[Il 13 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Bencivenga. Non dispiaccia all'Assemblea ch'io la trattenga, come al solito per breve tempo, su quanto il progetto di Costituzione stabilisce circa l'argomento guerra, circa questo evento fatale che scuote profondamente la vita dei popoli.
Ho chiesto di parlare su questo capitolo delle disposizioni generali, perché è in questo capitolo che all'articolo 4 si comincia ad affrontare tale argomento sul quale si ritorna in successivi articoli del testo; ma tutti così strettamente collegati ed interdipendenti, che si rende necessario, per venire a logiche conclusioni, uno sguardo di insieme.
In sintesi dirò che il progetto di Costituzione tocca due questioni: la base etica della guerra, il modo col quale la sovranità del popolo debba essere esercitata per la decisione di far ricorso all'uso delle armi: ed infine — ed in modo alquanto oscuro — chi debba assumere il comando delle forze armate e la responsabilità della condotta della guerra.
È ovvio che tali questioni si presentano in modo diversamente complesso a seconda del reggimento dei popoli. Di massima semplicità, quando essi siano retti da un Capo arbitro della pace e della guerra; di natura assai più complessa quando la sovranità risieda nel popolo.
Nella storia moderna il primo caso ha un esempio tipico nell'impero napoleonico, nel quale il Capo dello Stato era anche il condottiero. In questi si assommavano gli elementi inscindibili: politica e condotta della guerra; fattori codesti strettamente interdipendenti, poiché come ho già detto altra volta, la guerra è la continuazione della politica con le armi alla mano.
E, quando dico politica, mi riferisco non soltanto alla politica estera, ma anche a quella interna, cioè alla preparazione degli animi dei cittadini che dovranno affrontare la morte ed i sacrifici che la guerra impone.
La questione è assai più complessa e le difficoltà cominciano a rivelarsi nelle monarchie costituzionali in senso crescente con la maggiore quantità dei poteri che la Costituzione riserva alle Assemblee che traggono i loro poteri dal popolo. Le difficoltà sono poi grandi negli Stati retti a Repubblica, quando tutto il potere è al popolo; tanto più poi quando in esso difetti educazione politica e non si dimostri vigile ai pericoli derivanti dalla possibilità dei colpi di Stato.
Noi oggi ci troviamo a compiere il gran passo di trasferire quei poteri, che lo Statuto albertino assegnava al sovrano nel campo della decisione della guerra e del comando delle forze armate, ai rappresentanti diretti del popolo. E non è cosa facile e non ci sembra che la Commissione dei settantacinque abbia ben approfondito il problema.
Né è possibile prendere a modello quello che, nelle rispettive Costituzioni, sanciscono altre repubbliche; poiché bisogna tener conto della interpretazione e dell'applicazione che esse hanno ricevuto nel tempo e delle particolari condizioni storiche, geografiche in cui dette repubbliche si trovano.
I nostri colleghi hanno attinto molto dalla recente Costituzione francese, ma non hanno tenuto conto che molti di questi principî risalgono alla rivoluzione del 1789 e sono stati ribaditi in tutte le Costituzioni successive, il che non ha impedito alla Francia di prendere l'iniziativa o partecipare a numerose guerre nel secolo scorso o nel nostro secolo, anche e molto spesso in contrasto — per lo meno letterale — coi principî sanciti nelle varie Costituzioni.
Come è noto, lo Statuto albertino, all'articolo 5, stabiliva:
«Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d'alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere, tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune...».
Coll'evolversi delle nostre istituzioni in senso democratico, questi poteri di fatto erano molto diminuiti. Il Parlamento, guidato dalla pubblica opinione, che soprattutto si rivelava per mezzo della stampa, limitava i poteri del sovrano nei trattati di alleanza e soprattutto nella dichiarazione di guerra.
Il comando di tutte le forze di terra e di mare non era assoluto. In tempo di pace era virtualmente esercitato dai Ministri, sotto il controllo del Parlamento; in tempo di guerra il comando effettivo veniva assunto dal Capo di Stato Maggiore, la cui nomina, almeno formalmente, era fatta dal Governo.
Tuttavia il sovrano non restava estraneo alla condotta della guerra. L'educazione e la cultura che veniva data ai principi, li rendeva atti ad un'azione di controllo e talvolta, come avvenne nella grande guerra, ad un deciso intervento, come dopo l'episodio di Caporetto.
Ora si tratta di trasformare tutto codesto processo, ma non si può approvare il semplicismo, adottato dalla Commissione dei settantacinque, di trasferire nella nostra Costituzione quello che è nella Costituzione francese.
Anche perché ogni Paese ha le sue esigenze di carattere tecnico e politico, dipendenti dalla situazione geografica e dai reggimenti politici delle nazioni con esse confinanti, né astrarre dalle ambizioni di conquista che tali nazioni nutrono.
È ovvio infatti che diverse sono le condizioni nelle quali si deve deliberare la guerra quando le frontiere sono chiuse ad ogni invasione immediata, quando cioè nessun pericolo improvviso sia da tenere, quando la cosiddetta «isolation» (che, a dire il vero, oggi non esiste più per nessuno Stato, colla adozione della bomba atomica!) permette di decidere in tutta tranquillità se si debba o no scendere in campo.
Né è lecito fare astrazione dalla natura e dall'aspirazione dei popoli confinanti. È logico che quei Paesi che hanno ai loro confini popoli turbolenti, dai quali possono temere aggressioni, giustificate talvolta dall'infatuazione messianica di apportare nuova civiltà od una particolare ideologia politica (similmente a quanto fece la Francia dopo la rivoluzione del 1789), non possono sottoporre la decisione della pace e della guerra a complesse deliberazioni di Assemblee, nelle quali facilmente si delineerebbe il contrasto tra i fautori di una nuova civiltà e coloro che ad essa fossero avversi.
Abbiamo detto che la nostra Costituzione ha preso a modello la Costituzione francese.
Ebbene, a riguardo dell'articolo 4, secondo il quale l'Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli — principio indubbiamente nobilissimo — io domando all'Assemblea: siamo anche noi d'accordo nel dare ad esso l'interpretazione che a questo principio, sancito nella Costituzione francese dal 1789 in poi, ha dato la Francia?
Al riguardo mi si consenta di dare qui l'interpretazione che, subito dopo la Costituzione francese del 1848, dava un commentatore della medesima. Si rifletta che detta Costituzione è forse una delle più organiche e complete fra le numerose Costituzioni che si sia data la Francia, e già risente dell'ansia di risolvere quei problemi di natura politico-sociale che oggi angustiano i popoli.
Orbene, il commentatore al quale mi riferisco, il Saint Prix — dirò in sintesi il suo pensiero — esclude dalla classifica di guerre di conquista quelle intese al raggiungimento dei confini naturali (l'eterna ossessione della Francia per la sicurezza!) e giustifica quelle intese a portare la libertà nei popoli che secondo l'autore non è in quelli retti a monarchia! Ed infine l'autore conclude il suo lungo commento con l'osservare che essendo il popolo sovrano, esso ha diritto di fare le guerre che vuole...
E nella realtà il popolo francese ha ritenuto giuste tutte le guerre che ha fatto, anche quando, evidentemente, si proponeva propositi di egemonia e di conquista, naturalmente mascherandole sempre dietro gli immortali principî del 1789.
E poiché noi oggi, per la prima volta, poniamo in testa alla nostra Costituzione detto principio, è doveroso, ripeto, chiedere all'Assemblea se intenda oppure no, dare ad esso l'interpretazione che ne ha dato la Francia dal 1789 ai nostri giorni.
Non dimentichiamo che la Francia, pur avendo nella Costituzione successiva alla disfatta del 1870-71 un tale principio, non cessò mai, come era giusto e naturale, di pensare alla rivendicazione dei territori nazionali perduti, come ne era prova il fatto di aver velato a lutto la statua simboleggiante l'Alsazia e Lorena.
E guardate che la mia domanda ha uno scopo pratico. Perché della pace e della guerra — a senso dell'articolo 75 — dovrebbe decidere l'Assemblea Nazionale: un'Assemblea di circa un migliaio di membri, tra Deputati e Senatori. Aggiungerò anzi che la nostra Costituzione va ancora più in là: cioè (cosa che la nuova Costituzione francese non sancisce) vuole che sia la nostra Assemblea Nazionale a decidere anche della mobilitazione.
Non rilevo tutto l'assurdo di questa disposizione, sulla quale, se sarà il caso, ritornerò a suo tempo. Mi limito ora a far osservare che se dovesse restare in vigore, credo che difficilmente si troverebbe un capo di Stato Maggiore che potesse assumere la responsabilità di un'eventuale guerra. È ovvio infatti che, poche ore dopo la decisione di entrare in guerra presa dall'Assemblea, sarebbe paralizzato dall'uso dell'arma aerea tutto il sistema di trasporti ferroviari, ed anche il traffico sulle rotabili con la distruzione dei ponti.
D'altra parte, non si dimentichi che elemento pressoché decisivo del successo, sia nel campo tattico sia in quello strategico, è la sorpresa, e questo fattore così importante di successo sarebbe escluso, quando la mobilitazione dovesse essere decisa dall'Assemblea. Non è mistero per alcuno, che tutte le guerre moderne sono state precedute dalla cosiddetta mobilitazione occulta, la quale può essere anche una preventiva misura a scopo di difesa.
Se realmente un'Assemblea, di circa un migliaio di persone, dovesse decidere della guerra e della mobilitazione, potrebbe ad esse avvenire quello che avvenne ai coalizzati contro il grande Napoleone, il quale, di fronte alle discussioni sul da fare tra i coalizzati, disse la celebre frase: «Tandis qu'ils délibèrent, la grande armée marche»...
Ma non è sull'argomento della mobilitazione che io voglio indugiarmi, bensì richiamare l'attenzione sul fatto che l'Assemblea Nazionale, secondo il progetto, dovrebbe decidere della pace o della guerra, il che richiede che sia chiarita la portata reale effettiva dell'articolo 4 delle disposizioni generali. Poiché le discussioni potrebbero essere lunghe ed inconcludenti, e, qualora mancasse l'unanimità, esse lascerebbero nel popolo quell'indecisione sulla legittimità e l'opportunità della guerra che costituisce un fattore psicologico di grande importanza, e che, per esperienza, sappiamo aver avuto nella grande guerra (per il dissidio tra i neutralisti ed interventisti) un'influenza che, per poco, non ci condusse al disastro.
Presidente Terracini. Permetta, onorevole Bencivenga: noi non esaminiamo ora l'articolo 75, dove si parla della dichiarazione di guerra.
Bencivenga. Onorevole Presidente, la guerra è un tutto unico; sono stati fatti dei capitoli sull'economia, sulla vita sociale... (Commenti).
Presidente Terracini. Non voglio impedirle di parlare; le facevo presente soltanto questo: che lei si diffonde sul contenuto dell'articolo 75, che è quello che prevede il modo di dichiarare la guerra, mentre l'articolo quarto afferma, e speriamo che valga, che la guerra non si possa fare. (Approvazioni a sinistra).
Bencivenga. Non c'è niente di politico in questo; è una questione tecnica.
Presidente Terracini. Io non le ho fatto una osservazione di carattere politico. Ho cercato soltanto, come cerco con tutti, di contenere le nostre discussioni entro certi limiti; e ricordo, come ho detto all'inizio della seduta, che vi sono 272 iscritti.
Bencivenga. La questione non riguarda soltanto un partito, ma tutti i partiti politici. Si tratta della pace e della guerra e dobbiamo vedere come viene regolata tutta questa materia. Del resto chiedo soltanto dieci minuti ed ho finito.
Presidente Terracini. Prosegua pure, onorevole Bencivenga.
Bencivenga. La recente Costituzione francese, conforme alle sue precedenti, stabilisce bensì essere potere dell'Assemblea, previo parere del Consiglio della Repubblica, di decidere della pace o della guerra (si guarda bene di toccare la questione della mobilitazione), ma su questa prerogativa dell'Assemblea di decidere della pace e della guerra non sarà superfluo ricordare quanto il Saint Prix scrive nel commento alla Costituzione del 1848: «Non si esageri — dice il nostro autore — l'efficacia pratica della regola; introdotta nella Costituzione consolare, essa non impedì a Napoleone di incendiare l'Europa con il pericolo della Francia». Le precauzioni più salutari restano impotenti quando l'opinione pubblica non ne reclami altamente l'esecuzione. Egli è, onorevoli colleghi, che la salvaguardia contro la guerra ingiusta non può essere riposta in rimedi, dirò così, in extremis, ma nel retto funzionamento delle istituzioni democratiche e in definitiva della libertà.
La guerra, come ho ripetutamente detto, soprattutto per aprire le menti di coloro che hanno della guerra e della pace un concetto semplicistico, trova le sue origini nella politica ed è in questo campo che le Assemblee debbono mostrarsi attente e vigilanti ed a loro volta farsi interpreti della pubblica opinione non coartata da leggi che offendono la libertà, soprattutto di quella della stampa, che tanto più potrà agire con senso di responsabilità quanto più essa acquisti coscienza del proprio compito.
A cura di Fabrizio Calzaretti