[Il 12 novembre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Caccuri. [...] Ma il colpo più grave all'indipendenza della Magistratura è dato dall'articolo 97. La premessa del progetto della nuova Costituzione era di realizzare un deciso progresso nel grave problema dell'autonomia dei giudici; nella conclusione, invece si è dimostrato di avere una concezione del tutto inadeguata dell'indipendenza dell'ordine giudiziario. Non è che il progetto di Costituzione in materia non abbia affermazioni magnifiche; non è che manchino disposizioni con cui l'autonomia e l'indipendenza della Magistratura venga affermata. Si legge, infatti, nei diversi articoli, che la funzione giurisdizionale è espressione della sovranità della Repubblica; che i magistrati dipendono dalla legge; che non possono essere iscritti a partiti politici; che i magistrati costituiscono una organizzazione indipendente, che i magistrati sono inamovibili. È tutto un crescendo veramente rassicurante.
Sennonché, quando si passa ad esaminare come si attua la proclamata autonomia e come si garantisce l'indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, non si può che rimanere perplessi ed avere la sensazione che tutto sia per tornare come prima e anzi, direi, peggio di prima.
Si è sempre lamentato come un pericolo per la vera indipendenza della Magistratura l'ingerenza della politica negli affari della giustizia. Si è cercato, pertanto, nel progetto, di estromettere dall'amministrazione della giustizia il potere esecutivo, perché portatore di interessi politici ed espressione di forze politiche. Sennonché, in realtà, a tali interessi si è dato ugualmente ingresso ed in misura più efficiente, nel governo della Magistratura con la proposta formulazione del Consiglio Superiore.
Infatti, se il potere diretto del Ministro della giustizia è, indubbiamente, assai limitato, perché si riduce al solo esercizio dell'azione disciplinare, non altrettanto limitata rimane, invece, l'ingerenza che non può che essere politica, del potere legislativo, il quale per mezzo dei suoi designati, entra addirittura a far parte dell'organo di direzione e di governo della Magistratura.
Altro che progresso, signori, nell'autonomia dei giudici! C'è proprio da domandarsi se nell'attuazione del principio dell'indipendenza del potere giudiziario non si stia per fare addirittura un deciso e grave passo indietro!
Con la legge Togliatti, invero, restituite le prerogative tolte dal fascismo alla Magistratura, il Ministero di grazia e giustizia ben poca ingerenza politica poteva avere, una volta costituito un Consiglio Superiore composto esclusivamente da magistrati, eletto da essi stessi, presieduto dal loro capo e con la larga competenza che gli era attribuita. Quando invece si stabilisce, come nel progetto di Costituzione, che la metà dei componenti del Consiglio Superiore deve essere eletta dall'Assemblea Nazionale, si espone alla diretta influenza di elementi politici l'intera vita giudiziaria e lo stato giuridico stesso dei magistrati.
E che vale allora dichiarare i giudici soggetti soltanto alla legge, quando l'autonomia dei magistrati deve rimanere una semplice affermazione teorica, sia in relazione ad organi di altri poteri, sia nell'interna gerarchia giudiziaria? Che vale sancire il divieto per il giudice di iscrizione a partiti, se non si vogliono escludere dall'amministrazione della giustizia quelle ingerenze esterne che incidono in concreto sulla imparzialità e serietà dei pronunciati giudiziari? E perché, c'è da chiedersi, una volta ammesso il principio dell'autonomia, sul quale tutti sono d'accordo; e lo si rileva dai discorsi fatti qui da tanti colleghi, lo si rileva dai lavori preparatori; perché, se tutti sono d'accordo, perché tanta riluttanza a dettare una disciplina giuridica che valga a tradurre in realtà, un principio ammesso da tutti? Perché? Per sfiducia nella Magistratura? Se tale sfiducia esiste, devo pensare che deriva o dalla mancata o dalla imperfetta conoscenza dei compiti e dell'attività della nostra Magistratura. Se tale sfiducia è di carattere tecnico organizzativo, a smentirla basta ricordare — come bene ha rilevato l'Associazione dei magistrati — che gli organi giudiziari sono stati i soli a non sospendere mai il loro funzionamento, malgrado gli eventi bellici e le crisi economiche e politiche che hanno martoriato il Paese. Basta ricordare che, con gli stessi organici del 1865, i magistrati hanno risposto soddisfacentemente alle esigenze di una popolazione raddoppiata.
