La nascita della Costituzione

Relazioni e proposte presentate nella Commissione per la Costituzione
I Sottocommissione

 

RELAZIONE

del deputato LOMBARDI GIOVANNI

SU

LA PENA DI MORTE E IL SUO FONDAMENTO

 

Capitolo I.

IL FONDAMENTO POLITICO-SOCIALE DELLA PENA IN GENERE E DELLA PENA DI MORTE IN ISPECIE E LA PENA CAPITALE NELL'ANTICHITÀ E NEL MEDIO EVO

La storia millenaria della pena di morte sta a dimostrare anzitutto che può apparire od essere legittimo quello che è necessario in una data civiltà: e che tutto il nostro progresso, impotente contro il fenomeno barbaro della guerra, è a volte più nella forma che nella sostanza.

Nell'inconscio della vita individuale e sociale vivono sempre gli istinti.

Così, la sedia elettrica ha sostituito le forme antiche di decapitazione, squartamento, bruciamento, ecc., che coi loro orrori e con le loro ferocie riempirono d'empietà il mondo fin sul limitare della nostra età. Né le ferocie furono solo nell'antico Oriente, ove la vita dei sudditi era a libito del despota e dei feroci depositari delle religioni, e dove già le guerre e le carestie mietevano largamente nella massa umana. La stessa idolatria ha riflessi sanguinari che illuminano sinistramente per il furore e la gioia empia dello sterminio e della distruzione degli antichi imperi asiatici.

D'altronde, prima che l'idea della simiglianza degli uomini si affermasse, come predicazione evangelica, sono corsi dei millenni, e fino a che la vita d'ogni individuo non apparve sacra, il supplizio del proprio simile dovette non apparire immorale o peccaminoso, sovrattutto quando la forza e la vendetta dei capi politici e religiosi erano gli elementi indissolubili e tenaci dei reggimenti politici e delle loro implicite debolezze. La frequenza dei supplizi stava appunto ad indicare la debolezza dei governi, sprovvisti di consenso morale o intellettuale.

A misura che la civiltà umana ha progredito, e dallo stesso consorzio sociale sono nati e sviluppati sentimenti altruisti; la politica e la giustizia, almeno nelle epoche di pace, si sono rivestite di forme sempre più ingentilite e umane.

La forma ha un'importanza enorme nelle cose sociali.

Egli è che la giustizia stessa e le varie ideologie che la riguardano, hanno tutte uno sviluppo millenario.

Non è senza ragione che ella viene rappresentata da una bilancia.

Infatti, nelle lontane origini, ha rappresentato l'eguaglianza negli scambi e nei baratti primitivi. E tale eguaglianza importava già una reciprocità: idee queste che dallo scambio delle cose si estenderanno alle relazioni delle persone.

Il delitto, che più tardi può attirare la collera degli dei e dei capi, non attirerà in principio che le vendette del leso; e sulle idee dello scambio commerciale, la vendetta stessa sarà eguale o proporzionale. E più tardi ancora, quando si temette che la vendetta del sangue si perpetuasse a danno del gruppo sociale, e si sostituì ad essa la compensazione, questa raccolse ancor più l'idea dell'eguaglianza reciproca del gruppo primitivo. Così, con la legge del taglione, la pena sarà commisurata alla gravità dell'offesa con senso d'eguaglianza e reciprocità: occhio per occhio, dente per dente, ecc., e tale si manterrà anche nella composizione.

E anche quando, con le prime forme di proprietà di guerra e di rapina, si saranno abbozzate le prime classi sociali del comando, della servitù, del lavoro: allora la pena non sarà più solo eguaglianza in quantità, ma anche in qualità. E quindi lo stesso danno subìto, la stessa offesa recata reclameranno una composizione più forte o una pena più grave, a seconda della classe, alta o bassa, cui la vittima appartenga.

Ed è così che la gerarchia delle classi e dei vari istituti sociali (dal politico al religioso, al morale, all'economico, ecc.) indicherà nella lunga storia millenaria, la gerarchia proporzionale ed eguale delle leggi penali repressive, all'alba del Rinascimento, come una «proportio hominis ad hominem, quac servata servat, corrupta corrumpit societatem».

E poiché ogni gerarchia ha un fondamento economico e politico e risponde ad una data costituzione, è così svelato che ogni necessità politica o sociale ha il suo riflesso nel sistema delle pene. La stessa pena capitale, lungi da ogni ideologia razionale o anche sentimentale, non ha di solito che un fondamento di necessità politica e sociale.

E poiché la pena, a misura che s'allontana dalle sue origini, dalla vendetta e dal taglione, s'umanizza sempre più, sostituendo alla ferocia la pietà con forme volte a redimere i colpevoli o a migliorarli e renderli suscettibili del consorzio civile; e la stessa giustizia si evolve, rendendo sempre più consensuale l'imperativo della legge e sempre più larga la formazione legislativa a seconda dello svolgimento politico d'ogni nazione: così può dirsi che la storia delle pene è la storia stessa della civiltà. Quando Aristotile pose il carnefice tra i magistrati, segnò con carattere indelebile la civiltà greca, che si svolse sulle basi della guerra e della schiavitù, pur avendo monumenti insuperabili di poesia e di filosofia.

