quello dell'onorevole De Vita.
Ugualmente, nell'Assemblea dei settantacinque del 22 gennaio, io riproposi la formula: «La sovranità risiede nel popolo». Essa fu nuovamente respinta ed ebbe tre soli voti favorevoli: quello dell'onorevole De Vita, quello dell'onorevole Nobile ed il mio.
Ad ogni modo, sono lieto, che l'onorevole Togliatti, che è uomo riflessivo, e ciò gli fa onore, si sia convertito all'esattezza della nostra tesi.
E visto che in questa sede ho ripresentato lo stesso emendamento, sarò lieto di votarlo con lui.
Infine uno schiarimento.
L'onorevole Togliatti, rivolgendosi a me ha detto: «Noi vogliamo non una Costituzione afascista, ma antifascista»; ed ha specificato che ciò voleva — ed aggiungo: vogliamo — «per assicurare che la tirannide fascista non possa mai rinascere».
Ora tengo, a chiarimento del mio pensiero che forse l'altra volta non espressi con sufficiente chiarezza, a specificare che dissi precisamente questo: «La Costituzione dovrà essere non antifascista soltanto, ma qualcosa di più: dovrà essere afascista». E questo trova la spiegazione proprio nella frase dell'onorevole Togliatti. L'onorevole Togliatti ha detto: «Noi non vogliamo che torni la tirannide fascista e quindi siamo antifascisti».
In questo siamo tutti antifascisti. Ma non basta. Si adombrano oggi nel mondo altre tirannidi. Quindi, non basta essere antifascisti soltanto; bisogna essere contrari a tutte le tirannidi, qualunque ne sia il nome e qualunque aspetto esse possano prendere.
Questo non è più l'antifascismo che si dirige contro il fascismo, ma è l'afascismo, cioè il superamento della concezione del fascismo in forma positiva ed in forma negativa. E ciò tanto più in un momento in cui abbiamo ascoltato dei discorsi preoccupanti, come quello dell'onorevole Nenni, e che stiamo discutendo una Costituzione che non io, ma un maestro insigne come l'onorevole Orlando, ha definito totalitaria. (Applausi a destra).
[...]
Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Ha facoltà di parlare l'onorevole Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione.
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Onorevole Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, credo che vi rendiate conto delle difficoltà della posizione in cui si trovano la Commissione per la Costituzione ed il suo Presidente.
La Commissione non è un blocco, non ha una voce sola; è l'ottavo dei membri dell'Assemblea, un'Assemblea in ottavo, con tutte le sue idee e le sue passioni. Ha lavorato fino ad oggi in silenzio, in sordina, all'ultimo piano di Montecitorio. Ora parla in pubblico, con l'eco formidabile della stampa.
Le difficoltà vengono in luce.
Può darsi che alcune delle tesi, che furono vinte e rimasero in minoranza nelle discussioni della Commissione, siano anche mie. È stato accennato che io avevo dapprima proposto un certo tipo, un certo svolgimento dei lavori, che non fu approvato. In democrazia, insegna Lincoln, il solo modo di guidare gli altri è di convincerli. Non si riesce sempre a convincere. Ma io voglio affermare molto fermamente che condivido e rivendico la responsabilità di tutto ciò che ha fatto la Commissione. Abbiamo potuto avere dei dissensi tra noi, inevitabili; abbiamo trovato qualche volta delle conciliazioni, qualche volta no. La solidarietà del lavoro condotto in comune è sentita da me come da tutti i membri della Commissione. Segno ad orgoglio di finire la mia modesta vita politica, qui, alla testa della Commissione che ha preparato la Costituzione italiana.
Vi sono state molte critiche, alle quali devo rispondere. Anche qui non è facile stabilire la mia posizione. Si vuol vedere in me un gerente responsabile, ed un difensore d'ufficio. Questo io so: che risponderò con molta serenità, obiettivamente, cercando di fare il notaio di ciò che è avvenuto nella Commissione.
Vi sono state critiche da parte degli stessi membri della Commissione. In altri Paesi non vennero fatte così. Avrei potuto desiderare che qualcuna fosse stata presentata davanti alla Commissione, prima che qui. Ma è un diritto legittimo e benefico. E poi sono venute altre critiche, autorevolissime, anche da chi non faceva parte della Commissione.
Vi sono state le critiche più diverse, difformi, contraddittorie fra loro. Potrei osservare che le accuse di mancanza d'armonia, di ordine, di organicità, si rovesciano facilmente contro le critiche stesse. Potrei osservare che quando da una parte si dice una cosa e dall'altra la cosa diametralmente opposta, vi è una certa presunzione di trovarsi nel giusto mezzo.
Ho fatto l'elenco di queste contraddizioni. Ne volete un esempio? Se si comincia all'inizio, dalla proclamazione della Repubblica e del suo fondamento sul lavoro, si è affermato che è reazionaria, perché non parla di «repubblica dei lavoratori», e che è rivoluzionaria perché parla di lavoratori e non di cittadini. Gli stessi opposti ritornelli quando si enunciano i diritti economici. E quando si va alla struttura istituzionale, si accusa la Costituzione di essere sovversiva e dittatoriale, e per contrappeso di essere conservatrice e retrograda. Potrei continuare, ma non mi trincererò dietro un comodo fine di non ricevere. Né invocherò il consiglio che un maestro della Camera antica, Luzzatti, dava ai suoi discepoli: dividere equamente il malcontento. Il malcontento irrompe da tutte le parti, e non è stato, a quanto sembra, distribuito con equità.
Mi avete visto scrivere continuamente in questi giorni. Ho segnato ciò che è stato detto: poche lodi; qualche raddolcimento dopo le critiche: «quisquiglie» diceva l'onorevole Cevolotto; e più veemente verso di noi l'onorevole Rubilli, «cose poco rilevanti», tranne per il Senato e la Regione. Si sono lanciati fiori insieme alle critiche.
Un oratore di questa parte (Accenna a destra), l'onorevole Mastrojanni, mentre si preparava a colpire, disse: Costituzione coerente, meditata, miracolo conciliativo, che soddisfa tutte le tendenze. Ripeto le sue parole. Vi sono stati anche riconoscimenti di questo genere: vista la situazione dei partiti, visto il tempo che aveste per lavorare, non potevate fare di più. Le attenuanti diventano quasi una discriminante, un'assoluzione, come se si fosse agito per forza maggiore.
Non ci basta. Risponderemo. E proprio per mostrare la nostra consapevolezza e la nostra serenità, cominceremo col riferire tutto ciò che è stato detto sopra la Costituzione, presentandola come una galleria degli orrori. È uno zigzag per l'onorevole Cevolotto; una Costituzione bifronte per l'onorevole Della Seta; e poi la valanga delle accuse: genericità, oscurità, sottintesi, leggi truccate, sabotaggio della Costituzione, dice l'onorevole Calamandrei; faziosità, l'onorevole Benedettini; jattura, sconforto, mandato tradito, desta riso e pianto, non è un amalgama, ma un orrido mostro, la chimera, per l'onorevole Capua.
Benvenute le critiche: non fanno paura. Vorrei solo manifestare una mia impressione: che le parole corrono da sole, qualche volta anche oltre le intenzioni di chi le ha pronunziate. All'amico Marchesi chiedo se sono esatto, ricordando che, nella commedia classica, vi sono due maschere dalle quali ci dovremmo tener lontani: il miles gloriosus o fanfarone e l'eautòntimorùmenos che trova gusto a dilaniare; se stesso.
Noi italiani abbiamo qualche volta la tendenza a denigrare noi stessi, a giudicarci peggiori di quello che siamo. Le parole corrono; con tutto ciò che si è detto, il popolo grosso può essere tentato di credere, ingiustamente che l'Assemblea, investita dall'onda scandalistica, sia un insieme di uomini non onesti, ed ora, per l'incapacità di fare la Costituzione, un insieme di inetti.
Il nostro progetto non è un capolavoro; è una cosa modesta. Non abbiamo cercato di fare cosa perfetta, perché la perfezione non è di questo mondo; e dopo tutto qualche maligno mi dice che, anche se fosse stata perfetta, le critiche vi sarebbero state ugualmente.
Non abbiamo nemmeno cercato di fare una Costituzione bella: i romanzi sono belli; nessuna delle attuali Costituzioni è bella; la Costituzione non può essere bella; deve essere convenevole, come ha detto l'onorevole Nitti, dandoci, con molta gentilezza, l'esempio di Solone e ricordando che era un uomo assai simpatico e di larghe idee. Io capisco che non posso aspirare a questo accostamento, perché il mio destino è quello di essere il Licurgo del confusionismo italico. (Si ride).
Saremmo molto contenti se la nostra Costituzione fosse la più convenevole possibile, o, almeno, la meno cattiva. Il tempo potrà portare un giudizio sereno. Qualche membro della Commissione ha già ricevuto giudizi dall'estero, che non sono così stroncatori. Vi è chi ha paragonato il nostro schema alla Costituzione tedesca di Weimar ed alla francese recentissima; e posto che nessuna è bella e soddisfa in pieno, ha osservato che fra la struttura pesante teutonica sociologizzante di Weimar e quella spumante, ma meno consistente di contenuto, della Costituzione francese, la nostra non è la peggiore.
Devo parlare — e cercherò di farlo brevemente — delle critiche che l'onorevole Nitti, con la sua grande autorità, ha mosso al lavoro della Commissione. Troppi Soloni: 75. Io avevo proposto il numero di 45, che è un po' di rito in queste materie, perché è il numero di coloro che scrissero un secolo e mezzo fa la più bella Costituzione del mondo, quella degli Stati Uniti americani, ed anche la recente Commissione per la Costituzione francese era di questo numero. Si è andati a settantacinque, perché i piccoli partiti chiesero di essere adeguatamente rappresentati. Se non lo fossero stati, che cosa si sarebbe detto?