Se tale sfiducia poi è di carattere politico, gli smemorati in buona fede dovrebbero pur ricordare che la Magistratura, anche se priva di ogni effettiva garanzia, ha resistito come ha potuto, con eroismi personali e grazie al senso di dignità della gran maggioranza dei suoi componenti, per 20 anni alla dittatura, mantenendo in complesso fede ad una tradizione di onestà e di indipendenza. Dovrebbero pur ricordare il glorioso contributo di sangue e l'opera preziosa data dai magistrati alla stessa lotta clandestina e dovrebbero non obliare altresì che i magistrati furono gli unici a rifiutare collettivamente il giuramento di fedeltà alla Repubblica sociale fascista. E il paradosso è, onorevoli colleghi, (e forse però questa è la prova migliore della loro dirittura) il paradosso è, che i magistrati italiani ebbero in tempi fascisti fama di antifascisti, sicché furono guardati con sospetto e spesso perseguitati dal regime. (È forse a tutti noto che lo stesso Mussolini ebbe a qualificare il Palazzo di Giustizia come il più temibile covo di antifascisti!). Mentre, dicevo, dal passato regime i magistrati furono guardati con sospetto, oggi magari non si esita a qualificarli fascisti e reazionari. È ingiusto pertanto, è ingiusto ed ingiurioso, affacciare dei dubbi sulla fedeltà del corpo giudiziario; e non si rende certo un buon servizio al consolidamento del regime repubblicano, tenendo sotto sospetto un ordine che esercita le funzioni più delicate e che, come tale, ha bisogno della massima fiducia sia dei cittadini che degli altri poteri dello Stato. Un ordine che nel diuturno travaglio della vita giudiziaria, nonostante un trattamento economico indegno, di miseria, offre continui esempi di sacrifizi, di senso altissimo del dovere, di dirittura e che ha in sé, nella sua austerità di vita, nella sua tradizione di onestà e di lealtà, nel suo equilibrio e nella sua saggezza, nella forza suggestiva della missione che esercita, gli elementi più certi di fiducia e la garanzia più sicura di illimitata fedeltà a tutte le istituzioni dello Stato. Se esistono eccezioni, queste non possono autorizzare generale sfiducia nella Magistratura, che ha sempre conservato la sua integrità morale, reagendo, fedele sempre alla legge, a tutti i tentativi di asservimento e di sopraffazione. Episodi isolati ed errori di uomini singoli non possono, comunque, pregiudicare la posizione costituzionale dell'amministrazione della giustizia, poiché gli uomini, passano, ma la Costituzione rimane e l'indipendenza degli organi giudiziari non costituisce un ambizioso interesse dei magistrati, ma un interesse vitale del popolo italiano. Si è obiettato che con un Consiglio Superiore di soli magistrati verrebbe escluso ogni controllo sul potere giudiziario e ciò sarebbe pericoloso.
L'obiezione, però, non ha un serio fondamento. Innanzi tutto il controllo tra poteri non può essere che un controllo di natura politica; controllo che si spiega nei rapporti fra il legislativo e l'esecutivo, poiché questo ultimo ha un programma politico da attuare e per conseguenza, non può non essere sottoposto al sindacato di opportunità da parte del Parlamento, nel quale quel programma politico raccoglie la maggioranza dei consensi. Un siffatto controllo invece non sarebbe né necessario né possibile nei confronti del potere giudiziario, per la natura stessa dell'attività giurisdizionale, la quale si esaurisce come è noto in un processo di deduzione che non deve ammettere soluzioni di opportunità, se veramente si vuol fare scaturire dalla volontà generale la volontà della legge nel caso particolare. Data perciò la caratteristica di tale funzione, se si vuol garantire il principio fondamentale di ogni ordinata convivenza civile (la libertà individuale e la certezza del diritto) non deve essere consentito sull'attività del giudice alcun controllo tranne, s'intende, il rimedio della impugnazione davanti al giudice investito di funzione superiore. Né il potere esecutivo, né il legislativo possono e devono avere ingerenza sull'attività giurisdizionale, poiché la giustizia deve erigersi assolutamente indipendente, purificata da qualsiasi interesse. La politica, come è stato rilevato anche durante i lavori preparatori, può fare sentire il suo influsso nelle leggi, fino al momento cioè in cui si trasforma in norma giuridica, ma una volta creato il diritto, la politica deve fermarsi e non può esercitare controllo e direttive sui giudici, che devono interpretare il diritto per quello che è, e non per quello che poteva o doveva essere.
Perché il potere giudiziario dunque sia autonomo, ed il giudice indipendente, questi non deve avere davanti a sé, come saggiamente si è statuito nella Costituzione, che la legge e la sua coscienza, a meno che non si voglia fare entrare la voce della politica dove deve rimaner sovrana invece la voce della giustizia.
Si è ancora sostenuto che in regime democratico sovrano è il popolo, e poiché l'espressione più schietta della sovranità popolare è il Parlamento, un'assoluta indipendenza della Magistratura dal potere legislativo la renderebbe estranea alla volontà del popolo e costituirebbe, come ormai si dice con una frase fatta, una casta chiusa, conservatrice e retriva.
Va però rilevato, innanzi tutto, che la volontà stabile e suprema del popolo è quella che si manifesta nella Costituzione. Onde, se indice e caratteristica del sistema costituzionale prescelto è l'indipendenza del potere giudiziario, è chiaro che, fino a quando la Costituzione non muta, mantenere indipendente tale potere significa mantenere in vita la vera volontà popolare, intesa, non solo quale semplice maggioranza parlamentare, ma come volontà unitaria di tutta la Nazione.
Né gli interessi vivi del popolo espressi attraverso il Parlamento possono trovare contrasto nel potere giurisdizionale estraneo all'influenza parlamentare, poiché come ben è stato da altri osservato, qualsiasi progresso sociale manifestato attraverso l'attività legislativa nei limiti della Costituzione, viene garantito non ostacolato, dalla Magistratura.
Ma soprattutto è da rilevare che al popolo, al disopra di ogni esigenza, preme che la legge sia uguale per tutti e che sia garantita a tutti i cittadini giustizia serena e imparziale. Ora, se si pensa tra l'altro che le stesse pubbliche amministrazioni sono assoggettate al diritto, tale imparzialità evidentemente non potrebbe aversi, significherebbe anzi far diventare l'organo giudiziario giudice in casa propria, se il potere giudiziario non fosse indipendente dal potere esecutivo e da quello legislativo.
Mostrati, così, speciosi ed infondati, i pretesti per un controllo sul potere giudiziario, che avrebbe soltanto l'effetto di compromettere la finalità fondamentale di uno Stato libero, quella cioè di garantire a tutti i cittadini che la giustizia sia resa in modo imparziale, non restano che i gravi inconvenienti della composizione mista del Consiglio Superiore proposta dalla Commissione: il pericolo cioè di interferenze politiche e professionali, che praticamente metterebbero nel nulla l'indipendenza della Magistratura, il cui prestigio e soprattutto la fiducia che in essa deve riporre il Paese sarebbero grandemente sminuiti.