La vitalità d'un popolo non è nella grandezza delle sue élites: ed i popoli vivono di sentimento e di benessere, più che delle idee dei grandi solitari.

A Roma stessa, che sulla conquista bellica civilizzatrice eresse il più grande Impero, la pena di morte, già comminata sotto specie di sacertà, d'anatema, o d'interdetto, fu esclusa dalla sola legislazione Sullana per i cives Romani: l'esilio volontario surrogò lo estremo supplizio e l'interdictio aquae et ignis diventò sul serio una pena di morte.

Il maggior genio giuridico della latinità, M. T. Cicerone scrisse stoicamente contro la pena di morte, giacché essa non era una espiazione, come la pena doveva essere «in luctu et miseriis, mors acrumnarum requies, non cruciatus est».

Ma, come uomo politico, s'avvalse, e come! della pena di morte.

Seneca, il più cristiano tra i pagani, il precursore della proclamata eguaglianza cristiana degli uomini, fu contro la pena di morte, quando questa stava per diventare l'arma di governo del dispotismo imperiale.

Certo, le due costituzioni di leggi romane si fregiano della pena di morte: «la decapitazione, la crocefissione, il calleum more maiorum institutum» ecc., sono nelle vecchie XII Tavole: e nella Roma Imperiale, la vivi combustio e la suspensio e vivi crematio, ecc., ostentano la loro ferocia, che non disertò mai il cuore del popolo guerriero per eccellenza.

Comunque, il Codice Giustinianeo commina la pena di morte nelle sue varie forme di esecuzione.

E se i barbari invasori usarono della pena di morte, come eredità propria ed indigena dei propri costumi e della loro civiltà guerresca, anche per i delitti più futili che offendessero la proprietà, la religione, l'autorità politica e militare; lo stesso Cristianesimo, convertito già in Chiesa, che per i suoi fini di dominio spirituale ebbe tutto l'interesse di moderare la ferocia barbarica ed essere come tramite ed anello della sepolta, ma non morta, civiltà Romana, pure non valse ad addolcire le atrocità delle esecuzioni.

Ma, come pensa il Mittermaier, «mancano le prove che il diritto Canonico abbia giustificato espressamente la pena di morte».

Ciò non pertanto, la pena di morte è stata sovrattutto usata dalla Chiesa, a propria difesa, con la pretesa d'estirpare l'eresia e salvare le anime.

Dalla tortura al rogo, il pensiero indagatore e satanico fu saggiato e sollevato al martirio e all'eroismo.

Capitolo II.

RAGIONI STORICO-SOCIALI DELL'ABOLIZIONE IN ITALIA DELLA PENA DI MORTE E DELLE TENDENZE ABOLIZIONISTE

Il movimento ideale che travolse la pena di morte fu tutt'uno con quello che travolse il dispotismo e la Chiesa nei loro secolari domini materiali e spirituali, che soffocavano lo sviluppo umano.

E l'opposizione alla pena capitale dal Beccaria in poi, fu più viva in Italia, memore da Dante in poi dell'ira ghibellina e dei danni subiti per la lotta tra Papato e Impero politico, e finche del sangue più puro che la superstizione e le lotte religiose avevano sparso in nome di Cristo; memore di tutta una tradizione politica, scientifica e poetica, che da Machiavelli e da Guicciardini, a traverso Bruno e Galilei, s'era fatta popolare con le voci ammonitrici di Giusti e di Parini. In sostanza, in Italia la pena di morte ricordava allora la schiavitù dello spirito. Ed ecco come il giusnaturalismo si divise sulla legittimità della pena di morte, in Francia ed Italia.

G. G. Rousseau la legittimava, almeno storicamente, per la considerazione ch'essa vien subìta per uno schietto interesse di conservazione. Equiparando il delinquente ad un nemico in istato di guerra contro la società; «alors la conservation de l'Etat est incompatible avec la sienne; il faut qu'un des deux périsse, et quand on fait mourir le coupable, c'est moins comme citoyen que comme ennemi».

La conservazione dello Stato: ecco la ragion d'essere della pena di morte. E in Francia il lungo dominio nazionale con la sua continuità secolare e tradizionale ha fatto sì che lo Stato trovasse sempre sinceri difensori.

Viceversa, da noi si preparava una revisione dei principî del diritto di punire, con T. Natale, Filangieri, M. Pagano, sacro questo ultimo per l'olocausto della sua vita.

Quando nel 1764 C. Beccaria pubblicava il suo opuscolo anonimo, questo si diffuse come un incendio: le edizioni si moltiplicarono. Contro il dispotismo agonizzante e che s'era sorretto e si sorreggeva con la pena di morte, il Beccaria tentò distruggere ogni fondamento della pena capitale sulle basi stesse del patto sociale. Era assurdo e del tutto sofistico che il cittadino avesse concesso il diritto della pena capitale per ottenerne la difesa della vita. La pena doveva essere una proporzione, ma i limiti dovevano essere segnati dalla necessità sociale. Ora che necessità v'era ad uccidere i ribelli, inermi e soggiogati? (1).

D'altronde non la gravità delle pene e la demoralizzante pena capitale potevano essere utili alla società: giacché per il Beccaria, solo la prontezza e la certezza delle pene restaurano l'ordine, esaudiscono il diritto, tranquillizzano la società.

