[Il 23 ottobre 1946, nella seduta pomeridiana, la terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione prosegue la discussione sul diritto di associazione e sull'ordinamento sindacale.]
Molè intende fare una questione di opportunità e chiede se si ritenga necessario parlare del diritto di sciopero o si ritenga pericoloso includerlo nella Costituzione.
Il diritto di sciopero è ormai riconosciuto da tutti i paesi, meno che da quello dove lo Stato si identifica con la classe lavoratrice. Cita, a questo proposito, una disposizione della Costituzione russa.
Di Vittorio, Relatore, osserva che la disposizione non è contro lo sciopero, bensì contro il sabotaggio.
Molè afferma che se lo Stato concedesse il diritto di sciopero ai lavoratori e lo negasse agli addetti ai servizi pubblici, potrebbe sorgere il problema, nel caso che questi ricorressero ad una tale arma, che lo Stato dovesse agire in una certa maniera, mentre invece, mancando questa precisa regolamentazione, lo Stato avrebbe la possibilità di agire in modo diverso; sarebbe una questione di apprezzamento politico che determinerebbe di volta in volta il comportamento dello Stato. In altri termini, si può ammettere che lo sciopero dei servizi pubblici avvenga senza farne un reato; il reato sorgerebbe quando si stabilisse che non è lecito.
Ma il problema, a suo avviso, va posto da un altro punto di vista: il diritto di sciopero non si discute; chi nega il diritto di sciopero, l'uso di quest'arma, che è stata uno dei mezzi di affermazione della classe lavoratrice, effettivamente è reazionario, a parte l'opportunità o no di legiferare in materia. Ma per i servizi pubblici la questione è diversa. Prima di tutto occorre distinguere i servizi pubblici. Se si considera servizio pubblico tanto quello del ferroviere, quanto quello del magistrato, si confondono due forme di attività: una che attiene ad una funzione di utilità sociale, un'altra che attiene al diritto complesso della sovranità dello Stato. Pensa che il pubblico funzionario vada concepito come colui che esercita le funzioni dello Stato, come colui nella cui azione si obiettiva la sovranità dello Stato e che, quindi, non può scioperare contro lo Stato, perché sarebbe lo Stato che sciopera contro se stesso. Il ferroviere può in qualche maniera non identificarsi, e spesso non si identifica, con lo Stato; ma il magistrato, colui che appartiene alle forze di polizia, colui che è nell'esercito, sono lo Stato, rappresentano lo Stato nelle sue funzioni sovrane. Il giorno in cui fosse concesso ai soldati, agli ufficiali, ai magistrati di scioperare contro lo Stato, lo Stato non avrebbe più ragione di esistere. Uno sciopero di questo genere, in alcune circostanze della vita politica, potrebbe anche verificarsi, ma non potrebbe mai essere, da parte dello Stato, riconosciuto legalmente. Potrà lo Stato in tali circostanze trovare opportuno di usare mezzi conciliativi anziché repressivi; ma questo attiene alla politica.
Quando si vuol dare allo Stato il carattere di Stato democratico, che non agisce per gli interessi di una classe, ma che concilia tutti gli interessi, è inconcepibile legiferare sul diritto di sciopero di coloro che sono alle sue dirette dipendenze.
Qualora vi siano amministrazioni che non funzionano bene nello Stato democratico, non è necessario ricorrere allo sciopero. C'è qualcuno che pensa anche all'opportunità di portare al governo un rappresentante della Confederazione generale del lavoro perché tuteli direttamente questi interessi. Ciò potrebbe rientrare nel concetto di Stato democratico, non già il concedere il diritto di sciopero a queste categorie. È preferibile lasciare alla prudenza politica la risoluzione di certe crisi.
Si chiede poi se, oltre allo sciopero economico, che si verifica quando l'interesse del lavoro si contrappone all'interesse del capitale, si debba trattare anche dello sciopero politico.
Di Vittorio, Relatore, fa rilevare che nel primo comma dell'articolo 4 da lui proposto si dice: «La legislazione dovrà garantire le libertà sindacali ed il diritto di sciopero a tutti i lavoratori». Non si fa cenno, quindi, allo sciopero economico o allo sciopero politico; si afferma soltanto il diritto di sciopero per ogni lavoratore, perché nella Costituzione vanno consacrati i principî generali.
Ritiene che si possa fare a meno di una discussione circa l'estensione o meno ai pubblici servizi del diritto di sciopero, spettando tale discussione piuttosto alla Camera legislativa.
Molè osserva che non è possibile che lo Stato si autodefinisca datore di lavoro iniquo, contro il quale si debba usare l'arma dello sciopero. Naturalmente si riferisce sempre allo Stato democratico, e pensa che sarebbe una specie di contraddizione, nel momento in cui si crea la Costituzione dello Stato democratico, ammettere che si tratti di uno Stato contro il quale i lavoratori possano fare uso del diritto di sciopero.
Il Presidente Ghidini si chiede se, di fronte all'articolo dell'onorevole Di Vittorio, sia possibile trasfondere nella Costituzione l'essenza dei rilievi fatti, per evitare che la formula proposta possa in avvenire essere fonte di equivoci.
Pone quindi delle domande: se si afferma che il diritto allo sciopero è consacrato per tutti i lavoratori, domani potrà una legge escludere da questo diritto i pubblici ufficiali? Ricorda che il codice Zanardelli ammetteva implicitamente il diritto allo sciopero, mentre con altra disposizione lo vietava per i pubblici ufficiali. Ora se la Costituzione dovesse sancire il diritto allo sciopero per tutti, il legislatore di domani verrebbe a trovarsi in difficoltà nei riguardi di alcune categorie.
Molè concorda con l'osservazione molto perspicua del Presidente e rileva che la preoccupazione esiste soprattutto se si considera che oggi anche i funzionari hanno i loro sindacati.
Di Vittorio, Relatore, afferma che sono esclusi quelli degli appartenenti alla pubblica sicurezza e ai Corpi armati.
Molè fa rilevare che si tratta di piccole eccezioni, mentre esistono anche organizzazioni sindacali dei magistrati. Sarebbe del parere di non parlare affatto di tale argomento nella Costituzione, tanto più considerando che il diritto di sciopero è un fatto ormai acquisito in tutti i paesi civili. Mette quindi in rilievo le gravi difficoltà di valutazione che sorgerebbero, ad esempio, nella distinzione tra pubblici servizi essenziali e pubblici servizi accessori.
Il Presidente Ghidini osserva innanzitutto che lo sciopero politico, di cui ammette l'eventualità solo in casi eccezionali, non dovrebbe essere scritto nella Costituzione, ed è anche discutibile se possa ammettersi lo sciopero dei pubblici funzionari che personificano la sovranità dello Stato, in quanto un tale sciopero sarebbe la negazione dello Stato stesso. Aggiunge d'altro canto che vi sono impiegati, non dipendenti dallo Stato, come, ad esempio, i messi esattoriali, i quali, pur esercitando un pubblico ufficio, dipendono da ditte private appaltatrici. In questo caso c'è un datore di lavoro che non è lo Stato, e sarebbe ingiusto escludere una tale categoria di lavoratori dal diritto allo sciopero. Per tutte queste ragioni è del parere di non fare generalizzazioni che potrebbero risultare pericolose.
Molè precisa che quando si parla di pubblici funzionari si devono intendere solo i dipendenti dallo Stato.
Di Vittorio, Relatore, insiste sul concetto che la Costituzione deve solo affermare il diritto; sarà compito del legislatore ordinario di regolamentare tutta la materia. Non crede, contrariamente a quanto ritiene il Presidente, che una formula generale possa creare imbarazzi. D'altro canto non è da pensare che dello sciopero possano valersi gli alti ufficiali dello Stato, anche perché ciò non è nella tradizione politica dei paesi civili.
Molè ricorda lo sciopero degli agenti di pubblica sicurezza.
Di Vittorio, Relatore, nota che si è trattato di una manifestazione sporadica senza alcuna gravità.
Molè cita anche il caso di un colonnello della polizia a Roma che aveva tentato di organizzare uno sciopero.
Di Vittorio, Relatore, rileva che si tratta di piccoli episodi. La storia degli scioperi parla di movimenti operai e di movimenti di impiegati, specialmente nell'industria privata; l'ipotesi dello sciopero dei generali, dei magistrati, ecc., non ha mai avuto conferma nella pratica. Teoricamente tutto è possibile, ma non è a questi piccoli episodi che ci si deve riferire.
Molè per quanto riguarda la serrata, osserva che vi possono essere, in linea di massima, delle serrate determinate da condizioni che rendono impossibile continuare la vita delle aziende. In questi casi potrebbe essere preveduto uno speciale controllo da parte dello Stato, perché non si prestino a nascondere qualche speculazione.
Di Vittorio, Relatore, pensa che un rigoroso controllo dovrebbe sempre esservi, poiché la serrata è un'arma di battaglia specifica. Ricorda di averne parlato nella sua relazione, ma non ha creduto opportuno parlarne negli articoli, perché, a sua avviso, la Costituzione deve consacrare i diritti, e non parlare delle cose vietate, affinché non divenga una specie di codice penale.
Siccome nega il diritto alla serrata, non trova necessario dirlo nella Costituzione.
Dominedò ritiene che la questione dovrebbe essere impostata nei suoi termini essenziali di partenza, che non sono sfuggiti all'accortezza del Relatore quando ha indugiato sulla questione preliminare del riconoscimento del diritto di sciopero in genere, termini di partenza che sono stati felicemente ripresi dall'onorevole Molè.
Non vorrebbe essere frainteso, ma, a suo avviso, la questione dovrebbe essere impostata in termini giuridici: lo sciopero è un'arma di fatto che, eventualmente, può anche essere giustificata. Riconosce che il potere di sciopero (preferisce parlare di potere e non di diritto) possa essere legittimo. Lo sciopero, però, di regola rompe un rapporto di lavoro precostituito. All'onorevole Di Vittorio, che parlava dell'esigenza di riconoscere alla personalità umana la libertà di non lavorare, cioè il diritto di incrociare le braccia, osserva che, a parte la propria sensibilità al dovere sociale di lavorare, tale libertà può se mai trovarsi nella facoltà di non assumere un obbligo di prestazione d'opera, ma, una volta assunto quest'obbligo, si stabilisce un vincolo di diritto: e lo sciopero è un'arma di fatto che rompe un vincolo giuridico precostituito, come la guerra è un'arma di fatto che rompe un ordine internazionale precostituito.
Non esclude affatto, pur considerandola eccezionale, l'ipotesi che la rottura di questo vincolo precostituito possa essere legittimata da cause di forza maggiore; può tuttavia non esservi uno stato di forza maggiore tale da legittimare la inadempienza al rapporto di lavoro in vigore. E allora si domanda, pur avendo riconosciuto l'ipotesi in cui l'arma dello sciopero diventa legittima, se convenga contemplare nella Costituzione il diritto di sciopero, attraverso una formulazione così generale da comprendere ipotesi legittime e non legittime.
Afferma che la riprova della bontà di questa impostazione della tesi sta nel fatto che, per quante costituzioni egli abbia sfogliato, ad eccezione di quella estone, non ha mai trovato un accenno al riconoscimento generale di questo diritto. Vi è invece qualche indovinato accenno sulle funzioni del sindacato dirette ad elevare e migliorare le condizioni della classe lavoratrice.
Di Vittorio, Relatore, risponde che questo diritto è riconosciuto in tutte le legislazioni di quei paesi nei quali era stato soppresso. In Francia, ad esempio, non si fa nessuno accenno al diritto di sciopero, perché non è stato mai soppresso.
Dominedò aggiunge che il passo avanti rispetto a situazioni preclusive dell'esercizio di questo potere sta oggi nell'avere superato il divieto formale di sciopero e di serrata.
D'altra parte, a suo avviso, quest'arma eccezionale dello sciopero deve essere gradualmente eliminata nell'evoluzione di un paese civile. Così come si tende al superamento della guerra, si deve tendere al superamento dello sciopero, sostituendo a quest'arma eccezionale diversi strumenti di tutela giuridica. Considera l'istituto dell'arbitrato obbligatorio come segno di evoluzione di un popolo civile.
Pertanto pone il dubbio della opportunità di giungere a sancire, come mezzo normale comprendente tutte le ipotesi, questo esercizio di un potere di fatto, pur tenendo presenti le ragioni sociali e morali che lo giustificano in determinate ipotesi.
Marinaro dichiara che non nega il diritto di sciopero, per le ragioni accennate ampiamente dal Relatore e dall'onorevole Molè; vede anche l'opportunità che questo diritto generale, ormai riconosciuto, sia consacrato in una precisa norma; ma vede pure la necessità che il riconoscimento di un tale diritto sia accompagnato da precise garanzie e limitazioni. Il diritto di sciopero illimitato e la negata facoltà di serrata, come è nel pensiero del Relatore, confermano, a suo avviso, l'intendimento di voler riconoscere una preminenza dei lavoratori rispetto ai datori di lavoro, intendimento che nella seduta del giorno precedente sembrò superato, sia pure per fini conciliativi. Fa rilevare che in uno Stato democratico non possono costituirsi privilegi di classe. Tutte le classi debbono essere considerate su uno stesso piano nell'esercizio dei loro diritti e nell'adempimento dei loro doveri, e tutto questo per rispetto a quelle finalità che interessano principalmente tutta la collettività.
All'affermazione del diritto di sciopero, quale strumento di lotta e di difesa degli interessi dei lavoratori, deve necessariamente corrispondere il diritto di serrata dei datori di lavoro. Non ritiene concepibile, specialmente dal punto di vista giuridico — e nella Costituzione vanno fissate norme essenzialmente giuridiche — che la legge ammetta uno strumento di offesa e non consenta alcun mezzo di difesa.
Lombardo afferma che la serrata è una rappresaglia, non un mezzo di difesa.
Marinaro ripete che la serrata è il mezzo che ha il datore di lavoro per difendersi da uno sciopero illegittimo, e non può, a priori, essere considerata una rappresaglia.
Ammesso in egual grado il riconoscimento dei diritti di sciopero e di serrata, sorge evidente l'opportunità che l'affermazione di tali diritti sia accompagnata da garanzie e limitazioni, in modo che tali mezzi di lotta siano contenuti nell'ambito degli interessi economici e sindacali, non contrastino con l'interesse generale prevalente della collettività, e non si tramutino in strumenti di offesa e di indebolimento delle istituzioni democratiche.
Prescindendo dalle osservazioni fatte dall'onorevole Molè e dal Presidente, circa la distinzione tra i dipendenti dello Stato, ritiene che, nel caso dello sciopero nelle pubbliche amministrazioni, nei servizi pubblici, è l'interesse della collettività che deve prevalere. In ogni caso, poi, il ricorso a tali mezzi di lotta dovrebbe essere deliberato dalla effettiva maggioranza degli interessati e dovrebbe essere subordinato ad una procedura preliminare di composizione.
Per queste considerazioni, propone che nella Carta costituzionale sia inserito un articolo del seguente tenore:
«È riconosciuto, nell'ambito degli interessi economici e sindacali, il diritto di sciopero e di serrata, salvo le garanzie e le limitazioni stabilite dalla legge.
«Gli scioperi nei servizi pubblici e nelle pubbliche amministrazioni sono proibiti; le vertenze relative saranno risolte da adeguati organi opportunamente predisposti».
Togni dichiara che non seguirà l'onorevole Dominedò in quella che è la parte squisitamente giuridica dell'argomento, anche perché può concordare col Relatore sul fatto che un fenomeno così grave, così moderno e così importante come lo sciopero non può essere circoscritto in formule e strettoie giuridiche, ma è opportuno considerarlo da un punto di vista prevalentemente sociale. Sotto questo punto di vista crede che nessuno possa negare la necessità ineluttabile del ricorso allo sciopero quale unica arma, unico mezzo dei lavoratori per poter progredire nelle loro posizioni di lavoro e migliorare le posizioni stesse. Arriverebbe a dire che, ove lo sciopero fosse veramente applicato secondo quell'alto valore che ha, sarebbe un'arma di progresso sociale, l'unica arma degli operai per poter mettere sul tappeto determinate rivendicazioni.
Riconosce che sul piano sociale si va verso un continuo perfezionamento delle condizioni dei lavoratori, e che le esigenze sindacali comportano una progressiva richiesta di miglioramento.
Per contro, non si sente di mettere sullo stesso piano l'arma che avrebbero i datori di lavoro, ove si consentisse la serrata, perché questo non risponderebbe né alla funzione sociale del capitale, né a quell'impulso di tutto il popolo italiano di oggi, della nuova democrazia, che spinge a tutelare in maniera prevalente i lavoratori nell'esplicazione del loro lavoro e nell'affermazione dei loro diritti.
Fa però considerare che lo sciopero è un'arma la quale presenta, per chi l'adopera e per chi la subisce, gravi inconvenienti, gravi danni e quindi comporta dei limiti e la necessità di garanzie, per un complesso di situazioni e di attività, di fronte alle quali il cittadino onesto che pensa al bene comune resta perplesso e preoccupato.
Non è, a suo avviso, minimamente accettabile una possibilità di sciopero politico, così come non è ammissibile una possibilità di sciopero da parte di determinati organi statali o tali da rappresentare o impersonare determinati gangli della vita dello Stato stesso.
Dichiara di non essere d'accordo col Relatore quando parla di questo Stato come di qualche cosa di aleatorio, momentaneo, che può essere domani modificato nella sua struttura e verso il quale dobbiamo garantirci. Pensa che il giorno in cui lo Stato democratico dovesse cadere, per una qualsiasi deprecata ipotesi, nessuna costituzione potrebbe reggere, e coloro che fossero chiamati a dare un nuovo ordinamento allo Stato spazzerebbero qualunque norma che possa avere statuito lo Stato che oggi si tratta di formare. Lo Stato democratico garantisce la libertà, ma deve garantire anche il proprio funzionamento e deve difendere la propria vita; non può consentire che alla sua vita sia attentato né sul piano politico, né sul piano economico, sindacale, lavorativo. Crede che su questo tutti siano d'accordo.
Ha toccato questo punto per mettere in evidenza le difficoltà che si presentano a chi voglia sancire questo diritto nella nuova Costituzione. Non crede possibile trovare una formula che dica tutto quello che si deve dire e ometta tutto quello che si deve omettere, e che non sia limitativa o insufficiente dato il continuo e, sotto certi aspetti, imprevedibile evolversi della vita economica e sociale.
Si chiede perché, come hanno fatto tutte le altre Costituzioni, non si vuole rinunciare ad affermare questo diritto di sciopero, quando esistono due garanzie per i lavoratori: cioè che nulla è detto nella nuova Costituzione che possa anche minimamente servire di limite, di remora, di ostacolo alla manifestazione di questo diritto che è nella coscienza di tutti; inoltre uno Stato democratico non potrà mai non consentire lo sciopero ai lavoratori, quando questo veramente si manifesti come una necessità insopprimibile. Pertanto propone di soprassedere a qualsiasi formulazione.
Lombardo afferma che in una società prettamente socialista lo sciopero andrebbe vietato, mentre è un'arma legittima nella società capitalistica, in quanto permette di colpire gli imprenditori attraverso il loro profitto.
Naturalmente lo sciopero, da un punto di vista generale, è un danno per la collettività, ma lo è anche la condizione d'inferiorità dei lavoratori, ed è ovvio che questi possano usufruire di tale arma.
Siccome lo sciopero è un'arma, qualora se ne enunci il diritto, dovrebbero anche essere enunciate le garanzie di esercizio, dovrebbe essere stabilito come, quando e da chi potrebbe essere esercitato; occorrerebbe, insomma, fare una casistica che non può trovar luogo nella Costituzione; perciò, a suo avviso, non andrebbe fatta nessuna enunciazione.
La serrata, invece, è un'arma di offesa, non di difesa: è un'offesa nei riguardi della collettività e, se nella Costituzione, ammettendosi lo sciopero, si dovesse ammettere anche la serrata, ritiene questa una ragione di più per non parlare di sciopero.
Si chiede, però, se possa conciliarsi il silenzio sul diritto di sciopero con la enunciazione, fatta in altro articolo, del dovere, oltre che del diritto, al lavoro.
Dominedò spiega di aver parlato di dovere del lavoro in un senso assolutamente generale, sociale ed etico. Non si esclude che, là dove questo dovere si traduca nella assunzione concreta di uno specifico rapporto di lavoro, se tale rapporto non determina un trattamento del lavoratore conforme alle necessità individuali e familiari, possa sussistere quella ragione di prepotere economico del datore di lavoro rispetto al lavoratore, per cui a questi sia dato legittimamente ricorrere ad un'arma, che è la sola per spezzare quel prepotere.
Molè aggiunge che il lavoro è un dovere, ma nelle condizioni migliori per il lavoratore.
Di Vittorio, Relatore, ritiene che la proclamazione del dovere del lavoro sia necessaria per i borghesi, perché per i lavoratori il lavoro è un bisogno vitale.
Lombardo chiede se la legislazione fascista, che aveva vietato lo sciopero e la serrata, è stata abrogata.
Dominedò risponde che l'ordinanza alleata del 13 giugno 1944 ha abrogato il sistema corporativo fascista, lasciando però in penombra il sistema sindacale. Nella realtà si considera superato il divieto del diritto di sciopero e di serrata.
Fanfani riprendendo ed estendendo una frase dell'onorevole Lombardo, afferma che tutte le volte in cui una società riesce a rendere piena giustizia a tutti gli oppressi, l'arma dello sciopero non ha più diritto di essere usata.
Lo Stato italiano, che si è proposto di riconoscere pieno diritto alla giustizia da parte di tutti, dovrebbe in teoria non ammettere lo sciopero e la serrata. Ma se ammette lo sciopero, cioè se riconosce l'incapacità dello Stato a tutelare la giustizia nei confronti dei lavoratori, non può non ammettere la stessa incapacità dello Stato a tutelare la giustizia nei confronti dei datori di lavoro.
Ammettendo solo il diritto dei lavoratori di rendersi ragione, implicitamente si riconosce che lo Stato soggiace normalmente all'influenza del capitalista, tanto che non sa rendere giustizia al lavoratore, donde lo sciopero. Ma questa ammissione implicita non può essere fatta nella Costituzione. Pertanto o si tace il diritto di farsi ragione da sé nel campo del lavoro, oppure si riconosce la insufficienza dello Stato a rendere giustizia, e, in questa ipotesi, si deve ammettere il duello tra le parti.
In questa condizione di cose lo Stato deve prendere delle garanzie; pertanto propone il seguente articolo:
«È ammesso il ricorso allo sciopero e alla serrata. La legge ne regola le modalità di proclamazione e di svolgimento, a tutela della pace sociale, del godimento del diritto al lavoro, della continuità dei servizi essenziali alla vita collettiva e dell'espletamento delle funzioni proprie dello Stato».
Molè ritiene che si possa non parlare dello sciopero, ma che non si possa affermare che l'enunciazione del diritto di sciopero nei rapporti tra privati significhi affermare l'incapacità dello Stato a dare una legittima soddisfazione ai diritti del lavoro. Sarebbe una confessione di questa incapacità, qualora questo diritto fosse concesso ai soli prestatori d'opera.
Finché non ci sarà uno Stato di economia collettiva, finché ci sarà una certa libertà d'iniziativa, lo Stato non potrà impedire che si verifichino ingiustizie.
Quanto poi a regolamentare lo sciopero, si potranno determinare i limiti in cui lo sciopero è consentito, ma non le modalità, perché lo sciopero è un'arma che o è concessa completamente, oppure è perfettamente inutile.
Togni chiede che venga messa ai voti la sua proposta, cui hanno aderito gli onorevoli Dominedò, Lombardo e Molè, intesa a non includere nella Costituzione alcun accenno relativo allo sciopero o alla serrata.
Fanfani ritiene che la Sottocommissione possa aderire alla proposta Togni, facendo contemporaneamente un invito all'Assemblea perché consideri l'opportunità di promuovere al più presto l'emanazione di una legge che abroghi esplicitamente tutta la legislazione fascista in materia.
Di Vittorio, Relatore, nella sua qualità di relatore intende, prima che si passi ad una qualsiasi votazione, rispondere ai vari oratori, alcuni dei quali hanno fatto delle obiezioni molto giuste, che ritiene possano essere prese in considerazione. Per tale motivo, e data l'ora tarda, propone che la seduta sia rinviata al giorno successivo.
(Così rimane stabilito).
A cura di Fabrizio Calzaretti