E nulla sarebbe più deleterio, onorevoli colleghi, all'affermazione di un libero ordine democratico, del sospetto di una giustizia influenzata o corrosa nei suoi organi da spirito politico o comunque messa in condizione di soggezione ad altri poteri dello Stato.
Pensate invero alle infinite pressioni da parte dei partiti attraverso i loro designati nell'organo di autogoverno; pensate agli svariati maneggi di quei professionisti poco scrupolosi che, chiamati a comporre il Consiglio Superiore, potrebbero anche continuare ad avere, a mezzo di compiacenti prestanomi personali interessi nelle cause affidate a magistrati, la cui carriera ed amovibilità essi terrebbero in mano; pensate a tutto questo, o signori, e vi convincerete che il Consiglio Superiore, così come si vorrebbe costituito, rappresenterebbe tutt'altro che una garanzia di giustizia, oltre che un regresso democratico e costituzionale. Dico un regresso, poiché il Consiglio Superiore della magistratura è stato sempre in Italia composto da soli magistrati, ed il decreto 31 maggio 1946, accogliendo i voti non solo degli organi giudiziari, ma di quanti caldeggiavano i nuovi orientamenti per la democrazia, lo avevano reso elettivo da parte degli stessi magistrati.
Se si vuole perciò veramente l'indipendenza della Magistratura, occorre evitare che la nomina, la designazione ai vari uffici, la promozione, in una parola lo stato dei magistrati, dipendano da orientamenti ed influenze di organi politici, occorre evitare quelle illecite inframmettenze, dalle quali chi amministra giustizia dev'essere messo al riparo; e perché ciò accada è necessario che l'organo supremo della Magistratura sia composto da soli magistrati, scelti attraverso il sistema della interna libera elezione.
Sarebbe veramente strano e contraddittorio che, mentre ai giudici si fa divieto di appartenenza a partiti politici, e si fa divieto, badate, appunto perché si vuole che i giudicabili abbiano un senso di assoluta tranquillità e che il diritto, una volta affidato al magistrato per la sua applicazione, sia visto semplicemente come tale e non abbia neppure lontanamente a risentire di quella politica che sfocia negli organi legislativi, sarebbe veramente strano, che si affidino poi le promozioni, i trasferimenti i procedimenti disciplinari e quanto altro riguarda la vita stessa dei magistrati proprio a uomini di partiti, designati da quell'Assemblea legislativa che, appunto perché organo preposto alla creazione delle leggi, dovrebbe rimanere estraneo agli organi preposti all'applicazione della norma da essa creata.
L'onorevole Calamandrei, in tema di contrasti fra un potere giudiziario autonomo e gli altri poteri dello Stato, ha prospettato come pericolo la possibilità di un rifiuto di applicazione della legge da parte della Magistratura, la quale potrebbe, ha aggiunto, attribuirsi anche il potere di stabilire criteri generali di interpretazione della legge.
Il pericolo prospettato mi sembra in verità assai immaginario e non può sorgere in concreto, sia perché la Magistratura verrebbe meno alla sua funzione se non applicasse una legge che abbia tutti i crismi formali stabiliti dalla Costituzione (e se lo facesse si entrerebbe nel campo rivoluzionario del sovvertimento dei poteri, al modo stesso che il legislativo si arrogasse il compito di amministrare la Giustizia) sia perché la potestà di fissare i criteri generali di interpretazione spetta all'Assemblea legislativa e non all'autorità giudiziaria, che ha soltanto il compito di interpretare la norma con effetto, fra l'altro, limitato al caso concreto.
D'altra parte, se il pericolo fosse realmente esistente, non potrebbe certo essere eliminato dal Consiglio giudiziario misto, poiché nulla in concreto potrebbe impedire che il corpo giudiziario applicasse le legge nel modo da esso ritenuto più opportuno ed assumesse un determinato orientamento interpretativo; né, di fronte alle decisioni della Corte di cassazione, come è stato rilevato, vi sarebbe, come non vi è neppure oggi, la possibilità di sindacato da parte del potere esecutivo sia da parte del potere legislativo. La composizione mista cioè, lungi dall'evitare il fantasioso pericolo prospettato, avrebbe semplicemente l'effetto concreto di far penetrare la politica nelle decisioni singole; di far giungere indebite pressioni ed ingerenze professionali agli organi giudiziari. Ma non potrebbe impedire che la Magistratura, come complesso giudicante, assumesse — volendolo — un determinato atteggiamento nell'interpretazione della legge. A me pare che in realtà tutto dipenda da una decisa, per quanto ingiustificata ostilità e diffidenza verso i magistrati che sono qualificati retrivi, conservatori, insensibili ai fatti sociali, forse perché hanno il torto di essere i servitori fedeli della legge piuttosto che della politica, che non può e non deve interessare loro, finché non si traduca in norma giuridica di cui soltanto essi devono essere gli interpreti più ortodossi e più scrupolosi. Noi vogliamo che sia mantenuta, ed oggi più che mai accentuata, questa posizione conservatrice; e non possiamo concordare con coloro che la vorrebbero trasformare in attitudine politica e vorrebbero la legge aderente alla mutevole realtà della politica, sotto la speciosa pretesa che il diritto non debba essere inserito nel codice, ma nella coscienza del popolo.
