[L'11 novembre 1947, nella seduta antimeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale dei seguenti Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione: Titolo IV «La Magistratura», Titolo VI «Garanzie costituzionali». — Presidenza del Vicepresidente Targetti.

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]

Macrelli. [...] Articolo 95. Confesso che io avrei preferito attribuire alla Magistratura ordinaria tutta la funzione giurisdizionale in ogni materia: civile, penale, amministrativa, creando magari sezioni apposite con elementi tecnici. Ma il tema è troppo vasto e porterebbe forse a sconvolgere tutto il nostro ordinamento giurisdizionale. Se ne potrà parlare in altra sede e in altro momento.

Approvo in pieno, invece, l'articolo 96, che afferma il seguente principio: «Il popolo partecipa direttamente all'amministrazione della giustizia mediante l'istituto della giuria nei processi di Corte d'Assise». Io ho ascoltato con profonda meraviglia e, vorrei aggiungere, anche con un certo senso di amarezza le parole che si sono pronunciate in quest'Aula, sopratutto (strano) da parte di valorosi colleghi penalisti che hanno — come, sia pure più modestamente s'intende, chi parla — affrontato le belle e difficili battaglie nelle aule delle Corti d'Assise. È stata proprio la crociata contro la giuria popolare. Parole aspre sono state dette, e penso che gli stessi sentimenti che oggi muovono me a parlare in favore della Corte d'Assise, abbiano un po' agitato anche la coscienza del popolo italiano, il quale, squisitamente classico, ha avuto sempre, e credo mantenga ancora vivi, il culto ed il gusto dell'eloquenza.

Certi nomi non si dimenticano. Non c'è bisogno di risalire lontano nel tempo, onorevoli colleghi; restiamo pure nella nostra epoca. I nomi di Gaetano Manfredi, di Francesco Rubichi, di Gennaro Marciano, di Arturo Vecchini, di Genunzio Bentini, e, aggiungiamo alla schiera dei morti anche qualcuno dei viventi: di Enrico De Nicola, di Giovanni Porzio, sono ancora incisi nel ricordo, e l'eco della loro splendente oratoria rimane ancora, si può dire, nelle aule giudiziarie d'Italia. Non è facile cancellarla. E si dimentica che la giuria popolare, affermatasi nella lontana legislazione e nella coscienza del popolo britannico, trovò la sua consacrazione durante il periodo eroico della Rivoluzione francese; quella rivoluzione che proclamò per prima i diritti dell'uomo. Basti ricordare il decreto 30 aprile 1790, che istituiva la giuria popolare, trasfuso poi nella Costituzione del 3-14 settembre 1791. E tutte le legislazioni degli Stati, particolarmente di quelli retti a regime democratico, accettarono il principio. La ventata fascista in Italia, sconvolgendo il nostro ordinamento giudiziario, cancellò poi la giuria popolare, creando quell'istituto ibrido dell'assessorato, che è estraneo alla nostra concezione giuridica e alla nostra tradizione. Si è detto da qualcuno che i magistrati sono i meno idonei, per una sorta di deformazione professionale, a intendere e a valutare l'aspetto umano e morale dei casi portati al loro esame e più propensi a ricondurli negli schemi rigidi ed astratti della giuridicità. Io dico soltanto che, se nella nuova Repubblica si vuol dare una nuova educazione al popolo italiano, bisogna avvicinarlo a tutti gli istituti ed anche a quelli perciò che riguardano l'amministrazione della giustizia. Si è parlato di sentenze suicide; si è rievocato ancora una volta il caso Olivo: pare strano, ma tutti quelli che elevano un atto di accusa contro la Corte di Assise, dimenticano che la responsabilità per questi fatti risale, non alla giuria popolare ma ad altri. Ed allora voi vedete, o signori, che l'osservazione ha un valore relativo. Bisogna rendere la giustizia aderente alla realtà, e sopratutto alle nuove concezioni della vita politica e morale del nostro Paese. In questi giorni, al Congresso forense di Firenze, si è dibattuto questo problema ed ho sentito parlare di un duello oratorio fra Adelmo Nicolai e Giovanni Porzio: il primo favorevole, il secondo contrario alla giuria popolare. Duello magnifico, immagino: noi conosciamo ed ammiriamo l'ingegno e la duttilità del pensiero dell'uno e dell'altro.

