[L'8 novembre 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Musotto. [...] La Magistratura ha da tempo manifestato la sua istanza di divenire un ordine chiuso, una casta chiusa, avulsa dagli altri poteri dello Stato, estranea agli altri poteri dello Stato. Ed io di questo argomento vorrò anzitutto occuparmi, perché, onorevoli colleghi, parmi che esso abbia un carattere di priorità ed un fondamento essenziale tra i vari problemi che il progetto di Costituzione pone all'esame dei membri dell'Assemblea Costituente.
Io ebbi l'onore di appartenere all'ordine giudiziario; quindi potrò liberamente parlare. La mia parola non può certo avere accento di irriverenza verso questo ordine, che pure, bisogna riconoscerlo, negli anni andati dei pervertimenti e delle deviazioni, si sforzò di tenere alto il prestigio della propria funzione.
Ma, onorevoli colleghi, creare un ordine chiuso, una casta chiusa, avulsa dagli altri poteri dello Stato, in questo storico momento, in cui noi assistiamo al trapasso da un vecchio ad un nuovo regime (nuovo regime che attraverso stenti e difficoltà tenta di consolidarsi), credo sia estremamente pericoloso. Sia pure chiusa in una torre di avorio, secondo la espressione dell'onorevole Turco. E poi va ricordato, onorevoli colleghi, un episodio recente, ancora doloroso: non tutti i magistrati hanno chiaramente manifestato una fede consapevole nel divenire sicuro della Repubblica italiana.
Sono problemi di una importanza capitale, sono problemi che devono innanzitutto essere posti dalla pubblica opinione, hanno bisogno di una chiarezza, di una maturità nella coscienza pubblica, prima che vengano all'esame dell'Assemblea Costituente.
La Magistratura può ricomporsi, può trovare nell'ordinamento giudiziario, che la Costituente le sta apprestando, i presupposti del divenire della sua ampia autonomia e della sua ampia indipendenza.
Già molti colleghi hanno espresso il proprio pensiero, né parmi che i pareri siano concordi. C'è ancora nell'Assemblea qualche preoccupazione, ci sono dei dubbi in rapporto a questo grave problema dell'autonomia integrale della Magistratura. Dobbiamo andare con grande cautela, onorevoli colleghi, prima di affermare questo principio, che non risponde alle esigenze del momento storico in cui lo valutiamo, in cui il problema ci è posto.
[...]
Colitto. [...] Alla Magistratura deve essere, da una Costituzione democratica e civile quale è la nostra, assicurata la più completa indipendenza. La Costituzione lo riconosce. Nell'articolo 97 si legge appunto che «la Magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente».
Ma come il principio viene poi tradotto in realtà?
È noto che una vera indipendenza si realizza solo ove due altri principî trovino attuazione: il principio dell'autogoverno — termine forse tecnicamente improprio, ma facilmente comprensibile — e il principio della unità di giurisdizione, in forza del quale il potere giudiziario deve accentrare nei suoi organi tutta l'attività giurisdizionale, civile, penale ed amministrativa.
Fulcro dell'indipendenza della Magistratura è l'autogoverno della Magistratura: essa costituisce un ordine autonomo, che provvede da sé e senza alcuna ingerenza del potere esecutivo, al proprio governo. Dire autogoverno significa dire autonomia organizzativa e funzionale: e, affinché essa non si riduca praticamente a mera apparenza, è indispensabile che i magistrati siano posti in condizione di non avere nulla da temere e neppure nulla da sperare dagli organi del potere legislativo e da quelli del potere governativo. Si impone, pertanto, la necessità non solo di sancire, nei riguardi dei magistrati, il divieto della applicazione anche temporanea a funzioni non giurisdizionali e del conferimento di onorificenze o di incarichi, ma altresì di riservare agli stessi organi del potere giudiziario tutti i provvedimenti amministrativi sullo stato giuridico degli appartenenti alla Magistratura, quali il reclutamento, le destinazioni, le promozioni, la scelta dei dirigenti e dei capi.
Bene è stato detto, bene è stato scritto che in materia di indipendenza non possono esistere soluzioni di compromesso, soluzioni transattive. Una indipendenza limitata o condizionata non è concepibile. Ora, se questo è esatto, l'articolo 97 del progetto di Costituzione, che disciplina il Consiglio Superiore della Magistratura (organo centrale dell'autogoverno), non può non essere modificato. Tale Consiglio non può, infatti, essere formato in parte di magistrati ed in parte di uomini politici. È questa, a mio avviso, una composizione ibrida, sommamente pericolosa, che, mentre costituirebbe un passo indietro sulla via del progresso costituzionale del Paese, ferirebbe mortalmente il principio dell'autonomia e della indipendenza della Magistratura, essendo evidente che, così componendosi il Consiglio Superiore della Magistratura, il governo di questa non sarebbe affatto sottratto al potere esecutivo, espressione delle forze politiche e portatore degli interessi politici del Paese.
Su ciò molto si deve l'Assemblea soffermare, essendo qui in giuoco la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini.
[...]
Cappi. [...] Mi occuperò di un punto solo; e voi consentirete che io prenda le mosse da uno studio pubblicato sopra una rivista da uno scrittore, figlio di un alto magistrato della Suprema Corte ed egli stesso valoroso giurista; studio acuto e profondo. Da esso prenderò le mosse, sia per il suo pregio intrinseco, sia per riguardo, che ben merita, a quella rivista, La Civiltà Cattolica, la quale, fra l'indifferenza quasi generale del pubblico, si è sempre occupata con non superficiale interessamento, con vigile cura, con sincero spirito di collaborazione, dei nostri lavori di costituenti.
Il punto di cui mi occupo è l'articolo 97, il cosidetto «autogoverno della Magistratura».
L'autore di cui ho fatto parola è fervido sostenitore dell'assoluto autogoverno della Magistratura; ed in questo io mi permetto di dissentire da lui. Ma il suo studio, che riguarda il più ampio tema dell'indipendenza giudiziaria, ha il merito di sostenere le sue tesi non con argomenti vaghi o superficiali, bensì con rigore scientifico; con una intelaiatura logica chiara e forte.
Egli premette due considerazioni di notevole importanza.
Cerca anzitutto di individuare il punto di convergenza ed il punto di distacco fra la funzione legislativa e la funzione giudiziaria; e si esprime incisivamente così:
«In uno stabilito regime democratico, il settore proprio in cui la politica si trasforma in diritto è quello della legislazione».
Esatto. E notorio che la legge, una volta promulgata, si stacca, per così dire, dalla sua matrice, dal potere legislativo, e vive di vita autonoma. E la interpretazione, l'attuazione della legge spettano o all'esecutivo o — in materia di diritti — al potere giudiziario.
A questa prima considerazione l'autore ne fa seguire altra, la quale risponde al dubbio, sollevato qui dentro, che l'indipendenza assoluta del potere giudiziario possa costituire un elemento di conservazione, un pericolo per le libertà democratiche. L'autore — ed è convincente — ci persuade del contrario; egli, anzi, dice che è una esigenza democratica l'evitare che i poteri dello Stato straripino dal loro ambito, che l'esecutivo ed il legislativo non stiano nei confini loro assegnati, e fa, quindi, queste osservazioni: «Garantire la conservazione e l'effettiva attuazione dell'ordinamento statuale è qualcosa che non ha nulla a che vedere con il cosiddetto conservatorismo politico, con un indirizzo o partito politico che sia effettivamente retrivo e reazionario. Conservare la democrazia non può certamente essere attività antidemocratica». Anche qui egli — a mio avviso — ha ragione.
L'autore affronta poi il nodo del problema e sostiene che l'indipendenza della Magistratura deve avere un triplice carattere: deve essere una indipendenza costituzionale, una indipendenza istituzionale ed una indipendenza funzionale. Indubbiamente questa articolazione, questa tricotomia ha un serio fondamento scientifico.
L'autore afferma — e qui dissento da lui — che il nostro progetto di Costituzione, di cui egli fa una critica serrata, violerebbe, non garantirebbe queste tre indipendenze o questi tre aspetti dell'indipendenza del potere giudiziario. Dice che, «per assicurare l'indipendenza costituzionale occorre che la Costituzione quantifichi espressamente come sovrana la funzione giurisdizionale, sovrano il potere che la esercita, sovrano l'ordine o complesso degli organi cui la funzione stessa è istituzionalmente demandata.
Inoltre: «che effettivamente non vi sia nessun potere costituzionalmente superiore a quello giudiziario».
Orbene, pare a me che questa garanzia il nostro progetto di Costituzione dia. A mio avviso, è più che altro questione di nomi. Non si è parlato nella Costituzione espressamente di potere sovrano, ma si dice però che «la funzione giudiziaria è espressione della sovranità della Repubblica», si dice che «l'ordine giudiziario è un ordine autonomo ed indipendente». E ancora qualche cosa di più e di decisivo: vi è nella nostra Costituzione un potere che sia costituzionalmente superiore a quello giudiziario? Non vi è. Quindi mi sembra che l'indipendenza costituzionale del potere giudiziario sia nella nostra Costituzione garantita, anche se non si usa la parola «potere», come non si è parlato di potere legislativo e di potere esecutivo; ma di «Parlamento» e «Governo».
Quanto alla indipendenza istituzionale della Magistratura, l'autore ritiene che «l'istituzione e la competenza dei singoli organi giurisdizionali, la carriera dei magistrati e le forme del procedimento devono essere fissate per legge e sottratte, comunque, al potere esecutivo». E vero. Noi faremo perciò una legge sull'ordinamento giudiziario, ed avendo una sua legge — il potere giudiziario non è subordinato, non è alla mercé del potere esecutivo.
[...]
Ma il punto cruciale — il vero e proprio punctum dolens et pruriens — è quello dell'indipendenza funzionale. L'autore sostiene che essa importa essenzialmente — e ci siamo — l'autogoverno della Magistratura, la libera disponibilità per la stessa di tutti i mezzi necessari all'esercizio della sua funzione.
Ora, francamente, sembra a me che qui l'autore sia caduto in un equivoco. Infatti, egli che era un ragionatore, ed un logico così sottile, qui sembra a me che, più che dimostrare, si limiti ad affermare, dando per indiscutibile che l'indipendenza funzionale importi l'autogoverno della Magistratura. A me questo rapporto di consequenzialità non riesce chiaro. A mio avviso, qui si confondono due cose: la funzione giurisdizionale e l'ordine giudiziario. L'indipendenza della prima, cioè della funzione giurisdizionale, non postula, non implica di necessità anche l'indipendenza assoluta dell'ordine giudiziario. La funzione giudiziaria, il potere giurisdizionale, consiste forse — detto in parole povere — nella nomina, nei trasferimenti, nelle promozioni dei magistrati, che sono la materia di competenza del Consiglio Superiore della Magistratura? No; l'essenza, il compito della funzione giudiziaria consiste nel dire il diritto, in una parola: nel pronunciare le sentenze.
Ora, nel nostro progetto di Costituzione vi è forse qualcosa che possa far dubitare che in questo compito essenziale, specifico, del potere giurisdizionale vi possano essere ingerenze di altri poteri, dell'esecutivo o del legislativo? Per niente affatto. Quindi, ritengo che qui l'autore sia incorso in confusione di concetti, e che, pertanto, anche nella formazione, quale noi abbiamo progettato, del Consiglio Superiore della Magistratura, sia rispettata l'indipendenza funzionale del potere giudiziario.
La realtà è un'altra. Non vi è, secondo me, una ragione scientifica, una ragione logica che imponga l'autogoverno assoluto della Magistratura a garanzia della indipendenza funzionale del potere giudiziario. Vi è qualcosa di diverso, vi è una preoccupazione, nobile ma eccessiva, del pericolo di ingerenze, di influenze che i membri elettivi del Consiglio Superiore possano esercitare sui giudici. Può darsi che questo pericolo vi sia. Però, varie osservazioni concorrono ad attenuare questa preoccupazione. Nel passato, in Italia, il Consiglio Superiore della Magistratura, con le funzioni e coi compiti che noi gli abbiamo assegnato, non esisteva. La sorte dei giudici dipendeva dal potere esecutivo, attraverso il Ministero della giustizia. Eppure, senza essere troppo ottimisti, non mi pare che la Magistratura italiana, a parte l'ultimo ventennio, sia stata in passato una Magistratura non indipendente, corrotta, serva del potere esecutivo. Vi saranno stati episodi singoli, ma non tali da legittimare un giudizio così pessimista.
Osservo ancora che, per quanto mi risulta, in nessun altro Paese, salvo la Francia nella sua recente Costituzione ma in una misura più attenuata della nostra, in nessun altro Paese vi è questo autogoverno della Magistratura. Inconvenienti si sono verificati nel ventennio fascista, ma allora non vi era un regime democratico, allora vi era una degenerazione, uno stato patologico del potere esecutivo.
Ora, senza avere l'ottimismo di Monsieur Candide, è sperabile, e dobbiamo tutti cercare, che in un regime libero, democratico, col controllo dell'Assemblea, col controllo dell'opinione pubblica, col controllo della stampa, ciascun potere — specialmente l'esecutivo — resti nel suo alveo. Pare a me che in questo punto la nostra Costituzione ha un po' un carattere reattivo, come è destino di tutte le Costituzioni che sono fatte immediatamente dopo il rovesciamento di un ordine politico e giuridico. Si ha, cioè, guardando al recente passato, una diffidenza eccessiva verso l'esecutivo.
È poi vero che l'autogoverno della Magistratura, cioè il Consiglio Superiore composto di soli magistrati, garantisca meglio la indipendenza dei magistrati? Non ci sarà forse se non un cambiamento di forma? Le simpatie, le antipatie, i personalismi, le parzialità; e, di conseguenza, le adulazioni, le raccomandazioni, le chiesuole, i clans, non sussisteranno? È sintomatico che, nelle loro ultime manifestazioni, molti magistrati si siano dichiarati favorevoli alla composizione mista del Consiglio.
Io penso che il giudice sia meglio garantito da un Consiglio come noi lo abbiamo costituito, perché, attraverso i membri elettivi del Consiglio Superiore, si inserisce in esso il controllo del Parlamento, della stampa, dell'opinione pubblica; controllo che non si avrebbe, o si avrebbe meno largo, nel campo chiuso di un Consiglio costituito di soli magistrati.
Vi è inoltre una considerazione più alta, per quanto io non intenda dilungarmi sul problema della divisione dei poteri. Ho la sensazione che da Montesquieu in poi qualche cosa sia mutato ed oggi prevalga il concetto della unità dello Stato, pur con molteplicità di organi e di funzioni.
Si potrebbe in questo campo teorico dire molto, ma io, ripeto, non ho specifica competenza in questa materia e mi limiterò a fare poche osservazioni pratiche. Noi, proprio in questi giorni, abbiamo deplorato certi contrasti, certi reciproci sospetti e diffidenze che si sono manifestati fra gli organi della Magistratura e gli organi politici.
Ora, questo fatto (che indubbiamente è grave ed increscioso) credete voi che non si aggraverà, se noi stacchiamo completamente il potere giudiziario dagli altri poteri? Il potere giudiziario sarà condotto ad irrigidirsi; gli urti saranno più facili; non ci saranno quei contatti che permettono una spiegazione ed una distensione; quindi, mi pare sia utile questo collegamento fra il giudiziario e il legislativo. E c'è anche una ragione più sostanziale: è stato detto qui da qualche collega che il giudice non ha bisogno di esser in contatto con la coscienza sociale e giuridica del Paese, in un dato momento storico, perché non ha che un compito tecnico, quello di applicare la legge. La legge è quella che è: il giudice non ha nessuno ambito in cui spaziare.
Questo non è vero. Se mi occupassi della Corte costituzionale, direi che le materie che saranno di sua competenza hanno carattere più politico che giuridico. Ma io mi occupo della Magistratura e osservo che necessariamente vi sono dei concetti che sono dalla legge lasciati alla discrezionalità del giudice. Vi cito il concetto di «buon costume», di «ordine pubblico», di «equità»; in materia penale, di «pudore» e altri concetti che sono necessariamente a contorni vaghi nei codici e per l'interpretazione e l'applicazione giusta dei quali è opportuno che il giudice sia in un certo contatto con quella che è la coscienza giuridica e morale del Paese, coscienza che, in regime democratico, si manifesta attraverso le Assemblee elettive. È vero che il Consiglio Superiore non ha compiti di ermeneutica; tuttavia, il contatto fra magistrati e laici può essere fecondo.
Pertanto, credo che per le ragioni che ho modestamente esposto, la nostra Costituzione non meriti il rimprovero di aver violato o di non avere con sufficiente energia tutelato l'indipendenza della Magistratura. Ripeto che lo studio al quale ho accennato, il quale pure ha tanto pregio e meriterebbe di essere preso in considerazione per vari emendamenti che suggerisce, poggia circa l'autogoverno, sulla confusione tra autonomia della funzione giurisdizionale e autonomia dell'ordine giudiziario.
Si confonde il potere giudiziario con gli organi, con le persone che devono esercitare questo potere.
[...]
Bellavista. [...] E veniamo all'articolo 97. Io ho ascoltato, con l'attenzione che meritava, quanto ha detto l'onorevole Cappi, e speravo che riuscisse a convincermi del contrario, quando ha citato l'articolo di Lener, che noi conoscevamo ed apprezziamo per quella simpatia e per quella stima che questo dotto padre gesuita merita. Ma — mi consenta e mi perdoni — non c'è riuscito. Anzi, la sottolineata distinzione fra quella che è la funzione, la fisiologia del potere giudiziario e l'organica di esso, ha confermato quel nesso di consequenzialità per cui, se noi non ci preveniamo nell'organica del potere, esponiamo la fisiologia di esso a diventare patologica. Siamo tutti d'accordo che debba essere un potere autonomo, ma non basta fare questa dichiarazione di principio se, scendendo al particolare, in virtù, onorevole Cappi, di quell'«anticristo» che giustamente ha richiamato, non svolgiamo tutta un'opera di profilassi e di prevenzione perché il funzionamento, cioè il potere che agisce, il potere che si muove, la dinamica di esso non venga assicurata. E dove? Nella statica, in quelle che sono le sue precause, in quella che è la sua organica. Se noi consentiamo che nell'hortus conclusus (e deve rimanere tale) si intromettano persone che all'hortus non appartengono, noi apriremo uno spiraglio, sia pure un piccolissimo spiraglio, all'anticristo, il quale farà grande la breccia. Io ho inteso quanto Cappi ha detto sulla divisione dei poteri, e anche ieri l'onorevole Bettiol ha parlato di questo principio. Siccome essi sono persone superiori ad ogni sospetto, e fieramente devoti alla causa della libertà, io posso sollecitare un ricordo, absit iniuria verbis. Io mi ricordo di aver sentito o letto qualcosa sul famoso principio della meccanicità della divisione dei poteri da un uomo che non stimo, agli inizi dell'infausto ventennio. Io ricordo anche di avere letto le dispense del senatore Pietro Giumenti, che preparava l'aggressione giurispubblicistica contro Montesquieu e la santa divisione dei poteri e che cominciava a prendere le mosse da questo: che non deve intendersi la divisione dei poteri in senso meccanico, che il potere è uno, che ci vuole un'osmosi ed un'endosmosi tra gli aspetti di questo potere statuale. Poi l'«anticristo» ha fatto il resto, la critica di Montesquieu è sboccata nel totalitarismo, la libertà si spense.
Noi dobbiamo cercare di fare tutto il possibile per premunirci dal bis in idem. Non c'è altra via che cercare di separarli questi poteri; cercare di sottrarli, il legislativo e il giudiziario, alla influenza dell'esecutivo, perché, purtroppo, fra i tre, chi è quello che ha più ampia zona di peccato originale in sé? È l'esecutivo, che il comandare è bello ed ha maniere facili, ha maniere straordinariamente insinuose per arrivare, con tutte le armi alla corruzione, a fomentare l'ambizione degli uomini e tutto quello che l'anticristo porta nella fragile materia umana.
Cappi. I membri sono eletti dall'Assemblea legislativa.
Bellavista. Giustissimo. Chi però vorrà sostenermi che non ci sia nessuna perniciosa influenza dell'esecutivo sul legislativo, specialmente con la partitocrazia? Questo, onorevole Cappi, non me lo può sostenere, perché è contrario alla realtà delle cose. Indubbiamente l'elezione verrebbe ad essere influenzata del potere esecutivo. Queste influenze, che diventano corruzioni, noi le dobbiamo evitare. Ecco perché sono contrario anche a quella partecipazione simbolica cui accennava, in linea transattiva, riconoscendo l'esattezza delle ragioni avverse, ieri l'onorevole Dominedò. Lasciamo l'hortus conclusus. Non mi si dica che così l'ordine giudiziario si estranea dalla vita. No. Io ricordo le parole di un grande maestro, il Massari: «Il magistrato è anzitutto psiche». Non è una macchina; non è un automa; torna a casa, vive la vita del popolo; ha innegabilmente delle tendenze conservatrici; ha indubbiamente una tendenza conservatrice.
Ma questo sapete cosa è? È una grande garanzia di ordine e di libertà.
[...]
Persico. [...] E passo rapidamente all'articolo 97, che è quello che deve fissare l'indipendenza del potere giudiziario: è la vecchia questione delle guarentigie della Magistratura. Noi abbiamo avuto una legge, forse l'unica dopo quella fondamentale del 1865, che ha affrontata la questione: la legge Orlando 24 luglio 1908, n. 481. Orlando vide il problema e lo risolse col suo altissimo ingegno di giurista e di avvocato, e creò i Consigli disciplinari presso le Corti d'appello per i giudici e la Suprema Corte disciplinare per i magistrati superiori.
Tale Corte era composta di sei magistrati e di sei senatori; precorrendo cioè quella forma di collegio misto che la Commissione dei Settantacinque ha proposta. Ma poi abbiamo avuto recentemente il regio decreto-legge 31 maggio 1946 del Ministro Togliatti. Egli ha creato il Consiglio Superiore della Magistratura con soli magistrati: il primo presidente della Corte di cassazione, presidente il procuratore generale della Corte stessa, undici membri effettivi e sei supplenti eletti dai magistrati. Dunque, oggi noi, in fondo, dovremmo fare un passo indietro, in quanto abbiamo vigente la legge Togliatti, che costituisce il Consiglio Superiore della Magistratura nella forma che sarebbe desiderata dai magistrati, cioè il cosiddetto autogoverno — parola che non dice niente, perché, come osservava l'onorevole Bozzi l'altro giorno molto chiaramente, non è che si vuol governare in questo modo l'amministrazione della giustizia, ma si tratta dell'autogoverno del corpo giudiziario — che si può anche ammettere. Come arriverei ad ammettere anche l'elettività interna per le cariche della magistratura: cioè la nomina dei consiglieri di Cassazione da parte dei consiglieri di Corte d'appello, e dei consiglieri di Corte d'appello da parte dei giudici di tribunale.
Questo è un progetto che potremo discutere un giorno — forse non sarò presente — quando si dovrà deliberare sul nuovo ordinamento giudiziario e sui nuovi Godici di procedura civile e penale.
Dunque, il principio dell'autogoverno non solo è entrato nella nostra legge, ma in questo momento è in atto. Allora si tratta di vedere quale sistema si potrebbe scegliere perché questo autogoverno non diventi — come è stato detto da un autorevolissimo collega, con parola veramente plastica — un «mandarinato». Non vogliamo un corpo di mandarini; vogliamo un corpo che senta la influenza della vita; che si colleghi agli altri poteri dello Stato. Non vogliamo che il «potere giudiziario» si chiuda in una torre di avorio, ma sia confluente con gli altri poteri e ne sia anche controllato. I metodi non potrebbero essere che tre. Il metodo del «cancelliere di giustizia», che è stato adottato dalla sola Costituzione finlandese. Il cancelliere di giustizia, nominato dal Parlamento o dal Presidente della Repubblica, tra i magistrati, dovrebbe intervenire al Consiglio dei Ministri. Sarebbe una norma strana e lontana dalle nostre consuetudini e dalle nostre idee. Ma poi non credo che con questo sistema si arriverebbe ad alcun risultato pratico, in quanto il cancelliere di giustizia, l'altissimo magistrato che andrebbe a sedere nel Consiglio dei Ministri, in fondo farebbe su per giù quello che fa attualmente il guardasigilli. Allora, tanto vale affidare a lui questa funzione; ma, ripeto, così non si risolve il problema.
Quindi, bisogna ricorrere ad un organo estratto, o totalmente o parzialmente, dalla Magistratura, e allora si potrebbe ritornare a quello che ha istituito l'onorevole Orlando nella sua legge del 1908 o restare a quello della recentissima legge Togliatti. Ma sorge il problema se questo organo collegiale debba esser composto di soli magistrati, o se in esso convenga ammettere anche l'elemento cosiddetto laico.
Il progetto Calamandrei (art. 17) era perché fosse composto di soli magistrati. Anzi, nella seduta del 5 dicembre 1946 della seconda Sezione della seconda Sottocommissione per la Costituzione, l'onorevole Calamandrei, rispondendo ad una esplicita domanda dell'onorevole Targetti, ebbe a dire che, a suo avviso, il Consiglio superiore dovrebbe esser composto esclusivamente di magistrati. Poi, nella seduta del 4 marzo 1947 di quest'Assemblea, l'onorevole Calamandrei ha fatto macchina indietro, dicendo che il gesto compiuto da un altissimo magistrato gli aveva fatto cambiare completamente d'opinione.
Io ammiro l'ingegno di Calamandrei; l'altro giorno l'ho ascoltato con riverenza a Firenze, quando ha commemorato con parole veramente commoventi il martire avvocato Enrico Bocci, tormentato e trucidato dai nazifascisti; ma nella seduta del 4 marzo non l'ho riconosciuto. Un principio, o è buono, o è cattivo, che poi nella vita di un magistrato possa capitare un involontario infortunio (e non spetta a noi giudicarlo) non può costituire ragione sufficiente per cambiare un'opinione maturata, efficacemente espressa e fissata in una proposta di legge.
Ma, pur senza andare, come l'amico Calamandrei, sulla via di Damasco, ho voluto riflettere a lungo sulla questione, e mi sono convinto che un Consiglio superiore composto di soli magistrati potrebbe dar luogo a qualche inconveniente e distaccare troppo dagli altri organi dello Stato il corpo della Magistratura. Perciò ho presentato un emendamento così concepito: «Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica» — e a questa Presidenza io tengo, amico Villabruna, non per un pennacchio, non per un cornicione, non per paura di conflitti, ma perché intendo che il Presidente della Repubblica non sia rinchiuso in una teca di cristallo, sia pure tersissimo, ma debba intervenire autorevolmente nella vita dello Stato e non so quale migliore funzione egli potrebbe avere se non quella di presiedere il più alto organo del potere giudiziario, che dev'essere suprema difesa e sicura garanzia di tutti i cittadini, sicché il Presidente della Repubblica qui ci sta benissimo, come è stabilito, del resto, anche nella Costituzione francese — «Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica, è composto dal primo presidente e dal procuratore generale della Corte di cassazione in qualità di vicepresidenti» (perché effettivamente funzionerà, per la complessità dei compiti, diviso in non meno di due sezioni), «da sei membri eletti da tutti i magistrati della Repubblica aventi almeno il grado di giudice, o parificato; da tre membri eletti dalla Camera dei deputati e da tre membri eletti dal Senato della Repubblica fuori dal proprio seno e dagli albi forensi, in modo che sia assicurata la rappresentanza della minoranza».
Ho abolito il termine Assemblea Nazionale, perché mi pare che l'Assemblea Nazionale sia ormai morta. Del resto è inutile convocare le due Camere insieme, quando ciascuna può procedere per suo conto alle elezioni dei membri del Consiglio superiore della Magistratura.
Quindi, con questa attenuazione, che non vulnera il principio dell'autogoverno della Magistratura e che in parte soddisfa delle superiori esigenze, si avrebbe il completo coordinamento del potere giudiziario con gli altri poteri dello Stato: con quello esecutivo mediante la Presidenza del Consiglio da parte del Capo dello Stato; con quello legislativo, attraverso l'elezione di una parte dei membri del Consiglio Superiore fatta dal Senato e dalla Camera. Una parte dei membri, dico, e non la maggioranza, perché la maggioranza deve restare ai magistrati, e questi, essendo in numero di otto, potranno avere quel giusto peso che devono avere per la giusta tutela della necessaria indipendenza del loro Ordine.
Spero quindi che questa formula possa essere accettata dall'Assemblea.
A cura di Fabrizio Calzaretti