L'onorevole Cappi dichiarava giorni fa che per il retto funzionamento della giustizia quello che importa è che il giudice non subisca deviazioni nella fase di interpretazione e di applicazione della legge. E per tale funzione, egli spiegava, nessun pericolo può costituire l'immissione di elementi estranei nel Consiglio Superiore. Mi dispiace di contraddire l'amico Cappi, ma non posso fare a meno di notare che il pericolo è proprio là, nella possibilità che attraverso le pressioni degli elementi estranei immessi nell'organo di auto governo, il giudice possa risentire l'influsso della politica proprio nel processo di interpretazione e applicazione della legge, e possa così essere deviato da quella linea serena e obiettiva che dovrebbe perseguire. Questa, onorevoli colleghi, e questa sola è la ragione che fa vedere con disfavore la composizione mista del Consiglio Superiore della Magistratura. Lo stesso onorevole Cappi ebbe a rilevare che in regime democratico l'eventualità di un potere esecutivo e legislativo tirannici e invadenti deve escludersi quasi a priori, poiché tale eventualità può soltanto aversi in una situazione patologica, come nel periodo fascista, e non in condizioni normali. Va ribadito che le interferenze sulla Magistratura, in verità, non mancarono, pure se in forme meno gravi, anche prima del 1922; poiché in Italia — dobbiamo dirlo — non hanno mai i giudici goduto di una effettiva piena indipendenza; e se il funzionamento della giustizia è apparso talvolta turbato o se un senso di sfiducia ha investito la Magistratura, ciò è dovuto — dobbiamo pur riconoscerlo — in gran parte alle ingerenze del potere esecutivo e degli organi politici in genere, che hanno tanto contribuito a far decadere nel popolo l'idea della imparzialità dell'Amministrazione della giustizia.
E va rilevato, infine, che, fra l'altro, la partecipazione di elementi estranei nel Consiglio Superiore non può trovare neppure completa spiegazione — che peraltro ridonderebbe comunque tutto a danno dell'amministrazione della giustizia — in vere ragioni costituzionali; poiché quell'organo di autogoverno, che tante preoccupazioni dà a coloro che paventano l'autonomia della Magistratura, ha peraltro compiti puramente interni alla organizzazione giudiziaria e di carattere amministrativo, relative al personale. Con esso non si dà alla Magistratura il potere di creare la legge per la propria organizzazione e neppure quello di organizzarsi a suo arbitrio. Con l'organo autonomo di governo la Magistratura avrebbe soltanto il potere di assumere, di trasferire, di punire, in una parola di amministrarsi, ma sempre nei limiti, nelle forme e con le garanzie fissate dall'ordinamento giudiziario, che viene emanato dal potere legislativo.
Quale casta chiusa, di grazia, io vi domando?
Si può parlare di torri di avorio, di casta impenetrabile quando si ha non solo il potere di organizzarsi, ma anche quello di creare la legge per la propria organizzazione. Se tale legge invece è creata da altri, non rimane che un potere, il quale ha quasi carattere di semplice esecuzione. Non vedo perciò la ragione e non riesco proprio a vedere il pericolo del perché il Consiglio giudiziario non debba essere composto di soli magistrati.
Penso che l'intervento del potere legislativo nella formazione del Consiglio superiore della Magistratura sia stato ammesso sull'esempio della Costituzione francese; ma, a parte il gusto della importazione, anche in campi ove potremmo legittimamente esportare, va rilevato che la composizione mista può avere una certa giustificazione nel Consiglio Superiore della Magistratura francese, il quale ha, fra le altre funzioni, anche quella di esercitare il diritto di grazia, ma non ha e non può avere neppure tale legittimazione da noi, ove manca siffatta prerogativa. Ritengo pertanto che nulla possa giustificare la composizione mista dell'organo di autogoverno.
Se poi proprio non si volesse rinunziare all'ingerenza del potere legislativo nella composizione del Consiglio giudiziario, ritengo che, ad attenuare gli inconvenienti del sistema, non vi sia che una duplice soluzione: o variare l'apporto proporzionale fra i componenti magistrati ed i componenti estranei, in modo da dare ai primi una prevalenza numerica in confronto ai secondi; oppure offrire al Parlamento la facoltà di scegliere, sempre nel corpo dei magistrati, una metà dei componenti il Consiglio Superiore.
[...]
Concludo ribadendo che noi non vogliamo una Magistratura avulsa dalla vita sociale, ma la vogliamo indipendente.
Noi non vogliamo che il giudice sia una astrazione, ma desideriamo che sia sereno nell'esplicazione della sua opera. Che non abbia preoccupazioni di influenze estranee sulla sua coscienza e che sulla sua carriera non vi sia possibilità di interferenze esterne.
Noi sappiamo che l'indipendenza dell'ordine giudiziario è indice e garanzia di ogni democrazia costituzionale e che sarebbe inutile aumentare in astratto la sfera di libertà dei cittadini, sarebbe perfettamente inutile proclamare l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge, se non si istituisse un potere giudiziario in condizioni di poter realizzare e garantire queste elementari esigenze di democrazia.
E presupposto primo di tale realizzazione, onorevoli colleghi, è l'indipendenza integrale della Magistratura, la cui funzione, se deve davvero costituire garanzia e difesa di diritti e di libertà non può e non deve risentire, a meno che non si voglia negare e tradire nel contempo lo stesso ordine democratico, non può e non deve risentire — dicevo — delle fluttuazioni di maggioranze parlamentari e dell'alternarsi dei partiti al Governo.
Potere politico, partiti, maggioranza parlamentare hanno, come ho detto, un settore proprio in cui far sentire il loro influsso, ed è quello della legislazione, a cui non si sottrae lo stesso ordinamento giudiziario dal quale è disciplinata la Magistratura; ma non possono e non debbono, in un regime di vera democrazia, influire sull'esercizio del potere giurisdizionale.
Se si è contrari al principio dell'indipendenza della Magistratura, si abbia pure il coraggio di dirlo, nell'Assemblea Costituente, di fronte al popolo; si sostenga pure esplicitamente che i giudici debbono essere dipendenti dal potere esecutivo o legislativo e debbono seguire le direttive politiche di essi; si abbia almeno la coerenza nelle affermazioni e si assumano le responsabilità relative. Ma se si dichiara che il potere giudiziario deve essere indipendente, occorre stabilire gli esatti termini di tale indipendenza, senza rinnegare, così come si è fatto con tanta disinvoltura nel progetto, il principio nel momento stesso che lo si afferma. Se si vuole perciò una Magistratura subordinata alla politica, lo si dica chiaramente, senza infingimenti e senza riserve mentali.
Si ricordi però che, come saggiamente rilevava padre Lener nell'articolo cui accennava ieri l'amico Romano, si ricordi, dico, che quando la politica entra nella giustizia, la libertà e l'uguaglianza dei cittadini sono in pericolo.
E una Costituzione che non evita tale pericolo, non può dirsi più una Costituzione democratica; è una Costituzione che prepara l'avvento alla dittatura. L'avvento alla dittatura, sì, onorevoli colleghi, alla dittatura, poiché ben è stato scritto, che giustizia e libertà sono veramente un inscindibile binomio: esse vivono o periscono insieme! (Applausi — Congratulazioni).
[...]
Scalfaro. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, dopo tante discussioni su un problema così ampio, così appassionante e soprattutto così difficile, sia consentito a me, ultimo dei magistrati qui presenti, di portare un modesto contributo. E vorrei portarlo (mi si consenta, perché non è critica ad alcuno) non già protestando contro l'indipendenza della Magistratura che è stata nel progetto manomessa, ponendomi a difenderla quasi ad oltranza per quindi uscire dall'Aula senza aver concluso assolutamente nulla. Mi pare che il problema debba essere visto così come quando, in una qualsiasi Corte, in un tribunale, alla fine dalle arringhe di accusa e di difesa si ritirano i magistrati in camera di consiglio e discutono passo passo su questioni di fatto e di diritto, e discutono tirando le somme su quello che si è detto.
Non mi voglio arrogare il diritto e il vanto di tirare le somme su quanto hanno detto gli altri, ma vorrei vedere se fra queste due tesi dell'indipendenza da una parte e di chi, dall'altra, sostiene che l'indipendenza riduca la Magistratura ad una «casta chiusa», non vi sia una via di mezzo. Io ho presentato un emendamento in merito. Ho presentato un emendamento che parte da un interrogativo posto a me stesso e che mi permetto porre all'Assemblea: che cosa si intende per indipendenza? Che se per indipendenza si intende di impedire qualsiasi controllo in quello che può essere il governo dell'amministrazione della giustizia in Italia, evidentemente il Consiglio Superiore della Magistratura, dovrà esser composto di soli magistrati.
In tal caso, si può anche andare al di là di una pura e semplice indipendenza. Si consenta che un magistrato ricordi che stiamo vivendo in una realtà di vita concreta, dove sono delle esigenze politiche che non possono essere trascurate né è possibile chiudere gli occhi di fronte ad una richiesta di controllo nel governo della Magistratura che viene fatta da tante parti di questa Assemblea e che non può ritenersi a priori tutta inficiata da moventi politici o peggio, da desiderio di soppiantare, di scardinare la Magistratura rendendola asservita ai partiti. Che se anche così fosse nelle intenzioni, quello che ci interessa, è il prendere atto che solo di controllo si parla e per questo solo si fanno formali richieste. D'altro canto, ci si potrebbe fermare ad un sostanziale concetto di indipendenza ad un concetto-limite, difendendo quella che è l'indipendenza nella sua essenza, nel suo contenuto indispensabile: in tal caso si ha indipendenza fino a quando non si pongano ostacoli, non limiti che lasciando la parvenza di essa, la svuotano di ogni contenuto. Non si avrebbe indipendenza quando il Consiglio Superiore avesse una maggioranza di non magistrati, o anche quando rimanesse quello che è scritto nel progetto, dove è previsto che la metà dei membri siano magistrati e l'atra metà eletti dall'Assemblea fuori del suo seno.
Nel mio emendamento il pericolo viene a scomparire mutandosi quella composizione in queste diverse proporzioni, che cioè nel Consiglio Superiore vi siano sotto la presidenza del Presidente della Repubblica, due terzi di magistrati eletti dalla Magistratura ed un terzo di non magistrati eletti dall'Assemblea. Per quanto poi riguarda la scelta di questo terzo, ritengo indispensabile che si tratti di tecnici. Se il Consiglio superiore dell'istruzione che pure ha sola funzione consultiva, può avere nel suo seno solo insegnanti, a maggior ragione il Consiglio superiore della Magistratura deve avere esclusivamente persone tecniche, data la competenza, la funzione che al Consiglio è affidata. Mi pare tuttavia che l'emendamento Monticelli, che ammette al Consiglio Superiore ex magistrati, avvocati, docenti di diritto, pure accettabilissimo, possa anche non far parte di una Costituzione ed entrare in una legge successiva sull'ordinamento giudiziario. Nella Costituzione, è sufficiente delimitare questi campi; fissare i principî, vincere la grossa battaglia dell'indipendenza perché da una parte la Magistratura non potrà dire di non aver sufficiente libertà né che è costretta a subire volontà, o pressioni estranee; d'altra parte coloro che esigono il controllo lo hanno attraverso il terzo dei non magistrati. È questa una sintesi delle due correnti che considera giustamente e la necessità dell'indipendenza, soppressa la quale si sopprimerebbe la stessa giustizia, e questa situazione storico-politica che ha le sue esigenze e che non potrebbe essere misconosciuta senza pregiudizio della stessa Magistratura già purtroppo, sufficientemente e ingiustamente sospettata. È inutile quindi, che ci impanchiamo a pubblici ministeri di fronte ad un progetto di Costituzione, dichiarandoci pronti a lacerarlo, affermando che non è attuabile, quando poi questa affermazione di principî debba rimanere tale, senza aver saputo dare un contributo concreto. È dovere per un magistrato difendere la Magistratura nel suo prestigio, nella sua forza, nella sua opera di giustizia: tale difesa non si fa a proteste vane, a richieste che già si prevedono verranno respinte: difendiamo il difendibile purché la giustizia sia salva.
