[Il 15 ottobre 1946, nella seduta pomeridiana, la terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione inizia la discussione sul controllo sociale dell'attività economica.]

Fanfani, Relatore, dichiara che si limiterà ad illustrare alcuni punti della sua relazione che gli sembrano di particolare importanza, non ai fini della discussione, ma ai fini dell'impostazione che ha creduto opportuno dare alla relazione.

Il problema del controllo sociale della attività economica è certamente complicato dal fatto che oggi — e non soltanto in Italia, ma in tutti i paesi del mondo, meno uno — si vive in una economia di trapasso, non si è più in un'economia i cui dirigenti, i cui regolamentatori o legislatori credono al principio individualistico, liberistico; ma non si è nemmeno arrivati ad un'economia in cui totalmente si è abbandonato il criterio individualistico e liberistico. Tentativi diversi, fatti in parecchi paesi, ora dal punto di vista di un'ideologia totalitaria di tipo fascista, ora dal punto di vista di un'ideologia democratica di tipo più o meno liberale, fanno vedere come, da circa trentacinque anni a questa parte, per motivi di guerra, per motivi di passaggio dall'economia di guerra all'economia di pace, o per le conseguenze dell'economia di guerra, si è tentato a varie riprese di risolvere il problema — che a qualcuno sembra insolubile — di controllare, dal punto di vista sociale, lo sviluppo dell'attività economica, senza accedere totalmente ad un'economia collettiva o collettivizzata, e senza d'altra parte lasciare totalmente libere le forze individualistiche, ma cercando di sfruttarle, disciplinandole e regolandole ai fini di raggiungere determinati obiettivi sociali che, abbandonata l'ideologia di Adamo Smith, si è ritenuto non possano essere raggiunti, qualora le forze e le iniziative individuali siano totalmente libere.

Si sono avute varie forme di controllo sociale sulla vita economica dei singoli gruppi.

Questi controlli sono fondamentalmente di due tipi: uno che si vuol realizzare in un ambiente politico non di libertà, nel quale i cittadini non siano chiamati a controllare politicamente i controllori dell'attività economica; e un altro esercitato o attuato in paesi in cui, creati gli organi di controllo dell'attività economica, si consente che i cittadini, organizzati politicamente in partiti od in associazioni, attraverso gli organi normali di controllo dell'attività governativa e attraverso la libera stampa, sorveglino l'attività di coloro che sono preposti al controllo dell'attività economica.

Fa rilevare che, prescindendo da quello che è stato ideato e fatto in Russia, e osservando le varie esperienze che sono state fatte nei paesi così detti occidentali, il grande problema che sembra aver afflitto l'Occidente è stato quello di vedere fino a che punto è possibile effettuare il controllo sull'attività economica senza menomare la libertà politica. I paesi che sembrano aver realizzato più profondamente il sistema del controllo, ad un certo momento hanno pensato bene di eliminare la libertà politica, perché con la libertà politica sembrava loro di non poter realizzare nessun controllo. Ma l'accettazione del sistema di controllo economico, con l'abbandono del sistema di controllo politico, e quindi della libertà politica, fatalmente ha trasformato la politica di controllo economico da una politica diretta al bene della collettività, intesa come complesso di individui, in una politica diretta a fini di potenza, dei quali non rispondevano più le singole persone, ma soltanto uno o pochissimi.

Nei paesi democratici, preoccupati di salvaguardare la libertà politica, pur menomando la libertà economica, si è arrivati a forme miste. Non ritiene sia per ora possibile dire esattamente quali risultati abbiano dato l'uno e l'altro tipo sul puro terreno economico; quali invece, abbiano dato sul terreno politico, purtroppo proprio gli italiani — e i tedeschi forse anche di più — possono dire.

Se questo è avvenuto nel campo storico dei fatti, in quello delle teorie si è avuta un'evoluzione anche in questo senso; sicché pensa che tra le cose più interessanti, ma non definitive, sono quegli orientamenti che nelle varie scuole o correnti di dottrine economiche si sono verificati, e perfino nel senso della stessa corrente liberale si sono avuti quei tentativi — che possono sembrare addirittura strani — della cosiddetta ricerca della terza via. Essi, in sostanza, vogliono tendere a trovare come si può esercitare un controllo così detto conforme — conforme a certe regole, a certi ideali di concorrenza, di minimo prezzo o di efficienza produttiva — rispettando la libertà politica.

Gli sembra che oggi in Italia, per un complesso di cose, per lo stesso schieramento politico e per la linea politica adottata dal partito che potrebbe e dovrebbe essere il più interessato ad un mutamento radicale della vita economica, il partito comunista, ci si orienti tutti più o meno su questa strada: di tentare un controllo dell'attività economica, mantenendolo negli schemi della libertà politica.

C'è al fondo di questo orientamento l'idea che, abbandonati a se stessi, gli uomini non possano arrivare, di squilibrio in squilibrio, a raggiungere una situazione di equilibrio, di armonia e di benessere sociale; ma che ciascun uomo abbandonato a se stesso, libero di sfruttare le forze naturali, di regolare i propri istinti come meglio crede, possa forse illudersi, per un tempo più o meno breve, di realizzare il suo benessere — grettamente inteso — di potenziare le sue attività — ancora grettamente intese — ma in definitiva non arrivare certamente ad una situazione di coordinamento, benefica per tutta quanta la società. Ed è in vista di questo che gli uomini tornano a ripetersi una domanda migliaia di volte ripetuta nel corso dei secoli: può esistere cioè un armonizzatore preventivo di questi squilibrî, o un coordinatore che corregga, all'origine almeno, gli squilibrî stessi?

La risposta che più o meno tutti danno oggi è che questo coordinamento è necessario e che questo coordinatore si può determinare.

Sul come, nascono i dissensi.

Sempre in questa economia di trapasso — non accenna a quella collettivizzata del tutto — i metodi che si possono adottare per controllare l'attività economica e coordinarla, sembrano essere fondamentalmente due: il metodo di coloro i quali dicono: creiamo un organo centrale, che sarà forzatamente di tipo burocratico; regoliamo un po' tutta l'attività economica, pur riconoscendo — salvo i regimi totalitari di tipo nazista e fascista — che questo organo centrale possa essere controllato dall'opinione pubblica e dagli organi legislativi normali. Il secondo metodo è quello di coloro i quali dicono: no! Attenti che l'organo centrale, al di fuori di una economia non collettivizzata, è molto pericoloso. Proprio in una economia non collettivizzata il controllo nella forma più efficace può essere esercitato, anziché dal centro, dalla periferia o per lo meno da settori periferici più o meno concentrici, finché si arriva anche ad un organo centrale.

È nato così il problema di organizzare un controllo non burocratico, ma democratico; problema che è stato imposto dalla necessità di far sì che questo controllo non sia meno competente dell'attività individuale, né meno interessato di essa, e che sia tempestivo. Parte per tradizione, parte per constatazione di quello che si verifica nel mondo, gli uomini di oggi non si fidano di un organo di controllo puramente burocratico, tanto che hanno inventato premi di interessamento, negli stessi organismi burocratici, perché si snelliscano e riescano a dare una certa spinta alle imprese o attività che ricadono sotto la loro sfera di azione.

Non conosce, fra tutte le teorie e tutti gli abbozzi di teorizzazione di questa forma di controllo, niente di più ardito di quello che è stato tentato da un gruppo di economisti americani in questi ultimi venti anni, e, proprio basandosi sulle loro realizzazioni, ha osservato nella sua relazione come, una volta premesso che il controllo sociale oggi è indispensabile, perché l'attività economica torni a beneficio di tutti i partecipanti alla vita nazionale, esso darebbe luogo a gravissimi inconvenienti, ove non fosse organizzato in un ambiente di libertà politica.

Data questa premessa, ha creduto opportuno sottolineare come il controllo debba obbedire ad altre cinque caratteristiche che non sono sua invenzione, ma che già sono indicate dal tentativo americano.

Il controllo deve essere competente, cioè deve essere esercitato da chi se ne intende e non da burocrati; deve essere interessato, cioè deve essere esercitato da chi ha interesse diverso, diretto al buon andamento dell'attività da regolare; deve essere decentrato, cioè esercitato non dalla capitale o da pochi uffici centrali, ma possibilmente nel luogo in cui si svolge l'attività, o almeno per rami di questa; deve essere democratico, cioè esercitato da uomini designati dagli organi interessati e, quando occorra, da tutti i cittadini; infine deve essere multiforme, cioè esercitato secondo le modalità che per ciascun tipo di attività risultino più efficaci.

Ha spiegato nella relazione a quali vantaggi dia luogo un controllo con queste caratteristiche, e non si ripeterà.

Aggiunge che vi sono momenti distinti in cui il controllo deve essere esercitato; vi è innanzi tutto un momento produttivo all'origine, nel seno stesso dei centri in cui si svolge la vita economica ed in questa fase bisogna realizzare il controllo nelle varie forme che l'esperienza suggerirà. C'è un secondo momento, non più all'interno di ciascuno dei singoli centri, ma negli ambienti che abbracciano questi vari centri, e qui sorge un problema di coordinamento di queste attività produttive. Vi è un terzo momento, relativo alla distribuzione e al consumo (consumo in senso economico) della ricchezza prodotta.

A suo avviso, per quanto riguarda il primo momento, cioè il momento in cui nasce l'attività produttiva, un controllo interessato, democratico, competente, può essere eseguito innanzi tutto attraverso la partecipazione dei lavoratori alla vita intima dell'impresa. È del parere che nella fase attuale non ci si possa limitare, e sia un errore limitarsi, alla semplice azione dei consigli di gestione. Dal momento che il Consiglio di amministrazione esiste ed esercita una certa attività ed influenza, è ancora del parere che convenga approfittare anche di questo organo, immettendo in esso, con funzioni deliberative, non pochi lavoratori, ma, se è necessario, la metà, o anche di più, come preparazione di quella che gli pare possa essere un'azienda tipo di domani, cioè un'impresa o in forma cooperativa, o in forma tale per cui la proprietà risulti nelle mani dei lavoratori. Ma questo è un problema complesso e si limita ad accennarlo.

Un controllo interessato, democratico, competente, può inoltre ottenersi con la costituzione di altri organi di controllo, oltre che con la partecipazione al consiglio di amministrazione e quindi con la costituzione di appositi consigli di gestione (quanto al termine da usare è convinto che per precisione tecnica sarebbe meglio dire «Consiglio di efficienza») per esercitare il controllo nella fase tecnico-amministrativa, mentre la partecipazione al consiglio di amministrazione, serve per il controllo tecnico-economico.

Una terza modalità di controllo che abbia le caratteristiche suddette è la socializzazione vera e propria di certe imprese, con determinate caratteristiche che consentano di socializzarle senza danno per la collettività, perché lo scopo, evidentemente, è quello di accrescere il benessere di tutti i lavoratori, e ogni forma che diminuisca l'attività produttiva e aumenti il costo di esercizio è una forma di controllo deleteria perché preparatoria della miseria, non del benessere.

Occorrerebbe, infine, la partecipazione agli utili, non per aumentare il reddito del lavoratore (e di qui il dissenso con la onorevole Noce), ma come forma di avviamento all'utilizzazione di un reddito supernormale, per l'avviamento alla comproprietà dell'impresa da parte della comunità e non dei singoli.

Il complesso della discussione svoltasi non gli ha consentito di scendere a particolari, ma non crede che la partecipazione agli utili possa dare un beneficio serio ai lavoratori. Sono state fatte esperienze in America e si è arrivati alla conclusione che se si fossero divisi gli utili di una certa azienda, si sarebbe aumentato il reddito di mezza giornata all'anno per ogni singolo lavoratore. Viceversa se questa massa di utili è affidata al corpo dei lavoratori, le cose possono cambiare.

Comunque, è d'accordo nel ritenere che questo è un fine più remoto, un avvio ad una certa trasformazione dell'impresa, che non si può realizzare oggi nello stato attuale. Ma il giorno in cui vi fosse una economia così ben controllata, in cui l'utile di congiuntura sparisce ed è fisso il capitale, il problema della partecipazione agli utili sarebbe già risolto per se stesso.

Premessa necessaria ad ogni attività di controllo su questi centri produttivi, è una revisione contabile delle aziende. Se non si arriva alla tipizzazione della contabilità delle imprese — (ed ormai tutti sanno quanto poco ci si possa fidare dei bilanci, delle relazioni dei sindaci, ecc.) — in modo che il bilancio sia un documento facilmente accessibile ad apposite commissioni ed agli uffici fiscali, si sarà perso il tempo e si sarà fatta un'impalcatura che finirà per rovinare l'industria italiana.

Tutte le forme di controllo possono essere ottimi strumenti, ma senza la chiarezza del bilancio si perderà il tempo e sarà inutile parlarne. Del resto è interessante notare come questa revisione contabile delle aziende, ad opera di appositi collegi pubblici, si sia presentata contemporaneamente in due paesi che avevano aspirazioni totalmente diverse. Innanzi tutto in Germania, dove il nazismo l'ha sfruttata ai suoi fini, ma dove bisogna riconoscere che ha servito molto bene per attuare una politica di stabilizzazione di prezzi. Si è presentata poi in America, dove non si aveva l'idea di farla servire come strumento politico, ma come strumento di moralità tributaria e fiscale e come strumento di lotta contro il monopolismo.

Ritiene che nella fase attuale — ed attuale non vuol dire di quest'anno o del prossimo, ma di questo ciclo storico in cui viviamo — un controllo esercitato in queste cinque direzioni possa essere sufficiente.

C'è il secondo momento di controllo sociale, in cui non occorre più guardare alla periferia di ciascun centro produttivo, non occorre più chiamare il lavoratore o il consumatore a controllare insieme al fornitore di capitali; ma è il momento in cui si tratta di considerare nel compresso l'attività produttiva nazionale, per coordinarla nello sforzo fatto dalle singole unità e per coordinarla nel mondo. Sorge di qui il problema del commercio internazionale, che ritiene inutile trattare per il momento.

I mezzi naturali di questo coordinamento li vede e li enuncia in ordine inverso a quello seguito nella relazione: anzitutto nell'insieme delle varie disposizioni generali che regolano la vita giuridico-costituzionale del nostro Paese. Quando furono dettate norme sul diritto alla vita, senza volerlo forse, si sono anche determinate certe forme di controllo dell'attività economica; quando si parla, o si parlerà e statuirà qualche cosa circa il problema sindacale, senza volerlo, o volendolo, certamente si stabiliranno anche delle forme di controllo; quando si rivendica alla collettività il dovere di provvedere alla vita di tutta una categoria di cittadini che per età o per stato fisico, o per altri accidenti si trovino nella condizione di non poter provvedere al proprio lavoro ed al sostentamento della propria persona, si stabiliscono forme di controllo.

Giua chiede con quali organi.

Fanfani, Relatore, chiarisce che si tratta degli organi che saranno previsti dalla attuazione di questo diritto; quindi l'Istituto delle assicurazioni, le mutue e, in genere, tutti gli istituti di assistenza.

Osserva che quando si sente parlare di controllo sociale, molti si insospettiscono, ma in realtà una forma di controllo c'è sempre stata. Gli organi centrali esecutivi o di vigilanza dei Ministeri hanno sempre esercitata una forma di controllo dell'attività economica.

Infine, la costituzione di un Consiglio economico nazionale, al quale già nelle riunioni precedenti si è dato il nome di consiglio del lavoro — nome poco appropriato, perché può far nascere l'impressione che si limiti ad un settore più che ad un altro — e che, se ci sarà un ordinamento regionale potrebbe avere delle anticipazioni in consigli economici regionali.

Pensa che si possano avere buone ragioni per non accettare la sua esemplificazione, che però non presenta nulla di tassativo.

Questi consigli sarebbero costituiti dai rappresentanti degli interessi della produzione in seno agli organi collegiali o regionali. Nell'ipotesi che gli organi collegiali siano di formazione mista e quindi nell'interno di questi organi collegiali esistano anche rappresentanti eletti direttamente dai sindacati o dalle associazioni professionali di determinate categorie, si potrebbero costituire con questi elementi, anziché con l'elezione di secondo grado, commissioni speciali aventi lo scopo specifico di esercitare funzioni consultive degli organi esecutivi, funzioni di iniziativa e di controllo rispetto agli organi legislativi, normali funzioni di coordinamento di tutta l'azione pubblica, coordinatrice ed integratrice delle attività economiche, con particolare riguardo al settore del credito. È del parere che nella forma di economia in cui si vive lo strumento certo per predisporre tutte le coordinazioni dell'attività economica sia anche costituito dalla politica del credito e degli investimenti.

Infine, il terzo momento di controllo sociale dell'attività economica potrebbe esercitarsi con prelevamenti fiscali in genere, graduati e diretti allo scopo di finanziare la attività pubblica, di impedire l'azione monopolizzatrice, di evitare accumulazioni di ricchezza, ecc.

Pensa, per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza, che possa essere un mezzo straordinario di riforma sociale quello di far sì che, in occasione del trasferimento di ricchezza a titolo ereditario, si stabilisca una limitazione alla facoltà di testare. Una prima quota della ricchezza andrebbe al bilancio dello Stato — e questo già avviene — una seconda quota di ricchezza resterebbe libera, a disposizione del testatore per i suoi familiari (e qui si può graduare a seconda del numero e dell'età dei familiari). Una terza quota, di cui la disponibilità è lasciata anche al testatore — per incoraggiare il risparmio ed il sacrificio che ha preparato l'eredità — destinata non ad usi individuali, bensì ad usi sociali. Il testatore avrebbe facoltà di distribuire questa ricchezza a favore di opere pubbliche, o di associazioni, o di istituzioni di solidarietà sociale, stabilite dai competenti organi.

La distribuzione sarebbe già prevista entro un certo limite, cosicché chi ne beneficia sarebbe anche la società. Se la società fosse bene organizzata, effettivamente tutta quanta la ricchezza si dovrebbe distribuire in funzione delle capacità, dei meriti e delle necessità. Che una grande quantità di ricchezza si accumuli nelle mani di un individuo può derivare da colpi di fortuna o da speciali virtù risparmiatorie, ma può pensarsi che possa derivare anche da altre ragioni. Si potrebbe stabilire anche che la terza quota, destinata alle opere pubbliche, possa essere destinata ai collaboratori nel campo del lavoro, perché, evidentemente, se in trenta o quarant'anni un individuo ha potuto accumulare una grande ricchezza, in questa destinazione si avrebbe una forma di restituzione ai lavoratori, ai quali questa ricchezza sarebbe stata sottratta.

Non è questo un ritorno al Medio Evo, ma il riconoscimento di un certo spirito correttivo, perché c'è nell'umanità questo tentativo di correggere ogni tanto le deviazioni. Se non si riesce a correggere prima determinate forme della società, si deve arrivare ad un correttivo in seguito.

Infine, limiti speciali di acquisto di beni, specialmente strumentali (terra, impianti), riservati generalmente, entro certi limiti, a tutti, ed oltre certi limiti, al dominio delle collettività minori (comunità professionali, municipio) e maggiori (regioni, Stato).

Afferma che tutte queste cose non è necessario siano inserite nella Costituzione; è certo però, che nella Costituzione uno o più articoli i quali stabiliscano che senza un controllo sociale dell'attività economica non è possibile arrivare a realizzare il benessere di tutti i cittadini, è bene che vi siano. È opportuno considerare che si profilano già delle istituzioni che si possono ritenere permanenti per un certo numero di anni durante il nostro ciclo storico, e tali da essere consacrate nella Costituzione, affinché il legislatore costruisca lo Stato e l'ordinamento giuridico su questa base, utilizzandole.

Per il resto pensa che forse l'Assemblea Costituente dovrà emanare apposite leggi disciplinatrici dell'attività produttiva: costituzione dell'impresa, costituzione degli organi collegiali e regionali della seconda Camera, regolamento dei casi di socializzazione dell'impresa e del trasferimento della ricchezza.

Nella relazione ha formulato il seguente articolo che oggi gli pare difettoso soprattutto per ragioni tecniche.

«L'attività economica privata e pubblica è diretta a provvedere ogni cittadino dei beni utili al suo benessere ed alla piena espansione della sua personalità. A tal fine la Repubblica ammette e protegge l'iniziativa privata, armonizzandone gli sviluppi in senso sociale, oltre che con le varie disposizioni generali a protezione del diritto alla vita ed all'espansione della persona, mediante: partecipazione dei lavoratori (ed ove del caso degli utenti) alla gestione, alla proprietà, agli utili delle imprese; la tipizzazione contabile e la pubblica revisione aziendale; l'azione generale di appositi consigli economici in seno agli organi rappresentativi regionali e alla seconda Camera; il prelievo fiscale; la limitazione all'acquisto e al trasferimento della proprietà, la socializzazione delle imprese non gestibili dai privati con comune vantaggio».

Riconosce che la materia di questo articolo si trova già distribuita in parecchi degli articoli precedentemente discussi, sicché probabilmente, in sede di coordinamento, se ne potrebbe fare a meno, salvo a lasciare la parte teorica, in cui si enuncia la necessità di questo controllo ed il dovere per lo Stato di provvedervi nelle forme migliori.

Ad ogni modo, dalla discussione potranno derivare formulazioni che siano, se non nella sostanza, diverse nella forma.

Giua senza entrare in merito alla discussione, pensa che la formulazione dell'articolo debba essere modificata. Prega quindi il relatore di proporre, nella prossima riunione, un'altra formulazione che tenga conto dell'impostazione teorica dei suoi principî e, nello stesso tempo, abbandoni tutte quelle altre determinazioni che sono già comprese in altri articoli e in parte anche nel lavoro fatto dalla prima Sottocommissione.

Fanfani, Relatore, per non ripetere l'errore commesso di formulare l'articolo senza aver prima sentito quanto era stato deciso nella prima Sottocommissione, prega l'onorevole Giua e gli altri membri di attendere per lo meno fino a quando la discussione in materia sia giunta ad un grado tale di maturazione da suggerirgli gli spunti per una formulazione che risponda all'opinione dei più.

Pesenti ha ascoltato con interesse la relazione dell'onorevole Fanfani, ma si chiede a quali conclusioni avrebbe portato questa discussione sulle possibilità di un controllo democratico della produzione. Chiede se il controllo della produzione può avvenire soltanto con un sistema socialista, che tolga cioè la possibilità di investimento ai privati, o con il sistema nel quale noi viviamo, e se può essere un controllo democratico o un controllo autoritario. A suo avviso il nocciolo della tesi del Fanfani è proprio che la produzione non è fine a se stessa, ma serve per la comunità. È questo un punto fondamentale. Poi vi è l'altro che, appunto, la comunità deve controllare perché questi fini siano raggiunti. Questo principio fondamentale è bene che sia affermato nella Carta costituzionale, e potrebbe trovar posto dove si afferma il carattere sociale della proprietà.

Propone che in quella sede si dica: «La produzione (o l'attività economica) deve essere indirizzata a fini sociali e la comunità deve controllare che questi fini siano raggiunti».

Il Presidente Ghidini rinvia il seguito della discussione.

 

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A cura di Fabrizio Calzaretti