Troppi incompetenti. Che cosa è la competenza in materia legislativa? L'ha spiegato Stuart Mill. Io, per conto mio, presto farò le nozze d'oro con la prima legge che ho preparato quando sono entrato nell'Amministrazione. Ma è proprio necessario che tutti siano competenti, nel senso tecnico della parola? L'onorevole Nitti, in un suo luminoso libro, ha lodato che i costituenti americani non fossero professori, sapienti, studiosi di materia costituzionale. Ad ogni modo, nella nostra Commissione i partiti hanno designato essi i loro membri; potevano scegliere; hanno scelto gli uomini che credevano adatti a questa bisogna. Nella Commissione vi erano i capi, i dirigenti di quasi tutti i partiti. Vi erano gli esponenti alla testa delle organizzazioni operaie; ed anche dell'associazione delle società per azioni; vi erano giuristi — il fiore dei costituzionalisti italiani — vi erano economisti; basta che ricordi il nome del maggiore economista italiano: Einaudi. Non era una Commissione di incompetenti.
Troppe pubblicazioni; perché stampare tanti processi verbali delle sedute? L'onorevole Nitti ha forse ragione; ma se non si fossero pubblicati i verbali, si sarebbe detto che la Commissione lavorava nelle tenebre.
Troppo tempo avete messo nel vostro lavoro! Sì; la dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789 fu stesa in dieci giorni; la presentò all'Assemblea Lafayette diritto, fermo, elegante; ma era un altro clima! Subito dopo occorse un tempo maggiore per le Costituzioni rivoluzionarie; ed ancor più per le successive, come per quella del 1875. Nell'altro dopoguerra occorsero cinque mesi per la Costituzione di Weimar. Si sale ad uno e due anni per altre Carte. In questo dopoguerra abbiamo sei mesi pel primo, tre per il secondo testo della Costituzione francese ed è opinione diffusa che forse, se si fosse messo un po' più di tempo si sarebbe evitata la doppia vicenda.
Troppi articoli! È vero che vi sono tre Costituzioni che hanno meno di 50 articoli; la più bella Costituzione del mondo, che è quella americana, ne ha 7, ma in ogni articolo vi sono sezioni lunghe come titoli. La massima parte ne ha da 120 a 160; e ve ne sono che vanno al di là dei 200. Ma basta col metro!
Il nostro modesto e faticoso lavoro si è svolto nei limiti della normalità.
Sono grato a chi ha messo in luce le grandi difficoltà obiettive, storiche, del lavoro che oggi l'Italia sta per compiere. È la prima volta nella sua vita millenaria che l'Italia unita si dà liberamente una Costituzione. L'Inghilterra, la Svizzera risalgono al 1200; gli Stati Uniti, la Francia alla fine del 1700. Noi dobbiamo far tutto di nuovo. Non abbiamo dietro di noi che un ammonimento, un appello, al quale ci vogliamo idealmente ricondurre. «Dica l'Italia cosa vuole essere e sotto quali forme deve svolgersi la vita nazionale; sorga e si accolga in Roma, non una dieta, ma l'Assemblea Costituente italiana, eletta con una sola legge elettorale dall'universalità dei cittadini d'Italia!». È Mazzini; noi ci ricongiungiamo all'idea di Mazzini. (Approvazioni).
La seconda difficoltà è data dalla svolta storica nella quale viviamo. L'onorevole Orlando accennò un giorno, con alta ala, che noi ci troviamo un po' fra due mondi costituzionali: il vecchio ed il nuovo, quello dell'800, che dura ancora, ma in gran parte modificato, e le forme nuove che sorgono sotto l'impulso dei grandi movimenti di massa. Abbiamo sentito qui Togliatti e La Pira esporre, con criteri diversi, lo stesso concetto di una grande trasformazione anche costituzionale. Si sente che ci troviamo ad un punto di sutura, ma non è facile fermare tutto ciò in una Carta.
Un'altra difficoltà ha chiarito l'onorevole Nitti: il momento tragico; la Costituzione che nasce all'ombra della disfatta. Ed ha colorito: nel disfacimento economico del Paese. Si ripromette di tornarvi su, in alcune parti della Costituzione. Non è un intervento che divaga dal vasto tema; ed è patriottico il suo grido d'allarme. La Costituzione avrebbe dovuto esser inserita nella ricostruzione. Poteva nascere quando, compiuto un periodo di politica finanziaria ed economica di contingenza, si sarebbe potuto ancorare il nostro Paese all'economia internazionale. Purtroppo quello che era possibile fare, specialmente alla fine del 1545, ora non lo è più. Un'occasione perduta. La Costituzione nasce nel punto più disgraziato, quando, cessati gli aiuti dell'U.N.R.R.A., si manifesta, con l'assottigliamento dell'esportazione, il peso dei nostri costi di produzione, troppo alti. Non voglio entrare in particolari; ma la situazione è durissima e si riverbera nel nostro lavoro di costituenti.
Che cosa dobbiamo fare? Rinunziare alla nuova Costituzione? È nostro dovere guardare al di là delle macerie. Vi sono ancora forze di vitalità e speranze di ripresa per il nostro Paese. Se verrà spezzata la Germania, l'Italia sarà il paese di maggior popolazione dell'occidente europeo; il primo del continente dopo l'insulare Britannia e l'eurasiatica Russia. Non sono finite le nostre capacità di lavoro. Non ci dobbiamo lasciar abbattere; neppure in questo compito della Costituzione.
Si affacciano le idee più varie, e naturalmente contraddittorie, fra gli stessi critici. Chi presagisce una Costituzione interlocutoria; chi consiglia una Costituzione provvisoria. Ma voi sapete che significato avrebbe questo espediente; proprio mentre l'Italia anela ad uscire dal provvisorio, in tutti i suoi ordini, e ad acquistare un volto definitivo. Una necessità implacabile ci spinge; e la dobbiamo seguire, perché è la nostra salvezza.
E allora? «Facciamo una Costituzione presbite» pensa l'onorevole Calamandrei; no: «una Costituzione che guardi al presente immediato» suggerisce l'onorevole Nitti. Non dice «miope». Ma in questa scala di diottrie non è facile orientarci. Io penso che non si debba aderire a quella forma che Caterina suggeriva a Voltaire: «Tenersi ai tre C: circostanze, combinazioni, congiunture)? Meglio il monito di Goethe: «Piuttosto che giorno per giorno, vivere nello spirito dei millenni». Non è impossibile lavorare con concretezza, ed insieme con idealità. Bisogna essere realisti, cercare di costruire sul solido, tener conto delle nostre possibilità, ma se, non ci anima un afflato, una ispirazione che ci porti a vedere al di là del momento presente, non credo che riusciremo a scuotere questo nostro Paese.
Il nostro Presidente ha posto magistralmente le direttive della discussione. Questa discussione preliminare ha due rotaie: la tecnica costituzionale, e le grandi linee, complessive, panoramiche dei partiti e delle correnti d'idee. Non posso rispondere a tutti in tutti i loro rilievi; non posso entrare nelle discussioni subgenerali dei titoli e degli articoli. Mi varrò soltanto, perché il discorso non resti in aria, di alcune critiche come di casi ed esempi.
Vi è stato l'onorevole Bozzi che ha segnato le disarmonie e gli squilibri. Molti hanno indicato le superfluità. Qualcuno, invece, le lacune; per esempio l'amico Calamandrei, che avrebbe in certe parti desiderato una Costituzione più ampia. Si sono poi fatte numerosissime osservazioni formali, che si riducono talora ad un aggettivo, ad un verbo, ad una variazione, dietro le quali non credo che vi sia da tragicizzare. Le vedremo a suo tempo.
Su linee più generali, abbiamo avuto le osservazioni che si riferiscono all'estetica, come dice Della Seta. È stato detto: manca lo stile. Può essere. Ma non è agevole accontentare, per lo stile. Avevo un amico, buon letterato, che faceva i temi per il suo figliolo a scuola e prendeva ordinariamente 2 o 3. (Si ride).
Lo stile della Costituzione è cosa specialissima. Dovrebbe essere semplice, solenne, lapidario. Alla Costituente francese si sono lamentati di non avere la penna di Robespierre, che è stato un magnifico scrittore di dichiarazioni costituzionali. Lo ha detto Herriot, e ne hanno convenuto rappresentanti del partito democratico cattolico. È lo stile che non s'improvvisa.
L'onorevole Croce ha lamentato che non vi sia stato un solo estensore; ma ciò che fu possibile nel 1848 non è più avvenuto nelle Carte nuove. Se vi fosse stato un solo estensore, l'Assemblea con le sue discussioni ne sconvolgerebbe l'opera, la forma, che — come Croce ci insegna, non si separa dal contenuto — ha la sua importanza nelle istituzioni. Seguiremo attentamente tutte le indicazioni al riguardo. Si è già cercato di fare qualche cosa. Si sono consultati alcuni colleghi dell'Assemblea, di provata valentia letteraria, ed anche scrittori fuori di qui. Si sono raccolti molti elementi per le migliorie di forma. In ultimo, quando sarà approvato e comunque modificato il testo della Costituzione, vi potrà essere un breve termine per compiere sistematicamente la revisione e la sintesi di forma (che cercheremo sia allora unitaria) e per sottoporla poi definitivamente all'Assemblea.
Altre osservazioni riguardano l'architettonica, così cara alla nobilissima anima di La Pira. L'architettonica. Vi sono state alcune proposte dell'onorevole Della Seta, piuttosto tenui: mettere prima dei rapporti economici quelli politici, che noi abbiamo messo dopo a ragione veduta, perché vi sia nei diritti come una scala, e si passi, poi, all'organizzazione politica dello Stato. L'onorevole Della Seta ha proposto che si raggruppino le norme sul referendum, sulle pene, sulle disposizioni internazionali; non è accettabile; ad ogni modo questi piccoli ritocchi non altererebbero affatto la linea dell'edificio.