In sostanza, lo Stato non aveva il diritto d'uccidere perché questo non gli era stato ceduto nel Patto Sociale. Ed ecco come il giusnaturalismo si prestava nel campo penale, oltre che in quello politico ed economico, alle più alte rivendicazioni, raccolte poi in leggi e dichiarazioni dei diritti dell'uomo nel 1791.

Se il giusnaturalismo è stato poi e giustamente sconfessato dalla filosofia e dalla scuola storica, certo il diritto naturale, concepito in antitesi a quello medievale, privilegiato, feudale, concesso dal monarca o dal papa, adempì ad una funzione di progresso e di liberazione. Così, la libertà era un diritto naturale dell'uomo, ed egli ne aveva ceduto quella minima parte, quanta era necessaria per la conservazione della vita sociale, come mezzo d'assicurare l'individualità stessa negli averi e nella persona.

E però, la pena doveva essere pubblica, pronta, necessaria, la minima possibile, proporzionata al delitto, dettata dalla legge: garentita cioè dalla legge contro l'arbitrio del tiranno. Ecco il germe di quel costituzionalismo liberale, che travolse le reazioni della Chiesa e dell'assolutismo, con un compromesso tra la libertà e l'autorità, e che, dove più dove meno, rappresenta la trama della storia vissuta dall'Europa dal 1815 ai giorni nostri.

D'altronde, la stessa scuola classica, quando vuol negare la legittimità della pena di morte, ricorre al diritto e alla legge di natura: legge assoluta, eterna, divina, immutabile, preesistente a tutte le speculazioni umane (2).

Giacché la legge di natura è legge di conservazione: e se lo stato acquista il diritto di punire per conferimento che ha dalla legge di natura, ha un limite da questa segnato ed è la conservazione del colpevole.

La pena di morte è quindi fuori della legge di natura ed è giustificabile, come scrisse il Carrara, solo per chi pensi che «la dominazione del mondo è data alla forza, il gius penale è un atto di forza, non v'è altro stato di legittimità che la forza».

Né d'altronde il consenso universale delle genti, che adottarono la pena di morte, può accettarsi come un inflessibile criterio di verità: giacché anche la tortura, usata per secoli da tante sagge nazioni, potrebbe oggi senza audace nequizia essere rinnovata. Non è lecito, concludeva l'insigne e grande nostro giurista, inchiodare l'umanità agli errori dei passato e negarle ogni progresso. Del resto, mai forse l'umanità fu contro la forza e il suo dominio, come nei primi decenni dell'800.

Con la scomparsa del geniale despota dalla scena, parevano finite per sempre le avventure politiche fondate sulla forza e sulla costrizione individuale: e d'altra parte con l'idealismo classico germanico, che si diffondeva in Europa, il mondo ripigliava a sperare nelle forze dello Spirito e nell'efficacia etica e sociale della Virtù.

Così, anche per la pena e la sua dottrina, si ripigliava l'idea della emenda per opporsi alla pena di morte.

V'era del sentimentalismo e anche del misticismo in aria. Era il tempo degli Inni Sacri di A. Manzoni.

Nonostante il molto sangue sparso dalle lotte religiose, si pensava anche dai cattolici che non si potesse stroncare il diritto alla emenda, che ogni cristiano ha fin sulla soglia della morte, rendendo così eterna una indegnità passata o presente.

Si deve punire perché non si pecchi: punietur ne peccetur.

La finalità dell'emenda stronca così la legittimità della pena di morte. D'altronde l'uomo ch'è fine e scopo del diritto, non può essere considerato come mezzo per ridare colla sua morte la calma ai cittadini turbati e intimidire in pari tempo i delinquenti.

Certo, tutte queste idee gravitarono intorno ai lavori preparatori del Codice del 1889, con una letteratura abolizionista straordinaria. Da tutte le cattedre, da autorevoli pubblicisti, dalla Camera e dal Senato, si levarono voci alte ed eloquenti, ragioni così logiche e stoiche, da trascinare, anche per il peso della opinione pubblica ad esse favorevole, all'abolizione della pena di morte. L'eloquenza di P. S. Mancini raggiunse le sue vette maggiori.

Pure, se la pena di morte era abolita in Italia, come in Romania nel 1864, in Portogallo nel 1867, in Olanda nel '70, come già in Norvegia, in alcuni Cantoni Svizzeri e Stati Americani; se non si applica più nel Belgio e nella Finlandia benché scritta nel Codice; se si abolisce nel progetto Svizzero, essa si conserva nel progetto germanico. Classico è il libro di Holtzendorf sulla pena di morte e la maggioranza degli scrittori tedeschi è pel mantenimento.

Anche in Francia una proposta di abolizione fu respinta nel 1908 dalla Camera.

In Inghilterra vi è stato l'anno scorso un alto dibattito pro e contro. Negli Stati Uniti è sempre in vita.

Appare così che, lungi da ogni fondamento razionale e dottrinale, la pena di morte poggia sul criterio della necessità politica, come ben disse Arturo Rocco.

Capitolo III.

LA SCUOLA POSITIVA ANTROPOLOGICA E LA SUA CONTRADDIZIONE PER LA PENA DI MORTE

La prova è data dalla Scuola Positiva antropologica.

Alla stregua dei criteri di detta scuola, essa avrebbe dovuto essere favorevole alla pena di morte giacché questa con la selezione dei maggiori malfattori serve alla difesa e alla sicurezza sociale. La pena di morte è la più sicura sanzione difensiva sociale contro il reato, considerato come fenomeno naturale. Per quanto errato questo criterio-base (3), donde tutti i possibili errori di tecnica giuridico-penale, egli è certo che la Scuola Positiva, nonostante le sue esagerazioni d'un biologismo fisico di marca materialista, riuscì a rappresentare una difesa della società, come ente, contro ogni dissolvente individualismo libertario. Fu in Italia una reazione al giusnaturalismo, come altrove lo fu la scuola storica.

Or, quando detta scuola ammetteva l'esistenza di delinquenti nati, incorreggibili per costituzione fisio-psichica, doveva venire alla legittima conseguenza d'accogliere con entusiasmo la pena di morte ed opporsi all'abolizione.

Viceversa, o per alte ragioni sentimentali e d'opportunità, o per omaggio al pubblico sentimento, tanto il Ferri che il Lombroso e il Florian si dichiararono contrari alla pena di morte.

A questa ha solo aderito il Garofalo, che molto spera dalla selezione e spera pure che la pena di morte possa alleggerire lo Stato dall'obbligo della custodia e del mantenimento dei malfattori.

Il nostro eminente sociologo criminalista dimentica, attratto da questa tendenza utilitaria, evidentemente il pensiero di Voltaire: «Condannate il criminale a vivere per essere utile; che egli lavori continuamente pel suo paese, giacché egli ha nociuto al suo paese; bisogna riparare al danno, la morte non ripara a nulla».

Mors omnia solvit, disse invero il nostro antico e insuperato Orazio.

Capitolo IV.

IL PRINCIPIO DELLA DIFESA SOCIALE E ANCHE QUELLO DELLA INTIMIDAZIONE SONO IMPOTENTI A LEGITTIMARE LA PENA DI MORTE, CHE, COME TAGLIONE GIURIDICO, HA LA SUA RAGION D'ESSERE IN CONTINGENZE POLITICHE E SOCIALI, AL DI LÀ D'OGNI PRINCIPIO NAZIONALE

La verità è che i vecchi principî che parvero alle varie scuole come fondamento sicuro della pena in genere e della pena di morte in ispecie, sono caduti di fronte all'esperienza storica e filosofica.

La stessa difesa sociale come ragion d'essere della pena non regge più. Già la pena, in quanto è repressione, è postuma al delitto e spesso l'esecuzione della pena è essa stessa causa e fonte di recidiva, ossia di danno sociale.

Si aggiunga che nell'antichità specialmente, il diritto penale è anche servito alla difesa di esigue minoranze, e che tutte le pene atroci sono state l'arma, la ragione ultima e vera del loro spietato dominio. Basterà pensare alla schiavitù, ai domini terroristici di tutti gli antichi imperi e ai codici penali col predominio della pena di morte, alla stessa Inquisizione e al martirio di G. Bruno, per persuadersi che spesso la pena non ha difeso la vera ragion d'essere della società, ch'è il benessere migliorato e progressivo. Il Senatore G. De Lorenzo pubblicò in Gerarchia un articolo su G. Bruno, degno d'essere considerato.

D'altronde la buona scuola italiana, con a capo il Longhi, ha sempre e da tempo mostrato la grande utilità terapeutica della prevenzione, più che della repressione.

Ma per la prevenzione, la diagnosi non è facile. Quali e quanti siano caratteri delinquenziali non è diagnosi da dilettanti: e stabilirne le cause vere, atavistiche e sociali, involge un giudizio scientifico dei più ardui. Il semplicista criterio bio-psichico della responsabilità penale è ormai superato.

Nel delitto concorre la complicità della società, anche a voler ammettere per ipotesi quella della natura coi criterî scientifici dell'800: e il delitto, sorpassata la fase della sociologia biologica Spenceriana, appare sempre più un fenomeno complesso, come ogni altro fenomeno sociale che ha infinite sorgenti ed infiniti sbocchi.

Ma, checché sia di questo enorme problema della prevenzione, che può essere risoluto più con riforme sociali larghe e profonde che con piccoli sostitutivi o misure di sicurezza: egli è certo che la pena, e quella di morte anche, non è valsa gran cosa come prevenzione sociale. Essa non ha mai influito a far diminuire la delinquenza.

Ai tempi di Ferdinando IV a Napoli il patibolo, come ricorda il Colletta, lavorava ogni giorno nella piazza infame del Mercato, ma i delitti non diminuirono. E la canaglia crebbe fino a diventare brigantaggio di Stato per sostenere e difendere la reazione borbonica. Si direbbe quasi che il buon Tommaseo aveva ragione di pensare che «il patibolo e punta irruginita che invece di parare la folgore la attrae e fa scoppiare con più rovina».

Se ne può dedurre che la storia insegni non quello che pensava il Montesquieu, che cioè la maggior criminalità d'un popolo si deve spesso cercare nella maggiore asprezza delle leggi, ma che invece l'asprezza delle leggi si nota là dove la criminalità è maggiore.