Io sono convinto, comunque, che anche qualora — e voglio porre questo «qualora» come ultima deprecata ipotesi — l'indipendenza della Magistratura non fosse salvaguardata, potremmo pur sempre credere, e confidare, nella coscienza dei singoli magistrati. È questa la garanzia più grande, più salda della giustizia. Ma si tratta appunto, in quest'opera di legislazione, di togliere gli ostacoli a che il giudice compia giustizia e far sì che questa indipendenza possa manifestarsi in una amministrazione serena e concreta di giustizia, perché lo sforzo dei singoli per l'indipendenza della propria toga, non urti contro un sistema che già questa toga ha vincolato, ha compromesso.
[...]
L'indipendenza quindi è sottoposta a queste condizioni: che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia due terzi di magistrati e un terzo di elementi estranei; e come Vicepresidenti, il primo Presidente della Cassazione ed il Procuratore generale (che sarebbe assurdo, fosse comunque estromesso).
Non mi pare il caso di porre una subordinata; tuttavia voglio ugualmente esprimerla. Ho visto le ultime proposte dei magistrati che scendono anche al di sotto di questa materia, quasi a ultima barriera di difesa: e cioè che comunque l'Assemblea non neghi ai magistrati una qualsiasi maggioranza nel Consiglio Superiore. Io ho chiesto una maggioranza qualificata; perché mi pare necessaria per la dignità e per la fiducia, che l'Assemblea deve avere verso la Magistratura italiana. Ma, almeno questo minimo di maggioranza sia tutelato.
[...]
Gullo Fausto. [...] Qui si innesta senz'altro, come primo aspetto della questione, ed è l'aspetto più interessante, quello dell'indipendenza e dell'autonomia della Magistratura. Si dice: la Magistratura deve essere indipendente ed autonoma. Badate, è qui che si inserisce l'errore di cui parlavo all'inizio, ossia di non riflettere bene che la sovranità è soltanto del potere giudiziario e non dell'organo. Evidentemente, quando si afferma con tanta risolutezza — e vedremo in quali termini e in quale misura — la necessità dell'indipendenza e dell'autonomia della Magistratura, si commette un errore, ossia si slarga il carattere di sovranità, che è proprio del potere giudiziario, attribuendolo all'organo. Si dice: «la Magistratura deve essere indipendente ed autonoma». Occorre che ci intendiamo sul significato di queste parole. Quale è il potere dello Stato che sia indipendente ed autonomo?
Non il potere legislativo, non il potere esecutivo. Né si vede che l'uno e l'altro siano menomati, e nella teoria e nella realtà, dal fatto che non sono né indipendenti né autonomi. Perché dovrebbe esserlo in così larga misura il potere giudiziario? Bisogna pur dare un fondamento teorico e pratico a questa affermata necessità della piena indipendenza e della piena autonomia della Magistratura.
E, badate, è una autonomia e una indipendenza che si postulano in maniera tale, che, se noi volessimo applicarle integralmente, avremmo un organo assolutamente scisso dagli altri organi, che sono anch'essi rappresentativi della sovranità dello Stato.
Onde si trarrebbe la ragione di tutto ciò?
Non basta dire: «noi vogliamo sottrarre l'ordine giudiziario alle illecite interferenze dell'esecutivo». Qui siamo di fronte ad un fatto illecito, direi, delittuoso, comunque eccezionale; e non è possibile, partendo da una eccezionalità, voler costruire un edificio costituzionale. Dire: noi intendiamo che l'ordine giudiziario sia assolutamente autonomo ed indipendente, significa scinderlo dagli altri poteri sovrani dello Stato; non può bastare a giustificare, né teoricamente, né praticamente una costruzione simile, il fatto eccezionale di un Ministro, che possa imporre al giudice una sentenza. E questo lo dico prescindendo dal fatto che noi siamo in regime di democrazia. E se questa democrazia noi la intendiamo e la creiamo come attività di organi, che si rifacciano costantemente, nella esplicazione della loro funzione, a quella unica fonte di sovranità, che è il popolo, se noi questo vogliamo, e dobbiamo volerlo, se noi riusciamo a creare questa democrazia, evidentemente la pretesa necessità di assicurare l'autonomia e l'indipendenza della Magistratura in maniera tale da renderla un potere scisso da tutti gli altri, non ha alcun fondamento; perché non è più concepibile, se non come fatto assolutamente anormale, la indebita ingerenza dell'esecutivo nel giudiziario.
Il controllo che vi è da parte del legislativo sull'esecutivo, da parte del corpo elettorale e del popolo sull'uno e sull'altro deve, ripeto, rendere assolutamente eccezionale una indebita ingerenza dell'esecutivo; non parliamo del legislativo, cui qualche collega accennava. Noi possiamo in astratto ipotizzare tutto, ma non vedo come questa ingerenza del legislativo potrebbe esplicarsi come atto illecito. Se domani si esplicasse in una maniera tale, che anche la Magistratura ne sentisse il peso, ciò non avrebbe nulla di men che perfettamente lecito.
Ed allora, che cosa è questa indipendenza? Se noi togliamo ad essa questa giustificazione, che deve essere esclusa per il rispetto stesso che ognuno di noi deve avere per la democrazia nuova, cosa sarà mai questa indipendenza della Magistratura?
Indipendenza da che cosa? Dal legislativo e dall'esecutivo, nel senso che questo potere, nella esplicazione della sua attività, non debba avere rapporti costanti, continui con l'esecutivo e col legislativo? Io nego che in uno Stato veramente democratico possa aversi un fatto simile. Noi consideriamo i tre poteri, così come mostrava di considerarli, in un passo oltremodo significativo della sua Scienza della legislazione, Gaetano Filangieri. Egli scriveva:
«In ogni specie di Governo l'autorità dev'essere bilanciata, ma non divisa; le diverse parti del potere debbono essere distribuite, ma non distratte; uno deve essere il fonte del potere, uno il centro dell'autorità; ogni parte del potere, ogni esercizio di autorità deve immediatamente da questo punto partire, deve continuamente a questo punto ritornare».
Il Filangieri, con perspicuità di concetti e di parola, senz'altro definiva quale deve essere l'esercizio della sovranità costituzionale.
Ma noi, realizzando l'indipendenza e l'autonomia del potere giudiziario, così come esse vengono richieste, creeremmo un potere completamente staccato ed estraneo dagli altri poteri dello Stato. Noi consideriamo la sovranità come un tutto inscindibile; nessun potere deve essere distaccato da questa unica fonte, da cui traggono l'autorità tutti i poteri. Si dice: noi vogliamo l'indipendenza della Magistratura, perché «compito del magistrato — dicono i magistrati dell'Associazione nazionale — è l'applicazione della legge, che non ammette soluzioni di continuità». Sono parole grosse, con le quali in realtà si cade in una strana tautologia. Non credo che ci sia alcuno il quale possa mettere in dubbio questo fatto, cioè che il magistrato debba applicare la legge. Ma quando si è detto questo, non si è detto proprio nulla, e non si è avanzato di un'unghia sulla via della risoluzione del problema. Cosa vuol dire: «il magistrato deve applicare la legge»? Forse siamo di fronte ad un meccanismo automatico per cui quando avremo assicurata la fedeltà dell'operatore, avremo senz'altro la piena applicazione della legge? O non piuttosto l'applicazione della legge è un fatto del nostro spirito, della nostra mente e del nostro essere, cioè qualcosa che non può ridursi ad un meccanismo? Quando voi dite: il magistrato deve applicare la legge, dimenticate una cosa sola ed essenziale: la legge è come l'opera d'arte, che può rimanere nel suo testo immutata, ma che rinnova continuamente il suo spirito. Forse che la Divina Commedia che leggeva Giovanni Boccaccio sei secoli fa è la stessa che leggeva Francesco De Sanctis 80 anni addietro o è la stessa che leggiamo noi?
La poesia di Torquato Tasso era percepita dai suoi contemporanei ben diversamente da come la percepiamo noi, che abbiamo vissuto il romanticismo e vediamo quale filone romantico è nei suoi versi. Pure i testi della Divina Commedia e della Gerusalemme Liberata son sempre quelli. Così la legge. Potete voi dire che il Codice civile del 1865 veniva inteso allo stesso modo nel 1940? Le parole erano sempre le stesse, d'accordo, ma l'interpretazione di quel Codice, che si era protratto per 80 anni, ne aveva fatto via via una cosa diversa. Quando si dice che il magistrato intende all'applicazione della legge, si dice cosa che non ha affatto il significato che si vorrebbe attribuirle. Ne volete una prova? E sia detto questo, non solo per mostrare che questa frase non significa nulla, ma per segnalare quanto di pericoloso sia insito in essa. Sono costretto qui, volendo aderire alla realtà e guardarla con occhio scevro da ogni preconcetto e da ogni partito preso, a chiedermi se il magistrato ha creduto di applicare la legge in questi ultimi tempi — parlo di episodi recenti, perché essi hanno sempre una suggestione maggiore — dichiarando incostituzionali, uno dopo l'altro, tutti i decreti di carattere agrario, tutti, nessuno escluso, i miei e i decreti Segni. Finanche l'ultimo, sull'equo fitto, dopo soli due mesi, dalla Corte d'appello di Torino è stato dichiarato incostituzionale. Credete che questi magistrati pensino di non avere applicata la legge?
Se dovessimo fermarci a questa frase, bisognerebbe dire che essi hanno fatto il loro dovere. Ma come l'hanno fatto? Prescindo dall'aspetto strettamente giuridico, e mi domando se questi magistrati hanno avuto coscienza del fatto che con i loro giudicati venivano a porsi contro un inizio di legislazione agraria, attraverso il quale finalmente un raggio modestissimo di sole è sorto ad illuminare tutta una massa di uomini finora tenuta nelle tenebre più fitte. Ebbene, questo inizio di legislazione, pur così crepuscolare, ha trovato dei giudici che non hanno compreso nulla del suo significato sociale, che si sono chiusi in un'angusta interpretazione letterale, per giunta anche errata, perché la dichiarazione di incostituzionalità di una legge non può essere che un fatto puramente formale; ed è quindi aberrante che si dichiari incostituzionale una legge, mentre non abbiamo ancora una Costituzione. Ma, si ripete, anche se non ricorresse questo motivo giuridico, resterebbe sempre l'altro motivo più sostanziale, e cioè che la Magistratura non ha, purtroppo, avvertito nulla delle speranze, delle aspirazioni delle masse contadine, che nel clima della nuova democrazia chiedono di avere il giusto riconoscimento. Pure io so che non mancano fra i magistrati coloro che sentono queste aspirazioni e queste necessità. Ma la loro presenza non è valsa ad evitare questa dichiarazione di incostituzionalità a catena di tutti i decreti a favore dei contadini.
Quasi tutti i più alti gerarchi fascisti sono stati rimessi in libertà. Non incolpiamone l'amnistia: essa voleva essere un atto di pacificazione, che era chiesto da tutti i partiti, e fu quale dovette essere. È questione di averla interpretata in una maniera aberrante, e non solo dal punto di vista politico-sociale. Non doveva essere applicata così neanche da un punto di vista strettamente giuridico, perché il ragionamento che la Magistratura ha fatto per arrivare a quella conclusione, è giuridicamente errato e tortuoso. Ed è stata conclusione nettamente contrastante con l'aspirazione viva di quegli italiani, che hanno voluta questa nuova democrazia, e per volerla hanno affrontato carceri, martiri, dolori e hanno salvato così la dignità stessa del nostro Paese.
Ma tutto questo, evidentemente, è sfuggito alla Magistratura. Essa non è riuscita a percepire il senso di questa nuova vita.
La indipendenza del magistrato è necessario intenderla in un altro modo. Nei riguardi del potere giudiziario è indubbio che il regime assolutistico, di fronte alla polverizzazione giurisdizionale del feudalesimo, rappresentò un sicuro progresso. Il potere giudiziario si presentava come un riflesso della sovranità dello Stato, che si impersonava e riassumeva tutto nel re. L'esigenza della indipendenza della Magistratura sorse nei regimi costituzionali, quando la sovranità venne ad essere formalmente scissa tra popolo e re. Il popolo doveva garantirsi. Gli doveva essere garantita una giustizia che sfuggisse al pericolo del prepotere regio. Così sorse e si giustificò l'indipendenza della Magistratura. Ma ora, se noi creiamo sul serio una autentica e vera democrazia, non possiamo non essere contrari ad una indipendenza così intesa. Noi vogliamo che il giudice viva a continuo contatto del popolo, ossia della fonte da cui esso unicamente trae i motivi e la giustificazione della sua autorità. La Magistratura deve essere legata con tutti gli altri poteri, appunto perché l'esercizio di tutti e tre i poteri risulti quanto più si può armonico e perché nessuno di essi venga, per nessuna ragione, distratto e scisso dagli altri.
La indipendenza, invece, così com'è intesa da alcuni, verrebbe ad essere uno strumento idoneo soltanto ad isolare il magistrato, ed accadrebbe questo fatto: che la indipendenza, sorta come una guarentigia di carattere esclusivamente strumentale, verrebbe ad essere considerata invece come una guarentigia di carattere finalistico o teleologico; ossia l'indipendenza del giudice per la indipendenza del giudice. Ma perché questo? Che cosa si vuol fare del giudice? Forse un essere che viva sotto una campana di cristallo e che non senta nulla delle aspirazioni e delle speranze del popolo? Un essere che viva chiuso in se stesso, inteso a quella applicazione della legge che abbiamo visto or ora? O non è giusto invece, non è necessario che la Magistratura partecipi attivamente alla vita della Nazione? Che essa collabori strettamente con gli altri poteri, legata ad essi da vincoli che non vengano mai allentati o dispersi, perché disperderli significherebbe ferire in pieno la democrazia stessa, nella sua sostanza e nel suo profondo significato?
Intanto si ha vera democrazia, in quanto il legislatore, l'esecutore e il giudice costituiscano, sì, tre poteri distinti, ma operanti in armonica coesistenza. Soltanto così può essere intesa la indipendenza della Magistratura. E da questa premessa può e deve muovere la discussione intorno al Consiglio Superiore della Magistratura.
Perché il progetto vuole che il Consiglio Superiore della Magistratura non sia formato esclusivamente da magistrati? Perché formarlo esclusivamente di magistrati significherebbe alimentare questa strana pretesa di una indipendenza, che valga come estraneità completa dal resto dello Stato. Per la ragione contraria noi affermiamo, invece, che questo organo massimo del potere giudiziario non può essere composto esclusivamente di magistrati. Essi vedrebbero il problema del potere giudiziario attraverso le unilaterali esigenze dell'organo e confonderebbero l'uno con l'altro.
Sono due cose che, invece, devono essere tenute distinte. Il potere giudiziario non è un fatto della sola Magistratura, è un fatto di tutti gli italiani. Non può immaginarsi che il Consiglio Superiore sia formato di soli magistrati, i quali indubbiamente, per necessità di cose, porterebbero nella soluzione dei vari problemi un angusto sentimento di casta, e sfuggirebbe ad esso, invece, quella visione più larga del potere giudiziario, come attività che interessa tutti gli italiani e non soltanto i giudici.
Ecco la necessità perché di questo organo facciano parte elementi estranei, che concorrano insieme coi magistrati alla soluzione di tutti i problemi che interessano il potere giudiziario.
Si dice: ma voi li fate eleggere dalle Camere; c'è una ingerenza illecita del legislativo.
Non lasciamoci prendere dalle parole fatte. Quale ingerenza sarebbe questa? Perché la Camera dei deputati ed il Senato, nominando alcuni membri del Consiglio Superiore della Magistratura, eserciterebbero una illecita ingerenza? Chi volete che li nomini, se non le Assemblee che rappresentano direttamente il popolo, quel popolo che è la fonte unica della sovranità, e dal quale la Magistratura trae il suo potere e la sua autorità? C'è cosa più logica e più adeguata alle esigenze costituzionali dello Stato, che questi membri estranei siano appunto nominati dalle Assemblee popolari? Gli eletti entreranno in questo organo supremo della Magistratura portando, appunto, la visione che l'uomo estraneo all'ordine ha del potere giudiziario, in modo che la soluzione dei vari problemi non sarà una soluzione unilaterale, ma sarà quella che è imposta dalle esigenze di tutte le categorie del popolo italiano e non soltanto dalla categoria direttamente interessata, che è quella dei magistrati.
Da questo punto di vista noi approviamo senz'altro il testo del progetto, ed approviamo anche che a capo del Consiglio Superiore della Magistratura sia il Presidente della Repubblica, il quale darà maggior lustro a questo supremo organo del potere giudiziario e, riassumendo in sé la sovranità dello Stato, imprimerà al Consiglio Superiore l'aspetto, non di un organo proprio ed esclusivo della Magistratura, ma di un organo che presieda al potere giudiziario in nome di tutto il popolo italiano.
A cura di Fabrizio Calzaretti