Eccolo l'edificio, che abbiamo costruito; la casa comune, come la chiama La Pira. Vi è un atrio, che è quasi un preambolo con quattro colonne: le disposizioni generali sul carattere della Repubblica, sulla sua posizione internazionale, sui rapporti con la Chiesa, sui grandi principî di libertà e di giustizia che animano la Costituzione. Questo è l'atrio. Poi comincia la Costituzione vera e propria, divisa in due parti, la prima, dei diritti e doveri, è ripartita anch'essa in quattro parti: rapporti civili, rapporti etico-sociali, rapporti economici, rapporti politici. Si passa poi, ed è la parte più costituzionale della Costituzione, all'ordinamento istituzionale. Ecco i grandi organi dello Stato: il Parlamento, il Capo dello Stato, il Governo, la Magistratura. Vengono in seguito gli organi dell'autonomia locale. Ed infine le garanzie costituzionali.
Non è certo una architettonica da Michelangelo o da Bramante; è una cosa modesta. Ma io voglio rivolgere un invito cordiale ai valorosi colleghi della nostra Assemblea. Mi dicano una Costituzione straniera che abbia una struttura più logica, più quadrata, più semplice di questa che è nel testo che vi abbiamo presentato.
Ma vi è una critica principe, che investe tutta la Costituzione: troppa roba, deflazione, la zavorra a mare! L'onorevole Nitti mi ha rivolto, con generosa cortesia, l'invito di fare quello che ha fatto Giustiniano: togliere il troppo e il vano. Debbo confessare che nel mio piccolo ho cercato di farlo. Gli articoli proposti erano in origine più di quattrocento; ora sono ridotti a meno del terzo. Senza dubbio la crescente dilatazione è un male di tutte le Costituzioni. Né le recenti possono essere come quelle dell'800; piuttosto scarne e nude; la vita dello Stato si è svolta in senso più complesso e sociale. E poi vi è una tendenza; anche in Francia, dove si lamentavano che la Costituzione potesse diventare un Bottin, cioè una specie di Guida Monaci. D'oltre oceano Salvemini scriveva: «Non fatene Un salcicciotto nel quale ci si mette la carne che si vuole». In realtà, onorevoli colleghi, vi è una infatuazione caratteristica; e non vi è istituto, non vi è ceto, non vi è categoria che non chieda di avere il suo articolo nella Costituzione, perché pensa così di acquistare rango. Qualche cosa ne sa la Commissione. Ora lo saprete voi, a cui tocca il compito di decidere.
La grande direttiva dovrebbe essere di sfrondare in alto ed in basso. Vi sono dei principî generali che non stanno bene nella Costituzione, perché non hanno un carattere di norma giuridica vera e propria e dovrebbero piuttosto essere rimandati ad un preambolo. D'altra parte, vi sono norme che, per la loro natura non costituzionale, stanno meglio in una legge ordinaria. Sfrondate sopra, sfrondate sotto — si dice — e la Costituzione diventerà una buona Costituzione.
D'accordo; ma quando ci si mette, l'operazione non è una cosa facile. La Costituzione non è una legge semplice. È una super-legge e vi sono elementi che non sono soltanto di strettissimo diritto, ma attengono a quel campo in cui la politica si congiunge alla morale. Sono norme che Croce ha chiamate etico-politiche; e chiedono di essere inserite nella Costituzione. L'optimum sarebbe quello che ha detto Mazzini: dapprima una dichiarazione di principî e poi una Costituzione di diritti veri e propri. È difficilissimo però raggiungere una distinzione netta e semplice.
È stato proposto il preambolo da molti colleghi: Lucifero, Calamandrei, Cevolotto, Laconi, altri. Il preambolo non è una pura e semplice soffitta. Anche i principî che stanno nel preambolo hanno un valore giuridico come direttiva e precetto al legislatore e criterio di interpretazione pel giudice; anzi sotto quest'ultimo aspetto possono costituire titolo a che una Corte costituzionale invalidi una legge che violi i principî collocati nel preambolo. Il vantaggio sarebbe di mettere nel testo i diritti azionabili, e nel preambolo quelli che non sono tali; questione diversa dall'impugnativa in Corte costituzionale.
Il preambolo non è una semplice soffitta, ma è molto grande la difficoltà di sceverare le norme. Vi è la resistenza delle correnti e dei partiti che temono un indebolimento delle loro rivendicazioni se messe in un preambolo. La Commissione dei 75 ha esaminato il problema ed ha ritenuto che non si possa deciderlo senz'altro oggi. Siamo tutti d'accordo che un preambolo è opportuno, con carattere storico, introduttivo, esplicativo. Ma se e quali norme devono essere portate nel preambolo noi non lo potremo decidere, se non quando avremo esaminato e discusso la Costituzione, almeno nella prima parte che riguarda i diritti e doveri dei cittadini.
Quanto all'altro lato della tesi — che, mentre si debbono passare al preambolo i rami più alti, conviene mandare i più bassi alle leggi ordinarie — un risultato si è già ottenuto; basta guardare alle proposte dei relatori per l'ordinamento giudiziario. Si vedrà in cammino se si potrà fare di più, vincendo la resistenza a collocare le norme nel fastigio, nel fortilizio della Costituzione.
Il problema del preambolo e del rinvio delle norme implica quello della rigidità della Costituzione. Se ne è parlato quasi nulla nella Commissione e nell'Assemblea; ma è stato tacitamente ed unanimemente risolto. Tutti suppongono e ritengono che la Costituzione deve essere rigida.
Nella vecchia Italia lo Statuto albertino era elastico, e si sviluppò democraticamente; gli uomini politici della democrazia vantavano la possibilità di trasformare e modificare continuamente lo Statuto. Uno solo che vedeva chiaro e lontano, perché era tessitore ed alpinista, Quintino Sella, espresse qualche timore e consigliò di tenersi piuttosto all'«arca santa» della Costituzione.
Che cosa significa la possibilità di variare senz'altro, semplicemente e inavvertitamente? Lo abbiamo visto durante il fascismo. Non si può dire che se ci fosse stata una Costituzione rigida, lo scempio si sarebbe evitato. La Costituzione rigida, evidentemente, non impedisce le grandi lacerazioni che la storia può produrre; ma può, per lo meno, frenare le violazioni minori. Rigidità non vuol dire che una Carta non possa esser modificata. Vuol dire che le leggi ordinarie non possono deviare dai principî e dalle norme della Carta, e se ne deviano sono annullabili e prive d'efficacia! Vuol dire che, quando si voglia modificare la Costituzione, occorre una più cauta e meditata procedura, prescritta dalla stessa Costituzione. Sopra questo punto credo che non vi possano essere contrasti fra noi.
Ed ecco (i problemi si intrecciano) quello della gerarchia delle norme. Si è detto qui che vi sono delle norme al di sopra della Costituzione. L'onorevole Calamandrei si è proposto di darci un testo dal quale risulti che le libertà fondamentali non possono essere violate neppure da altre Costituzioni. E sia; sebbene non sarà facile una formulazione, che non sia troppo vaga.
Non è spento il grido di Antigone, che vi sono leggi superiori alle leggi della città. Lasciamo stare se sono leggi; sono principî e norme etico-politiche, gli immortali principî, in cui noi democratici abbiamo vissuto, e fra gli immortali principî, amico La Pira, vi era la fraternità; e quindi non erano così individualisti, anche se lo svolgimento ed il senso pieno della socialità venne storicamente dopo.
Non sarebbe stato possibile parlare di immortali principî prima del fascismo, quando i liberali deridevano le alcinesche seduzioni della dea giustizia e della dea libertà; ma ormai anch'essi esaltano la religione della libertà, e tutti, tutti qui dentro, riconoscono questi valori ideali più alti; dai cattolici che giustamente reclamano alla loro religione la fonte eterna degli stessi principî, ai partiti che muovono dal Manifesto dei comunisti e, rivendicando di togliere il giogo della classe sulla classe, risalgono a quello dell'uomo sull'uomo e convergono ed affermano i diritti fondamentali dell'uomo, la carta dell'uomo, come ha detto l'amico Tupini. Il riconoscimento di questi principî è una cosa bella e non vana, non retorica, è un grido che erompe dopo l'eclissi funesta delle libertà che ha oscurato il nostro Paese. Vi sono dei diritti che lo Stato, nessuno Stato può violare anche con la sua Costituzione.
Vi sono poi le norme della Costituzione, che le leggi non possono modificare. Accanto alla Costituzione stanno leggi di tipo e valore costituzionale, ed altre e che per la loro approvazione richiedono un quorum speciale; infine le leggi ordinarie dello Stato. Per non sfigurare farò anch'io la critica della Costituzione; ma non vi riesco, perché è un rilievo che noi stessi abbiamo fatto, ed è un lavoro in corso: cerchiamo di rivedere e di precisare la natura delle varie norme e la loro gerarchia; per la maggior correttezza giuridica e per la difesa delle libertà.
Dalle questioni più tecniche, passiamo ora ad altre di tendenza e d'idea. Vi è una parola che ha aleggiato qui, ed è stata ripetuta come un ritornello: la parola «compromesso». Vi debbo confessare che nella mia relazione avevo messo un brano che trovavo molto bello, ma poi l'ho tolto per paura della parola. Un santo della politica, Ghandi, ha detto che, appunto perché credeva alla verità eterna delle idee, sentiva la necessità e la bellezza del compromesso. Non è un paradosso. Le grandi idee animatrici debbono accompagnarsi col senso della realtà, della concretezza, delle possibilità effettive. Ma la parola «compromesso» grava come un incubo e minaccia di avvelenare ogni linea d'azione. Che cosa significa in origine compromesso? Vuol dire, nel suo etimo, che parecchi fanno promessa insieme, assumono un impegno, stipulano un patto; e non c'è nulla di male, ed è necessità; elementare di vita. Vi è bensì un senso deteriore, una deformazione che l'onorevole Ghidini ha messo molto bene in luce, ed è il baratto, il mercato, la combinazione oscura di interessi, non d'idee. Per evitare l'equivoco, liberiamoci pure dalla parola. Cambiamola; parleremo di patto, parleremo di accordo, parleremo di convergenza di pensiero e di forze sovra punti determinati. Ve ne è l'assoluta necessità, lo hanno detto Tupini, Saragat, Nenni, Togliatti. La storia cammina così. Nell'altro dopo-guerra un alto giurista, Jellinek, si lamentò: come possiamo fare, ora che non vi è nessuna grande idea trascinante, nessun grande uomo di Stato demoniaco come Bismarck? Dio ci scampi da un uomo di Stato demoniaco! Se non vi è una sola idea trascinante, ma più concezioni in contrasto dobbiamo rinunciare alla Costituzione? L'onorevole Basso ha d'etto giustamente che una Costituzione non può essere di partito e di maggioranza che schiacci la minoranza. Se non si cercano le vie maestre dei patti e degli accordi, non si può accendere altro che il disordine e la guerra civile. Venga il compromesso nel senso buono; alla luce del sole; fra esponenti di partiti, meditato, e consapevole nella sua sostanza. Se poi bisognerà trovare le formule, e se qualcuno, al di fuori dei partiti, e non interessato da motivi personali, riescirà nella fatica, questo, onorevole Togliatti, non è un compromesso deteriore.
In realtà nella nostra Commissione non vi sono state trattative esplicite, ma accostamenti nella discussione. Né bisogna dimenticare che esistono compromessi di fatto, non negoziati che vanno al di sopra delle volontà, compromessi storici che si delineano da se stessi; e sarà così, io credo, anche della nostra Costituzione. Spero di metterlo in luce, con una scorsa rapida attraverso le varie parti del nostro progetto. Vedremo che, dopotutto, vi è una linea organica, ed una sostanza che può essere accettata.
Seguendo le disposizioni del nostro Presidente, non entrerò in particolari; mi varrò soltanto, ove occorre, di esempi per vedere quali sono i consensi, quali sono i dissensi, dove è possibile trovare l'idea unificatrice e conciliatrice. Cominciamo dal quasi preambolo, dall'atrio, dalle disposizioni generali.
La Repubblica. Due radici: la sovranità popolare, il fondamento del lavoro. Sulla prima vi è assoluto consenso; e non è senza significato. L'onorevole Lucifero vuole che invece di dire: la sovranità «emana» si dica: «risiede» nel popolo. Emana, risiede, appartiene, è del popolo; è questione di scegliere l'espressione più esatta. La nuova Costituzione francese ripete la frase di Lincoln sul campo di Jettersburg: sovranità del popolo, dal popolo, per il popolo.
Nell'affermare la sovranità popolare, il nostro progetto pone anche, inscindibilmente, il concetto dello Stato di diritto, in quanto ogni esplicazione di sovranità e di potere deve avvenire nelle forme della Costituzione e delle leggi. E il popolo stesso si dà Costituzione e leggi; non vi è dunque nello Stato di diritto alcuna menomazione della sovranità popolare.
Qualche dissenso nasce per l'altra base: il lavoro; tema che rimando ai diritti sociali ed economici.
Non vi potranno essere in definitiva gravi contrasti per la parte internazionale.
Vengo al roveto ardente, ai rapporti con la Chiesa Cattolica. Altro che compromesso! Vi fosse l'accordo! Vivissimo sarà il dibattito, il primo a sorgere fra noi, quando tratteremo delle disposizioni generali.
L'Italia nel 1929 ha seppellito la questione romana, componendo un dissidio che durava dal Risorgimento; ed ha raggiunto la pace religiosa — «pace religiosa» è la frase usata da tutte le parti di questa Camera — con un accordo fra lo Stato e la Chiesa Cattolica. La Repubblica si trova di fronte a tale situazione:
Vi esporrò alcuni termini, strettamente giuridici, necessaria premessa di ogni altra considerazione. Delle tre formule che sono state discusse: — 1ª i rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati da patti concordati; 2ª dai patti concordati; 3ª dai Patti lateranensi — anche la prima (da patti concordati) implica già un riconoscimento tacito dei Patti lateranensi che sono i patti concordati in vigore. Le altre due aggiungono di più. Lasciando stare la parola «lateranensi», dove stride il ricordo mussoliniano, ambedue, pur non inserendo veramente quei Patti nella Costituzione (ed è affermazione inesatta) danno ai patti stessi, come risulta dal codicillo suggerito dall'onorevole Lucifero, uno speciale valore costituzionale; nel senso che, se non vi è accordo bilaterale fra le parti, lo Stato non può denunciare i Patti se non con legge di valore costituzionale. È il punto tecnico che l'onorevole Orlando ha messo in luce. Si può aggiungere che, poiché la costituzione, anche con la più tenue delle formule proposte, adotta il regime concordatario, occorre, quando si denunci il patto e non se ne stipuli un altro, la revisione costituzionale.
Dietro le questioni tecniche stanno le differenze ideali: fra la democrazia laica e la democrazia cattolica; ciascuna delle quali ha tradizioni ed impostazioni proprie; ma il loro accordo è necessario per la Repubblica italiana. Tutti gli oratori dell'estrema sinistra hanno qui dichiarato che non pensano a denunziare i Patti lateranensi: ma a perfezionarli e migliorarli, d'accordo con la Chiesa, al momento opportuno. È chiaro che, se noi ridestiamo il contrasto religioso, non sono solo in pericolo, amico Nenni, le riforme sociali: v'è qualcosa di più in pericolo, lo stesso avvenire del Paese. E allora? È possibile un accordo, una formula che consenta alla Santa Sede il riconoscimento dei patti dalla Repubblica, ed allo Stato di non vincolare la propria posizione costituzionale? Lasciate che io mi unisca al voto ed all'appello dell'onorevole Orlando, che è stato ripetuto da Togliatti e da altri; si trovi la formula conciliatrice, che senza ferire il punto fondamentale delle due parti, eviti di riaccendere una guerra religiosa, esiziale per il nostro Paese.
Una voce. Siamo tutti d'accordo su questo. (Commenti).
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. È appunto per questo accordo che anch'io ho alzato il mio grido.
Nella prima parte della Costituzione campeggia il tema della libertà. Qui non troviamo compromesso, ma consenso, anzi troppo consenso, secondo alcuni. Tutti sono per la libertà. La libertà è una delle parole più difficili a definire, diceva Montesquieu. Così della democrazia. La democrazia che un tempo Marx, Proudhon, Sorel combattevano e disprezzavano, perché quella che vedevano non corrispondeva alle loro mete, è diventata la grande idea anche dei socialisti. E nessuno dei conservatori osa smentirla; anzi ne fa suo schermo.
Democrazia senza aggettivi dice l'onorevole Lucifero; democrazia con aggettivi dice l'onorevole Cevolotto. In sostanza sulla democrazia siamo, o sembriamo, tutti d'accordo. Che, cosa fare? Vogliamo dire a qualcuno: non crediamo che voi siate per la libertà democratica? Vogliamo ammettere che vi sia fra noi un nuovo Veuillot che dica o pensi: io difendo la libertà perché voi siete al potere, la combatterò quando sarò al potere perché questo è il mio programma?
Si è riscontrato che nella nostra Costituzione ci sono due pregi. Il primo è quello, messo in luce da Saragat e da La Pira, che si è fatto capo ai diritti della personalità umana. Dopo l'epoca atroce che abbiamo passato, in cui la dignità della persona era spregiata e cancellata, vi è un grande anelito di libertà. L'onorevole Togliatti ha detto che la libertà personale è la meta del programma comunista. Mi sembra logico che sia anche il punto di partenza. Perché dobbiamo vedere un compromesso dove v'è il consenso di tutti?
Il secondo pregio è di formulazione tecnica. Nonostante gli attacchi alla Costituzione, essa non appare mal congegnata. Diverse ed opposte, come sempre, sono le critiche e suonano diversamente: «mettere poco o nulla nella Costituzione; rinviare alle leggi»; è una tesi; ed ecco l'altra: «mettere tutto nella Costituzione», anche a rischio di farne un codice. Proprio nello stesso giorno, ho letto le due tesi in articoli di giornali e riviste.
Quali vie abbiamo seguito noi della Commissione? Abbiamo rinviato spesso a leggi; il che non significa far cosa inutile e vana, vuol dire per lo meno questo: che il potere esecutivo non potrà commettere alcun arbitrio; e tutto dovrà essere regolato da leggi. Poi abbiamo cercato di mettere alcune norme e principî che siano per il legislatore una sicura direttiva ed un infrangibile limite. È il solo metodo che si deve seguire; sta a vedere se l'abbiamo applicato bene o male. Io credo che non sia stato applicato male, e che contenga anche qualche punto abbastanza originale.
Per quanto riguarda l'inviolabilità della persona e del domicilio, gli arresti, i fermi, le perquisizioni domiciliari, che nel regime tirannico erano così frequenti, abbiamo stabilito che vi deve essere una norma precisa di legge ed una decisione motivata del magistrato. Nei casi di assoluta urgenza non si può vietare — per la stessa difesa della vita e degli averi dei cittadini — che intervenga l'autorità di pubblica sicurezza. Si è voluto evitare che la polizia faccia una perquisizione e poi non ne parli più; trattenga uno per ventiquattro o per quarantotto ore in guardiola, in carcere, e poi lo lasci libero senza dir nulla. Si è stabilito che, qualunque cosa possa fare, per assoluta necessità, nei casi ammessi dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza debba riferire immediatamente al magistrato, e ciò — si noti — per ogni e qualunque restrizione di libertà personale e domiciliare; ed anche se il rilascio è avvenuto prima che scada il termine dell'obbligo di comunicazione al magistrato stesso. È un principio che non trova riscontro in alcun'altra Costituzione.
Un altro punto nuovo, per il diritto di associazione. Non si è ammesso soltanto in quei casi in cui la legge lo consente, come le altre Costituzioni. Si è stabilito che i diritti e le libertà che un singolo può far valere personalmente, secondo legge, può farli valere anche collettivamente.
Potrei continuare nell'esame dei diritti di libertà, ma il tempo incalza. Mi limito a fare un cordiale invito ai valorosi colleghi dell'Assemblea; mi dicano quale delle altre Costituzioni abbia delle norme sulle libertà civili ferme e chiare come quelle che abbiamo cercato di stabilire nel nostro progetto.
Passiamo ora ai rapporti economici; e notiamo anzitutto che, secondo una chiara affermazione accentuata dall'onorevole Saragat, i diritti di libertà che sono a base essenzialmente individuale devono rimanere ben fermi anche coi nuovi diritti sociali.
La Costituzione va incontro ai diritti del lavoro; apre la strada alle conquiste del lavoro. E lo fa in una forma che non deve spaventare; non è sovvertimento e rivoluzione social-comunista in atto, come ha detto qualcuno. Rivoluzione? Anch'io ne ho parlato nei miei libri, qualche volta; ma, da quando Mussolini ha imperversato con la rivoluzione in atto, io non posso più soffrire questa parola. Pregherei l'amico Saragat e l'amico Lussu di non usarla se non in un senso ben chiaro. La Costituzione sancisce i diritti del lavoro come orientazione democratica, non come programma rivoluzionano. È in sostanza la constatazione di una realtà che è già in cammino. Chi può dubitare che ci troviamo all'avvento di forme economiche nuove? Io le chiamo economia del lavoro. Quando tutti parlano di democrazia economica e sociale oltreché politica, e parlano con Roosevelt di liberazione dal bisogno, ammettono che vi sia una trasformazione dell'ordine economico.
Il maggiore degli economisti italiani viventi, il nostro Einaudi, ha scritto che il capitalismo storico è al tramonto. Se altri non vi è, sarò io a dire la grandezza del capitalismo, che ha preso in mano, un secolo fa, un'Europa di pochi milioni di uomini, e ne ha aumentato la popolazione con un ritmo sconosciuto al passato, ed ha diffuso la civiltà sugli altri continenti, ha conquistato i più grandi progressi della scienza e del progresso tecnico, ha creato la grande industria e l'agricoltura intensiva, ha portato il tenore di vita delle masse ad un livello non mai raggiunto, ha preparato le loro vittorie di domani, è stata l'epoca più prospera e gloriosa di tutta la storia. Ma noi non possiamo ancora vivere con le forme di quel tempo. Gli economisti — i migliori — riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata dall'Ottocento, non regge più sul presupposto di una economia di mercato e di libera concorrenza, che è venuto meno, non soltanto per gli interventi dello Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di tendenze e di monopoli delle imprese private. Quando vedo i neo liberisti, come l'amico Einaudi, proporre tale serie di interventi per assicurare la concorrenza, che qualche volta possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che molto è mutato. Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada. La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro. Non potevamo rifiutarci a questa affermazione. Mazzini diceva che noi tutti un giorno saremo operai; i cattolici hanno il codice di Malines e quello di Camaldoli, dove sono stati stabiliti i principî d'una economia del lavoro. Ho sentito da questa parte (Accenna a destra) chi pur faceva vive critiche: «Se per socialismo si intende un rinnovamento sociale, anche noi siamo socialisti». Allora, perché avremmo dovuto rifiutarci a riconoscere che la nuova Costituzione è basata sul lavoro e sui lavoratori? Parlando di lavoratori, noi intendiamo questo termine nel senso più ampio, cioè comprendente il lavoratore intellettuale, il professionista, lo stesso imprenditore, in quanto è un lavoratore qualificato che organizza la produzione, e non vive, senza lavorare, di monopolî e di privilegi. Sono cieche le correnti degli imprenditori che non rivendicano — se sono ancora in tempo lo dirà la storia — la loro vera funzione ed il titolo glorioso di lavoratori. Perché dobbiamo avere paura del nome e dei diritti del lavoro?
Il diritto al lavoro: qui vi sono due opposizioni; una di forma, per il rinvio dell'affermazione al preambolo, ed un'altra che è contro il diritto al lavoro, perché ne ritiene impossibile la garanzia. Vorrei che anche la prima corrente chiarisse bene i suoi propositi, e se è favorevole al principio vedesse di sacrificare lo scrupolo alla sostanza.
Si è obbiettato: se proclamate il diritto al lavoro, e non potrete mantenere subito l'impegno, verrà l'esasperazione, per la tradita promessa. Ma l'esasperazione non c'è anche adesso con tutte le dimostrazioni di disoccupati al Viminale? La Costituzione non poteva tacere del diritto al lavoro, e lo ha formulato nel modo più cauto e con grande equilibrio, come vi ha detto l'onorevole Ghidini. Lo Stato riconosce il diritto e promuove le condizioni per attuarlo. Il principio è posto; e va realizzato nei termini concreti e graduali delle possibilità.
Dovere del lavoro: l'abbiamo pur qui inteso nel senso più ampio, anche del lavoro intellettuale, e di ogni attività e funzione che concorra allo sviluppo materiale e spirituale della società. Non abbiamo creduto che in una Costituzione nuova come la nostra si potesse dimenticare il motto paolino, che è così cristiano, ma è scritto anche nella Costituzione di Stalin: «Chi non lavora non mangia». E che, si chiede, non si può oggi vivere di rendita? Sì, almeno per ora, ma nessuno può essere inerte redditiero; e deve farsi attivo e compiere qualche lavoro socialmente utile.
Vi è poi il diritto all'assistenza: l'onorevole Rubilli ha detto che non è neppur esso un vero e sicuro diritto. Vorrei ricordare quando egli era con noi all'avanguardia della democrazia radicale, in una seduta qui, in questa aula, io che ero allora Sottosegretario di Stato per il lavoro, nel Ministero Orlando, di cui era Ministro del tesoro Nitti, due uomini a cui va riverente la mia gratitudine; rispondevo a Bruno Buozzi, e mostravo gli sforzi, cui presiedevo, di organizzare la previdenza sociale e la sicurezza sociale in tutti i suoi aspetti, di malattia, di infortuni, di vecchiaia; mi pare di vedere ancora Buozzi, alzarsi lì, da quel posto, e dire: «Comincia la nuova fase nella vita sociale italiana». Perché ciò che abbiamo raggiunto non lo dobbiamo mettere nella nostra Costituzione? È un diritto concreto e non soltanto potenziale.
Nei rapporti economici hanno il loro posto le norme per l'impresa e la proprietà. Avete ascoltato l'onorevole Basso; anche le correnti estreme ammettono che nell'attuale momento economico si riconosca libertà ed iniziativa alla impresa ed alla proprietà privata. Perché non registrare il principio che non è un compromesso e risponde al fatto economico?
L'onorevole Bozzi ha osservato che non si può nello stesso tempo dire libere ed assoggettare a limiti l'impresa e l'iniziativa private. Ma non c'è mai stato un ordinamento di questo mondo dove tutto fosse liberista o tutto comunista. Anche in un regime economicamente libero vi sono dei limiti (e vi sono sempre stati) imposti per legge all'impresa ed alla proprietà privata. I più conservatori ed ortodossi non possono opporsi a quanto è stabilito anche in Costituzioni ormai vecchie.
Né han ragione di gridare contro ciò che riguarda il controllo ed il piano economico. Qui ho cercato di influire, perché si tolga una prima espressione che vi era nel progetto: e non penso che per questo io debba essere fucilato. Vi era nel progetto una espressione che diceva: «Ogni attività economica è soggetta a controllo periferico e centrale». La frase poteva essere interpretata in modo eccessivo. Abbiamo messo un articolo che consente di armonizzare e di coordinare le attività economiche, private e pubbliche, a scopi sociali. È in essere la pianificazione? Ma è ormai in atto in tutti i Paesi; e deve essere in base alla legge, e con criteri di elasticità, di guida e direzione più che di coazione totalitaria; lontani dai piani alla russa; e ciò risulta dallo stesso tenore della disposizione. Domando a voi cosa vi è in essa di rivoluzionario o di reazionario; lo domando specialmente ai colleghi che non si spaventano se un metropolitano, dirigendo la circolazione per la strada, ne assicura la vera libertà.
Sono lieto d'aver sentito la voce del più anziano fra noi, del più degno di noi, dell'onorevole Orlando, che, levandosi ad interprete della sua generazione, ha ammesso i diritti nuovi del lavoro...
Orlando Vittorio Emanuele. Li ho acclamati, non ammessi.
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ciò ha Un significato. Non bisogna che indugiamo più in incertezze. Noi vecchi della democrazia dobbiamo ammettere e far nostro un motto di Jaurès: «Il fiume non rinnega le origini quando vai alla foce».
Mi resta di parlare dell'ordinamento, la seconda ed ultima parte della Costituzione. Ne avevano parlato pochi; poi vennero grandi interventi e l'argomento salì alle vette.
Vi sono due correnti: Una dice: «Quello che avete fatto è troppo spinto; è addirittura totalitario e rivoluzionario». Un'altra invece: «Siete retrogradi; volete attraversare con un assetto arcaico, di ostacoli e di remore, le vie alla nuova democrazia ed alle conquiste operaie» Potrei rannicchiarmi nel giusto mezzo, e tacere, ma desidero che vediamo insieme come stanno le cose.
Stanno da un lato gli istituti dell'800, dall'altro le correnti nuove. Nel secolo scorso, prevalse e raggiunse il suo pieno svolgimento il sistema rappresentativo, parlamentare, di Gabinetto. Ne ho appreso dai libri di Orlando le caratteristiche essenziali. Ho poi visto come è sorto storicamente questo tipo di Governo di Gabinetto in Inghilterra, dove la Corona che aveva ceduto al Parlamento pel potere legislativo, teneva ancora l'esecutivo; ma uno dei goffi e squilibrati re di Hannover, non sapendo l'inglese, non partecipò più al Consiglio dei Ministri, ed il Governo passò effettivamente a questo Consiglio, che, venne designato dalla fiducia del Parlamento.
Se ben guardiamo, il Governo parlamentare è un arco lanciato fra due piloni; uno di questi è la sovranità popolare, l'altro era la sovranità regia: il re per grazia di Dio e per volontà della Nazione. Quando il sistema si trasportò nel continente, in Francia, e cadde con la monarchia uno dei piloni, vennero meno le linee del compromesso storico, e le cose cominciarono ad andare con minore semplicità. Poincaré, che in uno scritto assai noto constatava aver il Presidente della Repubblica francese in sua mano tutti i poteri occorrenti, dové poi, quando divenne Presidente, accorgersi che le cose non andavano così; e fu per pungere Poincaré che Clemenceau disse una delle sue boutades: vi sono due cose inutili al mondo, la prostata ed il Presidente della Repubblica francese. (Si ride). Insomma: caduto uno dei piloni, occorre adattare questo regime in clima di Repubblica e di democrazia.
Dall'altra parte vi sono correnti e forme nuove. Si erano manifestate dapprima contro il Parlamento con un sistema di sovieti o consigli a catena, che avevano in sé il triplice potere: legislativo, giudiziario, amministrativo. Venne in seguito accolto anche nella Costituzione russa il Parlamento, sia pure col nome di Consiglio, e con l'infrastruttura effettiva di un partito unico e di un potere concentrato in un capo. Nei paesi occidentali si delineano le forme nuove, nel senso che attingendo decisamente ed esclusivamente alle fonti della sovranità popolare, si fanno forti di essa e sostengono: la sovranità popolare è una e non può essere delegata che ad un solo organo: l'Assemblea. Tutti gli altri organi, Presidente della Repubblica, Governo, Magistratura, amministrazione, non sono che commessi ed agenti di esecuzione. Ogni mandato ed ogni delegazione è revocabile ad nutum. Questa la teoria estrema, che si è fatta avanti nei dibattiti della Costituente francese. Ne ho sentito qualche eco qui, specialmente nel discorso di un giovane che ha fatto un così brillante debutto: l'onorevole Laconi. Egli dichiara che non vi devono essere divisione di poteri né congegni di contrappesi e bilance; anzi si spinge molto in là e non vuole che vi sia nessun organo ausiliario e di controllo; mentre la teoria più raffinata di questa scuola ammette che vi siano corpi consultivi, Consigli legislativi, Consigli economici, controlli di amministrazione, a fianco dell'Assemblea, cui restano in ogni modo tutti i poteri, perché, se non è direttamente sovrana, è l'unica delegata della sovranità popolare. Si sostiene che in regime democratico non vi debbono essere cheks and balances; ma esistono negli Stati Uniti d'America, in Isvizzera, e non possono essere abbandonati senz'altro, a cuor leggero.
Nella tempesta che noi attraversiamo non abbiamo creduto di abbandonare lo schermo del Governo parlamentare e di Gabinetto, che ha dato la libertà nell'800; ma abbiamo sentito la necessità di inserirlo nel quadro della Repubblica, di mettere meglio le sue radici nella sovranità popolare, senza avventurarci in forme di Governo d'Assemblea, che non hanno fatto buona prova, e non sono capaci di funzionare, come non può funzionare il Governo diretto di popolo. Se forme nuove potranno venire, sono per ora oscure. Intanto non si poteva fare altro che quello che la Commissione ha cercato di fare: ma abbiamo avuto un attacco veramente leonino da Orlando...
Orlando Vittorio Emanuele. Non lo avete fatto.
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. All'onorevole Orlando è sfuggita la frase: Costituzione totalitaria.
Orlando Vittorio Emanuele. Totalitaria vuol dire con un solo organo sovrano.
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Totalitaria vuol dire, nel linguaggio corrente, molte cose; ed è stata intesa in senso diverso dal suo. Certo è, ad ogni modo, che la sua tesi è il contrapposto dell'altra, che denuncia il nostro progetto come conservatore e retrogrado; siepe contro le forze operaie.
Giudizio dell'onorevole Orlando, accennato anche prima dall'onorevole Nitti, è che si danno troppi poteri all'Assemblea. Opinione degli onorevoli Nenni e Togliatti è che vi sono troppi diaframmi, troppe barriere e non si dà via libera all'Assemblea. Tratterò di questo argomento, affrontando con tutta riverenza gli argomenti di un Maestro come Orlando.
Ha parlato del Parlamento, del Capo dello Stato, della Corte costituzionale. Ha cominciato con due rilievi sul Parlamento, che egli stesso ha detto minori. Ci ha accusato di avere svalutato la iniziativa legislativa, dandola a 50.000 elettori. Ma anche negli ordinamenti passati la iniziativa legislativa la poteva avere un solo deputato. Ed allora perché non concederla a 50.000 elettori? La proposta di una legge non si identifica col referendum, ma si collega all'idea di risalire, non per le sole elezioni, alle forze vive ed originarie del popolo. Vi è nel referendum un filone della nostra Costituzione, un lato nuovo, che attinge alle fonti della sovranità popolare; e che contrasta con le sue stesse armi alla tesi dell'unico governo d'Assemblea. La novità non è certo pericolosa, nell'uso equilibrato che ne fa il progetto; e che prego l'onorevole Orlando di tener presente, per temperare il rilievo di totalitarismo.
Secondo rilievo dell'onorevole Orlando: avete impicciolito Parlamento e Ministri con un certo articolo che dice che questi possono presentarsi all'Assemblea e devono rispondere se interrogati. Ma ciò vi era anche nei vecchi ordinamenti dello Stato; e si riferisce espressamente al caso che i Ministri non siano Deputati; così che si tratta non di umiliarli, ma di ammetterli nella vita del Parlamento.
L'argomento più grave, l'onorevole Orlando lo ha detto in forma drastica: voi avete espulso il Capo dello Stato dal Parlamento. È la formula classica del re nel Parlamento che si dovrebbe applicare al Presidente della Repubblica. Conferirgli la sanzione, non la sola promulgazione della legge. L'onorevole Orlando non comprende una promulgazione senza sanzione. Per verità, se vediamo nel Presidente della Repubblica l'organo supremo che presiede al potere esecutivo e al potere legislativo, gli possiamo dare la promulgazione delle leggi come saldatura fra i due poteri. Resta la questione della sanzione, che si può discutere; ma non si può darle tanta importanza, anche perché è sempre stata una finzione anche nei regimi monarchici, tranne forse in un livido mattino in cui, non so se per consiglio dello stesso Facta, il re rifiutò la sua sanzione ad un decreto che avrebbe dovuto arrestare la marcia del fascismo. Noi non abbiamo creduto che la sanzione delle leggi sia necessario attributo del Presidente della Repubblica. Comunque, non è questo che possa formare il carattere totalitario di una Costituzione.
La critica sul Parlamento si è svolta soprattutto per la seconda Camera. L'onorevole Orlando è andato quasi d'accordo con gli estremisti: se la fate così è meglio che non vi sia che una sola Camera. Conclusione affine, partendo da criteri diametralmente opposti.
La Commissione, a maggioranza (ed io debbo essere qui interprete della maggioranza) ha ammesso la bicameralità, non perché ritenga che sia, come dicono certi maestri di diritto costituzionale, un assioma del diritto pubblico, ma perché in questo momento è parso necessario non abbandonarsi sul piano inclinato del Governo di una sola Assemblea o Convenzione.
Anche nella forma più o meno felice che è venuta fuori, la Camera dei Senatori non è un duplicato dell'altra. Oltre alla rappresentanza del Consiglio regionale, vi è una diversità di elettorato e di eleggibilità. La nostra disgraziata Commissione, dovete riconoscerlo, ha questo almeno di buono, che vi ha preparato in ogni campo, ed anche pel Senato, una serie di soluzioni fra le quali voi potete scegliere; indicate nella mia relazione ed in documenti che vi sono stati distribuiti. Le due Camere possono e non devono essere fatte con lo stesso stampo, pur avendo entrambe origine, diretta o indiretta, dal suffragio del popolo.
Non è stato toccato qui, ma venne discusso in Commissione, il problema della prevalenza di una Camera sull'altra. Vi confesso che personalmente ritenevo opportuno che una Camera avesse una certa prevalenza sull'altra, come è avvenuto in tutti i Paesi, anche nella vecchia Italia monarchica; e come ha stabilito per l'Inghilterra la legge del 1911. La prevalenza d'una Camera può essere collocata in una giusta inquadratura costituzionale. La maggioranza della Commissione ha invece ritenuto di ammettere piena parità di poteri; e ciò non mi sembra confermi l'interpretazione totalitaria dell'onorevole Orlando.
Ma egli vede il pericolo nell'Assemblea Nazionale, in cui le due Camere si riuniscono per dati compiti. L'onorevole Nenni l'ha chiamata un correttivo del bicameralismo; l'onorevole Orlando ne ha visto addirittura una manifestazione totalitaria. L'Assemblea Nazionale è un istituto votato alla quasi unanimità dalla Commissione, che ha creduto di trovarvi un logico coronamento del sistema parlamentare, un modo di dare una certa stabilità al Governo, una possibilità di evitare meglio il totalitarismo, che di solito è di una Camera sola. Lo credo un buon istituto; nuovo fino ad un certo punto, perché lo hanno anche altri Paesi; noi lo abbiamo sviluppato, con misurate attribuzioni; e non farà cattiva prova.
Il Capo dello Stato, quale risulta dal progetto, non è il fannullone che sembra all'onorevole Orlando. L'elenco delle funzioni che gli abbiamo date non è scarso e lieve. Nello scorrerlo, l'onorevole Orlando ad un dato punto si è fermato ed ha avuto qualche esitazione per il comando delle forze armate, che gli abbiamo attribuito, in quanto non può essere dato ad un militare di professione, ma soltanto al Capo elettivo della Repubblica italiana. I poteri che avrà il nostro Presidente sono molto più ampi di quelli che ha il Presidente della Repubblica francese. Basta pensare alla facoltà di sciogliere le Camere, che è decisiva; né si dica che occorre la controfirma del capo del Governo. È uno dei casi in cui per correttezza costituzionale la controfirma non sarà rifiutata; io poi personalmente ritengo che potrà essere nominato un nuovo capo del Governo. Voglio ancora sottolineare che, al di sopra dei poteri, ben considerevoli, che gli abbiamo dati, il Presidente della Repubblica ha funzioni, meno definite, e perciò più ampie, di persuasione, di equilibrio, di supremo arbitrato; che possono essere utilissime al paese, ed hanno ora felice espressione nell'attuale Capo dello Stato. (Approvazioni).
Un altro problema è il modo di elezione del Presidente, che potrebbe esser eletto dal popolo.
Orlando Vittorio Emanuele. Io lo preferisco.
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Anche io lo preferisco. Si ristabilirebbe un po', di fronte al Parlamento, l'altro pilone del regime di Gabinetto; non quello del re, che è definitivamente caduto, ma di un Capo dello Stato eletto allo stesso modo del Parlamento, con le sue radici egualmente nella sovranità popolare. Per tale designazione vi sono argomenti pro e contro. Vi è contro, lo ha detto un collega, lo spettro di Cesare, di Buonaparte, di Hitler, ed è una preoccupazione che in molti prevale su ogni altra. Ma, intendiamoci bene, non sarebbe mai il Capo del Governo e dell'esecutivo, come è in America col sistema presidenziale. Sarebbe soltanto il Capo dello Stato con determinati poteri, quali abbiamo tracciati noi.
L'onorevole Saragat, con molta lucidità, sente il bisogno che in un mondo così pluralistico per i partiti, dove non vi è una maggioranza solida e piena, ma un disordinato fluire, ed un eterno contrasto, esista qualcosa di solido e di fermo su cui condurre una politica durevole; ed a tal fine richiede l'elezione popolare del Capo dello Stato. L'onorevole Orlando aderisce, e così altri ed eminenti, ma pochi, uomini politici, ad una proposta che ha intenti tutt'altro che totalitari.
Il nostro maestro Orlando sembra vedere il totalitarismo, e qui ha pronunciato la parola, anche nelle norme sopra il Governo ed il Capo del Governo. Perché? Perché la maggioranza della Commissione ha dato al Capo del Governo una posizione non di primus inter pares, ma di Capo che abbia certi poteri di coordinamento; e l'ha fatto per dare a qualcuno, nel Governo, la bacchetta di direttore d'orchestra. Niente altro. Nessun potere eccezionale è attribuito a questo Capo del Governo. Si è, oltre a ciò, cercato di assicurare una certa stabilità ai Governi. Ai vecchi tempi che io ricordo i Governi cadevano talvolta sopra una buccia di limone; era sempre possibile un'imboscata parlamentare, un voto all'ultim'ora, proposto con insidiosa improvvisazione da qualche esperto manovratore. Noi non vogliamo che il Governo sia, secondo recenti concezioni, nominato per un periodo fisso dall'Assemblea; il Governo per noi non è il comitato esecutivo dell'Assemblea, come inclina a ritenere Kelsen; è nominato dal Capo dello Stato; e deve avere la fiducia del Parlamento; dove è la sua vera base e ragion d'essere. Ma è appunto perché fiducia e sfiducia siano espresse chiaramente e con senso di responsabilità, che si chiede una procedura di meditato intervento delle Camere riunite. Non vedo in ciò, tutt'altro, la via del totalitarismo. Casomai, un tentativo di regolare il pluralismo dei partiti; che è anch'esso un male, dove non si formi una maggioranza sufficiente.
I partiti. Ne hanno parlato Saragat e Calamandrei, proponendo di dare ad essi una disciplina giuridica. La Commissione non si è spinta in questa via. Vi sono ritegni, anche nel mio pensiero, perché se è vero che i partiti sono una realtà necessaria, ed assorbono oggi non poco della vita dell'Assemblea, come ha detto con acuta diagnosi l'onorevole Saragat, il farne degli organi costituzionali toglierà anche di più e scuoterà più ancora il Parlamento. Si aggraverà quella che Croce chiamava partitomania. Si è parlato di controllo — Saragat vi ha accennato — sui loro fondi. Ma è proprio possibile, ed a chi affidarlo? Alla Corte costituzionale? Quanto al giudizio se un partito sia democratico e presenti la base sufficiente per essere riconosciuto, si aprono infinite vie di incertezze e di arbitrio. Ecco perché si deve andare a rilento nell'ammettere il riconoscimento giuridico dei partiti nell'edificio della Costituzione.
Viene ora la Corte costituzionale. Una bizzarria, dice l'onorevole Togliatti, mentre mi era apparso che la considerasse attuabile, in un certo senso, l'onorevole Laconi. Contrario all'istituto, almeno per ciò che riguarda il giudizio dei Ministri, è l'onorevole Orlando. Più radicalmente, l'onorevole Nitti ha detto di non comprendere cosa sia questo congegno. Non possiamo aspettare che torni il collega Giannini, al quale fo l'augurio di rimettersi presto in salute, per spiegare che cosa è la Corte costituzionale che egli pone a fondamento del suo partito. Altri movimenti la rivendicano; ed ha una tradizione dottrinale anteriore e molto larga. Il ragionamento è, in ogni caso, abbastanza semplice. Se la Costituzione è rigida, vi deve essere qualche organo che accerti se le leggi sono conformi o no alla Costituzione. Questo compito bisogna darlo a qualcuno. Alla Magistratura Ordinaria, dice l'onorevole Nitti; ma si tratta di un'altissima giurisdizione, che implica anche valutazioni politiche, e l'onorevole Orlando non sembra, per un certo aspetto, ritenere adatta la via della semplice Magistratura. Che cosa ha fatto la Commissione? Ha proposto un organo, un istituto nel quale — ecco un buon compromesso — vi sono insieme gli elementi competenti della Magistratura, del Foro, della cattedra e quelli designati dal Parlamento. Non so come si sarebbe potuto risolvere diversamente questo problema. Naturalmente la Corte costituzionale non potrà essere un'assicurazione contro ogni lacerazione e colpo di mano; ma darà un senso vigile e continuo di costituzionalità e di ordine legale.
Un altro compromesso, se vogliamo usare la brutta parola, è avvenuto per ciò che riguarda la Magistratura. Anche io sono un magistrato e credo alla necessità assoluta dell'indipendenza della Magistratura dal potere esecutivo. Mi hanno commosso le nobilissime parole dette dall'onorevole Orlando per questi uomini che vivono in povertà, sono pagati meno di un capo spazzino di Vaselli e soffrono dignitosamente ed adempiono con tanto valore le loro funzioni! Indipendenza sì, ma non si può farne un corpo chiuso, una corporazione, un mandarinato, che nasce alle origini dal concorso e si svolge, nel suo autogoverno, senza alcuna influenza della sovranità popolare. Si è trovato anche qui un compromesso. Si è sottratta la Magistratura alla dipendenza dal potere esecutivo; il che non vuole dire che, come vorrebbe il collega Zuccarini, debba sparire il Ministro della giustizia. Vuol dire indipendenza in senso nobile e democratico; in quanto al governo della Magistratura ordinaria è dato un organo composto per metà di magistrati designati da essi stessi e per metà di membri del Parlamento. Credo che non sia un compromesso deteriore; è l'unico possibile in questa materia.
Insomma, onorevoli colleghi, per un giudizio complessivo, vi prego di tener presente il nostro progetto e la Costituzione francese, anche nel suo ultimo testo emendato ed oggi in vigore. Nella Costituzione francese vi è una Camera sola, ed a fianco un Consiglio, un organo puramente consultivo; noi abbiamo due Camere, con una piena parità, che in certe occasioni si riuniscono in Assemblea Nazionale. Abbiamo il Capo dello Stato, che può sciogliere il Parlamento; in Francia, no; soltanto quando vi sono state due crisi, ed è il Consiglio dei Ministri che può sciogliere la Camera. Abbiamo la Corte costituzionale. Abbiamo un insieme di garanzie. Non so come si possa far credere totalitaria e rivoluzionaria questa forma di Costituzione, che si propone all'Italia, e che, sono sicuro, finirà con l'essere riconosciuta liberale e democratica.
Desidero dirvi la sintesi del compromesso, quale si è venuto delineando spontaneamente, più che per negoziati, e potrà non avere l'approvazione di tutti, qui dentro, specialmente agli estremi; ma è il punto in cui ci possiamo incontrare ed ha i caratteri della necessità storica. Ecco la sintesi: aprire le vie al lavoro, in una forma che non è rivoluzionaria, ma graduale e democratica; basata istituzionalmente non su nuovi tipi oscuri ed avventurosi, ma sull'ordinamento democratico e parlamentare, ricostituito ed avvivato; innestato, ora che è caduto il pilone della monarchia, sulla base della Repubblica e della piena sovranità popolare. Questo il nostro progetto; ed una linea innegabilmente vi è.
Un'ultima parte, sopra cui non mi posso soffermare a lungo, è quella della regione. Argomento di grande e decisiva importanza, che lascia molti spiriti sospesi. Comprendo le aspirazioni fervide, come le apprensioni, che, in parte, condivido. Che cosa ha fatto la Commissione? Ha studiato faticosamente e pazientemente. Ha formulato strutture di autonomia, che anche nei casi più spinti non intaccano l'unità nazionale; perché, anche dove c'è la legislazione primaria, non concerne materie essenziali, è subordinata ai principî dell'ordinamento ed agli interessi dello Stato ed è sottoposta al giudizio della Corte costituzionale e del Parlamento nazionale. Accanto a questa, vi è un'altra tendenza, in cui non si ammette la legislazione primaria, ma soltanto una facoltà legislativa di integrazione e di attuazione, per adattare le norme generali della legislazione di Stato ai bisogni locali. Abbiamo preparato due binari e due soluzioni: a voi spetta scegliere.
In generale, per tutte le materie, avete davanti a voi, negli atti della Commissione, progetti concreti, fra cui sceglierete. Ormai la responsabilità è passata dalle nostre spalle alle vostre; noi saremo i vostri collaboratori, i servi fedeli del compito comune; lavoreremo con voi; in fervido sforzo di superare le difficoltà. Potrei finire con una invocazione... (Commenti).
Finisco invece con la maggiore semplicità, esprimendo il desiderio che la conoscenza di questo atto costituzionale sia diffusa non solo fra voi ma in tutto il Paese. Il Paese finora si e scarsamente interessato; si appassionerà, credo, domani, di più, e sentirà che questo è un atto fondamentale per la sua vita e per il suo avvenire. Mi rivolgo alle genti d'ogni regione; agli uomini d'ogni idea; anche ai nostri fratelli che l'ingiusta pace ha staccato da noi, perché questa è anche la loro Costituzione.
Onorevoli colleghi, siamo messi tutti alla prova. Noi della Commissione abbiamo lavorato con pazienza e devozione. Ci saremo sbagliati, avremo commesso errori. Ma tutte le vostre critiche le consideriamo lietamente ad un patto: che tutti insieme, sappiamo dare una Costituzione buona all'Italia. (Vivissimi generali applausi — Molte congratulazioni).
Presidente Terracini. Onorevoli colleghi, dopo il discorso dell'onorevole Ruini, così limpido e semplice, vorrei che mettessimo un punto fermo ai lavori di questa settimana.
Abbiamo finito quella che concordemente abbiamo chiamato la discussione preliminare, perché, senza entrare profondamente nel merito, ci siamo procurati una visione generale del testo costituzionale, quasi una visione dall'alto, ed essa ci serve, e ci servirà specialmente poi, nel momento in cui cominceremo ad occuparci dei vari particolari del progetto costituzionale.
Tutti dobbiamo chiederci in questo momento se essa non ci abbia posto dinanzi alcuni problemi concreti, da risolvere immediatamente, in via preliminare. Il primo di essi è quello che due nostri colleghi hanno posto, presentando due ordini del giorno, come conseguenza o premessa dei loro interventi in questa discussione. Si tratta degli ordini del giorno degli onorevoli Lucifero e Calamandrei, in ordine alla questione del preambolo.
L'onorevole Lucifero ha proposto il seguente ordine del giorno:
«L'Assemblea Costituente ritiene che il testo della Costituzione debba esser preceduto da un preambolo, del seguente tenore:
«Il popolo italiano, invocando l'assistenza di Dio, nel libero esercizio della propria sovranità, si è data la presente legge fondamentale, mediante la quale si costituisce e si ordina in Stato.
«La legge costituzionale dichiara con valore normativo assoluto i diritti inalienabili ed imprescrittibili della persona umana, come presupposto e limite legale permanente all'esercizio di ogni pubblico potere; stabilisce i poteri e gli organi della sovranità; determina i modi e le forme necessarie al sorgere di una volontà legale dello Stato.
«Il popolo italiano, consapevole che ogni associazione umana si realizza nell'esercizio della cooperazione e della solidarietà, intende che l'opera dello Stato sia diretta — nelle forme e nei limiti della presente Costituzione — a rendere possibili ed attive l'una e l'altra, per la sempre più felice e giusta convivenza civile».
A sua volta l'onorevole Calamandrei ha proposto questo ordine del giorno:
«L'Assemblea Costituente si dichiara convinta che nel testo della Costituzione, come suprema legge della Repubblica, debbano trovare posto non definizioni e proclamazioni di idealità etico-sociali, ma soltanto norme giuridiche aventi efficacia pratica, che siano fondamento immediato di poteri e di organi, e garanzia di diritti concretamente sanzionati; ed altresì norme che, se pure non riconoscono oggi diritti già perfetti e maturi, si prestano, per la loro concretezza e precisione, a dar vita nell'avvenire a veri diritti sanzionati con leggi, impegnando in tal senso il legislatore futuro;
«ritiene invece che, per ogni altra enunciazione generale di finalità etico-sociali, di cui si creda opportuno far cenno nella Costituzione, esigenze di chiarezza e di tecnica impongano di non confonderle con le vere norme giuridiche e di riservarle ad un sobrio e sintetico preambolo; e rimanda alla discussione degli articoli lo stabilire caso per caso quali di essi debbano essere trasferiti nella parte preliminare».
Penso che l'ordine del giorno Calamandrei, in quanto di portata più ampia, debba avere la precedenza nella votazione.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Presidente della Commissione per la Costituzione. Ne ha facoltà.
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ho già accennato nel mio discorso a quelle che sono state le linee adottate dal Comitato di redazione. Noi riteniamo che sia opportuna una sospensiva alla proposta dell'onorevole Calamandrei. Dichiariamo subito che l'idea di un preambolo, nella sua forma storica, dichiarativa, è accolta da tutti noi. Non possiamo accettare senz'altro la formula, sia pure elegante, dell'onorevole Lucifero, perché il preambolo andrà molto meditato.
Per quanto riguarda la proposta contenuta nell'ordine del giorno dell'onorevole Calamandrei, di trasferire determinate formule nel preambolo, chiediamo una sospensiva, perché riteniamo opportuno che si decida se ciò convenga, quando avremo esaminato, non dico l'insieme della Costituzione, ma almeno la prima parte che riguarda i diritti e i doveri dei cittadini.
Presidente Terracini. Onorevole Calamandrei, dopo le dichiarazioni dell'onorevole Ruini desidererei che lei mi dicesse se mantiene l'ordine del giorno, chiedendone la votazione immediata, oppure se aderisce alla proposta di sospensiva.
Calamandrei. Aderisco, perché il preambolo è una specie di prefazione (Commenti) e tutti sanno che è bene che la prefazione sia la più breve possibile. È quindi opportuno precisare il contenuto di questo preambolo nel corso della discussione.
Presidente Terracini. Ha chiesto di parlare l'onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.
Lucifero. Sono perfettamente d'accordo; sul fatto che il testo definitivo del preambolo non si possa redigere che alla, fine; soltanto mi è sembrato di non vedere una concordanza precisa fra quello che ha detto l'onorevole Ruini e quello che ha detto l'onorevole Calamandrei. Qui se ho ben compreso, l'onorevole Ruini pensa di rimandare a dopo la discussione, almeno della prima parte della Costituzione, la decisione se vi debba o no essere un preambolo; mentre l'onorevole Calamandrei penserebbe che si decidesse oggi che un preambolo, vi sarà.
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione. Credo di essermi spiegato abbastanza, chiaramente.
Presidente Terracini. Mi pare che l'onorevole Calamandrei abbia compreso ciò che ha detto l'onorevole Ruini e, poiché l'onorevole Calamandrei ha aderito alla sospensiva proposta dall'onorevole Ruini, ritengo che sia ora soltanto da vedere se altri colleghi desiderano fare delle proposte.
D'Aragona. Chiedo di parlare.
Presidente Terracini. Ne ha facoltà.
D'Aragona. Chiedo se l'approvazione della sospensiva significhi che si lascia impregiudicata la questione di avere o non avere il preambolo, o significhi l'accettazione generica di fare il preambolo.
Presidente Terracini. La sospensiva significa che la questione non è pregiudicata in nessun senso.
Perché non vi sia nessun dubbio e non possa eventualmente essere interpretata diversamente la nostra decisione in prosieguo di discussione, porrò in votazione la proposta dell'onorevole Ruini, accettata dall'onorevole Calamandrei, di sospendere ogni decisione sulla questione dei preambolo.
L'onorevole Ruini nelle sue spiegazioni ha fatto ben comprendere che, venuto il momento, la Commissione non si opporrà, anzi concorderà nell'opportunità di avere il preambolo. (Commenti). L'onorevole Ruini, per la Commissione, può evidentemente avere questa opinione. Chi non è d'accordo, quando si metterà in votazione la proposta, voterà contro; ma in questo momento io non interpreto l'opinione dell'Assemblea, sibbene quella dell'onorevole Ruini.
Pongo pertanto in votazione la proposta di sospensiva sull'ordine del giorno Calamandrei.
(È approvata).
[La seduta prosegue iniziando la discussione generale delle «Disposizioni generali»; pertanto il resoconto stenografico viene riportato nella relativa sezione delle appendici.]
A cura di Fabrizio Calzaretti