Così, nel 1914, nel Codice di V. Emanuele I per gli Stati Sardi, c'erano il supplizio della ruota, quello delle tenaglie, l'abbruciamento dei cadaveri, la pena di morte prodigata a larga mano, persino per il furto domestico!

Nella stessa Inghilterra, mentre nel secolo scorso la delinquenza era all'apice, vi funzionavano tutte le vecchie pene, da quella del bastone a quella di morte: e ora soltanto che la delinquenza è ad uno dei più bassi gradini dell'Europa e del mondo, è ovvio che ivi si discuta favorevolmente per l'abolizione della pena di morte.

Ma certo la delinquenza è diminuita per un progresso economico-politico-morale, al quale è estraneo il sistema difensivo penale.

Giacché, come pensava F. Crispi, «non si educano i popoli col patibolo: il carnefice che sparge il sangue del suo simile intristisce gli animi e provoca nuove colpe».

Pure, se la pena non ha una diretta funzione difensiva, ne ha una indiretta grandissima: quella dell'intimidazione, come i migliori giuristi, da Romagnosi a Impallomeni, hanno sempre pensato.

Su l'anima popolare, se agisce la minaccia della pena post mortem e dell'ira degli dei, su cui si fondano quasi tutti i culti religiosi popolari, non può non agire la minaccia della pena, e specie quella di morte.

Aveva un bell'affannarsi la scuola classica a negare la legittimità di quest'ultima, perché, non richiesta da giustizia, non utile né necessaria, contraddice al miglioramento del reo.

Pur contraria al senso morale, al rispetto della vita individuale, fonte la stessa pena di morte di crudeltà di costumi e di barbarie, incitamento dei peggiori istinti atavistici, essa avrebbe ragione d'essere e di utilità sociale quando fosse sicuro il suo potere intimidativo e non ci fosse la possibilità di errori giudiziari irrimediabili.

Ecco i due ostacoli davvero insuperabili per la pena di morte.

Il sentimento del dovere, come guida costante della vita e delle azioni umane, è di poche anime privilegiate. Il monito di Kant è solo per loro.

Viceversa sono gli istinti millenari, di predominio, di ricchezza, di godimento, ecc., spesso le necessità impellenti di soddisfare gli stessi istinti, i desideri, le concupiscenze, le vendette, l'orgoglio, che guidano la gran massa umana, ove più, ove meno, nel piccolo mondo, spesso ed ancora assetato di sangue e di lussuria.

Vagano in mezzo alla civiltà contemporanea uomini primitivi, e tali, non tanto per la costituzione fisiologica, quanto per la loro psiche atavistica ed istintiva. Vi sono zone terrestri con strati umani atavistici e primitivi, simili agli strati geologici che nella crosta della terra segnano i lunghi periodi attraversati dalle varie epoche geologiche; e il costume sociale, a cui attingono questi strati primitivi, queste cellule atavistiche, questi barbari viventi in mezzo a noi, è ancora e sempre quello della violenza, del furto, dell'omicidio, della rapina, ecc., così come nelle lontane epoche preistoriche e protostoriche.

La civiltà, che ha creato tante meraviglie e che vive di tutti gli sviluppi, di tutte le creazioni della vita sociale e consociata, dalla simpatia familiare alla fratellanza umana, dal lavoro manuale a quello cerebrale e riflessivo, dal rispetto delle leggi a quello del buon costume, al di là di ogni misticismo di una tale e tanta attività non ha riflessi in quelle anime morte che vivono la vita dei secoli che furono. La libido torbida, l'egoismo cieco e furente, l'istinto del predominio, del possesso, della vendetta le possiede. Che importa che dallo stesso egoismo, ch'è nel fondo d'ogni essere vivente animato, si sia sviluppato lo stesso altruismo, e che al posto del brigante vi sia per ciò l'eroe, dell'eremita il santo civile, del fattucchiero lo scienziato? Questa civiltà contemporanea, che soddisfa con la scienza e le sue infinite creazioni inventive ai più varî bisogni umani, e ch'è il nostro orgoglio e la nostra sofferenza, poiché v'è lo sforzo continuo, a traverso infinite lotte, e non meno gravi sofferenze, a raggiungere una maggiore equità, una maggior fede d'amore, una più fervida religione dei diritti e dei doveri, al di là di ogni falso culto di dèi bugiardi; questa civiltà non ha penetrato che le coscienze di minoranze, di élites, ed è scivolata sulla gran massa, come l'acqua fluida d'un ruscello sulla pietra levigata della valle, senza impregnarla che d'una apparenza esteriore e formale, sotto cui, tra luci e splendori, l'anima atavistica, violenta e brutale, sonnecchia accanto agli istinti belluini e selvaggi.

A persuadersene, basterebbe considerare la civiltà nord-americana, che sotto gli splendori d'una civiltà industriale insuperabile, ha la vecchia anima dei pellirosse, che si rifugia brigantescamente nella mano nera e così consociata e forte, anche di fronte allo Stato, può vivere di rapine e di estorsioni, di ricatti, e farsi rispettare per la ricchezza stessa che ne ricava.

Ora, per questa larga genia atavistica, sparsa pel mondo con zone larghe come macchie nere nella luce sfolgorante della civiltà, la pena, anche quella di morte, ha davvero un valore intimidativo? Io ne dubito fortemente. Poiché se all'accenno fatto di indagine sociologica, così spesso aliena dalle menti giuridiche, si aggiunga qualche nozione di psicologia, individuale o collettiva, si vedrà ben presto che l'intimidazione vale solo per gli uomini normali, forniti di coscienza e di volontà per i quali l'occasione fornisce nell'ambiente la spinta a delinquere, e che non sono quasi mai autori o responsabili di delitti punibili con la morte.

L'intimidazione è già una controspinta al mal volere: è un freno inibitorio: è un esame utilitario tra i beni conseguiti col delitto e il male della pena.

Occorre per tutto ciò uno sviluppo della coscienza e della volontà. La volontà libera e cosciente, ch'è il miracolo della lenta e lunga evoluzione umana, a traverso il consorzio sociale, che è l'humus donde è sviluppata la lunga selva umana con tutti i sentimenti di simpatia: una tale volontà è bensì una conquista umana, ma non è un attributo di tutti gli esseri viventi.

Sovrattutto i primitivi, gli istintivi, gli antichi pellirosse che vanno pel mondo, non hanno raggiunto lo sviluppo di una coscienza fornita di volontà. Essi vivono nell'ambito dell'istinto.

La capacità di volere, come rappresenta i popoli forti e intolleranti del pastore e del bastone, così rappresenta la parte sana ed evoluta della razza umana, che può anche essere una minoranza, cui è commessa la sorte della umanità con l'incitamento di non farla rimbarbarire sotto la violenza degli istinti arcaici.

Se l'intimidazione ha la sua efficacia per i delitti di occasione, di passione e non ha influenza psichica e preventiva nei delitti atavistici e primitivi, di solito più gravi e più dannosi alla società, se ne può dedurre che la pena di morte non sia per tanto giustificata.

Bisogna anzi aggiungere che gli esseri primitivi hanno il fanatismo, come essenza della loro psiche. E per esseri simiglianti, la morte può essere come un'attrazione, simile a quel che è la lampada luminosa per le farfalle.

Gli esaltati, i megalomani, i vanesii, che hanno spesso riempito il mondo dei loro strepiti, come i fuochi d'artifizio fanno nelle piazze con residui di cenere e fumo, sono spesso attratti dallo spettro della morte con passione furente; e anzi tale spettro li ha come rinforzati nel loro fanatismo.

Che cosa è infatti il fanatismo, se non una fede cieca, assoluta, senza freni, con èmpito di passione e di dedizione, contro cui ogni barriera è un incitamento, come pel cavallo in corsa?

Senza una dose di fanatismo, a volte utile, la politica e la religione non avrebbero tanti martiri e tanti santi: e senza il martirio dei primi cristiani che nel loro santo fanatismo accettavano le più atroci morti nei circhi e sulle croci, Pietro e Paolo non avrebbero vinto la resistenza della civiltà pagana, creata dalle armi, in nome della fratellanza umana!

E si noti infine che se la pena di morte avesse virtù intimidativa, come pensano il Manzini ed il Garofalo, bisognerebbe almeno aver raggiunto nella storia e nella statistica una qualche benefica conseguenza dal grande uso che se n'è fatto, ed avere una diminuzione di delitti gravi e gravissimi, che viceversa si moltiplicano con costante uniformità, raggiungendo spesso il massimo della crudeltà, come in America pel ratto di donne e bambini a scopo di ricatto.

Ora se la difesa sociale non s'arma con la pena di morte almeno della intimidazione maggiore, a me pare che non possa parlarsi di pubblica utilità. La frase risponde così poco alla verità e realtà delle cose che il Carnelutti, con la vaghezza, che gli è propria, di voler estendere alle cose penali le nozioni civilistiche, in cui è maestro, ha potuto, pur tra le proteste di giuristi insigni, come A. De Marsico, trattare della morte di un cittadino come d'un diritto d'esproprio; quasi che lo Stato fosse il padrone legittimo e incontrastato delle anime e dei corpi dei cittadini, e potesse trattarli come sudditi senza anima e senza individualità. Se Spencer rivivesse con la sua filosofia, che pure è in fondo alle grandi civiltà inglesi e americane, avrebbe di che ragionare a lungo con i nuovi profeti e fanatici del vecchio Leviatano.

Ma, tornando a noi, trattasi di pubblica utilità e di pubblica necessità?

Giacché non tutto quello ch'è necessario è utile: ed anche quello ch'è utile all'individuo, può non esserlo alla società.

Spesso i giuristi scivolano nel vasto campo della filosofia senza riguardi e senza accorgimenti.

Fin dal 1845 il nostro Gioberti aveva scritto: «La pena capitale è certo equa e legittima, quando è assolutamente necessaria alla salute della repubblica».

Come la pena in genere è una necessaria difesa, anche quando non apporti utilità immediata o mediata e non influisca a redimere l'umanità dall'ondata di sangue e di fango che con vece assidua e con cifre uguali e perenni, le vien sopra, in un dato periodo di civiltà e di storia; così la pena di morte, lungi dal potere essere una difesa più efficace, è una necessità: e questa riflette o la civiltà dei governanti o la barbarie dei delitti di sangue e di rapina.