Il congresso di Firenze ha però votato un ordine del giorno al quale noi della Costituente dovremo ispirare le nostre deliberazioni: ha riaffermato il principio di una maggiore adesione della volontà popolare alle più gravi decisioni giudiziarie penali. Noi accettiamo il voto che è venuto dal congresso di Firenze: là era rappresentata la classe forense che conosce le lotte, le battaglie, le amarezze di quella che è la funzione altissima e dell'avvocato e del magistrato. E quel voto penso che noi dovremo fare nostro. (Approvazioni).

[...]

Murgia. Onorevoli colleghi, l'onorevole Macrelli, che mi ha preceduto, ha esordito brillantemente richiamando l'attenzione dell'Assemblea su tutti i problemi di questo titolo. È giusto. Io penso però che uno di essi sia particolarmente importante per la sua particolare gravità; gravità interpretata nobilmente proprio in quel monito solenne del nostro Presidente della Repubblica onorevole De Nicola letto or ora dall'amico Macrelli e col quale egli ha chiuso la sua bella orazione, questo: stabilire chi debbano essere i giudici del cittadino quando egli sia accusato di delitti che fino a ieri comportavano la pena suprema e oggi l'ergastolo o diecine di anni di reclusione. Problema grave al quale un altro strettamente se ne connette, per le sue conseguenze pratiche, forse ancora più grave: quello di stabilire se contro tali sentenze debba essere mantenuto solo il rimedio oggi esistente e nuovamente sancito nell'articolo 102 del nostro progetto, cioè il ricorso per Cassazione, o non invece, come io ho proposto con un emendamento specifico a tale articolo, anche il rimedio dell'appello.

Ciò perché — come voi sapete — oggi non esiste contro le sentenze della Corte d'assise che privano in perpetuo di libertà il cittadino, ne distruggono l'onore e ne confiscano i beni, il giudizio di appello, quel giudizio di appello che pure esiste, e giustissimamente, contro tutte le altre sentenze penali dei tribunali e dei pretori che infliggono pene detentive leggere di qualche anno, di qualche mese o addirittura semplici pene pecuniarie.

È qui, su questo assurdo stato di cose della nostra legislazione penale, che io invoco tutta la vostra attenzione, che io richiamo tutto il vostro senso di responsabilità perché si cancelli questa ingiustizia che è forse la più grave per le garanzie del cittadino.

Quale è stato il motivo etico, logico o giuridico che ha impedito fin qui che si istituisse il rimedio dell'appello contro le sentenze della Corte d'assise? È un motivo strettamente connesso all'istituto della giuria popolare di cui in linea principale ho proposto, con altro emendamento, la soppressione. E come e perché? La giuria popolare era considerata, simbolicamente, come il popolo stesso che giudicava, il popolo al quale anche in questa materia si davano gli attributi di infallibilità e di sovranità, portando il linguaggio politico per non dire demagogico sul terreno della scienza. Ora, si argomentava, se il popolo di cui la giuria è il simbolo è infallibile, la sua sentenza non può essere viziata da errore, e quindi l'appello è inutile, e se è sovrano, come lo è, non si può concepire un giudizio più alto, quindi ugualmente inutile, anzi assurdo.

Ma oltre queste ragioni, puramente demagogiche, un'altra ve n'è sostanziale che ha impedito finora e impedirà sempre che contro le decisioni della giuria possa istituirsi il giudizio di appello, questa: che il giudice popolare non motiva le sue decisioni, non dice per quale motivo assolve o condanna: su una scheda scrive un sì o un no dietro il quale c'è l'arcano dei motivi che lo hanno determinato. Ora, a prescinder dal fatto che la mancanza di motivazione costituisce la violazione fondamentale dei diritti del cittadino accusato e che legittima tutti gli abusi, sta l'altro fatto che essendo il giudizio di appello un giudizio di critica dei motivi messi a sostegno della sentenza impugnata, l'appello diventa impossibile per la mancanza dell'oggetto su cui deve cadere: la motivazione.

A questo riguardo si potrebbe, ma ingenuamente, obiettare: se questo è l'ostacolo acché venga istituito l'appello (poiché nessuno fino a questo momento ha osato disconoscere la giustizia di questo istituto) si disponga che anche le sentenze della giuria vengano motivate. Qualcuno dei colleghi, anzi, mi pare abbia proposto, per conciliare il mantenimento della giuria con la istituzione dell'appello contro le decisioni di essa, che si investisse la Cassazione anche del giudizio di merito. È assurdo per molte ragioni: prima di tutto perché si snaturerebbe l'istituto della Cassazione che è chiamata soltanto a un'alta e definitiva critica di puro diritto sostanziale o processuale e le è preclusa l'indagine di merito.

Secondariamente si commetterebbe una grave ingiustizia a danno degli imputati i quali, a differenza di quelli giudicati dal pretore o dal tribunale, avrebbero solo due gradi di giurisdizione e non tre, perché contro il giudizio della Cassazione non è possibile un ulteriore grado di giudizio. Ma pensate poi alle difficoltà pratiche. Poiché la Cassazione giudicherebbe sul merito di tutti i giudizi delle Corti d'assise d'Italia, non solo si dovrebbe moltiplicare per dieci il numero attuale dei magistrati di Cassazione (e fin qui non si tratterebbe forse di un male) ma si vedrebbe la Cassazione piena di imputati ammanettati di tutte le Corti della penisola, dato che l'imputato ha diritto a presenziare al giudizio di appello. Si potrebbero inoltre sentire testimoni dato che il giudice di appello può, in determinati casi, disporre nuove prove, ammettere nuovi testimoni e si potrebbe persino arrivare alla rinnovazione del dibattimento in sede di appello, sede che in questo caso, ripeto, sarebbe la Cassazione. Tutto ciò sarebbe assurdo. Ma resterebbe sempre, anche superate tutte codeste considerazioni, l'ostacolo fondamentale: come farebbe la Cassazione a giudicare sul merito in secondo grado se la sentenza della giuria manca di motivazione? O, come verrebbe proposto, si potrebbe davvero pensare che la giuria sarebbe capace di motivare? Io ho una modesta esperienza di processi di Corte d'assise e sono in grado di escludere tale possibilità. Come la motiverebbe un povero contadino, pur nobilissimo e rispettabilissimo per il suo lavoro e per la sua onestà, come la motiverebbe un fabbro, un macellaio o che so io, dato che non esiste alcun limite per la capacità di esser giudice popolare, quando si tratti di processi di straordinaria complessità e gravità, costituiti da molti volumi con perizie, relazioni tecniche, di carattere inaccessibile e direi incomprensibile per la loro mentalità e levatura?

Quindi, per queste ragioni io ritengo che sia impossibile conciliare l'istituto della giuria colla possibilità di istituire il giudizio di appello contro le sue decisioni.

Basterebbe questo motivo solo ma formidabile per legittimare la mia richiesta di soppressione dell'istituto della giuria. Ma perché non sembri che questo motivo solo sia di ostacolo al suo ripristino nel nostro diritto io illustrerò le ragioni sostanziali ancora più profonde che dimostrano l'estremo pericolo per le garanzie del cittadino del giudice popolare tanto nei reati comuni quanto nei reati politici. Chiediamoci: quale è la funzione, anzi la missione naturale del giudice sia esso popolare o togato? È quella di giudicar bene; e giudicar bene significa evitare, per quanto è nelle umane possibilità, che sia condannato un innocente, assolto un colpevole, o condannato ad una pena aberrante un colpevole, ad una pena cioè che non sia proporzionata all'entità del suo delitto, che non tenga conto della personalità del reo, dei motivi che lo hanno spinto al delitto, dell'ambiente da cui proviene, in cui del delitto è talvolta la lontana origine.

Si afferma dai sostenitori della giuria che l'indagine di fatto è facile e che, appunto perciò, il giudice popolare la può facilmente fare. Non è vera nemmeno questa affermazione, anzi essa è molto lontana dal vero e può esser fatta solo da chi o non ha nessuna esperienza o la ha molto modesta in processi di Corte d'assise. Per giudicar bene occorre anzitutto conoscere la verità di fatto; cioè distinguere il vero dal falso, il reale dall'apparente di cui i processi sono spesso intricati e commisti.

Vediamo il giurato all'atto pratico, immaginiamolo il giorno dell'udienza. Fino a quel momento egli non sa nulla, non conosce sillaba di tutto il processo scritto, quel processo scritto che è lì sul tavolo del Presidente della Corte. Ai sostenitori della giuria sembrerà che questo sia un argomento a favore, perché, essi affermano, è preferibile che il giudice abbia l'animo vergine e puro di impressioni. Sul tavolo del Presidente, dicevo, ci sono per lo meno tre volumi, uno che concerne i verbali di denuncie, interrogatori degli imputati da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria, di parti lese, confronti, la requisitoria del pubblico Ministero, la sentenza di rinvio a giudizio con tutti i motivi che la giustificano; nel secondo vi son le perizie, consulenze tecniche e altri atti; nel terzo tutti gli esami testimoniali in cui si verifica questo: che gli stessi testimoni sentiti dai verbalizzanti o dal giudice depongono in modo contrastante fra loro; non solo, ma si verifica che uno stesso testimone, che davanti ai verbalizzanti in un primo interrogatorio aveva dato una versione dei fatti, davanti al magistrato ne dia un'altra in assoluto contrasto; aggiungete a ciò il contrasto esistente spesso fra perizia e perizia e perizia e consulenza tecnica. Tutta questa storia precedente del processo scritto, su cui il giudice popolare non sapeva nulla e su cui appunto non ha avuto modo di meditare, di esercitare il suo potere critico, viene rievocata rapidamente all'udienza, aggravata dalle nuove risultanze e contraddizioni e dalle arringhe dell'accusa e della difesa alla cui schermaglia dialettica il giudice popolare non è preparato cadendo nelle insidie oratorie del difensore o dell'accusatore. Aggiungete che il più delle volte egli non ha sufficiente tempo di meditare perché deve, per legge, decidere immediatamente dopo le arringhe, per cui il suo giudizio non può essere che affrettato e superficiale e quindi pieno di rischi fatali per chi è accusato di fatti, che ieri erano puniti colla morte e oggi colla perdita perpetua della libertà, dell'onore e dei beni.

Questi pericoli, di errori giudiziari fatali, sono infinitamente minori col giudice togato; col giudice cioè che ha consacrato la sua giovinezza agli studi nel campo specifico del diritto sostanziale e processuale, di criminologia, di psicologia giudiziaria e che ha soprattutto un enorme vantaggio sul giudice popolare: l'esperienza della continua pratica. Egli vede sfilare quotidianamente davanti a lui imputati dalla fronte aggravata dalle colpe, o col volto tranquillo dell'innocenza insidiata ma in cui brilla la fiamma della speranza nella giustizia, o altri, delinquenti incalliti nel delitto, che ostentano una sicurezza che l'acuta indagine del magistrato sconcerta; così passano davanti a lui schiere di testimoni veridici o falsi le cui deposizioni meno facilmente che il giudice popolare possono sorprendere o ingannare il giudice togato. E questo che è vero per i reati comuni è maggiormente vero per i reati politici per i quali il giudice popolare è ancor meno adatto. Non facciamo qui della demagogia ed esaminiamo freddamente quanto del resto l'esperienza recente nostra e straniera ci conferma. Supponiamo — facciamo un caso pratico — una giuria in cui la maggior parte dei suoi componenti sia di un colore politico opposto a quello dell'imputato che è chiamato a rispondere. Quell'imputato tremerà al cospetto di quella giuria perché non lo assisterà la coscienza della sua innocenza, di aver legittimamente agito, perché sa che su quei giudici più che l'imperativo della giustizia impera la faziosità, perché in quel processo sarà in gioco il prestigio stesso di un determinato partito politico. (Interruzione del deputato Macrelli).

Io mi richiamo ad esperienze recenti, caro Macrelli, esperienze nostre e non nostre.

Maltagliati. E i tribunali speciali?

Murgia. Noi li condanniamo, perché, come ho detto altra volta, sono la particolarità del vostro settore; una giuria popolare, infatti, si trasforma generalmente, nel caso di reati politici, proprio in tribunale speciale. Dobbiamo pensare che un giudice popolare può ricevere influenze dall'esterno — ed è ingenuo pensare che di fronte a delitti enormi, che comportano talvolta la responsabilità di un partito, non si facciano mille tentativi, non si cerchino di usare tutti i mezzi dalle lusinghe alle minacce come, ripeto, la esperienza dei tempi recenti ha dimostrato. Ma io dico che al di fuori delle pressioni esterne il giudice popolare trova un divieto interno, a fare obiettivamente giustizia, trova un divieto nella sua concezione etica della giustizia assolutamente soggettiva. Il giudice popolare che appartiene a una determinata corrente politica, che ritiene l'attuale ordine giuridico espressione della classe dominante, giudica questo ingiusto e ne trae la conclusione tutta rivoluzionaria che la violenza è lecita per cancellare quello che egli ritiene un ordine costituzionale, giuridico ingiusto. E se ha in privato una tale concezione non dobbiamo pensare che se ne svesta o la oblii quando siede per ufficio, giudice del suo avversario politico in Corte d'assise. Mentre, invece, per il giudice togato vi è l'applicazione della legge positiva, ed egli una volta stabilito il fatto, ne trae la conclusione rigorosa...

Una voce. Pure se ne sono fatti processi in altro modo!

Murgia. Sta bene; ma sono stati fatti da giudici faziosi, cioè politici, e non da giudici togati; e che costituivano tribunali speciali corrispondenti pressappoco ai tribunali del popolo o a queste specie di giurie.

Quindi, riprendendo, onorevoli colleghi, dicevo questo: la concezione della giustizia per certa gente non si identifica colla legge: la legge è l'espressione del partito che ha vinto, che ha imposto il suo credo politico e ne esige il rispetto colla forza. Ciò che al giudice popolare, convinto di tale ingiustizia, consente — dato che egli non motiva e non si attiene alla legge — di commettere ogni arbitrio. Egli, appunto perché non motiva, è non solo giudice ma anche legislatore. Il giudice popolare può dire: «per me quell'imputato non ha ucciso in condizioni di legittima difesa, quindi non è meritevole di nessun beneficio e sia sterminato». Se, invece, la maggioranza della giuria sarà dello stesso colore politico dell'imputato che ha ucciso un avversario politico, egli incederà spavaldo in udienza, con la sicurezza che i suoi stessi giudici gli faranno scudo, irriderà alla giustizia e uscirà con clamore di trombe come un trionfatore.

Non lasciamoci influenzare da considerazioni politiche. In tutte le professioni, in tutti i rami dell'attività umana si esige una particolare preparazione; si esige per l'ingegnere, si esige per il medico, si esige per il giudice che deve applicare la legge e decidere della sorte di un cittadino.

Ma, ripeto, il motivo formidabile che da solo legittima la soppressione dell'istituto della giuria è quello di istituire il rimedio dell'appello.

Per non ammettere l'appello, per non ritenerlo necessario bisognerebbe che fosse vero che il popolo — che si vuole simboleggiato nella giuria — fosse, in questa materia, infallibile, che la giuria fosse una specie di consesso di numi immuni dall'errore, dalla frode, da tutte le fragilità e debolezze di cui è impastata l'umana natura.

Ma se qualcuno vi fosse che avesse questa illusione, io rievocherei in contrario, tutta la tragica statistica di uomini mandati alla morte dalla giuria popolare o di altri spentisi nel buio e nella solitudine degli ergastoli. Questi uomini furono poi — riconosciuta luminosamente la loro innocenza o per successive confessioni dei veri colpevoli o per altre prove sicure — riabilitati alla memoria ma non restituiti alle loro famiglie e alla vita. Quelle sentenze non si poterono riformare appunto perché non esisteva il rimedio, la possibilità dell'appello.

Sia questo, dunque, o colleghi, il momento di cancellare questa ingiustizia, sia un impegno d'onore della nostra Assemblea di scolpire il principio in questa Carta costituzionale che contro tutte le sentenze penali che infliggono pene detentive, comprese quelle della Corte d'assise, sia istituito il giudizio di appello.

Alcuni sostengono che questa non sia materia costituzionale e che perciò bisogna soprassedere e rimandarla al legislatore ordinario. L'amico Macrelli, a metà della sua bella orazione, ha dimostrato citando tutte le più illustri costituzioni straniere che questa è tipicamente materia costituzionale. Badate: o noi non abbiamo idee chiare su questo argomento e sarebbe molto grave per noi legislatori o le abbiamo e allora bisogna scolpire ora tale principio. Perché diversamente il legislatore ordinario potrebbe non sentirsi obbligato a istituirlo. Ciò è tanto più opportuno giacché tutti gli oratori che ho udito si son mostrati d'accordo perché sia istituito. In questo modo comincerà subito a diminuire il numero delle ingiustizie e degli errori giudiziari.

Si è detto che il motivo principale per cui il magistrato non sarebbe indicato per giudicare di determinati reati è quello che egli rappresenta una casta chiusa, reazionaria, insensibile alla evoluzione della società, sorda ad ogni nuova esigenza politica. È anche questo uno dei soliti luoghi comuni. Chi sono i magistrati, da quali ambienti, da quali ceti provengono? Sono quasi tutti figli di modesti impiegati, di piccoli possidenti, di gente che lungi dal conoscer gli agi della vita ne conosce le lotte, le angustie e i bisogni ammantati da un dignitoso decoro e appunto perciò più sensibili agli intimi comandi della evoluzione e del progresso e della giustizia sociale.

Anzi, a questo proposito, i colleghi qua presenti che esercitano la professione forense mi devono dare atto di questa verità: che i giudici più reazionari, specialmente nei reati contro la proprietà, sono proprio i giudici popolari mentre il giudice togato tortura molte volte la legge al fine di trovare una attenuante o dimenticare una aggravante per infliggere una pena più mite.

Lucifero. E che vorrebbe assolvere.

Murgia. Assolvere no, ma condannare ad una pena equa, dove appunto sta la giustizia.

[...]

Sardiello. [...] Onorevoli colleghi, quello che preoccupa nella funzione del giudicare non è, come si è detto da qualche collega avversario delle donne (delle donne giudici, si intende), il particolare temperamento psichico. Il pericolo più grave della funzione del giudicare è un altro, ed è l'ignoranza. Ed all'ignoranza, onorevoli colleghi, l'articolo 96 apre invece ufficialmente le porte.

Io non aggiungerei altro a quello che è stato detto. Mi induce ad insistere la passione antica di questo problema, e l'opinione già sostenuta in riviste e giornali giuridici, per cui un collega mi ha detto: «La tua opinione non conta qua dentro, perché sei già compromesso». Evidentemente una celia: l'opinione vale invece di più, perché è l'opinione di quando la giuria era in auge, di quando il fascismo l'ha poi trasformata e deformata. Ora si parla della sua resurrezione. Il problema è antico, ma è caratteristico che sempre, ed anche ora in quest'Aula, nelle parole già ascoltate dei sostenitori della giuria, alla lode si accompagni sempre la critica. Una lode incondizionata non è malvenuta. Mi piace di risalire in questo campo (che, come tanti altri, ha dato all'Italia primati incontestabili) alle nostre sperienze, anziché a voci di maestri inglesi o francesi, che possiamo ammirare per la nostra soddisfazione intellettuale, ma che sono alquanto lontani dalla nostra realtà di vita; e mi consentirete perciò di ricordare le parole di un grandissimo sostenitore della giuria: Enrico Pessina, il quale, nel 1898, in un famoso discorso non poteva fare a meno di dire: «Il giurì è un lato solo e parziale della coscienza del Paese, è la coscienza volgare del Paese, ma non è tutta la coscienza del Paese; esso è la coscienza del Paese moncata di uno dei lati più importanti, cioè della coscienza riflessi guidata dall'arte critica».

Ed Enrico Pessina, proponendosi di perfezionare il giurì, sapete a che cosa pensava e che cosa proponeva? Lo scabinato. Oggi un'eco — lontana lontana, si capisce — dell'alta parola e del profondo pensiero di Enrico Pessina mi pare di cogliere nella relazione — allegato 5 — sulla procedura per i reati di competenza della Corte di assise, presentata dal Ministro della giustizia il 12 dicembre 1946, là dove si legge che «i giurati sono in grado di emettere un giudizio di responsabilità solo a condizione che questo non coinvolga la necessità di risolvere delicate questioni di carattere tecnico».

E mi domando: quale è il giudizio che non imponga di risolvere questioni di carattere tecnico?

Pensate a quella terza domanda del famoso questionario della Corte di assise: «È colpevole l'imputato?» che involgeva tutta una valutazione di elementi tecnici e scientifici intorno al criterio della responsabilità. Come l'affidate alla giuria, dopo questa premessa che è nella vostra relazione?

Bisogna anche dire che argomenti nuovi a favore della giuria non ve ne sono. Tra quelli addotti, il più perspicuo è ancora quello del discorso dell'onorevole Togliatti nella tornata dell'11 marzo 1947, in sede di discussione generale sulla Costituzione, cioè: «Quando ad un cittadino togliete dieci, venti anni della sua vita (e allora perché non anche quando gli togliamo soltanto due o tre anni o quando gli togliamo soltanto la possibilità di trovar lavoro per una assoluzione dubitativa?...) e quando lo mandate al giudizio, o condannate per delitto politico, egli ha diritto al giudizio dei suoi pari»...

L'onorevole Togliatti anche questa volta... viene da lontano. Il concetto della parità a fondamento della giuria non è nuovo ed ha avuto quasi cento anni fa l'alta e solenne risposta di un grande giurista italiano: il Pisanelli, che scriveva così: «Fallace è da reputare l'opinione di coloro che, ponendo come fondamento del giurì l'idea della parità di condizione tra giudicabile e giudicante, da quella credono pure ne sia informata la sua indole».

Questo diceva Pisanelli quasi cento anni addietro; oggi direbbe che quel criterio della parità ha meno ragione di allora di essere preso in considerazione, perché quella parità avvisata come necessaria, quella che è pensabile tra il giudicabile e il giudicante, quella parità può dirsi ormai fissata nella nostra civiltà in principî di eguaglianza di diritti e di doveri di tutti i cittadini, in una concezione che non può e non deve spezzettarsi in distinzioni per classi o categorie esclusive, ma che, nello Stato democratico, deve pervadere tutta la vita, ed a cui non può certamente sottrarsi neanche il magistrato togato.

Ho presentato questo emendamento all'articolo 96 e non credo che alcuno possa pensarlo in contraddizione con quanto ho detto sin ora: «Il popolo partecipa direttamente all'amministrazione della giustizia mediante l'istituto della giuria, nei processi per reati politici».

Una voce a sinistra. Questa è materia di Codice di procedura penale, non di Costituzione!

Sardiello. Possiamo essere di accordo; ma, fino a quando nel progetto di Costituzione rimane inserito l'articolo 96, ho il diritto di dire che, se deve risorgere la giuria, la sua funzione deve essere, a mio giudizio, limitata e condizionata come ho detto. Se nel progetto non vi fosse l'articolo 96, non verrei a recitare queste proposte all'Assemblea.

Quindi, propongo la limitazione della competenza dell'Assise ai reati politici. Il perché è intuitivo: il reato politico ha una caratteristica sua, e sia l'elemento psichico come la natura del bene giuridico tutelato dalla norma sono in esso elementi vistosi, prevalenti, quasi sempre assorbenti e danno al fatto da giudicare caratteristiche tali che, più del giudizio tecnico, si confà ad esso quello che viene dalla coscienza spontanea del popolo. Inoltre, esso è espressione quasi sempre di una corrente formata o che si va manifestando tra il popolo, e perciò posso allora intendere che sia il popolo il più idoneo a giudicare sulla responsabilità di quell'imputato.

Non penso di disegnare un conflitto permanente tra politica e giustizia.

Mastino Pietro. Ma l'imputabilità non entra in discussione lo stesso?

Sardiello. Certamente; ma ho messo apposta in rilievo le caratteristiche particolari nelle quali, direi, sfuma il giudizio tecnico giuridico anche su quella questione. V'è, insomma, una barriera che differenzia il reato comune dal reato politico. L'interruzione dell'egregio collega mi riporta alla mente il ricordo del pensiero di Francesco Carrara, il quale, giunto all'ultima pagina del suo immortale «Programma», quando avrebbe dovuto affrontare la trattazione del reato politico, vi rinunciava, non ritrovando i principî assoluti di cui il concetto giuridico penale ha bisogno, e diceva press'a poco così: se in teoria la politica impone il silenzio al giurista, nella realizzazione pratica, di fronte al reato politico, il giurista si ritira sotto la tenda. E questa differenza rimane e dà qualche luce alla distinzione che io faccio con la mia proposta di emendamento all'articolo 96.

E finirei. Ma ho bisogno, signori, ancora di un momento solo per liberarmi di una preoccupazione. Non vorrei che vi fossero sottintesi: eliminata la giuria, non vorrei che si riaffacciasse — o, purtroppo, restasse — lo scabinato. (Approvazioni). Su questo punto io penso che non vi debbano essere divisioni. Il giudizio... coloniale ha dato in Italia delle prove troppo note, troppo deplorate e troppo recenti perché sia necessario ricordarle ed illustrarle.

Lo scabinato riassume i difetti del giudizio della magistratura togata e di quello popolare. (Approvazioni). Il suo prodotto più espressivo è stato quello delle «sentenze suicide», vergogna della giustizia. E allora, onorevoli colleghi, che cosa faremo?

Noi veniamo da una duplice esperienza: l'esperienza della giuria che io non penso si possa rievocare con la visione rosea che animava le dolci parole del collega onorevole Persico, quando, rivolto a Giovanni Porzio, l'uomo dalle cento battaglie vittoriose davanti alla giuria, diceva: lei ha vinto sempre e con lei ha vinto sempre la giustizia.

Fuori dalla fiera delle infatuazioni: l'ora e l'argomento impongono la più grande responsabilità.

Noi veniamo dall'esperienza della giuria, la quale ha ricordi di successi e di esaltazioni per ciascuno di quanti avvocati siamo da qualche decennio oltre il mezzo del nostro cammino (e questo ci valga il riconoscimento della nostra probità, se avversiamo quell'istituto!) ma ha pure ricordi di verdetti deprecati, che furono lutti della giustizia.

Ma veniamo anche dall'esperienza amara del collegio misto. Ora, sia chiaro che, se non vogliamo il volto della giuria, non ne vogliamo neppure la maschera, regalataci dal fascismo.

E allora la soluzione è in una verità profondamente umana: ogni giudizio è viziato dall'errore; in ogni giudizio umano v'è per lo meno la possibilità dell'errore. Quale rimedio contro questa eventualità? La nostra civiltà giuridica non ne conosce che uno: l'appello, il quale approfondisce il giudizio ed avvicina sempre più la pronunzia definitiva alla verità ed alla giustizia.

La giuria, l'assessorato, la stessa Corte criminale, vietano tradizionalmente la possibilità del secondo grado di giurisdizione. In una dotta relazione intorno alla riforma dei Codici elaborata dalla rappresentanza del nobile foro di Catanzaro rappresentato dall'illustre nostro collega onorevole Turco, ho letto la proposta di una Corte criminale con secondo grado di giurisdizione. Ma non mi pare che questo sia realizzabile.

E allora non v'è che una via: assegnare tutti i giudizi al magistrato ordinario consentendo per tutti il giudizio di appello. Si vedrà più tardi come dovranno essere composte le speciali sezioni dei Tribunali. Ma il principio generale — e soltanto questo ora qui disegniamo — non può essere altro. Né vedo come possano sorgere preoccupazioni. Devo dire che resto come sorpreso e perplesso quando vedo tanti valorosi colleghi derivare le loro preoccupazioni sulla opportunità di investire di tutti i giudizi i magistrati dal numero degli anni di reclusione da irrogare all'imputato. Ma non è dunque vero che, a volte, due anni di reclusione possono avere più gravi e dolorose conseguenze che non, in altri casi, quindici o venti per lo sciagurato al quale sono irrogati? Ma che dico? V'è qualche cosa che pare un niente: la formula di assoluzione, pure basta questo talvolta a precludere la via dell'avvenire ad un giovane, ad allontanare per sempre dal suo lavoro un uomo che vive del lavoro soltanto. Deve anche allora il giudice esser capace di sentire il peso di una grande responsabilità? Nessuno vorrà negarlo.

Il dramma si potrebbe dir la tragedia è qui, o signori: il giudice che non sia, sempre e dovunque, intellettualmente e spiritualmente preparato alla sua alta funzione. E questo addita l'obiettivo cui dobbiamo mirare. Quando avremo sempre e dovunque il magistrato moralmente, spiritualmente ed intellettualmente preparato, potremo, dovremo affidare ad esso la risoluzione di tutte le controversie.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti