[Il 6 maggio 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del Titolo terzo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti economici».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Cairo. [...] All'articolo 34 si stabilisce il diritto del lavoratore al mantenimento e all'assistenza sociale. Ora il diritto al mantenimento sembra a me che possa essere ritenuto troppo impegnativo da un lato e troppo restrittivo dall'altro. Meglio si sarebbe fatto usando la dizione: «diritto all'assistenza economica e sociale»; e nel capoverso dove si parla di istituti e organi predisposti e integrati dallo Stato, invece di mantenere un'espressione così generica, ritengo sarebbe meglio stabilire: «organi pubblici», in quanto solamente l'organo pubblico deve e può, con le dovute garanzie, amministrare l'assistenza e la previdenza.
[...]
Medi. Un doloroso spettacolo si presenta ai nostri occhi. Per le vie e le città della nostra terra un numero sterminato di bimbi soffre le conseguenze di una tragedia che essi non hanno voluto. Una società che si era economicamente costituita ed ha approfondito le ricerche del sapere e della scienza per poter preparare agli uomini un miglior avvenire, non ha fatto altro (non vogliamo ora eseguire un processo) che creare a questa povera umanità nuovi dolori e nuove tragedie.
Oggi in Italia contiamo più di diecimila bimbi mutilati orrendamente dalla guerra. Oggi contiamo nella nostra terra decine di migliaia di orfani, senza casa, senza rifugio, senza focolare e senza speranza. Da questa tragedia deriva alla società, come tale, un terribile senso di responsabilità e di riparazione. È l'organismo sociale che è mancato alla sua altissima funzione. Quando la società si è organizzata, aveva di fronte la responsabilità del bene comune, del bene di tutti i cittadini: questo bene non lo ha integralmente realizzato. Ora, dunque, responsabile primo di questi dolori e di queste lacrime deve essere l'organismo sociale che deve procedere alla riparazione e alla reintegrazione di questo mondo del dolore e della miseria.
Ma c'è ancora di più, c'è un dovere di ordine della società. Quando noi andiamo nelle grandi città, sopratutto nel Mezzogiorno, assistiamo ad una condizione di miseria paurosa; migliaia, e decine di migliaia di famiglie che non hanno di che sostenersi; quando si va per le vie di Palermo e di Napoli e si vedono queste povere famiglie nei tuguri, lasciati appena in piedi dalle bombe e dalle catastrofi della guerra, quando si vedono sull'unico giaciglio sei, sette, otto persone a dormire, ci vien fatto di domandarci: ma la società a che cosa pensa, come crede di risolvere questo grande problema di redenzione?
Noi stiamo parlando, qua dentro, di democrazia, di ricostruzione, ma mi sembra che il concetto di democrazia, cioè di potenza di popolo, consista proprio in questo, nel sollevare questo popolo, nel sollevarlo intellettualmente e materialmente, nel sollevarlo anima per anima, cuore per cuore, intelligenza per intelligenza, ma anche corpo per corpo, e dolore per dolore. È quindi un dovere della società democratica venire incontro a questo mondo che lacrima, venirgli incontro e tirarlo fuori dalla miseria. Noi vediamo che in una città come Palermo vi sono circa 60 mila persone che non hanno come vivere, anzi vivono mangiando la propria miseria, perché il destino della miseria è questo: la miseria mangia e consuma se stessa, il dolore mangia e consuma se stesso. Quando ci si trova di fronte a queste situazioni in cui la spina dorsale della speranza sembra spezzata, in cui queste famiglie non hanno più la forza per potersi levare, ci vien fatto di domandare se la società avverte che si sta perpetrando un delitto abbandonandole e che noi abbiamo il dovere di sollevare questi nostri fratelli.
Ecco perché è nell'interesse stesso del vivere sociale che queste masse e queste categorie vengano sollevate, rimesse in un ordine, in una disciplina di vita, in una possibilità di respirare. È un interesse della società, è una necessità quella di andare incontro a costoro. Noi abbiamo di fronte lo spettacolo di categorie che per la loro stessa natura, non per propria colpa, non possono redimersi da sé. Guardate a tanti bambini, vecchi, disoccupati, minorati del lavoro o della guerra, gente cioè che ha dato il proprio contributo, che ha ben meritato della società, che ha dato tutto quello che poteva dare, e che ad un certo momento si trova paralizzata. È un dovere nostro venire incontro ad essi con tutte le forze possibili, è dovere di tutti noi sentire questo appello della sofferenza. Ed allora la Costituzione nostra, che è una Costituzione di democratica libertà, cioè anche di liberazione dalla schiavitù della miseria, pone degli articoli che mettono lo Stato, la struttura della Repubblica di fronte a questo mondo che deve essere sollevato. Fra questi articoli ve n'è uno in particolare, l'articolo 34, che la Commissione ha così formulato: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari di vita, ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale».
Questo articolo dice molto, ma io ho pensato di dare ad esso un senso ancora più alto e più generale. Noi ci troviamo di fronte al cittadino, il quale deve provvedere alla propria vita ma, per circostanze che non dipendono dalla sua specifica volontà (quindi non colpevole) questo cittadino, ripeto, o per ragioni di lavoro, o per ragioni di natura, o per ragioni di disposizioni, per disgrazia, per età, per malattia, in un certo momento può trovarsi nella impossibilità di provvedere alla propria vita. Amici, basta dire questo: che il cittadino si trova nella impossibilità di provvedere alla propria vita. Di gente che muore di fame ce n'è, ma a rigore di termini ce n'è poca, una donna, un bambino, un vecchio che sta morendo lo troviamo qualche volta nelle nostre città del meridione, sui gradini della Chiesa. Questi dimenticati della società, che alla società fanno il processo della morte noi li troviamo, ma sono casi rarissimi. La nostra preoccupazione non si deve esaurire al semplice fatto di vivo o non vivo. Abbiamo il dovere altissimo di rimettere l'uomo nella sua dignità di uomo, altrimenti che società andiamo costruendo? Una società di relitti, di pezzi di barca sfasciati che cercano invano di arrivare al porto. Di qui il compito di rimettere questo uomo nella dignità di uomo, farlo ridiventare uomo. Viene il sospetto che talvolta la società tratti le bestie molto meglio dell'uomo. Alcune bestie sono trattate in stalle scientificamente curate, e tenute molto meglio di migliaia di bimbi, uomini, donne che vivono nel letargo e nella miseria. Questa non è una società né saggiamente né umanamente organizzata. Il lasciar morire qualcuno è un delitto simile all'omicidio, l'assomiglia molto, non dico che sia la stessa cosa, ma socialmente parlando è forse la stessa cosa. E io dico, mi si permetta qua dentro, a tante persone che hanno creduto di fare il proprio dovere solo perché una volta, per la strada, a un povero che tende la mano, hanno buttato 5 o 10 lire: questo non è compiere il proprio dovere. Mettere la mano nelle tasche non basta. Non basta fare questa semplice carità spicciola, bisogna che questo sentimento fraterno prenda la nostra anima. La società che dobbiamo costituire non è una società di elemosina, è una società di corrispondenza di cuori, in modo che il dolore del mio fratello diventi il mio dolore, la miseria del mio fratello diventi la mia miseria, le lacrime del mio fratello diventino le mie lacrime. Bisogna che l'azzurro della mia gioia sia sempre tinto pittorescamente dalla nube del dolore del fratello che mi sta accanto. Invece non si fa che una società, un aggregato di uomini che si odiano e si sopprimono l'uno con l'altro. Credo che se ci fosse nel nostro senso umano della vita questa pena soavissima della pena altrui, cari amici di destra e di sinistra, tanti problemi economici, tante rivoluzioni sociali, sarebbero risolte da una legge che parte dalla profondità della coscienza senza una imposizione di forza. Questa è la nostra legge e speriamo sia non solo problema di costituzione, ma di ricostituzione vitale del nostro popolo e della nostra dignità.
Ecco perché questo grido che sale non deve procurare il senso della disperazione, ma il senso della attenzione. Non deve essere un grido che faccia suscitare ribellione di cuori ma speranza che le menti e le intelligenze finalmente si intendano e il dolore non sia causa di nuovi dolori e di nuove guerre, ma di un fraterno abbraccio che spiani le vie della pace e della ricostruzione. Perciò, con questo concetto, io ho proposto un emendamento molto semplice che rientra nello spirito della Commissione, ma che vuol esprimere questa sensibilità umana e dignitosa.
«Ogni cittadino che non abbia la possibilità di provvedere alla propria esistenza, conforme alla dignità umana, ha diritto ad adeguate forme di assistenza».
Insisto su quella piccola parentesi «conforme alla dignità umana»; è necessario rimettere l'uomo nella dignità, ridargli nella dignità la libertà, e la libertà nell'ordine; ricostruire il pilastro della vita civile. Noi ci troviamo di fronte quindi alla società impegnata come tale, impegnata in tutti gli individui, in ogni persona, in ogni essere umano, impegnata in un'assistenza che parte dal basso; ogni cittadino, ripeto, ha questa responsabilità come uomo, e, se crede in una Fede superiore, anche come cristiano; altrimenti è un cristiano per modo di dire e non è degno di stare sotto questa grande luce e questa grande insegna.
E allora, amici, ognuno collabori a far sorgere il senso della solidarietà umana, della carità, della assistenza da tutte le parti; si moltiplichino le opere, vengano i germi dell'amore, si creino organizzazioni poderose; e allora vedremo assistiti i vecchi, gli orfani, i poveri, gli ammalati, i derelitti, in una complessità così varia, così generale, così intima, così aderente che veramente ci farà dire che l'uomo non è poi tanto cattivo. Quando tante volte sentiamo, anche in quest'Aula e fuori, che l'umanità è cattiva, che gli uomini sono imbestialiti; cari colleghi, non è vero. Noi tutti assistiamo ad una dedizione di carità così generosa che veramente commuove i nostri cuori.
E allora, qual è il dovere che la società organizzata e le autorità si impongono per inquadrare la società tutta nel cammino migliore? Il dovere è quello di aiutare, di favorire, di venire incontro, di guidare, di promuovere. Anche lo Stato organizzerà la sua opera fondamentale di assistenza e previdenza; e dall'altro lato verrà incontro a tutte quelle iniziative sane, corrette, oneste che cercano di raccogliere dalle mani di chi più ha quel bene in eccesso, quel superest che sia dato a coloro che ne abbiano meno.
In questa idea, in questo concetto è redatto anche il secondo comma dell'emendamento: «Lo Stato promuove e favorisce — come sarà pubblicato nella nuova edizione degli emendamenti presentati da me e dalla signora Federici — l'assistenza e la previdenza sociale».
E questo, o amici, è un capitolo che veramente ci deve confortare nella nostra ripresa e nel nostro programma. E che la Costituzione sancisca questo principio mi sembra una norma altissima che ci dà un senso di serenità per il domani, ci dà un senso di luce nuova che deve schiudere le vie ad un'intesa comune fra tutti quanti i fratelli. Altrimenti, se vogliamo bloccare il senso umano della vita in rigide forme di legge, non potremmo far altro che leggi che uccidono lo spirito e non libere sensibilità che avvicinano e fanno insieme palpitare tutti i nostri cuori.
Vorremmo che da questa Assemblea uscisse una risposta all'appello di tanti dolori e di tante lacrime. Vorremmo dire una parola di conforto a tutti questi bimbi scarni e derelitti, a queste mamme che giorno per giorno si logorano per cercare un pezzo di pane, a questi poveri papà disoccupati che ogni sera tornano a casa e ai bimbi che chiedono del pane devono con pietosa bugia dire che questo pane è arrivato, ma in realtà non c'è.
Vorremmo che da questa Assemblea fosse detta una grande parola: la Repubblica italiana nasce sentendo questa responsabilità; è una società più umana e più ampia che si vede aprire il corso dei secoli; siamo in una epoca innovatrice e rinnovata. Le guerre portano con sé tanti dolori, ma sono anche richiami della provvidenza per tutte le classi sociali. E allora invochiamo da questa Assemblea, attraverso la nostra Costituzione, una parola che scenda a confortare e a sollevare tutte le classi, che sia ammonimento a tutti quelli che hanno, di dare liberamente, con generosità e dedizione, conforme a quella legge superiore che impone loro di dare quello che superest. La vita non è accentramento di personalità, ma dedizione del proprio essere alla chiamata dei fratelli. Una società così composta e costituita nelle sue leggi interne ed esterne può sorridere ad un'alba nuova di pace e di libertà. Per questo si leva dai nostri banchi questo sereno sguardo verso il domani, questa sicurezza che l'esempio dato dal popolo italiano serva di insegnamento per il mondo: che i grandi problemi della vita si risolvono per le vie dell'amore e della carità che affratellano i popoli e li incamminano sereni per la via del domani. (Applausi).
[...]
Terranova. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, di questo Titolo III che riguarda argomenti di tanto interesse, sarei indotto a dire ampiamente, più forse per esperienza umana, che non per studio approfondito. Ma rischierei di dilungarmi troppo, dopo che tante autorevoli voci si sono fin qui levate per illustrare l'ampia materia. Permettano, quindi, che del Titolo III soffermi la loro attenzione soltanto sull'articolo 34. Il primo comma di tale articolo introduce un principio la cui portata è di grandissimo rilievo. Esso afferma cioè, il diritto per ogni cittadino, inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari alla vita, d'essere mantenuto ed assistito. Ed affermare un diritto significa assumersi l'impegno di renderlo effettivo ed operante. Approvando questo comma, quindi, ci si assume un impegno di una immensa portata. Lo assumiamo noi, che ne prendiamo l'iniziativa e la responsabilità; lo assume lo Stato al quale è demandato l'obbligo ed in gran parte l'onere di soddisfarlo. L'ultimo comma dell'articolo infatti dichiara che all'assistenza, oltre che alla previdenza, provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato. È evidente che con una siffatta affermazione tutta l'assistenza verrebbe statizzata, solo allo Stato incombendo insieme l'onore di predisporla e l'onere della spesa. Di tutte le altre forme di assistenza e di beneficenza non si fa cenno. La dizione dell'ultimo comma non lascia dubbi al riguardo: «istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». Se si fosse detto che gli organi sono predisposti od integrati dallo Stato, il riferimento ad altri organi ed enti di assistenza, fuori dell'orbita dello Stato, sarebbe stato evidente; si sarebbe supposto cioè l'esistenza di istituti che pur non essendo predisposti dallo Stato, tuttavia fruirebbero dell'aiuto dello Stato medesimo per integrare i fondi necessari alla loro finalità caritativa. È chiaro pertanto l'esplicito intendimento di abolire o, quanto meno, di lasciare fuori di ogni tutela le varie forme di assistenza privata e di beneficenza comunque alimentate da istituzioni non statali. Ora noi, onorevoli colleghi, abbiamo il dovere di chiederci: è utile un siffatto criterio? È giusto?
C'è una questione pratica, concreta, immediatamente tangibile che va esaminata, ed è questa: lo Stato ha i mezzi, ha la possibilità per assumersi un così grande impegno, per garantire l'esecuzione di un'attività assistenziale che abbraccia numerosi settori, che include forme molteplici e che esige una spesa enorme?
Io so che da qualche settore di questa Assemblea mi si obietterà che, in uno Stato socialmente bene ordinato, i mezzi e le possibilità per tali provvidenze devono esserci; e che, d'altronde, in un ordinamento economico diverso dall'attuale, non vi sarà posto che soltanto per un'assistenza specifica determinata da circostanze prevedibili e rapportata a un regime assicurativo sociale e comunque gestito dallo Stato. Io non mi soffermerò ad esaminare se una simile ipotesi sia realizzabile. Rilevo soltanto che il tipo di Stato e di società, in cui quella ipotesi dovrebbe verificarsi, non sono indubbiamente lo Stato italiano e la società italiana quali stiamo costruendo. La Costituzione, che quest'Assemblea sta predisponendo per il popolo italiano uscito dalla duplice catastrofe della dittatura e della guerra, sarà una Costituzione senza dubbio di grande respiro sociale. Ma essa non darà luogo ad uno Stato socialista. Anche se, come è auspicabile, gli articoli 31 e 32 di questo testo costituzionale troveranno piena attuazione, e tutti i cittadini avranno la possibilità di lavorare, traendo dal loro lavoro la remunerazione adeguata ed anche se sarà effettuato un ampio sistema di assicurazioni sociali, che consenta a tutti i lavoratori il giusto e necessario trattamento in caso di bisogno; ebbene, resteranno ancora vastissimi margini di bisogni inappagati; resteranno da assistere numerose categorie di indigenti di ogni età e di ogni condizione. A gran parte di tale assistenza lo Stato potrà direttamente ed indirettamente far fronte con istituzioni e con opere, con iniziative e con provvidenze o già in atto o da attuare successivamente; ma lo Stato non potrà affrontare tutte le forme di assistenza che i diversi bisogni umani determinano. Non lo potrà, perché non ne avrebbe gli organi ed i mezzi; non lo dovrà neppure perché si sostituirebbe a quelle attività assistenziali, che la beneficenza privata svolge con tanto fervore e con così devoto sentimento di solidarietà umana.
Il problema non è nuovo; né io ho la pretesa di esporne qui i termini che costituiscono ampia materia storica e giuridica di polemica e di discussione. Mi basterà appena ricordare che la tendenza accentratrice dello Stato in tema di beneficenza e di assistenza non è recente. Ma finché si tratti di organizzare, disciplinare e controllare le istituzioni di beneficenza sorte dalla volontà e dai mezzi dei privati si può anche riconoscere, entro certi limiti, l'opportunità dell'intervento statale. I malumori che la legge Crispi suscitò in molti ambienti cattolici non sono ancora del tutto dissipati. E certo, la legge Crispi del 1890 sottoponendo a regime di controllo le istituzioni di beneficenza, indubbiamente limitò molte di tali istituzioni, ne ostacolò talvolta gli sviluppi, frenò iniziative ed assopì energie benefiche. Tuttavia quella legge ha avuto i suoi aspetti buoni: ha operato un coordinamento degli istituti, ne ha disciplinato l'attività, ne ha consentito il controllo, talvolta ne ha permesso utili integrazioni.
Ma, invece, di fronte all'enunciato dell'articolo 34 del progetto di Costituzione c'è da restare alquanto perplessi. È evidente che, con l'ultimo comma di quest'articolo, non ci sarebbe più nemmeno l'ombra di autonomia per tali istituzioni. La legge Crispi queste istituzioni lasciava in vita, riconoscendole come enti pubblici o comunque morali. Col presente comma invece questi enti verrebbero assorbiti dallo Stato.
E se questo è che si vuole, lo si dica esplicitamente. Ma volendosi dare allo Stato tutta la responsabilità e tutto l'onere dell'assistenza, noi abbiamo il dovere di dire che si commette un grandissimo errore oltre che una ingiustizia. Lo Stato, almeno da noi in Italia, dove la tradizione della privata beneficenza è gloriosa, se assorbisse le espressioni di questa beneficenza correrebbe il rischio di vedere appassite istituzioni fiorenti ed illustri. Noi infatti dobbiamo considerare il problema non soltanto nei riguardi della beneficenza legale, della beneficenza cioè che è effettuata da istituzioni create dallo Stato, o da istituzioni private, considerate tuttavia pubbliche per i fini che si propongono; ma il problema va specialmente considerato in relazione ad altra forma di beneficenza e quella più generosa, più schietta, che la legge del 1890 non ha, giustamente, disciplinata, perché sarebbe stato assurdo disciplinare.
Quest'altra forma di beneficenza viene designata nei testi col nome di beneficenza ordinaria o facoltativa. Essa comprende migliaia di istituti, di organizzazioni filantropiche, di congregazioni religiose, che svolgono un lavoro assiduo, diffuso, profondo. Decine di migliaia di persone, laiche e religiose, vi prodigano intelligenza capacità, esperienza, senso umano di abnegazione. Nessuno, penso, crederà che quest'altra forma di beneficenza sia di irrilevante portata. La verità infatti è che essa eguaglia, nella sua portata materiale, l'assistenza legale. Secondo i dati statistici ufficiali di prima della guerra, per la beneficenza legale in Italia si erogava annualmente la somma di un miliardo di lire all'incirca. Ebbene, secondo gli stessi dati, la somma complessiva erogata dai vari enti per la beneficenza privata non era inferiore; taluni, anzi, ritengono che fosse persino superiore. Si tratta, dunque, di un patrimonio cospicuo, vastissimo che non può essere disconosciuto.
Si potrebbe prospettare l'idea di mantenere nell'orbita della beneficenza legale un tale patrimonio, incamerando i beni degli enti che esercitano la beneficenza privata; o, quanto meno, che lo Stato intervenga per incanalarlo nella beneficenza pubblica.
Ma quali sarebbero le conseguenze di una simile eventuale determinazione?
Quei beni, quegli istituti, quei patrimoni, che oggi la beneficenza privata destina al soccorso dei poveri, degli indigenti, degli inabili, degli afflitti, non sono tutti incamerabili e nemmeno disciplinabili. Essi sono il frutto di una spontanea e spesso immediata volontà di bene da parte di coloro che il bene concepiscono come solidarietà nel bisogno; essi sono la espressione di un sentimento che la legge normale non può disciplinare, perché parte dal cuore, parte da quel sovrannaturale impulso degli uomini a ritrovarsi affratellati nell'ora del dolore. Quel sentimento ha un nome e questo nome è carità. Pronunciamola pure questa parola, che molte teorie considerano vecchia e senza più valore; pronunciamola con rispetto, con devozione, con venerazione. La beneficenza legale, la beneficenza organizzata indubbiamente ha una sua grande funzione sociale da assolvere. Ma la carità assolve due funzioni di pari se non di maggiore importanza.
Da un lato essa va incontro ai poveri, ai derelitti, con occhio più vigile di quanto la beneficenza legale non possa avere, perché penetra nelle case e perfino nei cuori. D'altro lato essa adempie, in chi la compie, ad un grande, sublime dovere: il dovere di rendersi utili agli altri, di unificarsi in comune sorte al prossimo, come diceva Tertulliano, secondo lo spirito del comune Padre.
Questo dovere rende la carità virtù e virtù sovrannaturale; rende la carità non più elemosina ma misericordia e cioè sentimento di pietà e di affratellamento, volontà di dare agli altri, uscendo da sé, dimenticando se stessi. Io non dirò con Pascal che la legge della carità basti a regolare la repubblica cristiana più di tutte le leggi politiche. Non chiederò neppure che nel nuovo testo costituzionale si faccia cenno della carità; e sarebbe d'altronde inutile, perché nessuna legge e nessun codice che non stiano nell'anima potrebbero mai sancire un principio che trascende gli uomini.
Ma poiché dalla carità sono sorte, sorgono e sorgeranno sempre opere di bene, le quali sono concrete manifestazioni di solidarietà, di assistenza, di umana giustizia, è opportuno ed è necessario che tali opere possano liberamente continuare ad esplicare la loro azione caritativa e benefica; è soprattutto indispensabile che esse non vengano direttamente od indirettamente compromesse od annullate. L'assistenza, che nello Stato italiano rinnovato, dovrà venir concessa ai bisognosi, dovrà, dunque, poggiare essenzialmente su tre pilastri: quello della carità privata o, se più piace, della beneficenza facoltativa; quello della beneficenza esercitata da istituzioni sorte da private iniziative e da private iniziative sostenute, ma tuttavia disciplinata, ordinata e controllata dallo Stato; e quello degli enti pubblici.
Alla stregua di questi criteri, la dizione del terzo comma dall'articolo 34 va pertanto modificata. Propongo che tale emendamento sia così redatto: «All'assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti od integrati dallo Stato, il quale, per altro, favorisce le sane iniziative della privata beneficenza».
Mi duole di proporre un'aggiunta ad un testo, che è giudicato già abbastanza lungo. Ma, proprio perché molte cose son dette in questo testo, ritengo che sarebbe ingiusto non far cenno della beneficenza, intesa in tutte le sue espressioni di pietà e di solidarietà umana: un cenno, infine, di carità e di amore, anche come vaticinio di una società migliore in cui cristianamente ci si senta meno nemici e più fratelli; ci si senta più vicini a Dio, perché, come ha detto l'apostolo Giovanni, Dio è carità e chi sta nella carità sta in Dio e Dio in lui. (Applausi al centro e a destra — Congratulazioni).
A cura di Fabrizio Calzaretti