Chi ben rifletta sulle cose sociali, delle quali le penali sono fenomeni tra i più importanti e influenti, s'accorge che la pena, ingentilita da tante ideologie filosofiche e umanitarie, con la gentile ipocrisia della redenzione, è in fondo una retribuzione, da parte dello Stato, che ha sempre dell'antica idea del taglione, con lo sviluppo che a questa necessità primitiva ha dato il lungo travaglio filosofico.

È vero, per esempio, che E. Kant intendeva, in coerenza a tutto il suo pensiero, la legge penale come un imperativo e un dovere di pura giustizia ispirato a necessità etica: non come diritto di difesa per opportunità politica.

Il principio dell'utilità e della difesa sociale nasceva quasi contemporaneamente sul suolo di Francia, ove fin dal 1808 il Gall scriveva: «il n'est plus question ni d'une culpabilità intérieure, ni d'une justice dans le sens le plus sévère: il est question des besoin de la société, de prévenir les crimes, de corriger les malfaiteurs, et de mettre la société en sûreté contre ceux qui sont plus ou moins incorrégibles» (4).

Ma per Kant, la pena, per essere giusta doveva retribuire il delinquente in forma di danno e di dolore di quanta utilità e di quanto piacere egli aveva inteso conseguire con l'offesa.

Di qui la proporzione tra reato e pena col principio del taglione giuridico.

Anche per Hegel, come si legge nella sua Filosofia del diritto, «l'annientamento del diritto è taglione, in quanto che, secondo il concetto, è lesione della lesione e, secondo l'esistenza, il delitto ha una estensione determinata quantitativa e qualitativa; quindi anche la negazione di esso, in quanto è esistenza, ne ha una altrettale».

La pena per ciò, a parte ogni criterio di utilità o di difesa, è una necessità politica e morale, che, pur impregnandosi sempre più di contenuto etico, come fanno il diritto e lo stato, ha tuttavia la natura del taglione, divenuto morale e giuridico.

Le teoriche del Pessina e del Carrara, in quanto fanno appello alla retribuzione, alla equivalenza ontologica, alla proporzione, alla lesione della lesione, hanno appunto questo invisibile fondamento ideale del taglione Hegeliano.

E la Scuola Positiva non se ne allontana, giacché, pur negando la responsabilità morale, certo per conto della sicurezza e difesa sociale proporziona la pena alla gravità del delitto e alla pericolosità implicita del delinquente.

Egli è — per chi voglia andare in fondo — che il delitto, apparendo or un peccato volontario, ora un fenomeno naturale, ha fatto sempre più rinvigorire il criterio del taglione, o come punizione retributiva, o come difesa adeguata e proporzionata. Ma tra le tante teorie unilaterali che hanno difesa la legittimità della pena, la sola che resista ad ogni critica è quella della necessità, ch'è istintiva da prima e poi può diventare cosciente ed etica, a misura che la convivenza sociale acquista, sia pure come vernice esteriore, un tanto di moralità.

La necessità di vivere per ogni organismo, dal più piccolo al più grande, è, istinto o volontà che sia, la ragion d'essere di tutte le cose. La volontà di vivere è tutt'uno col mondo.

Si difende per vivere l'ameba: come si difende una società organizzata in una data forma statale ed economica.

In questa necessità di difesa deve essere compresa la legittimità delle leggi penali e della pena in genere. E quindi ogni civiltà ha come segnati i limiti delle sue necessità penali. Vi sarà un codice barbarico, come ve ne sarà uno romano, greco, ecclesiastico, inglese, italiano. Ogni civiltà ha il suo codice e la sua penalità in rapporto a quei beni che più creda necessario di difendere per la propria esistenza.

Il Codice Sovietico ha ridotto il massimo della pena afflittiva a dieci anni: ma ha sancito la pena di morte per tutti quei delitti politici ed economici che possono offendere o turbare la dittatura del proletariato. La legge di conservazione è più forte di ogni idealità moralistica, d'ogni equità, d'ogni principio.

Vivere e conservarsi con ogni sforzo: ecco la legge del mondo, per tutti gli organismi.

E per gli Stati, la legge penale punitiva è legge di conservazione per eccellenza.

E però, è giusto, utile, morale, benefico tutto ciò ch'è necessario alla conservazione: anche la guerra può diventare sacra.

Da questo principio generale, considerando le leggi penali, appare superflua ogni indagine sulla legittimità di questa o quella pena.

Poiché il delitto esiste e bisogna per necessità far qualche cosa contro lo stesso — senza indagare se non sia la società stessa il liquido ove si producono o custodiscono i microbi della delinquenza — apparirà utile e necessario minacciare le pene più gravi contro i più gravi delitti, perché questi non si ripetano con frequenza.

Che importa che la storia e la statistica mostrino l'inutilità di queste speranze moralizzatrici e tutrici della pena in genere, e della pena di morte in ispecie?

V'è come una tradizione, una communis opinio, a cui anche le Nazioni obbediscono. È il costume sociale delle classi dirigenti.

È per questo insieme di fatti e ragioni che la pena di morte non solo può apparire legittima, quasi vendetta del sentimento pubblico offeso, ma necessaria nei delitti che turbano la pubblica opinione. E spesso l'esecuzione è una volgare festa del pubblico intorno al carnefice. E di ciò la Francia civilissima dà spesso un triste esempio.

Ma, se la necessità è l'unica legittimità della pena e anche di quella di morte, essa, usata ed abusata nei tempi oscuri, come li disse Vico, non dovrebbe trovar ingresso in un Codice, quando non vi fossero condizioni sociali così allarmanti da far temere dell'inanità delle pene detentive a frenare il corso vorticoso della delinquenza grave di sangue.

E se questa in Italia è, come si deve desumere dalle statistiche ufficiali e dai discorsi ufficiali degli insigni Procuratori Generali, in diminuzione, nello stesso Mezzogiorno, ricco di delitti e di oratoria forense; non pare che vi fosse la necessità di introdurre la pena di morte, oltre che per delitti politici, anche per delitti comuni, consumati per lo più da istintivi, ai quali difettano la coscienza e la volontà dei propri atti, strumenti inconsapevoli di quel costume sociale arcaico, che sotto la forma di istinti domina e guida la loro misera esistenza.

La pena di morte è dovunque più uno strumento di difesa politica d'ogni Stato che una vera e propria difesa sociale da delitti comuni. E per questi dovrà sempre più la prevenzione superare la repressione: prevenzione fatta di riforme sociali ed economiche:

Capitolo V.

SOTTO L'ASPETTO DELL'ERRORE GIUDIZIARIO LA PENA DI MORTE NON PUÒ ACCOGLIERSI: ED ESSA RIMANE UNA CONTINGENZA DI NECESSITÀ POLITICA IN UNA DATA CIVILTÀ

Tanto più che sotto l'aspetto dell'errore giudiziario, la pena di morte non può accogliersi senza manifesta insensibilità.

Voltaire, fin dai tempi suoi, fece un largo e lungo elenco degli errori giudiziari, davvero impressionante. E le nobili parole di V. Hugo contro la pena di morte sono un monito che appartiene alla storia delle nobili e generose idee. La stessa grande tradizione dei giuristi e filosofi del nostro Risorgimento non doveva apparire come un inutile ingombro da superare facilmente.

Ma il grave è che la verità giudiziaria pro veritate habetur; e questo dice tutto. Si deve ritenere per verità, ma tale può non essere, e per infinite ragioni.

Deficienze di giudizi testimoniali per ragioni fisiologiche e psichiche, tendenze alle maggiori falsità di testi e di parti, istinti di frode e di predominio, sete di vendette e di lucri, procedure intricate e complesse, abusi di patrocinanti infedeli, reti fraudolente tese in tutti i modi, fanno sì che anche il giudizio dei giudici, per quanto animati da una fede religiosa nella ricerca della verità, può essere fallace.

Non c'è che il Papa infallibile: ma per decreto di Concilio.

E la fallacia è così intima ed intrinseca al giudizio penale, che, da tempo, s'è provvisto al riesame, al doppio, al triplo riesame e giudizio. Per una sentenza definitiva ce ne vuole. Ora la possibilità dell'errore per sé sola rende iniqua la esecuzione di morte.

Scrisse il Ministro Rocco che contro gli errori può intervenire la clemenza del Re. È vero. Ma può essere troppo tardi e può anche mancare. D'altronde la clemenza non è giustizia.

D'altra parte è spesso la ragione politica che s'insinua come tarlo della verità. È ancora viva per tutti la tragicomedia Dreifusarda in Francia.

Ed essa sta a documentare quali e quante siano e possano essere le fonti dell'errore giudiziario.

La verità è come un astro luminoso al quale possiamo avvicinarci, ma non toccarlo mai, senza subire la sorte di Icaro o di Prometeo. Nei miti è tanta parte dell'esperienza umana. E non bisogna trascurarla solo nelle cose penali, per credere infallibile il giudizio penale, che si chiuda con una pena di morte.

È per l'insieme di tutte queste considerazioni che la pena di morte può anche apparire una necessità politica. Ma essa è poi una necessità sociale o morale, che abbia un fondamento etico o razionale? Ha almeno un fondamento di sicura utilità sociale? O risponde soltanto a una contingenza di tempo e di civiltà? Io penso che se la pena in genere non è che un rimedio formale e meccanico contro il delitto; la pena di morte, lungi dall'essere utile, morale o necessaria, come può parere solo agli antropologi, non è che un avanzo delle antiche penalità, ed appartiene, secondo il delitto, al vecchio costume sociale delle classi dirigenti per la difesa politica e religiosa.

La vita dell'uomo è sacra: ecco la verità che ci viene dal Cristianesimo e che si sarebbe dovuta imprimere nella civiltà contemporanea, in cui al grande sviluppo della Tecnica è necessario s'aggiunga una sensibilità e una moralità più atta.


 

(1) Anche per Romagnosi può esistere il diritto di punire fino alla morte, ma bisogna vedere se ve ne sia il bisogno.

(2) Per un maggior dettaglio cfr. P. Rossi, La pena di morte, Genova, Libreria Bozzi, 1932.

(3) Cfr. La mia Dottrina sociologica del reato, Napoli, Guida, 1931.

(4) Introduction au Cours de phisiologie du cerveau, Paris, 1808, Vol. 1 pag. 356.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti