[Il 12 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Abozzi. [...] E sempre per ottenere la totale esclusione della politica è anche necessario che l'azione disciplinare non sia promossa dal ministro, ma dal primo Presidente della Corte di cassazione. Il magistrato dev'essere un organo di raccordo fra i magistrati e lo Stato, ma non deve lanciare anatemi né far lusinghe politiche. Un deputato dell'Assemblea legislativa francese nel 1790 diceva che nei tempi d'oro della Magistratura francese il magistrato non poteva entrare al Louvre e neppure nelle Camere dei grandi. Sarebbe desiderabile che i magistrati italiani non frequentassero il gabinetto del Ministro né per ricevere anatemi, né per accettare lusinghe. Qualcuno pensa che la Magistratura autonoma possa diventare una casta o una fazione. A me pare che questa paura sia vana: avrebbe un fondamento se il magistrato, oltre che applicare la legge la formasse, ma il magistrato non crea il diritto, lo dice. Egli è soggetto alla legge che lo difende quando la legge difende, lo colpisce quando la legge colpisce. La sua sorte — di fronte alla legge — è quella del comune cittadino.
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L'onorevole Bozzi nel suo discorso diceva che il problema della Magistratura non è risolto con la indipendenza del magistrato dal potere esecutivo: occorre, egli disse, che il giudice sia libero ed indipendente anche dalle gerarchie dei superiori. Io sono perfettamente d'accordo, ma a me pare che non sia facile stabilire norme speciali le quali tutelino l'indipendenza dei magistrati dalle gerarchie superiori. A me pare che si tratti di un problema di carattere psicologico, di buon costume gerarchico, di comune onestà. Capisco perfettamente quanto sia difficile sottrarsi alle pressioni del potere politico. Talvolta è necessario uno sforzo morale che non voglio dire eroico, ma quasi eroico. Ma non è davvero difficile sottrarsi al timore reverenziale esagerato o alla paura di una nota informativa o poco lusinghiera o sfavorevole.
Se il presidente del tribunale viola quella norma la quale vuole per prima la pronunzia del più giovane, dicevo, che non sarà un gran danno. Una discussione ha da esserci, e il presidente dirà il suo parere come lo dicono tutti gli altri. Guai se si dovesse veramente credere che in una qualunque causa che riguarda un qualunque rapinatore ladro, il Presidente si lega al dito il dissenso del giudice e il giudice sacrifica le sue convinzioni per non dispiacere al suo presidente. Se questo fosse, se di tanta pavidità, di tanta codardia si macchiasse l'anima del magistrato italiano, si dovrebbe dire che l'animo umano è irrimediabilmente sconcio: e sarebbe suonata l'ultima ora della santa giustizia. Giudici siffatti giudicherebbero male anche se fossero garantiti come corpo e come singoli. Sarebbe evidente in essi un impedimento dirimente a ben giudicare. Ha detto anche l'onorevole Bozzi che non sempre la Magistratura è rimasta sul piedistallo sul quale si sarebbe voluto che fosse rimasta. E sarà. Ed è.
Onorevoli colleghi, non c'è esercito che non abbia almeno un disertore; ma se ha un solo disertore o pochi, può ben dirsi ancora valoroso. Ognuno di noi conosce indirettamente la vita nazionale e direttamente quella della piccola patria nella quale vive e lavora. Ebbene, io affermo che nella mia piccola patria Sarda, il presidente che si vendica del giudice dissenziente o il giudice che regola il voto su quello del presidente o che si mette in ginocchio dinanzi alla potenza politica, non li ho mai conosciuti. Ho conosciuto soltanto uomini che hanno seguito la coscienza e la legge.
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Veroni. [...] Io voglio ricordare che uomini di partiti diversi: l'onorevole Leone, nei lavori della seconda sezione della seconda Sottocommissione, presieduta dal nostro Vice presidente onorevole Conti, l'onorevole Turco in questa Assemblea, un magistrato, l'onorevole Romano, hanno ricordato che questo decreto 31 maggio 1946, approvato dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro Guardasigilli del tempo, è veramente una conquista per la classe dei magistrati, talché esso fu accolto dalla Magistratura con pieno plauso. I magistrati si ritennero soddisfatti ed esauditi nelle loro richieste, perché per la prima volta questo decreto affrontava e risolveva in pieno e conclusivamente il problema della inamovibilità del giudice, estendendola al pubblico ministero, e garantiva al magistrato l'esercizio delle sue alte funzioni lontano da ogni e qualsiasi influenza; perché, per questo decreto veniva creato un Consiglio Superiore della Magistratura, non come propone il progetto di Costituzione, che rappresenta un regresso di fronte a quello che è il voto e il desiderio dei magistrati, ma come era stato ardentemente reclamato dalla classe, un Consiglio, cioè, composto esclusivamente di magistrati. Così che nei lavori preparatori della Commissione competente si poté dire: «Ma che cosa di più la Magistratura potrà ottenere con il sospirato autogoverno? Che cosa può avere di meglio, quando il decreto sulle sue guarentigie tutto ha dato e tutto ha concesso?».
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L'onorevole Bozzi ha detto che per autogoverno si deve intendere soltanto quello amministrativo; ma ciò non è completamente esatto: quando i magistrati chiedono l'autogoverno vanno molto al di là di questa funzione amministrativa che l'onorevole Bozzi vorrebbe riconoscere all'autogoverno stesso. I magistrati vogliono con l'autogoverno poter provvedere essi alle nomine, alla destinazione e alla rimozione dei magistrati, avere l'iniziativa e il controllo della disciplina della classe, governare, insomma, su tutto quello che attualmente costituisce il potere del Ministro della giustizia. Ora nessuno può e deve contestare, alla classe dei magistrati, piena autonomia ed indipendenza, senza pervenire però a quell'autogoverno, che farebbe di essi una casta chiusa, quasi appartato dal vivere civile.
Una tale tendenza, che non tutti i magistrati possono volere e possono desiderare, dovendo anch'essa, la classe dei giudici, considerarsi uno degli elementi essenziali della vita febbrile del Paese, condurrebbe il giudice e la sua classe ad appartarsi, per governare unicamente il proprio ordine, per provvedere alla propria disciplina, per amministrarne le finanze, per regolarne l'andamento, ecc.
Ecco perché noi diciamo che il decreto 31 maggio 1946 sulle guarentigie della Magistratura, che prevede la soluzione del problema dell'indipendenza attraverso l'inamovibilità del giudice, ed estendendola anche al pubblico ministero, questo decreto è — secondo l'opinione nostra e secondo quella che era, allora, l'opinione della classe dei magistrati — quanto di più può desiderarsi e concedersi, oltre di che, nelle condizioni attuali del nostro Paese, non è consentito andare.
A cura di Fabrizio Calzaretti