[Il 9 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue l'esame degli emendamenti agli articoli del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».

Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda al commento all'articolo 4 per il testo completo della discussione.]

Presidente Terracini. L'ordine del giorno reca: seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Ricordo che nella seduta di ieri furono approvati i primi due commi dell'articolo 31 e che la Commissione si riservò di esprimere il suo giudizio sul seguente comma aggiuntivo, da introdurre dopo il secondo comma, proposto dagli onorevoli Montagnana Mario, Foa, Pajetta Giancarlo, Pesenti, Grieco, Laconi:

«Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l'attività produttiva, secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività».

Pajetta Gian Carlo. Desidero illustrare alcune modificazioni da apportare all'emendamento e chiedo pertanto di poter fare alcune precisazioni.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Pajetta Gian Carlo. Non è senza un senso di stupore che questa mattina ho percorso la stampa quotidiana, e credo che la stessa meraviglia abbiano provato molti colleghi. In alcuni giornali si è parlato di colpi di mano e persino di atmosfera di sbigottimento.

Un certo Erasmo che su un giornale di Roma preferisce tessere l'elogio del liberalismo, considerando forse che oggi sarebbe assai meno originale tessere quello della pazzia, ci racconta come quattro deputati comunisti hanno tentato, alla vigilia della chiusura della discussione, un colpo di mano, intendendo introdurre in Italia i principî dell'economia totalitaria. E un altro giornale ci invita a giocare finalmente a carte scoperte. Persino Buonsenso dell'onorevole Giannini si domanda che cosa si nasconda dietro questa sorpresa dell'ultim'ora, aggiungendo che lo stesso senso di sorpresa avrebbe invaso una parte dei colleghi della democrazia cristiana. La sorpresa ci pare fuori luogo, come è fuori luogo ogni allarmismo.

Un altro colpo di scena dei comunisti? Credo che forse qualche giornalista possa pensare questo, ma i nostri egregi colleghi che hanno seguito i dibattiti della Commissione dei settantacinque, che hanno certamente letto la relazione, sanno che già in quella sede era stato presentato un articolo che, con le stesse parole, proponeva lo stesso problema. Difatti, alla relazione dell'onorevole Togliatti erano allegate proposte per parecchi articoli, una delle quali era così formulata: «Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l'attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione, secondo un piano di massimo rendimento per la collettività». Sono le stesse parole che hanno destato tanta sorpresa e che hanno indotto la Commissione a chiedere una riflessione di ventiquattro ore. Ed era proprio l'onorevole Togliatti, che, nella discussione su questo articolo e su altri, dichiarava che si stava scrivendo una Costituzione, che non è una Costituzione socialista, ma è una Costituzione corrispondente ad un periodo transitorio di lotta per un regime economico di coesistenza di differenti forze economiche che tendono a soverchiarsi a vicenda.

Colpo di scena non direi: abbiamo ripresentato la proposta che avevamo presentato in Commissione. La nostra linea in materia costituzionale è chiarissima. L'abbiamo esposta nel nostro Comitato centrale, nel nostro Congresso, ogni volta pubblicamente, come forse nessun partito ha fatto. Pensiamo di dover riproporre quelli che sono gli elementi fondamentali della nostra linea, salvo a concordare la nostra azione con gli altri Gruppi, nella misura in cui può essere trovata una soluzione che abbia l'appoggio non solo del nostro, ma anche degli altri partiti dell'Assemblea.

Sorpresa no, e, tanto meno, motivo di allarmismo. Crediamo di aver dato più di una prova che consideriamo la Costituzione come una cosa seria. Crediamo che nessuno dubiti, qua dentro, che consideriamo come una cosa seria anche il socialismo. E nessuno dei comunisti crede che il socialismo si possa istituire o introdurre di soppiatto attraverso un emendamento nella Costituzione italiana. La questione è molto più semplice.

Noi abbiamo ieri insieme deciso che questa nuova Repubblica deve garantire il diritto al lavoro. Ebbene, abbiamo voluto che si precisasse, che si dicesse che c'era soltanto l'intenzione, ma che ci fosse una indicazione sul modo come può essere garantito il diritto al lavoro. C'è il problema dell'intervento dello Stato, che ha spaventato tanta parte della nostra stampa e che pare abbia spaventato qualche collega. Ma non è una cosa nuova: se ne parla anche in altri articoli. E a questo proposito non vale certo dire che la Costituzione non è un programma perché l'intervento dello Stato nella vita economica è la prassi di ogni giorno. È la prassi italiana e di altri Paesi, dove l'intervento è più efficace, più coordinato, più diretto. E questo non è solo dei paesi socialisti, ma di tutti i Paesi democratici che hanno sentito e sentono il bisogno di realizzare una politica economica con gli strumenti che sono a disposizione dello Stato, e di non farla giorno per giorno, ma di farla secondo un programma, secondo un piano. Forse questa parola può spaventare, ma quando un liberale inglese ha proposto un piano perché fosse data ai lavoratori una assistenza sociale, c'è stato chi si è opposto ed ha votato contro; ma nessuno si è scandalizzato del fatto che nel Parlamento inglese un liberale presentasse un piano, e lo chiamasse piano. In quasi tutti i Paesi ci sono piani di ricostruzione, piani periodici di coordinamento, di attività. Noi dovremmo augurarci di seguire i paesi che hanno questi piani e che coordinano le loro azioni economiche, piuttosto che spaventarcene.

La posizione dell'onorevole Corbino è spiegabile: è quella di un romantico del liberismo, è l'ultimo dei «moihani» (Interruzione dell'onorevole Corbino). Ma non vedrei, per altri banchi dove questi principî di intervento e regolamentazione sono accettati, che cosa possa esserci, che faccia paura ai colleghi, in questa nostra richiesta che non nasconde nessuna intenzione socialista.

Perché vogliamo allora questo emendamento? Vogliamo specificare e sottolineare che su un problema essenziale come questo noi intendiamo andare più in là di una semplice affermazione e vogliamo dimostrare almeno la nostra decisa volontà che sia realizzato ciò che proponiamo. Non è un emendamento socialista o comunista il nostro, non è un emendamento di partito, e perciò preghiamo l'Assemblea di accettare e comprendere lo spirito con il quale lo abbiamo formulato. Poiché la dizione stessa dell'emendamento ha sollevato qualche obiezione, dichiaro che là dove si parla di coordinare e dirigere l'attività produttiva, noi proponiamo che alla parola «dirigere» si sostituisca la parola «orientare»; e dove nella conclusione si parla di un piano che dia il massimo rendimento per la collettività, proponiamo che si dica: «un piano che assicuri il massimo di utilità sociale».

Con queste modificazioni noi presentiamo il nostro emendamento e ci auguriamo che i colleghi lo accettino.

Presidente Terracini. Ha facoltà di parlare l'onorevole Ghidini.

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione. Prima di esporre sistematicamente il pensiero della maggioranza, debbo dare atto all'onorevole Pajetta che effettivamente questo suo emendamento non può avere il carattere della sorpresa. Non lo ha in linea generica (perché effettivamente tutte le disposizioni del Titolo III sono impostate sul principio dell'intervento dello Stato sotto la forma del controllo e del coordinamento per quanto riguarda le private iniziative) e non l'ha in modo specifico perché effettivamente, come egli ha detto, l'onorevole Togliatti, davanti alla prima Sottocommissione, ha presentato un articolo il quale, in sostanza, corrisponde esattamente, persino nelle parole, all'emendamento proposto ieri.

La ragione per la quale la Commissione per bocca mia ha chiesto di prorogare ad oggi la sua risposta, non deriva dal fatto che si sia trovata di fronte ad una sorpresa. La ragione è che, siccome questo emendamento è molto importante, doveva essere preso in esame e studiato dalla Commissione. Non potevo io infatti esprimere una mia opinione personale, che se mai può essere effettivamente questa: che io sono favorevole ai piani, perché il piano rientra nel programma stesso del mio partito. Ma io qui, come persona, scompaio e sono soltanto la voce della Commissione. È questa la ragione per la quale ieri sera ho ritenuto doveroso di chiedere all'Assemblea che venisse sospesa la discussione per dare modo alla Commissione di studiare, di esaminare, e di decidere intorno a tale emendamento. È stata una richiesta provvida e onesta, perché una decisione di questo genere non può essere presa se non meditatamente.

Do così atto all'onorevole Pajetta che non v'è stata sorpresa in modo assoluto. Vengo ora alla opinione espressa dalla maggioranza della Commissione.

Essa ha ritenuto che la proposta di emendamento consista in una specificazione. Si specifica cioè il modo attraverso il quale si possa conseguire la certezza del lavoro per tutti i cittadini: voto che è nell'animo di tutta l'Assemblea. Ma si obietta: noi abbiamo votato la prima parte dell'articolo 31 che resta nei termini seguenti:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

In questa espressione «promuove le condizioni, ecc.» la Commissione pensa che sia già inclusa la speciale provvidenza in cui si sostanzia l'emendamento proposto dall'onorevole Pajetta, onde non sia necessario discendere ad una qualsiasi maggiore specificazione. Tanto più che il tema del piano fu già considerato dalla Commissione dei settantacinque, come lo era stato in precedenza dalla prima e dalla terza Sottocommissione, le quali ebbero presenti i piani economici come mezzi opportuni per assicurare non solo il maggiore impiego della mano d'opera, ma anche e specialmente la ricostruzione economica del Paese.

È appunto per questa ragione che fu scritto il capoverso dell'articolo 37 del progetto di Costituzione: tanto che, se fosse approvato, l'emendamento troverebbe sede più opportuna nell'articolo 37, dove il piano ha un'applicazione più ampia di quella del testo Pajetta.

Ad ogni modo, ripeto, il concetto del piano economico è già compreso nell'articolo 37.

Dopo tale constatazione, (è questa la domanda che si è posta la Commissione) giova ripeterlo espressamente, o invece è meglio lasciare le cose come sono, nel senso e pel riflesso che tutte le determinazioni possono diventare un limite, un vincolo, un legame, un impegno che potrebbe domani trovare resistenza nelle condizioni obiettive del Paese? Non è meglio attendere, per adattare il provvedimento alle contingenze del domani? La Carta costituzionale lo consente, mentre l'emendamento ne impone senz'altro l'applicazione. Gli articoli 31 e 37 aprono ugualmente le porte all'attuazione di queste misure. Meglio quindi lasciare al legislatore futuro di deliberare secondo le necessità e le possibilità del tempo.

Sono queste le ragioni per le quali la maggioranza della Commissione non accetta l'emendamento.

Presidente Terracini. Sull'emendamento in esame è stata chiesta la votazione per appello nominale.

Prima di provvedere alla votazione, consentirò agli onorevoli deputati che chiederanno di parlare di fare una dichiarazione di voto, con quella larghezza che l'importanza del tema consente.

Einaudi. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Einaudi. Nel dare un giudizio sull'emendamento proposto dall'onorevole Montagnana, mi sono trovato di fronte a due difficoltà. La prima è quella che non sono riuscito e non potevo riuscire a formarmi un'idea precisa di quello che potesse essere il significato delle parole «un piano il quale dia il massimo rendimento per la collettività». Suppongo che gli onorevoli proponenti si siano trovati di fronte alla medesima difficoltà, in quanto ho udito ora che essi l'hanno mutato nel senso di proporre un piano che dia la massima utilità sociale.

Essi hanno definito così quale sia lo scopo di un piano che dia il massimo rendimento per la collettività: il piano deve dare il massimo di utilità sociale.

C'è una difficoltà per intendere il significato da dare al fine che il piano dovrebbe proporsi: ed è una difficoltà non nuova. Intorno ad essa si discute da almeno centocinquant'anni, dal giorno in cui, per primo, il filosofo inglese Bentham ha esposto i concetti di utilità individuale e di utilità sociale ed ha fondato tutto il suo sistema economico sui principî medesimi.

La difficoltà intorno a cui invano si sono finora travagliate generazioni intere di studiosi è costituita da quello che, in linguaggio abbreviato, si dice essere il ponte fra l'utilità di un individuo e quella di ogni altro individuo.

Ebbene, questo ponte non si è ancora trovato. Noi possiamo apprezzare quale sia l'utilità che ogni singolo individuo conferisce al fine che vuole conseguire, ad ogni cosa di cui si vuole appropriare, ma nessuno di noi è riuscito a sapere quale sia il significato che una collettività, anche di sole due persone, può dare all'utilità non dei singoli, ma dell'insieme dei due. Non è possibile fare la somma, né aritmetica, né algebrica, né organica, né di qualsiasi altra maniera, delle utilità di due individui realmente diversi. È questa una difficoltà intorno alla quale si sono travagliate generazioni di studiosi, di uomini di prim'ordine. Ma ancora essa persiste. È una delle tante difficoltà che esistono nello studio della scienza dell'economia politica.

Tale difficoltà esistendo, io non riesco a comprendere quale possa essere il significato di un piano il quale sia indirizzato a dare il massimo di utilità sociale.

Saranno i legislatori i quali diranno a noi quale sia questo piano che dia il massimo di utilità sociale. Ma io credo che sia pericoloso, ed anche un po' senza contenuto preciso, scrivere nella legislazione una massima della quale nessuno finora, ripeto, in 150 anni di ricerche, sia mai riuscito a trovare il significato preciso.

Una norma la quale non ha significato è una norma per definizione anticostituzionale ad arbitraria. Qualunque interpretazione darà il legislatore futuro alla norma, essa sarà valida. Nessuna Corte giudiziaria potrà negarle validità, perché tutte le leggi di interpretazione saranno conformi a ciò che non esiste.

Ma passo oltre a questa difficoltà, la quale potrebbe non sembrare conclusiva a uomini politici. I politici potrebbero dire: affermiamo un principio, anche se questo è senza senso, in quanto penseranno i legislatori del futuro a dare quel senso che ad essi piacerà meglio.

Ma ciò dicendo, noi lasciamo questo principio, come dicevo prima, all'arbitrio del legislatore futuro.

C'è però un'altra difficoltà alla quale io mi sono trovato di fronte nell'esaminare il principio stabilito nell'emendamento: ed è che esso soffre della medesima interpretazione limitatamente benevola che si deve dare a tutti gli sforzi di coloro che vogliono conciliare l'inconciliabile.

Se i colleghi mi permettono, vorrei ricordare quella che è l'esperienza quasi semisecolare di insegnante di una facoltà giuridica.

La maggior parte degli scolari diligenti, quando apprestano le tesi di laurea, si trovano di fronte alla difficoltà delle opinioni diverse delle fonti studiate. C'è l'illustre autore A il quale ha un'opinione (tutti i professori sono illustri o sono chiarissimi, a seconda di una certa gerarchia che si forma fra di essi, e comunque non sono mai meno di egregi) mentre ci sono altri egregi uomini i quali sostengono una opinione B. Ed allora lo scolaro diligente cerca di trovare una conciliazione, quella cioè che si chiama la via di mezzo fra le diverse opinioni divergenti. Ed allora, per lo più, le commissioni di laurea, le quali apprezzano la diligenza e non vogliono far sì che essa non sia compensata, si spingono fino agli estremi a cui possono arrivare, ossia fino al 98 che è il gradino inferiore ai pieni voti legali, ma non arrivano ai pieni voti legali, in quanto questi ultimi suppongono una sintesi, vale a dire un'opinione personale.

Orbene, questo emendamento, unito con i primi due commi dell'articolo 31, che noi abbiamo già approvato, mi ha l'aria di integrare un componimento diligente da parte di uomini egregi e studiosi i quali cercano di trovare una conciliazione fra principî che sono fra loro fondamentalmente contraddittori. Noi abbiamo, nel comma secondo, già approvato, stabilito alcune parole le quali contraddicono ad una parte del medesimo comma, ma contraddicono ancora più apertamente all'emendamento che ci è presentato.

Abbiamo dichiarato infatti che ogni cittadino ha il dovere di svolgere una attività od una funzione ecc. ecc. «conformemente alla propria scelta».

Queste parole «alla propria scelta», già da noi approvate, rendono logicamente impossibile di approvare altre parole le quali dicono che la scelta deve esser fatta da qualcun altro, che è lo Stato! C'è una contraddizione insanabile fra un piano che procede dall'alto, come quello insito nell'emendamento presentato al nostro esame, e le parole già da noi approvate, «alla propria scelta».

Lo Stato fa un piano: questo stabilisce che quella data industria in quella data località dovrebbe impiegare 50.000 operai, ma gli operai per propria scelta non sarebbero 50.000 ma solo 10, 15, 20 mila. Quindi il piano che è formulato dall'alto è di impossibile applicazione. Non può essere applicato poiché, se noi lasciamo alla libera scelta dell'individuo — come abbiamo già stabilito — la scelta della professione o del mestiere o comunque dell'attività di questo individuo, non possiamo poi affidarci al puro caso allorché abbiamo bisogno di impiegare in una industria 50.000 operai e di investirvi per esempio i 50 od i 100 milioni od il miliardo di lire di capitale che sarebbero necessari per realizzare il piano stabilito. Nella maggior parte dei casi tali elementi non coincideranno affatto e il piano sarà di impossibile applicazione.

Il che vuol dire che se un determinato piano deve essere imposto dall'alto, se questo piano è imposto dallo Stato ed investe l'intera economia del paese, il piano non può logicamente e di fatto consentire la libera scelta della professione, del mestiere o dell'arte da parte dell'individuo.

Quindi, adottando l'emendamento, noi verremmo implicitamente a negare il principio, che noi stessi abbiamo già ieri affermato della «libera scelta».

Dovremmo ritornare su quel principio e stabilire invece il principio opposto: quello del lavoro coatto, degli eserciti del lavoro, che ho sentito ieri che era stato proposto da qualche collega. Fra il principio, da noi respinto, del lavoro coatto, degli eserciti del lavoro, e l'emendamento che è stato a noi presentato c'è logica connessione ma la stessa logica connessione non esiste tra il principio della libera scelta, da noi già approvato, e il principio del piano deliberato dall'alto per raggiungere — come ho detto prima — un fine che è di impossibile ed illogica definizione e che, se sarà definito, lo sarà dall'arbitrio del legislatore.

Io mi chiedo poi se valga la pena di stabilire un principio di piano «generale» quando il principio dei piani è antico quanto il mondo ed è stato sempre usato: sempre, in tutte le epoche storiche e in tutte le forme di economia, si sono fatti dei piani. Il piano lo fa il padre di famiglia quando deve coordinare l'insieme delle sue entrate e delle sue spese e deve distribuire le sue spese a seconda delle esigenze familiari. Anche questo è un piano. Un piano lo presenteranno da qui a pochi giorni gli uomini del governo col bilancio preventivo per il 1947-48. Anche questo è un piano. Nessuno si è mai meravigliato che lo Stato facesse per le cose sue dei piani. In tutte le forme dell'economia si son fatti dei piani e sempre coloro che li hanno fatti hanno avuto maggiore o minor successo a seconda della abilità con cui essi questi piani avevano congegnato.

Sono contrario al principio generale dei piani complessivi da formularsi dallo Stato. Non vediamo noi forse, non abbiamo forse sotto i nostri occhi i risultati, tutt'altro che piccoli, degli innumerevoli piani i quali sono stati attuati in concorrenza ed in collaborazione da individui privati e dallo Stato attraverso i secoli e anche negli ultimi tempi?

Io non so se molti di voi ricordano, come ricordo io, le condizioni agricole in cui si trovava l'Italia nel tratto da Pisa a Roma. Nel 1891 feci il primo viaggio da Torino a Roma traversando la Maremma e poi la campagna romana. Lo spettacolo che si apriva dinanzi agli occhi era allora davvero desolante. Adesso chi compie il medesimo viaggio si trova di fronte ad una situazione ben diversa, frutto di innumerevoli piani di lavoro che sono stati compiuti da individui, da enti pubblici, dallo Stato, e che hanno trasformato completamente la faccia esteriore di quel territorio. Invece delle lande deserte che si stendevano sino alle porte di Roma noi possiamo oggi contemplare aziende rurali private e pubbliche, che io credo siano non solo tra le prime, ma le prime del mondo. Non esiste infatti in nessun paese del mondo un complesso di aziende così grandemente perfezionato che dia altrettanta produttività economica: in nessuna parte del mondo si ritrova un complesso di aziende che possa sostenere il paragone con quello che vediamo alle porte di Roma.

Tutta l'Italia, del resto, è cosparsa di aziende rurali che sono il frutto di piani sapienti condotti fin dall'antichità; non piani ordinati dall'alto, ma adattati caso per caso alle esigenze delle località.

Esiste in qualche paese del mondo una zona che possa stare al paragone della Lombardia per perfezione di agricoltura, per ricchezza di prodotti, per ricchezza di strumenti tecnici? Esiste al mondo una regione nella quale gli investimenti di capitali siano stati nei secoli così intensi e trasformatori da eccedere persino il valore presente della terra? Eppure la Lombardia per ben due volte nella sua storia fu tratta dal nulla economico alla floridezza. La prima volta quando Annibale si affacciò dalla cerchia delle Alpi; e la seconda volta verso il 1000 quando la barbarie medioevale stese il suo velo funereo su tutta l'Europa. La Lombardia era diventata tutta una palude, cosparsa qua e là di foreste. E se una prima e di nuovo una seconda volta la Lombardia è tornata ad essere quella che oggi è, ossia il giardino d'Europa e forse il giardino del mondo, ciò si deve all'iniziativa individuale entro la cornice di una appropriata legislazione. Quale fu la legislazione che consentì agli agricoltori di trasformare la faccia della terra da un complesso di paludi miasmatiche all'intenso rigoglio di terre stupendamente coltivate? Il risultato, per quanto ha tratto all'intervento statale, si deve a due leggi, a due piccole leggi. Una si chiama la legge dell'acquedotto che esisteva già nel diritto romano e fu ripresa negli statuti dei liberi comuni lombardi. Per essa il proprietario di una sorgente d'acqua che si trovi lontana dai suoi terreni ha il diritto di portare l'acqua passando attraverso il terreno altrui, purché paghi l'indennizzo per il terreno che occupa per portare l'acqua, e ciò anche senza il consenso dei proprietari dei terreni che sono attraversati.

In virtù di questa semplice norma legislativa, che costituì la cornice entro la quale si poté sviluppare l'opera del proprietario, la irrigazione in Lombardia ebbe uno stupendo sviluppo; e quei terreni non furono più campi inquinati di acque nelle quali si seminava di quando in quando il riso con scarsissimi prodotti, ma terreni pianeggianti, così profondamente diversi da quelli che precedenti da non avere con essi alcun rapporto.

Un'altra legge cornice, entro la quale si sviluppò l'attività privata che trasformò la Lombardia, fu dovuta ad alcuni economisti italiani del 18° secolo; essa sanciva che coloro i quali avessero migliorato i loro terreni potevano godere il frutto dell'incremento di reddito senza pagare un sovrappiù d'imposta. È questa la legge che Carlo Cattaneo definì legge civile in confronto alle barbare leggi che in altri paesi colpivano il reddito appena colto, e fu quella che incoraggiò la trasformazione e il miglioramento dei terreni.

Noi non abbiamo bisogno di piani complicati imposti dall'alto e di assurda applicazione, in quanto almeno uno dei fattori produttivi si comporterà sempre in modo diverso dal previsto; senza contare che, finché è sancita la libertà di scelta delle professioni, almeno uno dei fattori sarà disponibile in quantità diversa da quella decretata dai piani. Le leggi di cornice che stabiliscono limiti all'iniziativa privata favoriscono sempre l'iniziativa individuale e fanno sì che questa possa svolgersi completamente; i piani generali dall'alto la mortificano.

Debbo chiedere venia ai colleghi di diverse opinioni politiche se forse non rendo eccessivo omaggio alla novità del sistema dei piani che vengono dall'alto, che essi auspicano. I piani dall'alto non sono una novità ma una cosa antica quanto il mondo e in tutte le carte di tutti i principi (non dell'epoca illuministica, perché allora incominciava la critica) dell'epoca di decadenza, che venne dopo quella la quale spinse l'economia italiana nel 1200 e 1300 a fastigi mai prima raggiunti, essi diventarono comuni: e furono allora e saranno di nuovo in avvenire — se essi saranno nuovamente applicati — non uno strumento di elevazione sociale ed economica, ma uno strumento di oppressione politica.

Fu durante i secoli dalla fine del '500 alla metà del '700 che quei piani di riorganizzazione economica provenienti dall'alto si fecero più frequenti, e non un editto si può leggere di quell'epoca nel quale non sia detto che i principi volevano recare benefici ai sudditi e volevano promuovere l'economia restringendola entro vincoli che allora si chiamavano corporazioni d'arti e mestieri: illegittime eredi, queste, delle vere corporazioni libere che esistevano nel 1200 e nel 1300.

Presidente Terracini. Onorevole Einaudi, ascoltiamo volentieri queste sue considerazioni; ma la sua, come dichiarazione di voto, mi sembra troppo ampia.

Einaudi. Concludo: i piani imposti dall'alto sono sempre stati, nei secoli scorsi, antesignani di servitù politica e di schiavitù economica.

Ho sentito ricordare con accento di critica la legge Chapelier, che meglio si dovrebbe far risalire a Turgot, la quale aboliva le corporazioni di arti e mestieri.

Tengo a dichiarare che quella legge sopprimeva piani che avevano arrecato il maggior danno all'economia pubblica ed avevano tenuto basso il tenore di vita delle classi lavoratrici. La legge abolitrice delle corporazioni dopo del piano generale non era diretta contro le classi lavoratrici; anzi era antesignana della libertà di coalizione, della libertà di sindacato, della libertà di sciopero.

Io che sono favorevole alla libertà di scelta ed alla libertà di sindacato, non da oggi, ma da quando ho cominciato a scrivere in questa materia, dal 1898, dico che dobbiamo continuare a salutare storicamente con plauso quella legge abolitrice delle corporazioni di arti e mestieri, perché essa sopprimeva la schiavitù ed iniziava un nuovo periodo di libertà nel mondo e di elevazione delle classi lavoratrici.

Noi, che vogliamo l'elevazione delle classi lavoratrici, vogliamo conservare il principio della libertà di scelta e siamo contrari all'emendamento, che questa libertà di scelta logicamente e necessariamente nega. (Applausi).

Foa. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Foa. A nome dei miei colleghi di gruppo dichiaro che noi voteremo a favore dell'emendamento in discussione.

Colgo l'occasione di questa dichiarazione di voto per dichiarare all'Assemblea, come firmatario dell'emendamento in discussione ed essendo, in certo senso, responsabile di aver dato inizio a questo dibattito col mio emendamento di ieri, di essere grato all'onorevole Einaudi e all'onorevole Pajetta, per avere essi contribuito a spostare questa discussione da quell'atmosfera di drammaticità, che sembrava dovesse assumere all'inizio della seduta, a giudicare dai commenti della stampa di stamane, e per avere elevato il dibattito in una sfera serena.

Effettivamente non vi è stata, da parte mia, nessuna intenzione di insinuare nella Costituzione un elemento che risolvesse a pro dell'una o dell'altra parte un dibattito ideologico o programmatico essenziale, che pensasse, cioè, di risolvere il problema fondamentale che angustia molti di noi, quello della libera iniziativa e dell'intervento statale.

Mi richiamo a quanto dissi ieri e che suppongo possa avere trovato risonanza nel fondo dell'animo vostro. Vi è oggi un problema centrale: vi sono delle necessità di intervento, che qualunque persona responsabile, a qualunque partito appartenga, non può disconoscere.

Ma noi sappiamo quanto questi interventi siano caotici ed empirici ed esposti alla pressione di interessi particolari ed oligarchici.

Noi pensiamo che si debba dare ordine a quel tanto di intervento pubblico che è necessario nell'economia moderna.

Sono grato all'onorevole Einaudi di aver chiarito un punto importante. Egli ha detto: il bilancio è un piano finanziario. Esatto. Io ricordo che lo Statuto Albertino ed in genere gli statuti e i patti costituzionali moderni prevedevano l'impegno statale di fare il piano finanziario, perché la materia dell'intervento statale in campo finanziario era talmente delicata, che si richiedeva la sua pianificazione, come una garanzia democratica.

Questa è stata una conquista dello Stato democratico moderno: la formazione del bilancio prevista dalla Costituzione.

A distanza di cent'anni da allora, le necessità dell'intervento pubblico dello Stato, in materia economica, si sono talmente accresciute — e tutti noi sentiamo l'acuto disagio del disordine, del caos che presiede alla condotta economica degli enti pubblici — che l'esigenza di piani in questa materia non è una questione ideologica ma è una esigenza di ordine e, direi anche, di giustizia. Bisogna legare questo intervento ad una destinazione sociale affinché esso non sia più manovrato da interessi particolari.

Questo è lo scopo principale dell'emendamento presentato e per cui abbiamo, successivamente, aderito all'emendamento del collega Montagnana e degli altri firmatari, connettendo la richiesta di questa pianificazione, cioè di questo ordine nell'intervento, al diritto al lavoro.

Io sono anche grato all'onorevole Einaudi per aver ricordato alcuni principî di scienza economica e per avermi dato modo di constatare, in questo caso, che la scienza non è in contrasto con la mia coscienza. Devo dire che quando l'onorevole Einaudi ci ha ricordato la formula del massimo rendimento, i suoi dubbi erano da me condivisi. Ma sul punto della massima utilità sociale, circa la incomparabilità delle sensazioni dei vari soggetti economici, il senatore Einaudi stesso ci ha insegnato che quella formula, che gli economisti inglesi esprimevano sinteticamente colla frase «no bridge», ha un valore puramente teorico. Queste disquisizioni teoriche, gli stessi economisti che le facevano, ammonivano di non farle sul piano pratico, perché qualunque legislatore, qualunque amministratore avesse voluto portare sul terreno pratico la formula del «no bridge» sarebbe rimasto paralizzato nella sua azione economica.

E quando vediamo la necessità anche nel campo internazionale di distribuire le scarse risorse che abbiamo secondo una graduatoria, di importanza e di urgenza, che cosa sono queste graduatorie se non graduatorie obiettive di bisogni?

E in un paese talmente arretrato in fatto di consumi, come è l'Italia, io mi domando se la coscienza pubblica non riconosce che esistono dei bisogni che si possono valutare obiettivamente e che nessuna scala di valutazioni soggettive sul libero mercato potrebbe esprimere, perché vi sono delle categorie di consumatori che non possono, per mancanza di mezzi e per mancanza di possibilità di consumo, esprimere i loro bisogni particolari sul mercato. Per cui l'esigenza di questi bisogni non può essere che oggettiva, cioè sottoposta a un piano di graduatoria, sottoposta ad una valutazione sociale.

Questa deve essere la coscienza del Paese quando si tratta di sollevare delle zone depresse o delle categorie depresse. In questo caso non c'entra più il problema della non comunicabilità fra la psiche di un soggetto e quella di un altro. Noi sappiamo che quei bisogni ci sono e la coscienza pubblica riconosce che devono essere soddisfatti. Questo è il problema del piano come noi lo poniamo. Non è un contrasto fra il piano e l'iniziativa, è una necessità per mettere ordine e giustizia in queste materie vitali. Questo bisogno è veramente diffuso dappertutto.

Non so se l'emendamento sarà approvato, ma ho speranza che nel fondo delle preoccupazioni da me espresse vi sia qualcosa che può essere comune a tutti i partiti, sopratutto a quei grandi partiti maggiormente responsabili perché esponenti delle grandi masse popolari. Se questo fondo comune esiste, io mi auguro sinceramente che un punto d'accordo possa essere trovato in prosieguo: la Costituzione italiana deve portare traccia di questa esigenza, che è di tecnica moderna e di giustizia sociale. (Applausi a sinistra).

Belotti. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Belotti. Sarò brevissimo, in quanto intendo limitarmi a completare quello che ha detto l'onorevole Pajetta nel suo intervento chiarificatore. Egli non è stato completo. Forse ha letto solo la relazione dell'onorevole Togliatti, ma non ha letto un'altra relazione apparsa negli Atti della Commissione per la Costituzione.

A pagina 109 del volume secondo si legge, nella relazione presentata alla terza Sottocommissione dallo stesso suo compagno di partito, onorevole Antonio Pesenti:

«Da un punto di vista di fatto è chiaro che soltanto un'organizzazione sociale basata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e su di un piano economico dell'investimento e della produzione può assicurare la realizzazione del diritto al lavoro, intese appunto non come affermazione morale, ma come obbligo giuridico dello Stato a procurare lavoro».

Da questo deriva, forse, che tale principio non debba essere sancito in una Carta costituzionale moderna di uno Stato basato sulla proprietà privata? Mi pare di no. Io penso che tale principio debba essere sancito anche nella Carta costituzionale nostra. Il principio del diritto al lavoro in una società in cui sia ammessa la libertà di investimento dei mezzi di produzione diventa un obbligo generico, una indicazione in favore di una politica di piena occupazione e di spesa pubblica, cioè di intervento dello Stato nella vita economica, con varie forme tendenti, nel loro complesso, al raggiungimento di tale meta, per quanto essa sia possibile nel sistema capitalistico di produzione e ciò in netto contrasto con i criteri informatori della politica economica della società capitalistica di concorrenza che hanno ovunque prevalso nel passato. Questo principio, qualora venisse sancito nella Costituzione, oltre a costituire una precisa indicazione di politica economica e affermare una esigenza della coscienza popolare moderna, avrebbe inoltre conseguenze giuridiche importanti. Da esso, e non da altri, può derivare il principio del diritto al riposo retribuito ed alla protezione sociale, intesa non come organizzazione assicurativa mutualistica di carattere privato — sia pure con riconoscimento e controllo statale — ma come preciso obbligo della società di garantire un minimo di vita e di difesa sociale a chi, per colpa non sua o per inabilità, non ha il lavoro a cui avrebbe diritto. Ecco perché anche nella nostra società è bene affermare il diritto al lavoro. Se esso, nella sua forma principale, non è immediatamente attuabile, sta tuttavia alla base di diritti sussidiari, sostitutivi, che possono essere immediatamente realizzati».

Questa tesi, e non quella dell'onorevole Togliatti (evidentemente ispirata al paradigma sovietico), era prevalsa in seno alla Commissione plenaria. L'articolo 37 (secondo comma) del progetto di Costituzione detta appunto: «La legge determina le norme e i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali».

Condivido le eccezioni che sono state mosse all'emendamento aggiuntivo proposto dagli onorevoli Montagnana ed altri, sopratutto per quanto riguarda la sua conciliabilità col secondo comma (già approvato) dello stesso articolo 31, il quale sancisce il dovere per ogni cittadino di svolgere un'attività o una funzione «conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta». Indubbiamente, il governo di uno Stato totalitario può garantire lavoro ai proletari disoccupati, imponendo ad essi l'esecuzione di opere utili alla collettività, ma che, dal momento che esse implicherebbero troppo gravi sacrifici per i singoli, nessuno accetterebbe di compiere in regime di libertà. Un Governo può far costruire ferrovie e canali in «tundre» desolate e flagellate da tempeste di neve, o in terreni paludosi, valorizzando sì regioni ricche di materie prime, ma con enorme spreco di vite umane. Una pianificazione integrale imposta dall'alto postula una elefantiasi burocratica che può essere spinta fino al soffocamento della libera scelta del lavoro e della libera iniziativa, molle del progresso sociale. Nella Russia Sovietica, ad esempio, com'è noto e documentato dal Codice Sovietico del lavoro, la distribuzione del lavoro non è riservata alla spontanea scelta individuale: è una funzione sociale, è una prerogativa esclusiva dello Stato imprenditore. Noi non abbiamo paura delle parole, ma siamo avversi a una pianificazione integrale ispirata a quel «produttivismo» che è nettamente in contrasto con la nostra concezione umana e cristiana dei diritti naturali e fondamentali della persona.

Come guarentigia del diritto di tutti i cittadini al lavoro, oltre al già citato secondo comma dell'articolo 37 del progetto di Costituzione, pare a me come all'onorevole Pesenti che possa bastare il primo comma (già approvato) dello stesso articolo 31, il quale detta:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

Per queste ragioni dichiaro che voterò contro l'emendamento Montagnana. (Approvazioni al centro Commenti a sinistra).

Corbino. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Corbino. Io credo che mai come oggi noi abbiamo motivo di rallegrarci di far parte di un'Assemblea di uomini liberi, in cui una questione che avrebbe potuto presentarsi con caratteri di una notevole gravità è stata, si può dire, immediatamente e lealmente svelenita della sua portata preoccupante dalle dichiarazioni che, all'inizio di questa discussione, ha fatto uno dei presentatori dell'emendamento sul quale discutiamo. Perché l'onorevole Pajetta dovrà convenire con me che, nella forma e nel contenuto, le modificazioni che egli propone sono veramente rilevanti rispetto all'emendamento proposto ieri, emendamento che ripete una proposta fatta dall'onorevole Togliatti in sede di Sottocommissione.

La preoccupazione sorta in taluni, che si fosse voluto tentare, diciamo così di straforo, di introdurre il socialismo e il collettivismo nella nostra Costituzione, nasceva un po' dal contenuto dell'emendamento inizialmente presentato, ma soprattutto dal fatto che esso era stato presentato, dirò quasi, non all'ultimo momento, ma all'ultimo giorno della discussione. Io penso che appunto perché questa proposta aveva avuto l'autorevole battesimo da parte dell'onorevole Togliatti, in seno alla seconda Sottocommissione, avrebbe dovuto, dai colleghi di quei banchi, essere presentata prima. Certamente essa non avrebbe destato la sorpresa e l'imbarazzo che sono derivati esclusivamente dall'ora relativamente tarda di presentazione. Questo desidero dire perché ci si renda conto che, quando noi dichiariamo di essere contrari all'emendamento in parola, non vogliamo escludere le ragioni umane che questo emendamento possono aver suggerito, e vogliamo soltanto collegarci all'interpretazione della Commissione che cioè, nel contenuto degli articoli 31, nella parte già approvata, e 37, nel testo proposto dalla Commissione, la parte sostanziale dell'emendamento si deve considerare come già implicitamente affermata. Non è, badate bene, una questione di liberismo o di intervento integrale dello Stato. Non c'è una differenza così grave tra liberismo e non liberismo od interventismo che non possa, sul terreno della libertà politica, trovare volta per volta la sua soluzione di compromesso, perché voi non potete concepire una società organizzata a Stato, in cui lo Stato sia interamente liberista perché altrimenti esso cesserebbe di essere Stato.

Non si può concepire un'organizzazione sociale in cui lo Stato voglia fare tutto, anche nell'ipotesi illimitata, perché non si potrà mai togliere ai cittadini il diritto di uccidersi (Commenti), il che manderebbe a monte il diritto dello Stato di mantenere dei vincoli ad ogni costo. Ecco perché il problema dell'intervento e della libertà sul terreno economico, quando se ne parla in quest'aula, non è problema di economia politica ma è problema di politica in senso stretto e può benissimo accadere, onorevole Pajetta, che l'onorevole Corbino, liberista, in determinate circostanze, possa andare anche al di là di quanto non possa andare l'onorevole Pajetta che ha l'intervento puro come principio, come prassi.

Quel che ci aveva un po' preoccupati era la forma originaria: «lo Stato interviene per coordinare e dirigere secondo un piano». Coordinare e dirigere secondo un piano significava sottoporre allo Stato il controllo completo della vita economica e politica, collettivamente e singolarmente intesa, della Nazione. Nella forma attenuata con cui l'emendamento è presentato oggi, esso fa sorgere un solo problema, quello della definizione del massimo di utilità sociale, problema che, come l'onorevole Einaudi ha luminosamente dimostrato, è teoricamente irresolubile, e praticamente si risolve col trionfo di una parte politica sull'altra. Infatti volete voi che qualcuno chieda l'intervento dello Stato per dire: «Vogliamo che lo Stato intervenga perché questo è il nostro interesse»? Ma non troverete nessuno che farà questo, nessuno che domanderà dei milioni o dei miliardi perché apertamente vadano a beneficio di portafogli privati. No. Tutte le richieste allo Stato sono sempre poggiate sul presupposto che, accedendo a esse, si fa l'interesse collettivo. Se voi leggete tutti gli atti parlamentari, tutti i documenti che pervengono per richieste di dazi doganali, o di intervento di qualsiasi genere, troverete sempre la frase: «È nell'interesse della Nazione che questo si faccia». È così che i cotonieri nel 1887 chiesero e ottennero protezioni doganali superiori a quelle che sarebbero state logicamente necessarie in quel momento, e che la siderurgia pesa da 60 anni sull'economia italiana, nel nome dell'interesse generale, e tante e tante altre forme di parassitismo, o di parassitismo non solo...

Di Vittorio. Tutto ciò si è fatto in Italia senza piani.

Corbino. Onorevole Di Vittorio, le posso dire che non è così, perché se lei vede tutti gli atti delle Commissioni parlamentari che hanno portato alla concessione dei dazi doganali nel 1883, nel 1887, nel 1892, nel 1903, non troverà la parola piano adoperata nel significato moderno della parola, ma ci troverà il contenuto di un piano, perché lì si parla di sviluppi di industrie collaterali e coordinate a necessità di carattere militare, di industrie da fare sviluppare perché vi sono delle maestranze da impiegare, di intervento che lo Stato deve assicurare per garantire determinate situazioni locali, e non già di piano nella forma organica con cui se ne parla oggi (il piano quinquennale, il piano quadriennale). Ma, come ha detto l'onorevole Einaudi, questi piani non sono mai realizzabili al punto in cui sarebbe desiderabile che lo fossero, anche rispetto a coloro che li propongono, perché il mutare dei tempi in politica ed in economia, è così rapido che le ipotesi inizialmente poste, perché il piano si svolga in tutta la sua interezza, si mutano strada facendo. Quella dello Stato quando vuol fare i piani, è un po' la posizione di quel cacciatore di cui si dice che, essendo distratto, andava a caccia dimenticando sempre qualcosa; un giorno le cartucce, un giorno la borraccia, un giorno la colazione, un giorno il fucile, ma tornava sempre con la cacciagione. Una volta sola aveva portato con sé tutto, ma rientrò senza caccia per il solo fatto che avendo dimenticato il portafoglio, non poté comprare la cacciagione che abitualmente portava come risultato delle sue avventure.

Ed allora io richiamo la vostra attenzione sugli effetti politici ed economici che derivano dall'impiego della parola «piano» nella nostra Costituzione, rispetto al significato che a questa parola si dà in altri paesi. Voi sapete meglio di me quale è la situazione economica italiana di carattere transitorio e quale è quella di carattere permanente; cioè sapete meglio di me che l'economia italiana è stata sempre strettamente collegata all'economia internazionale. Questo collegamento, nel periodo anteriore alla prima guerra mondiale, si manifestava, nei nostri riguardi, nei due aspetti differenti del collegamento fra l'Italia e l'estero, per gli stranieri che venivano in Italia, e per gli italiani che andavano all'estero. Si trattava di un movimento di nazionali e di stranieri, che aveva questo solo effetto: ne derivava a nostro vantaggio una somma di ben 1200 milioni di lire del 1913, cioè a dire un qualche cosa che corrisponde a circa 350 milioni di dollari attuali, cioè 240 milioni di dollari del 1914. Ora, con questi 1200 milioni l'Italia pagava quello che non riusciva a comperare con le esportazioni delle sue merci. Fino a quando noi non riusciremo a riattivare queste due correnti di mezzi di pagamento, fino a quando noi non riusciremo a equilibrare meglio le nostre necessità di importazione con le possibilità di esportazione, noi dovremo sostituire queste fonti con le possibilità determinate dal mercato finanziario internazionale. Ora io non mi preoccupo di sapere da quale parte possano venire questi mezzi, non guardo né alla provenienza, né al tipo o alle caratteristiche dei prestiti che si potranno avere; parlo soltanto della struttura economica che noi vorremmo preparare, dato che, fino al giorno in cui non potremo essere autonomi sul problema dei rapporti internazionali, avremo bisogno di questi aiuti. Credete pure che oggi la parola «piano» intesa nel senso con cui era stata considerata nella prima ipotesi, è una parola che spaventa.

Lombardi Riccardo. È l'America che chiede dei piani.

Corbino. Siamo d'accordo, onorevole Lombardi, ma i piani che chiede l'America — me lo consenta l'amico Lombardi — non sono quelli che chiedeva l'amico Pajetta con il suo emendamento (Si ride Applausi al centro e a destra).

C'è una notevole differenza; io dico e affermo sostanzialmente con voi che è assurdo pretendere che lo Stato, nelle condizioni attuali, si possa disinteressare dello svolgimento della vita economica; sarebbe illogico, perché allora lo Stato non sarebbe più lo Stato. Questo stato con la s minuscola che se ne vuole andare noi lo facciamo andare, e gli sostituiremo un altro Stato con la S maiuscola, che si deve occupare della vita economica e sociale del Paese. E io sarò il primo a sostenere questa tesi con voi.

Ma, se sostanzialmente siamo d'accordo, cioè se tutti ammettiamo che l'attività dello Stato debba essere diretta al fine di ottenere, non dirò il massimo di utilità sociale in senso assoluto — che non esiste — ma quel massimo di utilità sociale che dalla classe dominante è volta per volta riconosciuto corrispondente alla definizione che dovremmo dare nella Costituzione, perché dobbiamo mettere nella Costituzione delle cose che ci potrebbero, in un certo senso, danneggiare e non ci gioverebbero proprio a nulla? Questa è la preoccupazione che ho nell'animo mio; perché, credete pure, noi liberali non vogliamo ostacolare la marcia del socialismo.

Non è questo un problema soltanto italiano; è un problema che travaglia tutti i popoli. È un problema in cui noi camminiamo come cammina una delle stelle della costellazione dell'Orsa Maggiore, insieme alle altre sei. Siamo in un'epoca nella quale noi abbiamo distrutto il fondo delle teorie liberali in materia economica — lo riconoscete anche voi questo — il liberalismo economico è stato distrutto, non esiste più. Sono contento che si faccia questa constatazione, perché vuol dire che il fallimento al quale assistiamo in questi giorni non è il fallimento dell'economia liberale, è il fallimento di un'altra economia. (Rumori e commenti a sinistra. Applausi a destra). Comunque, noi non abbiamo ancora sostituito alla vecchia economia liberale un'altra economia a basi salde; stiamo cercando, stiamo brancolando nel buio; speriamo che o il sole dell'avvenire, o la luna piena del presente ci consentano di uscir presto da questa situazione.

Ma se partiamo dal presupposto che l'interesse che tutti vogliamo tutelare, anche se non apparteniamo a determinati banchi dell'Assemblea, è l'interesse delle classi lavoratrici che, credete, pure stanno a cuore a noi come a voi; (Commenti a sinistra) credetelo pure, posso dirlo perché sono uno dei vostri, perché per provenienza appartengo a quelle classi lavoratrici che voi affermate di voler difendere e, se volessi passare all'altra classe, rinunziando allo scanno di deputato, lo potrei fare da domattina in avanti: se sono qui, ci sono per difendere con voi, sia pure da un altro punto di vista, l'interesse delle classi lavoratrici, con identità di buona fede, e sono convinto che nel vostro intimo, anche se apparentemente rumoreggiate un po' alle mie affermazioni, voi che tutti mi conoscete dovete ammettere che io ho ragione. Dunque, dicevo, se questo è l'intendimento di tutti — noi cerchiamo di fare una Costituzione che valga non per l'eternità, ma per lungo tempo — non vincoliamo l'azione dei governi futuri alla necessità di piani, nel significato odierno della parola: atteniamoci a quello che la Commissione, con l'articolo 31 e con l'articolo 37, propone ed eventualmente concordiamo pure un'integrazione dell'articolo 37 nel senso che è compatibile e conciliabile con tutti i punti di vista.

E facciamo che su un argomento che sta a cuore di tutti non si proceda a una votazione che ci divida: noi non dobbiamo dividerci sul terreno dell'amore alle classi lavoratrici, perché qui tutti abbiamo il diritto di pretendere che l'interesse di queste classi sia da tutti difeso in purità di fede. (Vivi applausi).

[...]

Presidente Terracini. Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana.

Taviani. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Taviani. Il gruppo democristiano voterà contro l'emendamento proposto dall'onorevole Montagnana. (Commenti a sinistra). Il nostro voto sarebbe sufficientemente motivato ove noi ci limitassimo a dire che l'emendamento stesso avrebbe dovuto essere presentato come sostitutivo della seconda parte del primo comma dell'articolo 31.

Infatti, dopo aver riconosciuto il diritto al lavoro a tutti i cittadini, il testo dice: «La Repubblica promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto.» Ora, in luogo di questa dizione, si sarebbe potuto adottare quella proposta dall'onorevole Montagnana. Qui sta la sorpresa della procedura adottata nella presentazione dell'emendamento. Devo infatti rendere atto all'onorevole Laconi che egli mi aveva privatamente avvertito che i comunisti avevano già predisposto un emendamento a questo articolo. Ma l'emendamento avrebbe dovuto essere sostitutivo del primo comma dell'articolo. Accettarlo ora, che il primo comma è già stato votato, significherebbe adottare due formule diverse per affrontare, risolvere, inquadrare costituzionalmente un identico problema.

Peraltro, noi non vogliamo trincerarci dietro ad una questione di forma e di procedura; e dichiariamo apertamente che la questione sollevata dall'emendamento presentato dagli onorevoli Montagnana e Pajetta coinvolge una sostanziale divergenza fra la concezione comunista dell'economia e la nostra concezione.

È per questa ragione che la mia dichiarazione sarà lunga, assai più lunga delle mie precedenti, che sono state tutte brevissime.

L'effettiva realizzazione del pieno impiego può implicare la necessità di un'integrale pianificazione dell'economia? Deve implicare l'accentramento di tutte le iniziative economiche sotto un'unica direzione che organizzi la produzione, ordini la distribuzione, determini ed imponga i bisogni anche individuali, elimini qualsiasi proprietà privata, qualsiasi libertà di iniziativa, tutto riducendo alla burocrazia di un complesso congegno collettivo?

Una voce a sinistra. Chi dice questo?

Taviani. Lo dico io. Effettivamente, l'attuazione, in senso assoluto, della politica del pieno impiego può implicare anche questo. Per una garanzia assoluta del pieno impiego, una politica economica di questo genere può essere necessaria. Necessaria, ma non sufficiente. Infatti, quand'anche una politica di questo genere dovesse ritenersi necessaria, non sarebbe sufficiente in un paese povero e sovrappopolato come il nostro, per il quale sarebbe più che giustificato dubitare che non sia possibile assicurare un pieno impiego se non si ricorra anche ad una forte e ordinata emigrazione. Tuttavia, anche quando un'integrale pianificazione dell'economia risultasse sufficiente, noi non riteniamo che in alcun caso ad essa si debba ricorrere e ciò per due motivi fondamentali: 1°) perché un'economia integralmente pianificata, e quindi collettivizzata, per quanto la si voglia e possa idealmente proiettare allo scopo del benessere collettivo e quindi anche del pieno impiego, lascia troppo facilmente la possibilità di cedere alla tentazione di indirizzarla ad altri scopi, come egemonie imperialistiche o privilegio di ristrette cerchie classistiche o ideologiche; 2°) perché un'economia integralmente pianificata sacrifica di necessità altri diritti della persona, altrettanto naturali ed originari quanto il diritto al lavoro, e, per esempio, il diritto all'appropriazione personale, al quale, con calorose parole, si richiamava ieri l'onorevole Zuccarini.

Ed è stato proprio nel discorso dell'onorevole Zuccarini di ieri che è stato citato Giuseppe Ferrari. Orbene, questo scrittore, pensatore, filosofo, economista del secolo scorso, perché è attuale ancora oggi? Non certo per il suo radicale anticattolicesimo; è ancora oggi attuale perché nella sua «Filosofia della rivoluzione», egli ha dimostrato l'impossibilità di conciliare l'assoluto principio della libertà con l'assoluto principio dell'eguaglianza.

Il principio della libertà, applicato in senso assolutistico, porta fatalmente a distruggere l'eguaglianza, come viceversa il principio dell'eguaglianza applicato in senso assolutistico porta a distruggere la libertà.

Questo ha dimostrato Giuseppe Ferrari, ed è effettivamente così.

Qualche cosa di simile si può dire di una politica economica che sia esclusivamente, e insisto su questo esclusivamente, orientata allo scopo di far lavorare tutti i cittadini.

Come si potrebbe realizzare tale scopo, se non attuando alcuni dei principî citati dall'onorevole Einaudi e per esempio: deportare masse di lavoratori da un luogo all'altro dello Stato?

Si dirà allora: perché avete votato il diritto al lavoro? Avete fatto un'affermazione platonica?

No, il riconoscimento di un diritto naturale dell'uomo al lavoro implica innanzi tutto per noi il diritto di lavorare (quel diritto che il regime hitleriano ha negato agli ebrei) ed implica l'impegno dello Stato a promuovere tutte quelle condizioni (si intende compatibilmente ed in armonia col rispetto degli altri diritti naturali dei cittadini) affinché sia assicurato ad essi il lavoro e quindi l'esistenza. Questo è uno degli scopi, se si vuole anche il primo scopo, ma non l'unico scopo, non l'unico fra i fini sociali, di cui parla l'articolo 37.

Si è parlato qui di piani che sono graditi all'onorevole Corbino e di piani che riuscirebbero graditi all'onorevole Pajetta. Noi non siamo contrari a ritenere che siano necessari anche dei piani economici formulati dagli organi pubblici, qualche cosa di più e di diverso dal piano economico individuale, a cui ha fatto riferimento esplicito l'onorevole Einaudi.

Noi non siamo affatto contrari, anzi desideriamo dei piani del tipo di quello Beveridge, ricordato stamattina dal collega Grieco; ma saremmo, per esempio, contrari a piani del tipo di quello quadriennale nazista, che cominciava proprio con questa affermazione: «il cittadino tedesco ha il diritto di pretendere che l'organizzazione statale del popolo trovi i mezzi e le vie per procurare lavoro al popolo».

Anche questo è stato un piano teso, almeno teoricamente, a soddisfare il diritto al lavoro, ed a questo non siamo favorevoli.

L'onorevole Nitti ha detto ieri che spesso falce e martello e aspersorio si son trovati d'accordo, alludendo ancora una volta a pretesi compromessi che sarebbero stati alla base del Titolo III.

Ora è bene ribadire che, se nella strada che intendiamo seguire c'incontriamo con altri che partono da punti diversi e che in un domani, forse non immediato, hanno mete diverse dalle nostre, noi non ci preoccupiamo e tanto meno ci dogliamo se possiamo insieme compiere qualche cosa di concreto o votare insieme una norma di legge. Ma, quando sulla nostra strada l'incontro non avviene, serenamente cerchiamo con azione democratica di far prevalere il nostro punto di vista. Ed è per questo che, dopo aver votato ieri, anzi dopo aver promosso assieme ai comunisti e ai socialisti l'affermazione del diritto al lavoro e l'impegno della Repubblica a renderlo effettivo, votiamo oggi contro l'emendamento Montagnana che, pur non affermandolo esplicitamente, apre la strada alla pianificazione integrale dell'economia. (Applausi al centro).

Giannini. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Giannini. Signor Presidente, onorevoli colleghi, noi dobbiamo essere e siamo molto grati sia ai presentatori dell'emendamento, sia agli altri onorevoli colleghi che hanno parlato, perché essi hanno aiutato e rafforzato la nostra tesi, cioè che in sede costituzionale non si può discutere una legge sul lavoro, e confermata la giustezza della nostra idea che di questo passo noi non arriveremo mai a finire i nostri lavori di costituenti entro il 24 giugno.

Ciò premesso, desidero rassicurare l'onorevole Pajetta: noi non siamo affatto sorpresi dell'emendamento che è stato presentato dal partito comunista. Se siamo sorpresi di qualche cosa è che solamente adesso è venuto il primo di quella serie di emendamenti che aspettavamo; e così pensiamo che i colleghi dell'estrema sinistra non saranno affatto sorpresi apprendendo che noi voteremo contro. (Commenti a sinistra).

I problemi concreti sono una cosa e qui si tratta di problemi di principio. Ma, colpo di scena o no, sta di fatto, onorevoli colleghi dell'estrema sinistra, che una rivoluzione sociale dell'imponenza di quella che non solamente voi volete fare, non si può fare per emendamento. Il vostro emendamento discende da una concezione dell'economia diametralmente opposta a quella nostra. Non ce ne possiamo sbrigare con la disinvoltura con cui si sbrigano quasi tutti gli emendamenti. È perciò che forse l'onorevole Pajetta ha dato all'onorevole Corbino un titolo ingiusto quando l'ha chiamato l'ultimo dei «moihani» (se mai sarà il penultimo, perché l'ultimo sarò io!). (Commenti).

Noi pensiamo che i piani ci sono sempre, come ha detto l'onorevole Einaudi e come ci ha precisato l'onorevole Corbino. Noi non siamo contro i piani; siamo contro lo Stato pianificatore, non abbiamo fiducia nello Stato commerciante, nello Stato industriale, nello Stato direttore. È una crisi di fiducia, miei cari colleghi! Noi vorremmo che lo Stato non ci vendesse nemmeno le sigarette e il tabacco, perché li troviamo a miglior prezzo e a migliori condizioni nella borsa nera che almeno, per quanto riguarda i tabacchi, è una cosa più seria del monopolio di Stato. (Commenti).

In queste condizioni di sfiducia, come potremmo affidare a questo povero Stato nientemeno che tutta la direzione della vita pubblica italiana? Sarebbe un assurdo. Noi siamo contro lo Stato pianificatore e riconfermiamo ancora una volta il nostro dissenso dottrinale, anche se su un terreno pratico e tecnico, nell'interesse dei lavoratori — perché siamo tutti lavoratori, pur negando noi l'esistenza di una classe lavoratrice — qualche volta abbiamo il piacere di trovarci d'accordo coi colleghi del partito comunista. (Applausi a destra).

D'Aragona. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

D'Aragona. Ho ascoltato con molta attenzione quanto è stato detto.

Tutti hanno affermato l'opportunità, la convenienza dei piani, ma quasi tutti hanno concluso col dichiarare che non voteranno questo emendamento.

Io penso che gli oratori che mi hanno preceduto e che si sono dichiarati contrari suppongano che questo emendamento nasconda delle cose molto gravi e pericolose.

Io questi pericoli non li vedo affatto.

L'onorevole Giannini dice: io non credo alla capacità dello Stato pianificatore. Ma l'onorevole Giannini deve però constatare che l'economia moderna va gradatamente diventando economia statale. È lo Stato che giorno per giorno acquisisce a sé nuove attribuzioni che sono di carattere economico. Noi in Italia siamo già proprietari, come Stato, di parecchie delle attività economiche del nostro Paese. Non può dunque negarsi che l'economia vada verso lo Stato, e coloro che si vogliono opporre a questa nuova forma di economia saranno travolti, perché l'economia si evolve nel senso di andare verso forme collettive e non verso forme individualistiche.

Tutta l'economia moderna va verso la pianificazione: tutti i Paesi del mondo sentono il bisogno di una pianificazione. Io ho la convinzione che se il nostro Paese, invece di aver perso due anni, avesse cominciato due anni fa ad avere il suo piano economico, probabilmente non sarebbe oggi nella condizione di dolore in cui si trova. (Applausi).

Cosa vuol dire questa pianificazione? Si devono fare delle ferrovie o delle strade? Si deve sviluppare l'industria cinematografica o l'industria turistica? L'industria della siderurgia o della tessitura? Quale di queste industrie, di queste attività economiche deve avere la precedenza? Questa è la pianificazione che deve fare lo Stato: è lo Stato che ha la visione generale del Paese, non la può avere il singolo individuo, perché ognuno vede il proprio egoismo e non vede l'interesse della collettività. Se voi domandate agli industriali tessili, essi vi diranno che l'industria più importante è quella tessile; ma se vi rivolgete ai siderurgici, vi diranno che è la siderurgia. Ma è lo Stato che deve avere la nozione esatta di quello che conviene alla collettività, cioè allo Stato; e deve quindi chiarificare quella che è la sua attività, il suo concorso ed il suo incoraggiamento per sviluppare una industria piuttosto che un'altra. Dovremo sviluppare per esempio le industrie dei beni di produzione o le industrie dei beni di consumo? È un problema che deve essere esaminato dallo Stato, non dai singoli individui. Ecco perché l'economia liberale individualistica va verso la morte. Ha ragione l'onorevole Corbino quando dice che l'economia liberale non c'è. Non c'è più perché è fallita, ed è fallita perché ha provocato una serie di guerre che hanno ridotto l'economia mondiale nelle condizioni in cui si trova (Applausi a sinistra). Ora vogliamo lasciare queste forme di pianificazione al capitalista monopolista? Il capitalista ha la sua pianificazione. Se domandate alla Montecatini, essa ha la sua pianificazione. Ma dobbiamo lasciare nelle mani dei privati, di elementi incontrollati, al capitalista monopolista la pianificazione in modo che essa sia diretta verso soluzioni di difesa dei loro particolari interessi, o deve invece intervenire lo Stato per chiarificare, per indirizzare questa pianificazione verso un risultato rivolto all'interesse dello Stato? Questa è la domanda che ci dobbiamo fare. Ripeto, noi non vediamo in questo emendamento quell'enorme pericolo che vi si vuol vedere. Tutti affermano la necessità della pianificazione; però, quando si arriva alla conclusione, si dice: «noi voteremo contro; è necessario non includerla nella Costituzione». Ma ci sono tante altre proposte che sono state incluse nella costituzione e che sono di carattere generale. Qui si afferma un principio: lo Stato ha il dovere, nell'interesse della collettività, di tendere a garantire ai lavoratori il diritto e la sicurezza di lavorare facendo la pianificazione. Questo mi pare di vedere nell'emendamento. Perché dobbiamo essere contrari? Ho sentito una obiezione fatta dall'onorevole Einaudi: «Ma noi abbiamo votato l'altro giorno la libera scelta: come è possibile conciliare la libera scelta, lasciata al lavoratore, con la pianificazione?» Io sinceramente non vedo il conflitto esistente fra la libera scelta e la pianificazione. Lo Stato (e noi abbiamo votato la libera scelta per questo) deve rispettare il diritto di libera scelta del lavoratore. Però lo Stato può indicare al lavoratore dove egli può trovare il lavoro e dove ha la possibilità di avere la garanzia del lavoro. È nella libertà e nella libera scelta del lavoratore di rinunziare a quelle garanzie; ma quando avrà rinunziato di sua iniziativa la colpa sarà sua.

Einaudi. Non è un piano, ma una statistica.

D'Aragona. Anche la statistica è un piano, perché senza la statistica non si fanno i piani. Quindi la statistica è un presupposto del piano. Ecco perché non riesco a comprendere questa enorme opposizione. La pianificazione economica in clima di democrazia parlamentare è quanto di meglio si possa desiderare. Dando all'emendamento questo significato e questa portata, il mio gruppo voterà favorevolmente all'emendamento in discussione. (Applausi).

Mazzei. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Mazzei. Il gruppo repubblicano voterà contro l'emendamento Montagnana.

C'è una precisa tradizione dottrinaria nel nostro partito, alla quale noi cerchiamo sempre, per quanto possibile, di attenerci scrupolosamente.

Le parole che si usano in un testo costituzionale devono essere usate in quella che è l'accezione corrente. Ora, il problema di questo emendamento è proprio nel senso che si dà alla parola «piano».

Noi repubblicani non siamo pregiudizialmente contrari all'intervento statale (Interruzioni Commenti), anche perché gli stessi teorici liberali hanno dimostrato ad usura che lo stesso liberalismo non esclude l'intervento statale: è questione di grado e di misura.

Si tratta, dunque, di vedere di quali «piani» si tratta: se si tratta d'una pianificazione generale e totale, la quale fa sì che lo Stato investa con la sua azione tutto il movimento economico-sociale; a questo, evidentemente, noi siamo contrari, perché non solo il pensiero repubblicano italiano, ma il pensiero repubblicano di tutta Europa è contrario a questa tesi.

Giustamente, Ortega, il grande repubblicano spagnolo, dice che uno dei maggiori pericoli, cui va incontro l'età contemporanea, è quello della «statizzazione della vita».

Noi non vogliamo statizzare la vita.

Ciò non significa che noi non sentiamo le preoccupazioni e le esigenze sociali che mirano a rendere il diritto al lavoro effettivo per tutti. Ché anzi, questo è tradizionale della scuola repubblicana italiana, di quella scuola che ha iniziato il movimento operaio in Italia e alla quale, quindi, nessuno può in buona fede rimproverare di non curare l'interesse degli operai, nemmeno i colleghi comunisti, i quali si associano alle tesi che loro fanno più comodo, in tante circostanze, e non vogliono permettere che noi appoggiamo una tesi perfettamente coerente con la nostra tradizione dottrinale. (Commenti a sinistra).

In particolare, io devo precisare: l'emendamento parla di garantire il diritto al lavoro.

Nei dibattiti svoltisi in seno alla Commissione dei settantacinque il diritto al lavoro è stato unanimemente concepito e voluto come un diritto potenziale, vale a dire come una esigenza etico-giuridica, che lo Stato riconosce valida, e che noi repubblicani siamo ben lungi dal non ritenere tale. Ragione per cui abbiamo votato con tutta tranquillità per il diritto al lavoro e per tutte le misure che lo Stato dovrà adottare, per renderlo più che possibile concreto e reale. Questa è una posizione. Quella, cioè, del diritto al lavoro come diritto potenziale. Altra posizione è quella del diritto al lavoro inteso come diritto positivo al quale si attribuisce una immediata e concreta garanzia, quale quella d'un piano economico, che, in questo caso, non può non essere inteso nel senso di quella pianificazione totale, che non possiamo accettare perché non siamo marxisti.

Ma c'è di più. C'è il fatto, per esempio, che l'articolo 37 ha un capoverso in cui, dopo l'affermazione: «Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere alla utilità sociale», si aggiunge: «La legge determina le norme ed i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate ai fini sociali».

Con questa norma dell'articolo 37 (che noi esamineremo e che noi repubblicani voteremo senz'altro) è assicurata la possibilità che lo Stato adotti tutti quei provvedimenti e quelle forme di programmazione economica che possono avere carattere sostanziale di piani, per fini determinati e contingenti. E che ciò sia effettivamente implicito nella predetta disposizione sta a testimoniarlo la esplicita dichiarazione dell'onorevole Ghidini, quale esponente della Commissione, il quale ha categoricamente affermato che il secondo comma dell'articolo 37 contiene un accenno chiaro alla possibilità di piani. Questo lo accettiamo di buon grado. Ma non si vede perché noi dovremmo inserire nella Costituzione un'ulteriore disposizione, che, fra l'altro, contraddice il comma immediatamente precedente dello stesso articolo 31, non solo per la possibilità di scelta del lavoro da parte dei cittadini, che potrebbe risultare pregiudicata, ma anche per la generale impostazione data al diritto al lavoro, come «diritto potenziale», e non già come «diritto positivo perfetto», come è ottimamente chiarito nella relazione dell'onorevole Pesenti, di cui l'onorevole Belotti ha letto il passo principale.

Debbo dire, infine — e con questo chiudo — che gli argomenti svolti dal collega ed amico onorevole Foa, che pure è uno dei firmatari dell'emendamento, rispondono ad esigenze che sono anche le nostre.

L'onorevole Foa, se non vado errato, ha detto: badate, quando ho aperto questa discussione, quando ho dato adito a questa interessantissima e brillante discussione, non ho voluto risolvere il problema del rapporto tra iniziativa economica privata ed iniziativa economica dello Stato. Non ho voluto risolvere questo problema; ho voluto semplicemente affermare l'esigenza che certi interventi statali che oggi sono disordinati ed episodici possano essere coordinati in un piano organico in modo tale che l'intervento statale, anziché essere rimedio a dei mali, non si traduca in un ulteriore aggravamento di questi mali.

Ebbene, questa esigenza è perfettamente assolta dal capoverso dell'articolo 37 che noi voteremo. Viceversa, se noi votassimo questo articolo, così come vorrebbero altri, daremmo la possibilità di un equivoco per via della parola «piano», di cui è nota l'accezione corrente. Sarebbe un equivoco del genere di quello che si sarebbe avuto se fosse passato senza emendamento quel primo capoverso dell'articolo 28 («La scuola è aperta al popolo»), in cui la parola popolo aveva un palese significato classista, del tutto differente dall'accezione in cui la parola «popolo» è presa nell'articolo 1 della Costituzione («La sovranità risiede nel popolo»).

Noi non vogliamo equivoci, perché vogliamo che i vari articoli della Costituzione siano ben chiari e fra loro coerenti e che i termini siano interpretati così come sono interpretati secondo il senso che ad essi dà la coscienza comune.

Per queste ragioni noi voteremo contro l'emendamento Montagnana. (Commenti).

Malagugini. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Malagugini. Il collega onorevole Foa si è detto lieto che gli interventi dell'onorevole Pajetta e dell'onorevole Einaudi siano valsi a sottrarre il dibattito a quella atmosfera di drammaticità dalla quale, a dar retta a certa stampa, avrebbe dovuto essere avvolto. Io preciserei che le parole del collega Pajetta sono state indirizzate a questo scopo, e l'hanno raggiunto, mentre — e sia detto con tutto rispetto e con tutta la venerazione dovuta all'insigne maestro — il discorso dell'onorevole Einaudi non ha certo contribuito a sdrammatizzare, mi si passi la locuzione, il problema; in quanto, pur essendo, come sempre, denso di citazioni, di esempi, di fatti, non ha sempre serbato quella serenità di giudizio e quella esattezza di riferimento che sono le doti più preclare dell'illustre economista.

Rileggiamo un po', se i colleghi lo permettono, l'emendamento proposto:

«Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare ed orientare l'attività produttiva, secondo un piano che assicuri il massimo di utilità sociale».

Mi pare sia questo l'emendamento nella sua ultima redazione.

Ora l'onorevole Einaudi, partendo dal presupposto — dal quale del resto è partito anche l'onorevole Corbino — che determinare il massimo di utilità sociale sia impossibile, è arrivato a questa conclusione: che noi lasciamo — ripeto le sue parole, e se ho annotato inesattamente lo prego di correggermi — «che noi lasciamo all'arbitrio del legislatore futuro di dare un senso alla frase». Ma perché, onorevole Einaudi, dobbiamo parlare di arbitrio del legislatore futuro? Mi scusi, il legislatore futuro chi sarà? Sarà il Parlamento, sarà l'Assemblea nominata dal popolo italiano in libere elezioni. Non sarà quindi un arbitrio il suo, ma bensì l'interpretazione della volontà del popolo italiano in quel determinato momento.

Non mi indugerò su quanto ha osservato l'onorevole Einaudi circa una presente contraddizione insanabile tra l'emendamento proposto e le parole del secondo comma «a propria scelta». A questo proposito ha già risposto il collega onorevole D'Aragona e io non ho l'abitudine di ripetere quello che altri hanno detto e che mi trova consenziente. Anche il collega onorevole Foa, del resto, mi pare abbia eliminato ogni dubbio al riguardo.

Voglio piuttosto soffermarmi su un punto, sul quale l'onorevole Einaudi ha insistito senza preoccuparsi se per amor di tesi usava violenza alla storia. Dopo aver proclamato che non c'è bisogno di piani e che basta favorire l'iniziativa individuale, ha soggiunto: «Piani provenienti dall'alto sono venuti in tempi di decadenza, antesignani di servitù politica e di schiavitù economica». Mi pare, se non ho capito male, che accennando a questi periodi storici, egli si sia riferito al cinquecento, al secolo XVI, che fu secolo di servitù politica, perché gran parte dell'Italia era dominata dalla Spagna e fu secolo di schiavitù economica perché la Spagna considerava l'Italia come una terra di sfruttamento.

Einaudi. Dal cinquecento alla metà del settecento.

Malagugini. Precisamente. Siamo sempre nel periodo storico del predominio spagnolo. Ma non mi risulta affatto, perdoni l'onorevole Einaudi, che durante il periodo del predominio spagnolo in Italia vi siano Stati dei «piani» da parte dello Stato, a meno che non vogliamo considerare un piano il proposito della Spagna di sfruttare in tutti i modi l'Italia come terra di conquista. Non mi sembra possibile appellarsi a un precedente di questo genere per svalutare la politica dei piani.

Einaudi. Tutti i domini sono piani.

Malagugini. Onorevole Einaudi, se vogliamo torcere il significato delle parole, possiamo far dire loro tutto quello che crediamo...

Noi socialisti abbiamo preso atto con piacere di alcune affermazioni dell'onorevole Corbino. Anzitutto «che uno Stato interamente liberista cessa di essere uno Stato». Onorevole Corbino, badi che la sua affermazione è stata sottolineata e sarà consegnata, se non alla storia, almeno alla cronaca della nostra vita politica: può darsi che venga il momento in cui debba esserle ricordata.

Corbino. L'ho detto da 25 anni e lo ripeto!

Malagugini. Lo ripeta ad alcuni, a molti forse, dei suoi amici e vedrà che non saranno della sua opinione: con tutto il rispetto che le debbo, non credo che lei solo costituisca e rappresenti tutto il liberalismo italiano.

L'onorevole Corbino nel suo discorso ha fatto un'altra affermazione di carattere generale, che va rilevata, perché queste nostre discussioni possono avere un valore trascendente anche lo scopo immediato di dettare articoli di Costituzione...

Presidente Terracini. La prego però di non dimenticare lo scopo immediato!

Malagugini. Onorevole Presidente, a me difficilmente potrà fare rimprovero di superare il tempo fissato dal regolamento. E d'altra parte non mi pare di uscire dal tema. Dicevo dunque che c'è stata un'altra affermazione dell'onorevole Corbino, strana, ermetica quasi: «non si può parlare di fallimento dell'economia liberale, ma caso mai di fallimento del liberismo o liberalismo economico». (Interruzione dell'onorevole Corbino). Ho segnato queste parole mentre lei le pronunciava, onorevole Corbino, e le dichiaro che non sono riuscito ad interpretarle, a capire cioè la differenza tra economia liberale e liberismo economico. Sarei proprio lieto di avere un chiarimento in proposito.

E vengo all'intervento dell'onorevole Giannini. L'onorevole Giannini si è dichiarato contro tutti i piani, perché è sempre e in tutto contro lo Stato. Orbene, se volessimo fare dello spirito e compiacerci di coglierlo in contraddizione, potremmo ricordargli che egli non è contro lo Stato finanziatore di determinate categorie. Lo Stato non bisogna considerarlo solo per il contributo che può dare a favore di determinati interessi, per quanto legittimi; soprattutto non si può continuare a proclamare, come egli fa ogniqualvolta gliene capita l'occasione, una assoluta sfiducia nello Stato come regolatore e coordinatore della vita nazionale. Battute di questo genere, se potrebbero essere tollerabili durante la discussione di progetti di legge di importanza relativa, come quello sulla cinematografia, non mi pare siano ammissibili quando si tratta di cose serie come il problema di cui stiamo discutendo. Che dire poi dell'altra sua dichiarazione con cui ha negato l'esistenza di una classe lavoratrice? Sono motti di spirito, di gusto molto discutibile, che possono trovar posto in un giornale umoristico ma che non dovrebbero essere pronunciati in una Assemblea Costituente.

Concludendo, il gruppo socialista, a nome del quale io parlo, dà la sua completa e cosciente adesione e darà quindi il suo voto all'emendamento Montagnana, Foa ed altri. In sostanza nessuno o quasi nessuno degli oratori precedenti ha contestato l'utilità dei piani nella economia nazionale, anche se taluno, spaventato della parola, ha tentato di giustificare il suo voto negativo con l'affermare che il concetto è già espresso nel primo comma dell'articolo in discussione e sarà ripreso nel secondo comma dell'articolo 37. Con l'aggiunta proposta noi vorremmo che il principio fosse più chiaramente, direi quasi solennemente, affermato nella Carta costituzionale; non per ipotecare l'avvenire, ma per lasciare aperta la via alle più ardite innovazioni che in questa materia il legislatore futuro intendesse introdurre. (Applausi).

Parri. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Parri. Io sento il bisogno di aggiungere qualche parola, soprattutto indirizzandomi ai colleghi del settore di sinistra, per spiegare le ragioni della contrarietà nostra all'emendamento presentato dagli onorevoli Pajetta e Foa; contrarietà, direi anzi piuttosto disagio, fra la diffidenza antistatalista che è forte non solo nella nostra corrente, ma in tutto il Paese, ed è ben giustificata in uno Stato che ha forti tradizioni solo in senso burocratico, in cui i partiti si presentano ancora come provvisori, le classi politiche quasi ancora improvvisate, e mancano il freno ed il contrappeso fondamentale all'oppressione statalista, cioè tradizione, esperienza e capacità di autogoverno: disagio, dicevo, fra questa tendenza e la coscienza dei compiti sociali che allo Stato spettano. Fortissima coscienza, tanto che anche per noi sono i fini sociali che comandano, e ad essi la politica economica dello Stato deve essere subordinata. Ciò evidentemente, se questa subordinazione si deve tradurre in una politica concreta, implica dei piani economici.

Noi stessi ci proponiamo, appena sia superata questa fase acuta di crisi economica, di presentare qualcosa che per l'Italia abbia il carattere e la portata che il piano Beveridge ebbe per l'Inghilterra.

Questa nostra posizione, se vogliamo andare più a fondo, trova la sua radice nella nostra concezione generale della società italiana per la quale, nella fase storica che essa attraversa, è capace di assicurare l'optimum sociale ed è storicamente congrua una politica che riesca a contemperare la convivenza dell'impresa capitalistica privata, caratterizzata dalla libertà della scelta e dal rischio, con un'azione ed un intervento dello stato necessari e sufficienti a realizzare i suoi fini sociali.

Ora, noi avevamo ritenuto che questa esigenza fosse già soddisfatta dall'adizione del primo capoverso dell'articolo 31, che io avevo trovato ardito e soddisfacente. In esso si dice che si riconosce il diritto al lavoro e che questo diritto al lavoro implica che lo Stato promuova le condizioni per renderlo effettivo. Che cosa può significare questo in un Paese di 46 milioni di abitanti, con il ridotto territorio agrario e la scarsità di materie prime che esso ha? Significa evidentemente una politica capace di sviluppare quelle attività industriali che abbiano maggiori capacità di assorbimento di mano d'opera, d'incorporamento di lavoro nel prodotto, e che l'economia agraria sia la più adatta allo stesso fine. Questa politica implica di per sé un piano, e per questo, amico Foa, ritengo superfluo il vostro emendamento.

Lo ritengo anche pericoloso per l'impressione che esso può dare all'opinione pubblica giustamente diffidente: lo statalismo è implicito nella parola «piano». Aggiungo che la stessa formulazione del vostro emendamento è impropria ed equivoca. Voi parlate di «attività produttiva»: quale ragione vi è di trascurare l'attività di scambio, e soprattutto la politica del credito? Voi sapete bene che in un paese come il nostro, in fondo, il solo controllo degli investimenti è necessario e sufficiente ad orientare la politica economica secondo il massimo di convenienza.

Voi parlate di «utilità sociale», e questo — è stato già detto — introduce un criterio soggettivo di scelta, pericolosamente esposto all'arbitrio di variabili maggioranze politiche. Voi avete parlato prima di «massimo rendimento» che, collegato all'attività produttiva che voi volete pianificare, introduce un criterio grezzamente produttivistico che può essere contradditorio con il criterio dell'utilità sociale.

Se, per esempio, nell'agricoltura doveste adottare il criterio produttivistico, evidentemente otterreste un aumento della disoccupazione con conseguenze sociali evidenti.

Ci sono evidentemente possibilità di contraddizione ed incertezza nel criterio che voi volete assumere, mentre un semplice criterio generico non può essere definito. Ciò ci mette seriamente in imbarazzo di fronte al vostro emendamento, e siccome d'altra parte dispiace a gente come noi, nella nostra posizione, di sembrar contrari all'affermazione di un indirizzo dell'attività pubblica diretto ad accrescere il benessere del popolo, vi domandiamo: non potreste rinunciare all'emendamento, così come è stato formulato?

E poiché è ormai impossibile modificare il capoverso primo dell'articolo 31, vi domando se non vi contentereste di rinunciare all'emendamento attuale — ciò che vi consentirebbe di avere il grande vantaggio politico di ottenere la unanimità dell'Assemblea nella affermazione di questa moderna necessità dell'attività dello Stato — modificando la dizione dell'articolo 37, nel quale tra il primo ed il secondo comma, si potrebbe inserire un comma che dicesse: «A raggiungere questo fine pubblico, spetta alla Repubblica di indirizzare e coordinare le attività economiche del Paese».

Con questo direi che la nostra coscienza e questa nostra preoccupazione particolare potrebbero essere soddisfatte, e credo che potrebbe essere soddisfatta anche la vostra esigenza di affermare nella Carta costituzionale questa preminenza del fine sociale nell'attività dello Stato. (Applausi).

Labriola. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Labriola. Io mi trovo nella ben strana situazione, per la prima volta da che faccio parte di una Assemblea elettiva, di dovermi astenere dal voto.

Se interpretassi i miei sentimenti di economista, voterei con i colleghi che stanno alla mia destra, cioè con l'Estrema Sinistra. Ma il professore Einaudi, insegnante di economia e mio maestro come di molti altri, ha detto cose per le quali dovrei votare con lui e con i suoi amici.

Non sapendo come uscire da questa incertezza, mi asterrò dal voto (Applausi a sinistra) e, aggiungo, mi astengo dal voto sopratutto per il modo come è formulato l'emendamento che ci è stato proposto.

Questo emendamento dice testualmente così:

«Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare e orientare l'attività produttiva, secondo un piano che assicuri il massimo di utilità sociale».

Cosicché, se per caso noi non avessimo riconosciuto il diritto al lavoro, noi non stabiliremmo il principio della pianificazione. E questo mi sembra bizzarro. Delle due, l'una: o il principio della pianificazione è giusto, è da noi riconosciuto, si ammette che risponda ad una ideologia determinata di una parte, almeno, di questa Assemblea, ed allora non bisogna parlare di diritto al lavoro che è un'altra faccenda; oppure si pensa che soltanto in quanto viene inserito il diritto al lavoro nella Costituzione dobbiamo ammettere la necessità della pianificazione, ed allora entriamo in un altro ordine di idee.

Se non volessi scandalizzare l'Assemblea, direi che si sarebbe dovuto fare la stessa cosa quando si è parlato del diritto al lavoro. Io avevo appreso che i socialisti non reclamano il diritto al lavoro, ma il diritto all'ozio. Il Lafargue, proprio il genero di Marx, aveva insegnato ai socialisti suoi contemporanei che non di assicurare il lavoro agli operai bisognava occuparsi, ma piuttosto della maniera di assicurare ad essi la maggiore libertà possibile dall'officina. Lo stesso Marx, nel terzo volume del «Capitale» aveva detto — mi si perdonino queste curiose citazioni — che la libertà del lavoratore non comincia se non quando egli lascia la fabbrica. Ecco perché il Lafargue opinava che la tesi socialista non è il diritto al lavoro, ma il diritto all'ozio dei lavoratori.

Ad ogni modo, parlando di diritto al lavoro, occorreva, forse, aggiungere «diritto al lavoro compensato» perché, se si tratta di puro e semplice lavoro, è chiaro che esso si può soddisfare anche con lo sport, o con i lavori forzati. Volendosi reclamare un lavoro che sia compensato, evidentemente bisogna introdurre quelle trasformazioni strutturali e tecniche dell'ordinamento sociale che rendano possibile l'attuazione del principio. E ciò non ha a che vedere con la pianificazione.

Socializzazione non è pianificazione: è la messa in comune di mezzi di produzione e produzione gestita direttamente dagli interessati. Il socialismo, col concetto di pianificazione universale non ha nulla a che vedere. La pianificazione può essere tanto socialista quanto capitalistica. Quella socialista suppone un rapporto diretto fra lavoratori e prodotto.

Volendosi introdurre la pianificazione economica, bisognerebbe introdurre il concetto di servizio pubblico, da applicare ad ogni specie di economia.

Il servizio pubblico, di sua natura, è cosa la quale reclama l'intervento dello Stato; e perciò tutto quello che è servizio pubblico impone una pianificazione, nei limiti in cui, appunto, si parla di servizio pubblico. Il servizio pubblico implica un consumo generalizzato nel tempo e nello spazio, un consumo che riguarda anche le generazioni future, e quindi l'azione dello Stato che può prendere in considerazione anche i bisogni futuri.

Perciò, è perfettamente naturale, allorché si tratta di servizio pubblico, che si parli di pianificazione e di standardizzazione.

La conseguenza a cui si giunge è che non si può invocare a nome del socialismo la pianificazione, come anche non si può, in nome del socialismo, respingere il concetto di pianificazione e si è piuttosto indotti a considerare la pianificazione come un equivalente di burocratizzazione. Si tratta di questioni tecniche risolubili col criterio del maggior rendimento.

Un'impresa pianificata non solo infatti è un'industria che si trova sotto il controllo dello Stato, ma è un'industria che si esplica per mezzo dei funzionari dello Stato. Ora, sul conto dei funzionari di Stato, non mi faccio in materia economica grandi illusioni e divido i sospetti che in questa materia si sono manifestati da varie parti.

Per conto mio, sono talmente sicuro che almeno in Italia una generalizzata pianificazione vorrebbe dire la sottomissione dell'industria, né più né meno, ai funzionari, che, contro questa idea, mi iscrivo senza difficoltà. Non abbiate paura di rimaner senza piani. Un'industria senza piani è inconcepibile. Se fortunatamente non c'è quello dei funzionari, ci sarà quello del privato imprenditore, che, del resto, ci è stato sempre.

Il piano dell'imprenditore è la interpretazione del desiderio dei consumatori. L'abilità dell'imprenditore consiste appunto nel comprendere che cosa i consumatori vogliono ed in quale misura. Egli riuscirà o non riuscirà nella sua impresa nello stesso rapporto in cui avrà saputo interpretare e comprendere i loro desideri. Un'impresa socialista, da questo punto di vista, si troverà nelle medesime condizioni di una impresa capitalistica.

Si è esposto il dubbio che la pianificazione sia una tesi socialista. Altri, invece, ha mosso obiezioni in nome di un principio individualistico, in nome di un principio liberale. Orbene, io credo che errino gli uni e gli altri e perciò son condotto ad astenermi. Mi dicono che l'onorevole Parri — il cui discorso mi duole non aver potuto ascoltare per ragioni di acustica — abbia suggerito di riportare questo emendamento in sede di discussione dell'articolo 37 del progetto di Costituzione che stiamo studiando.

Mi parrebbe una proposta giusta e ragionevole. Io non so se questa sia, nei suoi termini concreti, la proposta dell'onorevole Parri: ma se questa è, io voterò per essa; altrimenti esprimerò un voto di astensione.

Presidente Terracini. L'onorevole Parri ha proposto il seguente emendamento:

«All'articolo 37, inserire tra il primo e il secondo, il seguente comma:

«Spetta alla Repubblica, per raggiungere questo fine pubblico, indirizzare e coordinare le attività economiche del Paese».

Questo emendamento dovrà essere esaminato in sede di articolo 37.

(Così rimane stabilito).

Pongo ora in votazione l'emendamento presentato dagli onorevoli: Montagnana Mario, Foa, Pajetta Giancarlo, Laconi, Grieco, Minio, Ravagnan, Barontini Ilio, Leone Francesco, D'Onofrio, Colombi Arturo:

«Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare e orientare l'attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che assicuri il massimo di utilità sociale».

È stata chiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Andreotti, Jervolino, Restagno, Cappa, Delli Castelli Filomena, Taviani, Cotellessa, Dominedò, Federici Maria, Cimenti, Medi, Uberti, Tosi, Volpe, Ambrosini, Balduzzi, Zaccagnini, Numeroso, Camposarcuno, De Caro Gerardo, Gronchi, Moro, Bubbio.

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà l'appello.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dal deputato Grieco.

Presidenza del Vice Presidente Pecorari

Presidente Pecorari. Si faccia la chiama.

Schiratti, Segretario, fa la chiama.

Hanno risposto sì:

Allegato, Amadei, Amendola, Arata, Assennato.

Baldassari, Barbareschi, Bardini, Barontini Anelito, Barontini Ilio, Bei Adele, Bennani, Bernamonti, Bernini Ferdinando, Bianchi Bianca, Bianchi Bruno, Bianchi Costantino, Bibolotti, Binni, Bitossi, Bocconi, Bolognesi, Bonomelli, Bordon, Bucci, Buffoni Francesco.

Cacciatore, Cairo, Calamandrei, Caldera, Calosso, Canepa, Canevari, Caporali, Caprani, Carboni, Carmagnola, Caroleo, Carpano Maglioli, Cavallotti, Cerretti, Cevolotto, Cianca, Colombi Arturo, Corbi, Corsi, Costa, Costantini, Cremaschi Olindo.

D'Amico Michele, D'Aragona, De Filpo, De Michelis Paolo, Di Vittorio, D'Onofrio.

Faccio, Fantuzzi, Farina Giovanni, Farini Carlo, Fedeli Aldo, Fedeli Armando, Ferrari Giacomo, Fietta, Filippini, Finocchiaro Aprile, Fiore, Fiorentino, Fioritto, Flecchia, Foa, Fogagnolo, Fornara.

Gallico Spano Nadia, Gavina, Gervasi, Ghidetti, Ghidini, Ghislandi, Giolitti, Gorreri, Grazi Enrico, Grazia Verenin, Grieco, Grilli, Gullo Fausto.

Imperiale, Iotti Nilde.

Jacometti.

Lami Starnuti, Landi, Leone Francesco, Li Causi, Lombardi Riccardo, Longhena, Longo, Lozza, Luisetti.

Maffi, Maffioli, Magnani, Malagugini, Maltagliati, Mancini, Mariani Enrico, Mariani Francesco, Massini, Massola, Mattei Teresa, Merighi, Merlin Angelina, Mezzadra, Minella Angiola, Minio, Molinelli, Momigliano, Montagnana Rita, Montalbano, Montemartini, Morandi, Morini, Moscatelli, Musolino, Musotto.

Nasi, Nobili Tito Oro, Noce Teresa.

Pajetta Gian Carlo, Pastore Raffaele, Pellegrini, Pera, Persico, Pertini Sandro, Pesenti, Piemonte, Pignatari, Platone, Pollastrini Elettra, Pratolongo, Preti, Preziosi, Priolo, Pucci.

Ravagnan, Reale Eugenio, Ricci Giuseppe, Romita, Rossi Maria Maddalena, Rossi Paolo, Roveda, Ruggeri Luigi, Ruggiero Carlo.

Saccenti, Sansone, Saragat, Scarpa, Schiavetti, Scoccimarro, Scotti Francesco, Secchia, Sereni, Silipo, Silone, Stampacchia.

Targetti, Tega, Tonello, Tonetti.

Valiani, Varvaro, Vernocchi, Veroni, Villani, Vinciguerra.

Zagari, Zanardi.

Hanno risposto no:

Abozzi, Adonnino, Alberti, Ambrosini, Andreotti, Angelini, Angelucci, Arcaini, Arcangeli, Avanzini, Ayroldi, Azzi.

Balduzzi, Baracco, Bastianetto, Bellato, Bellusci, Belotti, Bencivenga, Benedetti, Benedettini, Benvenuti, Bertini Giovanni, Bertola, Bianchini Laura, Bonino, Bonomi Paolo, Bosco Lucarelli, Bovetti, Bozzi, Braschi, Brusasca, Bubbio, Burato.

Caccuri, Caiati, Camangi, Campilli, Camposarcuno, Cannizzo, Cappa Paolo, Cappelletti, Cappi Giuseppe, Capua, Carbonari, Caristia, Caronia, Carratelli, Cassiani, Castelli Edgardo, Castelli Avolio, Castiglia, Cavalli, Chatrian, Chieffi, Ciampitti, Ciccolungo, Cicerone, Cimenti, Cingolani Mario, Clerici, Coccia, Colitto, Colombo Emilio, Colonna di Paliano, Colonnetti, Conci Elisabetta, Condorelli, Conti, Coppi Alessandro, Corbino, Corsanego, Corsini, Cortese, Cotellessa, Crispo.

Damiani, D'Amico Diego, De Caro Gerardo, De Caro Raffaele, De Falco, De Gasperi, Del Curto, Della Seta, Delli Castelli Filomena, De Maria, De Martino, De Mercurio, De Michele Luigi, De Palma, De Unterrichter Maria, De Vita, Di Fausto, Dominedò, Dossetti.

Einaudi, Ermini.

Fabbri, Fabriani, Facchinetti, Fantoni, Federici Maria, Ferrarese, Ferrario Celestino, Ferreri, Firrao, Foresi, Franceschini, Fresa, Froggio, Fuschini.

Gabrieli, Galati, Garlato, Gatta, Germano, Geuna, Giacchero, Giannini, Giordani, Gonella, Gortani, Gotelli Angela, Grassi, Gronchi, Guariento, Guerrieri Emanuele, Guerrieri Filippo, Gui, Guidi Cingolani Angela.

Jacini, Jervolino.

Lagravinese Pasquale, Lettieri, Lizier, Lucifero.

Macrelli, Maffioli, Malvestiti, Marazza, Marconi, Marinaro, Martinelli, Martino Enrico, Marzarotto, Mastino Gesumino, Mastrojanni, Mattarella, Mazza, Mazzei, Meda Luigi, Medi Enrico, Mentasti, Merlin Umberto, Miccolis, Micheli, Monterisi, Monticelli, Montini, Morelli Luigi, Morelli Renato, Moro, Murdaca, Murgia.

Nicotra Maria, Nitti, Notarianni, Numeroso.

Orlando Camillo, Orlando Vittorio Emanuele.

Pallastrelli, Paolucci, Paratore, Parri, Pastore Giulio, Pat, Pecorari, Pella, Perassi, Perlingieri, Perrone Capano, Perugi, Petrilli, Piccioni, Pignedoli, Ponti, Proia, Puoti.

Quarello, Quintieri Adolfo, Quintieri Quinto.

Raimondi, Reale Vito, Recca, Rescigno, Restagno, Riccio Stefano, Rivera, Rodi, Rodinò Mario, Rubilli, Ruini, Rumor, Russo Perez.

Salizzoni, Salvatore, Sampietro, Scalfaro, Scelba, Schiratti, Scoca, Segni, Selvaggi, Siles, Spallicci, Spataro, Stella, Storchi, Sullo Fiorentino.

Taviani, Terranova, Tieri Vincenzo, Titomanlio Vittoria, Togni, Tosato, Tosi, Tozzi Condivi, Trimarchi, Trulli, Tupini.

Uberti.

Valenti, Vallone, Valmarana, Vanoni, Viale, Vicentini, Vigo, Vilardi, Volpe.

Zaccagnini, Zerbi, Zotta, Zuccarini.

Sono in congedo:

Bargagna, Bernardi, Bettiol, Bulloni.

Cartia, Caso, Chiostergi, Cifaldi.

Falchi, Fanfani.

La Pira, Lazzati, Lombardo Ivan Matteo, Lussu.

Mannironi, Marina, Mastino Pietro.

Paris, Penna Ottavia.

Rapelli.

Sardiello, Simonini.

Tambroni Armaroli, Tremelloni, Treves, Turco.

Vigna.

Presidente Pecorari. Dichiaro chiusa la votazione e invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari computano i voti).

Presidenza del Presidente Terracini

Presidente Terracini. Comunico il risultato della votazione nominale:

Presenti e votanti............ 418
Maggioranza.............. 210
Hanno risposto ....... 174
 Hanno risposto no.... 244

(L'Assemblea non approva l'emendamento).

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti