[Il 6 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Cassiani. [...] L'articolo 41 regola i rapporti e i vincoli da imporre alla proprietà terriera privata. Sono forse questi i principî più significativi fra quanti ne contiene il Titolo III. Si profilano nell'articolo 41 gli elementi di quella riforma agraria che dovrà realizzarsi in un domani — che noi ci auguriamo sia prossimo — attraverso istituti di diritto pubblico. L'articolo 41 ha un significato non dubbio, onorevoli colleghi: esso dice che lo Stato, nel momento in cui sorge, tende l'orecchio alle istanze delle classi meno abbienti, dal cui confuso tumulto partono voci che indicano problemi sociali da affrontare e da risolvere.
Quando l'Italia avrà varato la sua riforma agraria, io penso che avrà fatto sempre meno di quel che hanno fatto i Paesi più progrediti di Europa. In Italia si sono sempre colpite la piccola e la media proprietà terriera e si è lasciata insoluta, attraverso una forma strana di tenacia abulica, il problema della grande proprietà terriera. Fuori di questa Aula, contro le norme delle quali ci occupiamo, si sono avanzate critiche aspre, qualche volta dettate dal timore del peggio, tal'altra da uno stato che dirò di paura opaca, tal'altra ancora da preoccupazioni legittime in rapporto a quello che può essere il processo produttivo. Preoccupazioni, queste ultime, che lo smembramento delle grandi fortune sia causa di rallentamento e di disgregazione del processo produttivo.
Evidentemente nella visione panoramica del problema, che è così vasto e ha radici così profonde, io penso che qualche volta si confonde l'aspetto giuridico con l'aspetto economico del problema, si confonde la proprietà dei beni con la gestione di essi, e, d'altro canto, si dimentica che non c'è un tipo di azienda preferibile in senso assoluto, in rapporto all'estensione ed all'organizzazione, sotto l'aspetto sociale ed economico. Certo è che lo sviluppo dell'attività trasformatrice dei prodotti agricoli non è riservato alle grandi aziende, pur essendo ad esse legato in parte il processo produttivo. Ma, dicevo, nell'esame panoramico del problema mi pare si confonda assai spesso l'aspetto giuridico con quello economico. Qui, infatti, non si tratta di tagliuzzare ciecamente la terra e distribuirla a pezzi: qui si tratta di stabilire una serie di rapporti nuovi che vadano dalla proprietà alla gestione fino alle forme più avanzate della compartecipazione. In questo è la complessità del problema ed è questa la difficoltà della soluzione.
Aggiungo che c'è un problema sussidiario che diventa, per così dire, primario, nella materia dell'articolo 41. Perché il latifondo si abolisca, perché la proprietà terriera subisca una modifica, che cosa è necessario? È necessaria un'opera di trasformazione fondiaria, una legislazione che riconosca e renda possibile, direi fisicamente possibile, la vita associata del lavoro e del capitale, tutte le volte che questo sia utile al processo produttivo e quindi all'economia nazionale. Questi due concetti potranno essere enunciati, con la collaborazione dell'Assemblea, attraverso gli articoli 41 e 42 del progetto, dicendo all'articolo 41 che «il latifondo, comunque condotto e coltivato è suscettibile di utili trasformazioni fondiarie e di appoderamento e che la trasformazione e l'appoderamento sono obbligatori»; e dicendo all'articolo 42 che «lo Stato riconosce la libera vita associata del lavoro».
Per quanto riguarda l'articolo 41, all'osservatore, anche il più disattento, si presentano domande che reclamano una risposta e dubbi che attendono di essere placati. Che cosa vuol dire abolizione del latifondo? E ancora: si avanzano dubbi sul significato della parola. Non è chi non sappia che nel linguaggio tecnico ed economico la parola latifondo non vuol dire una qualunque estensione di terra, ma vuol dire invece un'estensione di terra che sia in istato di arretratezza dal punto di vista della cultura e in rapporto alla possibilità di trasformazione fondiaria di essa, tanto che si arriva a questa conclusione: che può essere latifondo la media estensione di terra e può non esserlo la vasta estensione di terra.
L'interrogativo potrà avere una certa risposta e il dubbio potrà essere placato soltanto a patto di una specificazione dell'articolo 41 e anche, a mio parere, di un ampio respiro, dirò così, di interpretazione dell'articolo 42, il quale contiene principî che concorrono a rendere efficienti i principî dell'articolo 41 il significato — cioè — di una cooperazione che nasca e si sviluppi liberamente, come ha detto l'altro ieri in quest'Aula il collega Dominedò: liberamente, ma su alcune premesse di vita, che io chiamerò fisica, premesse di vita che lo Stato deve costituire. Perché non bisogna dimenticare, onorevoli colleghi, che la cooperazione non è certo la forma dei popoli più poveri e meno progrediti: è, al contrario, la cooperazione, espressione naturale, direi quasi istintiva, dei popoli che non sono poveri e che sono anche istruiti.
Ebbene, in Italia c'è un esempio che è sotto gli occhi di tutti: la differenza enorme tra la cooperazione nell'Italia Settentrionale e nell'Italia Meridionale. Dimentichiamo per un momento, onorevoli colleghi, gli sforzi dei nostri partiti: quella è un'altra cosa; ma la cooperazione, nei tempi che potremmo chiamare prefascisti, nell'Italia Settentrionale era sviluppatissima, mentre nell'Italia Meridionale languiva anche nelle sue forme più semplici, più elementari, anche nei casi di cooperative di consumo o di cooperative costituite perché i contadini avessero potuto vendere i prodotti della propria terra.
Non si può pensare seriamente, onorevoli colleghi, che con le leggi con cui si enuncia il principio — non certamente nuovo — della quotizzazione del latifondo, si possono creare meccanicamente, dirò così, coltivatori diretti o liberi cooperatori. È forse opera troppo lenta attendere la redenzione agraria di un Paese come l'Italia dall'associazione di capitali, che tante volte non ci sono, di coscienze offuscate dalla povertà o dall'ignoranza, se lo Stato, senza iugulare — beninteso — in qualunque modo la libertà della cooperazione, non si rendesse vigile promotore nella Costituzione di quelle che io poc'anzi ho chiamato le premesse di vita fisica, perché la cooperazione nasca e si sviluppi.
Solo una grande riforma economica può preservare l'Italia sociale e l'Italia politica.
Chi sa che non si possa riprendere, in omaggio all'articolo 41 e in omaggio all'articolo 42, con le opportune modifiche, quel vecchio progetto che l'onorevole Maggiorino Ferraris sostenne fin dal 1900, con altezza di pensiero e magistero di parola, secondo il quale sarebbero costituite le unioni agrarie mandamentali collegate in unioni regionali e queste in una unione nazionale, con vita autonoma, sorretta dalle eccedenze delle casse postali, avente la funzione del credito in natura ai piccoli e medi agricoltori, che potrebbero, perciò, riunirsi in cooperative di produzione avendo la sicurezza della base sulla quale muoversi.
Chi sa che non sia il caso di imitare, più semplicemente, quelle casse regionali di credito agrario mutuo che nella Repubblica francese operarono tanto bene a vantaggio della piccola e della media proprietà terriera: anche la istituzione di quelle casse potrebbe essere collegata allo sviluppo di una rete di cooperative di produzione e contribuire, perciò, a rendere efficiente e non soltanto teorico il contenuto degli articolo 41 e 42 del progetto di Costituzione.
Potrebbero contribuire questi o altri mezzi, questi o altri accorgimenti, a non rendere teorico il contenuto degli articoli 41 e 42.
Chi sa che non sia giunto il momento di affrontare con serietà — attraverso l'idea lanciata da Maggiorino Ferraris o attraverso il modello francese o attraverso, come dicevo, quelle altre vie che il legislatore di domani potrà indicare — il problema della terra nell'Italia Meridionale, che in tanto può essere risolto in quanto si affronti il problema della vita collettiva del lavoro.
Suggerendo le modifiche all'articolo 41, io non posso non pensare, onorevoli colleghi, al mio Mezzogiorno — né con ciò io evado, onorevole Presidente, dal chiuso ambito del tema che mi sono imposto. Non evado: il latifondo è una piaga dell'Italia Meridionale e, più precisamente, del centro-meridione. È quindi l'esperienza di vita del Mezzogiorno che mi suggerisce i provvedimenti che ho proposto.
Suggerendo quelle modifiche, io debbo dire che, quando si parla del latifondo dell'Italia Meridionale, si suole pensare a terre che diventeranno opime nel momento stesso della quotizzazione. Ebbene: non c'è niente di più inesatto, non c'è niente di più lontano dalla realtà obiettiva. Si tratta spesso di rocce, qualche volta di sabbia, tal'altra di acquitrini.
Per rendere possibile la bonifica agraria, premessa indispensabile allo spezzettamento e all'appoderamento del latifondo, occorre modificare la natura stessa del terreno, ricorrendo ad opere costose e complesse, nelle quali lo Stato potrà concorrere solo a patto che venga sorretto da speciali cooperative di produzione. Opinioni erronee sono quelle di coloro i quali persistono a credere i lavoratori del Mezzogiorno, agricoltori e braccianti, tutti neghittosi, tutti incapaci di trarre dalla loro terra — che sarebbe, secondo questi osservatori superficiali, un vero eden quei copiosi frutti che il sole del Mezzogiorno dovrebbe consentire (anche quando non piove per dieci mesi e il periodo della vegetazione diventa più breve in Basilicata e in Calabria che non nella nordica Scandinavia). Si presenta quindi, evidentemente, un problema complesso di trasformazione fondiaria, per la quale io propongo che lo Stato si impegni nella Costituzione, ma propongo altresì che si impegnino i privati, mettendoli dinanzi allo spettro dell'espropriazione.
L'impegno da parte dei privati proprietari dei latifondi a me pare indispensabile non solo per un'evidente ragione di principio, che non è il caso di illustrare ad un'Assemblea come questa, ma anche perché mai come oggi le condizioni dello Stato italiano si sono trovate ad essere così poco idonee all'estensione e all'accrescimento della produzione delle desolate plaghe del Mezzogiorno, di quelle plaghe, cioè, per cui dovrebbe in definitiva trovare applicazione il principio sancito nell'articolo 42.
L'Italia soffre, sì, del travaglio di una crisi che forse è priva di precedenti storici, ma soffre anche a cagione della crescente, naturale pressione di una grandissima minoranza di cittadini, i cui interessi non dico che siano in contrasto, ma sono certo diversi e lontani dagli interessi dall'enorme maggioranza dei cittadini, che è costituita dai lavoratori della terra (Applausi).
Per questo io penso una cosa amara, onorevoli colleghi, amarissima per me che sono meridionale e meridionalista convinto: penso che i problemi del Mezzogiorno non siano mai stati tanto lontani dalla soluzione come oggi. Io vorrei interrogare ad uno ad uno i colleghi di ogni parte della Camera: una volta tanto, al di sopra dei partiti, io penso che ci troveremmo tutti d'accordo.
Per questo io credo all'urgenza e alla inevitabilità di una riforma come quella alla quale ho accennato, sia pure nella maniera vaga che mi è consentita dal fatto che parlo in sede di discussione di un progetto di Costituzione e non di un progetto di legge. Certo è che una Costituzione, onorevoli colleghi — altri di me più autorevoli in quest'Aula l'hanno detto — non può prescindere dalla realtà.
Non si dimentichi, a tale riguardo, che in Italia soltanto 16 milioni di ettari, su 28 di superficie agraria e forestale, sono allo stato coltivati, cioè meritevoli di essere coltivati dallo Stato. È evidente che non si può varare una Costituzione dove è scritto, noi diciamo semplicemente (altri dicono invece semplicisticamente), che la legge abolisce il latifondo. Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, che accanto al pericolo grave di ingannare la massa enorme dei braccianti agricoli italiani, si profila un pericolo altrettanto grave per il caso che una salda organizzazione economica ed agraria non dovesse in un domani imminente sorreggere e rendere effettivo il principio che si enuncia nell'articolo 41: il pericolo cioè che nel nostro Paese si costituisca una miserevole economia di stato lontana dal grande gioco internazionale, lontana dalle grandi vie che sono percorse dai Paesi che innegabilmente rappresentano una buona parte del mondo.
È evidente che se i prodotti della nostra agricoltura vorranno sostenere la concorrenza straniera, sul piano dell'importazione e su quello dell'esportazione, in Italia bisogna pure avere aziende agricole rette e regolate dalle più moderne leggi economiche. Non c'è dubbio, onorevoli colleghi, sulla necessità di una riforma agraria che sia anzitutto una riforma costituzionale. Dico riforma agraria costituzionale, perché soltanto attraverso il perfezionamento del processo produttivo e la conseguente riduzione dei costi, noi arriveremo a toccare il bersaglio, arriveremo cioè alla conclusione di poter veramente immettere la massa lavoratrice italiana nel processo di produzione.
Una cosa è certa, se vogliamo che l'Assemblea con tranquillità approvi le modifiche che a me pare il caso reclami l'articolo 41 nel suo spirito profondamente innovatore di tutto un sistema: la necessità, cioè, di assicurare l'efficienza tecnica di coloro i quali dovranno essere domani i proprietari o i gestori — la necessità, comunque, di non incidere sul processo produttivo attraverso la vaghezza di formule che mal si comprendono in una Carta costituzionale, e che evidentemente domani non potrebbero essere consentite nella parola della legge.
Complessità di problemi, dunque, e difficoltà di rimedi, sulle quali mi permetto di richiamare tutta quanta la vigile attenzione dell'Assemblea, perché non è chi non veda come il facile principio della quotizzazione al quale si informarono tutte le leggi agrarie, dai Gracchi in poi, continuerà ad apparire come una pagina, e non certo la più originale, del libro dei sogni, fino a quando non si arriverà a creare la struttura di una vera organizzazione economica che sia il substrato, la spina dorsale di una concreta riforma agraria.
E io concludo: concludo semplicemente, dicendo, onorevoli colleghi, che se la Carta Costituzionale deve contenere affermazioni di principio nell'agitato campo della funzione sociale della proprietà, è necessario, è indispensabile che in essa siano contenute le premesse di quella riforma che dovrà esser fatta con alto intendimento perché risponda al comando collettivo della coscienza pubblica, perché non crei delusioni e, con le delusioni, non mortifichi il credito popolare verso la democrazia e verso le istituzioni che la realizzano. (Vivi applausi — Congratulazioni).
[...]
Cairo. [...] Ma l'articolo 40 mi conduce anche per associazione di idee — se non fosse solo per successione di articoli — all'articolo 41, che è stato testé egregiamente illustrato con calore di parola dal collega che mi ha preceduto. Vi si parla del riscatto delle terre.
Noto subito — e mi pare lacuna degna di rilievo — che, mentre nell'articolo 40 si parla, sia pure genericamente, di comunità di lavoratori come successori delle attività economiche espropriate, all'articolo 41 non si parla né di comunità di lavoratori, né di cooperative là dove si parla di esproprio di terra, cioè, là dove mi sembra anche più indicato che la successione venga raccolta, specialmente dalle organizzazioni cooperative. Ora, notata questa insufficienza, questo oblio che riguarda proprio quelle cooperative di cui poi vedremo all'articolo 42, io penso che sarebbe utile introdurre nell'articolo l'espresso richiamo al movimento cooperativo. All'articolo 41 si rispecchiano idee — o per lo meno vi sono riflesse idee — che non sono completamente nostre. Basterà rilevare che l'abolizione del latifondo e la limitazione dell'estensione della proprietà fondiaria non deve portare, a nostro avviso, allo spezzettamento per creare ad ogni costo e artifiziosamente la piccola proprietà. Noi siamo per quella piccola proprietà, che oggi è così com'è, come eredità del passato; ma noi non crediamo che il latifondo debba scindersi in una miriade di piccoli proprietari con sicuri effetti antieconomici e antisociali; perché, a nostro avviso, un solo scopo ha questo intervento statale, questo intervento della società verso la proprietà privata indegna, verso la proprietà privata che non ha adempiuto alla funzione sociale che le è propria: e questo compito è il razionale sfruttamento della terra; è l'optimum dell'impiego della mano d'opera; è l'optimum della produzione. È lamento amaro che in questo articolo 41 non si sia ricordata almeno, se non la cooperazione, la comunità soggettiva di cui si parla all'articolo 40.
[...]
Montagnana Mario. [...] E quando noi comunisti abbiamo chiesto e chiediamo una riforma agraria la quale fissi dei limiti alla proprietà terriera, abolisca il latifondo e protegga i piccoli e medi proprietari agricoli, noi avevamo e abbiamo in vista gli interessi particolari, di classe, dei lavoratori che subiscono le funeste conseguenze dell'attuale stato di cose e come prestatori d'opera e come consumatori. Avevamo e abbiamo pure in vista la necessità di colpire, anche su questo terreno, i gruppi privilegiati responsabili del fascismo e accaniti sostenitori, oggi come ieri, della oppressione e dello sfruttamento delle masse popolari. Ma avevamo e abbiamo pure in vista la necessità impellente di aumentare e di migliorare la produzione agricola di tutta la Nazione, dato che l'esperienza ha dimostrato, e ogni giorno conferma, che l'esistenza del latifondo e di rapporti di tipo feudale nelle campagne e, dall'altro lato, la mancanza di protezione della piccola e media proprietà terriera rappresentano un gravissimo ostacolo al miglioramento e all'aumento della produzione agricola. Noi vogliamo l'abolizione del latifondo, i Consigli di gestione nelle grandi aziende agricole e la protezione dei piccoli e medi proprietari per migliorare le condizioni morali e materiali dei lavoratori delle campagne, ma anche e soprattutto affinché il nostro suolo, nel suo insieme, dia più grano, più fieno, più barbabietole, e così via. Vogliamo questo affinché tutta l'Italia abbia più prodotti agricoli a sua disposizione; affinché essa possa limitare, in questo campo, le proprie importazioni e nutrire meglio, nel tempo stesso, tutti i suoi figli e difenderne con più efficacia la salute che è, tra tutti i beni materiali, il bene più prezioso.
[...]
Bosi. [...] Ora, in Italia le necessità di trasformazioni sono diverse, ma mi pare che noi non dobbiamo dimenticare che una trasformazione soprattutto è necessaria: quella che deve portare tutta l'Italia ad essere nelle stesse condizioni di capacità produttiva e quindi di elevazione civile e di elevazione morale. Necessità, quindi, di unificare il nostro Paese. Lasciate a me, che non sono meridionale, ricordare che c'è un problema di questo genere in Italia, molto profondo, molto urgente. In Italia noi abbiamo delle diversità di condizioni economiche soprattutto nel campo dell'agricoltura, abbiamo dei problemi da risolvere in questo campo che vanno affrontati. Io ho sentito parlare qui, e sentiremo parlarne ancora, del problema della riforma agraria, ed ho sentito porre dei dubbi o delle riserve sulle trasformazioni che sono necessarie in Italia, che tutti quanti riconoscono necessarie, anche coloro che negano la possibilità e la necessità per la Costituzione italiana di intervenire nel campo della proprietà terriera. Anche costoro avvertono che le trasformazioni sono necessarie. Soltanto vorrebbero lasciarle al normale sviluppo che si ha nella società quando le forze economiche agiscono.
Io penso che oggi non sia più il caso di aspettare. Se si parla di riforma agraria in Italia è perché c'è la dimostrazione più che provata che questa trasformazione nel campo agrario non si è prodotta da sé, che oggi c'è un distacco che va accentuandosi, per quanto riguarda le condizioni agricole, fra il nord e il centro-sud dell'Italia. Ora questo ha una sua ragione, ha origini che bisogna andare a toccare e che la Costituzione fa bene ad indicare, indicando nello stesso tempo i mezzi per ovviare a queste difficoltà.
Se in Italia ci troviamo di fronte a questi problemi è per una ragione molto semplice: è che la trasformazione sociale è avvenuta nel nord e non nel sud. Basta studiare la storia d'Italia. Basta vedere oggi le condizioni in cui si vive nell'Italia centro-meridionale, condizioni simili a quelle di 50 o 100 anni fa, per cui c'è effettivamente un ristagno politico e sociale in quelle regioni.
Le cause sono facili ad identificarsi: nell'Italia meridionale noi, onorevoli colleghi, non abbiamo avuto quella evoluzione che c'è stata invece in altre regioni italiane.
Il fatto della terra a disposizione di coloro che posseggono dei capitali, e che sono disposti ad impiegarli nella terra, si è verificato solamente nel Nord. Nell'Italia meridionale questo non lo abbiamo avuto. Nell'Italia meridionale noi siamo ancora oggi nelle condizioni del possesso feudale o quasi. Anche se l'estensione della proprietà, quali che siano oggi i dati del Catasto, può sembrare più o meno diversa, le condizioni sono sempre quelle.
Ora, bisogna prendere misure adatte in modo da mettere l'Italia centrale e meridionale nelle stesse condizioni del Nord. Non si tratta di fare la rivoluzione socialista in questo campo; mi si permetta di dirlo. La Costituzione non vuole farla. Vuole semplicemente ciò che l'articolo chiaramente propone: mettere l'Italia centro-meridionale nelle stesse condizioni del Nord, cioè dare la possibilità all'impresa capitalistica di svilupparsi anche nel Mezzogiorno italiano. Per far questo bisogna che la proprietà, quale si presenta oggi, sia cambiata, e prima di tutto bisogna aprire la strada agli elementi che possono portare la trasformazione. Le condizioni naturali valgono, ma valgono per tutti i Paesi e le regioni. Vi sono anche altrove difficoltà di ordine naturale, ma il fenomeno a cui assistiamo nell'Italia meridionale è che sulla terra non si vede il capitale, il reddito non si reimpiega nella terra, ma va a finire altrove. Manca questa capacità dei proprietari della terra di trasformare le loro aziende, di cambiare quella che è la natura del terreno, la natura della regione. Ora, la limitazione posta alla proprietà c'è, ma la limitazione dovrà servire allo scopo, ed a noi non deve destare preoccupazione il dilemma: che cosa seguirà a questa limitazione della proprietà? Chi saranno i nuovi proprietari? È evidente che il problema si pone e andrà posto, io spero, in senso realistico. Non bisogna avere prevenzioni né per l'una né per l'altra forma di proprietà. È evidente che parlando di media e di piccola proprietà, parlando di piccola proprietà e di cooperativa, non è possibile stabilire a priori quali siano gli ambienti adatti per l'una o per l'altra.
Certo, nell'Italia meridionale, insieme a questa particolare forma di proprietà, c'è anche un particolare ambiente.
Parlare di cooperative nell'Italia meridionale, nel senso inteso nel Nord, è certamente cosa che esce dalla mentalità degli stessi contadini meridionali. Abituati a vivere in un ambiente, dove domina l'egoismo più assoluto, essi non possono avere piena cognizione della cooperazione, cioè della solidarietà, nel senso dell'azione in comune. Quando si istituiscono cooperative nell'Italia meridionale, si assegnano loro le terre e queste vengono spezzettate, evidentemente ciò significa che non si apprezza il lavoro in comune. È già qualche cosa se quei soci comprano collettivamente le sementi e i concimi; è una forma iniziale di solidarietà che si manifesta. Sta in noi aiutarla, ed è bene che qualche articolo della Costituzione parli di aiuto alle cooperative.
Non credo che si debba porre il problema di sostituire le grandi imprese con le cooperative; andremmo fuori della realtà umana. Ci sono gli uomini che creano; è nostro dovere educarli e mettere a loro disposizione i mezzi, perché essi possano comprendere la forza dell'azione in comune. Non possiamo, naturalmente, pretendere, che dall'oggi al domani, con un decreto legge, essi cambino mentalità.
In altre regioni le cooperative potranno sostituire con vantaggio le grandi proprietà attuali. Ma il problema del latifondo va affrontato nel senso realistico: non si può paternalisticamente imporre all'uomo quello che egli non è in grado di comprendere.
Già oggi, noi creiamo le basi per la trasformazione. Pensiamo che in molte zone la piccola proprietà è oggi, e lo sarà per un certo tempo, la forza fondamentale per questa trasformazione. Abbiamo già prove concrete di quello che possa fare il contadino, quando egli è proprietario della terra. Se noi diamo ai contadini la terra, siamo sicuri che in vastissime zone del nostro Paese si avrà l'elevazione dei lavoratori e la trasformazione delle condizioni della nostra agricoltura.
C'è chi ha posto in evidenza il fatto che, nelle zone latifondistiche dell'Italia meridionale, le necessità tecniche sono di importanza fondamentale, tanto da rendere necessario fare prima la bonifica e poi la riforma agraria.
Noi non siamo di questo parere. Sarebbe assurdo proseguire per una strada che si è dimostrata fallace. Infatti, nelle zone latifondistiche i lavori di bonifica iniziati sono finiti nel nulla: strade che vanno alla malora, perché nessuno vi passa: case costruite, che stanno crollando, perché i proprietari non ne usufruiscono, dopo aver riscosso i contributi per la loro costruzione, e non vogliono consegnarle ai lavoratori.
Noi pensiamo che il problema principale ed iniziale sia quello della trasformazione sociale: risolviamo prima il problema sociale della proprietà e poi l'aiuto dello Stato vada a vantaggio dei lavoratori.
Non neghiamo la necessità di trasformazione del latifondo: c'è bisogno di strade, di acquedotti, di case, di una infinità di lavori. Ma questi lavori lo Stato non dovrà farli nell'interesse dei proprietari attuali, ma nell'interesse di quei lavoratori che saranno immessi nella proprietà della terra. Ecco come il problema va risolto. E allora riconosciamo le difficoltà, ma soprattutto questa: che nessuna bonifica, nessuna vera trasformazione avrà valore efficace nel tempo se non servirà ad una classe nuova la quale voglia effettivamente — perché essa è l'artefice della produzione — servirsi della trasformazione e della bonifica. Abbiamo oggi troppi esempi di possidenti della terra che non soltanto non pensano alla bonifica, ma neppure a coltivare con i metodi dettati dai primi passi della tecnica agraria le loro terre. Si parla di terre pietrose, argillose, deserte, nude.
È vero; ci sono queste situazioni, ma noi vediamo ed abbiamo visto che, là dove si sono impiegati capitali, le terre possono essere trasformate. Invece che cosa si fa? Si fa quella che è un'opera di sabotaggio alla produzione nazionale. Basta andare in questi giorni nella Capitanata per vedere che i campi di grano non sono campi di grano, ma campi di fiori e di mala erba piantata in mezzo al grano, perché questo non si è pulito. Questo è il problema che si pone.
Oggi le classi che detengono la grande proprietà dimostrano di non volersene servire nell'interesse collettivo; dimostrano che vogliono servirsi delle loro proprietà per il loro interesse individuale, e qualche volta per colpire l'interesse collettivo. Questa è la questione che noi dobbiamo porci quando si parlerà nella Costituzione di colpire i monopoli. La grande proprietà è un monopolio che impedisce non soltanto la possibilità di possedere a milioni di lavoratori, ma impedisce la possibilità di svilupparsi a tutta l'economia nazionale.
Andate a parlare di trasformazione, di bonifiche e vi risponderanno come hanno risposto a noi in qualche caso: «la bonifica è una bella cosa, i vostri piani sono ottimi; ma io nella mia terra faccio quello che mi pare e non voglio sentire parlare di trasformazioni». Di fronte ad una casta di questo genere, dobbiamo riconoscere che l'affermazione della Carta costituzionale, per cui la Repubblica combatterà i monopoli, è una necessità per la società italiana e per lo sviluppo della società futura, perché non possiamo dimenticare che nella Carta costituzionale devono essere inserite le norme di vita sociale di tutto il popolo italiano, norme di vita civile e politica che dovranno mettere il popolo italiano in grado di elevarsi effettivamente; e dobbiamo anche pensare che metà della nostra popolazione vive nelle campagne, e se non c'è aumento della produzione non possiamo alimentare metà del popolo italiano. Non possiamo mandare milioni di contadini a lavorare nelle fabbriche, né mandarli all'estero o farli morire sulle terre che non riescono a coltivare. Dobbiamo pensare allo sviluppo della nostra agricoltura che vorrà dire possibilità di dare pane al popolo italiano. Questo si avrà soltanto con una riforma agraria che tolga alla grande proprietà il monopolio della terra. Quindi bisogna mettere in condizione i lavoratori di potersi rendere padroni della loro vita e rendersi capaci di aiutare, assieme agli altri lavoratori, lo sviluppo del nostro Paese. E, guardate, quando si parla di riforma agraria, è bene dirlo, non si pensi soltanto alla limitazione dell'estensione della proprietà. Io penso che in Italia, e specie nell'Italia centro-meridionale, vi sono altri problemi di riforma che vanno risolti, non limitando l'estensione della proprietà, ma modificando i patti che sono una vergogna per il nostro Paese e sono ancora peggiori dei patti medioevali di schiavitù. Bisogna che il lavoratore abbia il frutto effettivo del suo lavoro senza negare alla proprietà la rendita. Quindi riforma agraria vuol dire anche riforma dei patti agrari. Noi dobbiamo fare che in Italia non ci sia più la possibilità che la terra sia veramente, come è stata per il passato, il più proficuo impiego di capitale, perché il lavoratore dell'agricoltura è il lavoratore più sfruttato, che non ha avuto nessuna assicurazione di avere un minimo sociale di vita e di essere trattato come uomo.
Oggi basta andare a vedere nell'Italia meridionale quali sono le condizioni dei lavoratori per accertarsi che questo non è stato fatto.
Vi sono delle parole nell'articolo 41, le quali possono far credere che sia possibile intervenire e limitare la proprietà fondiaria nel suo strapotere e nella sua estensione nei confronti del lavoratore. Se questo non basta e non verrà riconosciuto, sarà presentato un emendamento, perché si riconosca che la tutela dei lavoratori e dei contadini italiani non sarà possibile senza una riforma agraria.
I lavoratori della terra devono essere messi nelle stesse condizioni dei lavoratori delle altre categorie, devono godere il frutto del loro lavoro, devono essere messi in condizioni di avare i benefici che hanno le altre categorie, non devono essere soffocati da patti che sono di schiavitù.
Quindi è bene che nella Costituzione ci sia il riconoscimento di queste necessità di trasformazione dalla nostra economia, altrimenti noi non costituiremo veramente una repubblica democratica, non condurremo a fondo la lotta contro le condizioni sociali, che ci hanno portato, prima alla perdita delle libertà politiche e poi al disastro.
Nella Costituzione, questo problema deve essere risolto.
Bisogna anche pensare a qualche altra questione per quanto riguarda i lavoratori dell'agricoltura, perché quando noi parliamo della libertà sindacale e della libertà di sciopero, rileviamo che qualcuno ha voluto pensare di limitare queste libertà. Non dobbiamo dimenticare e non dimentichiamo che i lavoratori dell'agricoltura in questo periodo di tempo hanno dimostrato di avere il senso dalle loro responsabilità nei confronti della comunità e della economia nazionale. Scioperi su vasta scala non ve ne sono stati. I lavoratori hanno rinunziato a quello che è un diritto generalmente riconosciuto, il diritto di sciopero. Vi sono stati solamente casi sporadici di sciopero dei lavoratori dell'agricoltura, malgrado le condizioni in cui essi vivono.
Ebbene, io penso che bisogna fare un'aggiunta alla Costituzione, perché oggi la lotta sindacale in Italia non si svolge più soltanto sulla base dello sciopero o sulla base delle trattative sindacali, ma ha un'altra base: i lavoratori della terra hanno la responsabilità della produzione, perché se in una fabbrica si impedisce o si ferma il lavoro per una settimana, si può riguadagnare il tempo perduto con il lavoro straordinario o con altri mezzi, mentre invece nell'agricoltura fare lo sciopero per una settimana, in qualche caso — noi lo sappiamo per l'esperienza del passato — vuol dire rovinare il raccolto, impedire i lavori necessari ad ottenere il raccolto. I lavoratori della terra oggi hanno rinunziato a fare lo sciopero; però, quando hanno voluto servirsi di altre armi, di altri mezzi di lotta, per sostenere le loro ragioni, senza danneggiare la produzione, sono stati colpiti, allora io penso che il diritto di sciopero, che vale per i lavoratori dell'industria e per tutte le altre categorie di lavoratori, che vale in qualche caso per i lavoratori dell'agricoltura, debba essere concretizzato col diritto dei lavoratori dell'agricoltura a servirsi di altri mezzi tali che assicurino il loro diritto alla giusta ricompensa del lavoro prestato. Noi presenteremo anche su questo argomento un emendamento.
Ad ogni modo, concludendo, io penso che non v'è dubbio sulla necessità di intervenire nel futuro, servendoci di quelli che sono i mezzi che la Costituzione ci deve dare, nell'agricoltura italiana. Deve essere uno dei compiti riconosciuti da tutti, perché noi potremo avere la nostra società nazionale prospera economicamente, soltanto quando avremo tolto gli impedimenti che ci sono e avremo contribuito allo sviluppo di quella metà della nostra economia costituita dall'agricoltura italiana. (Applausi a sinistra).
A cura di Fabrizio Calzaretti