[Il 15 aprile 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione: «Rapporti etico-sociali».
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Badini Confalonieri. [...] Inizio, rileggendo quegli articoli sostitutivi, dal 23 al 25, che io ho proposto al progetto di Costituzione.
Art. 23. — «Lo Stato riconosce la famiglia, costituita dal matrimonio indissolubile, come nucleo naturale, originario e fondamentale della società, e tutela l'adempimento della sua funzione».
Art. 24. — «Il matrimonio è basato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi nei limiti stabiliti dal bene comune della famiglia, dalla mutua assistenza, dagli interessi della prole».
[...]
Per siffatte necessità di ermeneutica giuridica noi dobbiamo addivenire anche ad una diversa collocazione di questi articoli; e, iniziando il titolo che tratta dei rapporti etico sociali, non la parola «famiglia», ma l'espressione «lo Stato» deve dare l'avvio alle norme. È l'entità Stato che si trova di fronte l'entità famiglia, una entità che è originaria e storicamente e logicamente preesistente, e non può pertanto né creare, né costituire, ma soltanto riconoscere. Per questo l'emendamento che io propongo inizia con l'espressione: «Lo Stato riconosce la famiglia», e la riconosce non già come società, anche con il correttivo di «naturale», ma come nucleo naturale, originario e fondamentale della società. «Società» è un'espressione più limitata che non quella di «associazione». «Società» è un termine che noi assumiamo in prestito dal linguaggio giuridico, e che quindi non ci dà quel senso di sacro, per molti; per gli altri, quanto meno di umanamente altissimo, che è nel concetto della famiglia. Quindi, non una società. «Società», ripeto, è un termine preso a prestito dalla terminologia giuridica soprattutto commerciale, che troppo ci avvicina ad altra espressione giuridica commerciale, quella di contratto. Ma noi non intendiamo la famiglia come un contratto; ond'è che la società è il contratto in base al quale due o più persone si accordano al fine di, ecc. È sufficiente a tale proposito ricordare, se si trattasse di contratto, che come il contratto si costituisce, il contratto si scioglie; oltre che il senso umano, e, mi si consenta, sacro, manca in codesta definizione la possibilità di comprendervi quel carattere di indissolubilità che noi vogliamo affermare e che per me è fondamentale, insisto, consostanziale al matrimonio e che il matrimonio distingue e diversifica da ogni contratto.
Propongo, nella speranza di altra formulazione più felice che da altre parti potrà venire e che non mi è stato possibile esprimere, di dire «nucleo», rifacendomi ad un termine non assunto a prestito dalla terminologia giuridica, ma da quella delle scienze naturali, così come naturale è la famiglia, un termine che significhi l'originarietà dell'istituto, così come originaria è la famiglia. Un termine — l'espressione «nucleo», come d'altronde l'espressione «cellula» — che dà l'impressione di qualcosa di inscindibile, di una nuova entità costituita dall'armonica fusione delle varie personalità umane che costituiscono appunto la famiglia.
Un nucleo — riprendo un concetto cui avevo fatto cenno all'inizio — che lo Stato trova di fronte a sé, perché così sta scritto nel gran libro della natura, e che pertanto è «nucleo naturale originario e fondamentale della società». Lo Stato lo riconosce e «tutela l'adempimento della sua funzione».
Altri proponeva: «tutela l'adempimento della sua missione». Il concetto è rispettabilissimo ed è da molti condiviso, ma mi pare che il dire «missione» in un articolo della Costituzione è usare un termine che fuoriesce da quella che è la prassi giuridica; più esatto, più opportuno mi pare il termine di «funzione».
Però, dobbiamo ancora dire qualche cosa; rimane da esaminare quale famiglia lo Stato in tale guisa riconosca e tuteli. Evidentemente soltanto la famiglia legittima; cioè quella famiglia che è costituita dal matrimonio; e che è costituita per noi dal matrimonio indissolubile. Perché è a questo punto che noi che intendiamo sostenere l'indissolubilità del vincolo, dobbiamo precisare il nostro concetto, non nell'articolo successivo come è nel progetto, non nell'articolo 24. È un elemento essenziale, costitutivo che caratterizza l'istituto della famiglia. Discuteremo appresso se l'indissolubilità sia principio da affermarsi o meno, se — affermandolo — debbasi o meno includerlo nella Costituzione, ma se così è, non mi sembra possa dar luogo a dubbio che cotesta sia la sua collocazione.
Ed ora poche considerazioni, a favore della indissolubilità del matrimonio. Diceva Benedetto Croce, in questa stessa Aula e con la consueta arguzia, che egli è contrario al divorzio, perché chi divorzia una prima volta, divorzia una seconda, e deve pertanto trarsi la conseguenza che il rimedio non è efficace.
Ebbene, onorevoli colleghi, se il rimedio non è efficace, è efficientissimo il male che il divorzio produce. La solubilità del vincolo matrimoniale mina l'istituto della famiglia alle sue fondamenta.
Altri, ed io stesso — cattolico credente e professante — potrebbe porre a base di tale sua convinzione considerazioni di natura religiosa, che per essere di coscienza, e quindi individuali e non politiche, non hanno ragionevole motivo di costituire la base e il fondamento di disposizioni statutarie. Non basta dire che la coscienza si ribella, perché, anche se l'istituto del divorzio fosse introdotto nella legislazione italiana, qualunque cittadino che in esso ravvisasse la violazione dei dettami della propria coscienza sarebbe pur sempre libero di non usufruirne. Qui siamo in campo politico; ed è in campo politico, con argomentazioni di ordine politico, e pertanto soprattutto relative al costume e alla mentalità del popolo italiano, che la vexata quaestio si deve risolvere. Per tale motivo, e sotto tale riflesso nettamente liberale, era necessario che una voce liberale si elevasse a precisare che il principio dell'indissolubilità del matrimonio non intacca menomamente i principî di libertà. Libertà non è licenza, libertà non è anarchia, libertà non è assenza di vincoli, libertà è libera scelta, è libera elezione di quella condizione giuridica che ciascuno predilige.
Chi, come noi, concepisce la libertà come soltanto possibile ove essa sia causa ed effetto ad un tempo dell'elevazione spirituale dell'uomo e della società; chi, come noi, intende come uno dei fattori indispensabili di essa elevazione la stabilità della famiglia, e la famiglia segno inequivocabile di civiltà; costui, come noi, non può non convenire, contrariamente ad ogni apparenza, che l'istituto del divorzio non possa, non debba trovar luogo in uno stato liberale italiano.
Non è l'opinione estemporanea di un isolato: è, al contrario, la tradizione italiana di tutti quei governi liberali che, dal Risorgimento in poi, non hanno mai consentito (Commenti a sinistra), non hanno mai consentito, amico onorevole Grilli, l'immissione del divorzio nella legislazione italiana.
È tutta una tradizione di giuristi che tu come io e come tutti ammiriamo; è tutta una tradizione di giureconsulti insigni, da Bonghi a Gabba, da Salandra a Filomusi Guelfi; è contributo non di cattolici soltanto, ma di uomini di diversi credi religiosi, dal protestante Lord Gladstone all'israelita professor Polacco, i quali evidentemente non sostenevano l'indissolubilità del matrimonio sulla scorta di criteri religiosi, ma tutti riconobbero nell'unità della famiglia il principio etico che si è connaturato, sino a giungere al Simon, il quale ha definito il divorzio come «un matrimonio a prova» ed ha concluso che la semplice «possibilità di una dissoluzione toglie al matrimonio la dignità ed alla famiglia l'unità».
D'altronde è bene dire che non sono consentite le soluzioni intermedie in questo campo; o si è per il matrimonio indissolubile o per il divorzio.
Coloro che aspirano ad una soluzione intermedia, ad un divorzio sì, ma molto limitato, quelli sono nell'utopia; quando si consenta il divorzio, i limiti che vi si pongano sono contingenti, transitori; si manifesta ineluttabilmente la tendenza a modificare la legge in senso più largo, sino a giungere al divorzio per semplice consenso, sino ad ammetterlo per semplice volontà di uno dei coniugi; sino a consentirlo in forme che addirittura contraddicono alla pubblica moralità, secondo il concetto nostro europeo.
Io vi vorrei riportare un annunzio pubblicitario inserito su di un giornale americano, non molto tempo fa, in cui si diceva testualmente: «Divorzio completo, senza pubblicità, in un mese. Tutti i motivi, successo garantito, consultazioni gratuite».
È inutile recriminare di poi: il fatto è la conseguenza delle premesse, e chi non vuole consentire, non deve volere le premesse, perché se quelle premesse sono poste, si addiviene a quelle conseguenze.
Per questa considerazione, posso anche ritenere superfluo di confutare i motivi che i fautori del divorzio pongono a base delle loro argomentazioni, e che si possono così raggruppare: cause legali, quali per esempio la condanna, soprattutto la condanna all'ergastolo; cause morali, come l'adulterio; cause fisiologiche, come le malattie, soprattutto contagiose ed in ispecie l'impotentia perpetua.
Ora tutte queste cause, che i fautori del divorzio portano, come elementi a favore della loro tesi, sono viziate da un errore di principio: la valutazione unilaterale che essi danno e in base alla quale si considerano soltanto i diritti del coniuge offeso, e non il rovescio della medaglia: quei doveri che egli ha spontaneamente assunto all'atto del matrimonio e che proprio nel momento nel quale diventerebbero effettiva manifestazione della mutua assistenza imposta ai coniugi, egli potrebbe a tutto agio scuotersi di dosso col divorzio.
Comunque queste cause che i fautori del divorzio portano innanzi sono tutte cause singole mentre la legge, e soprattutto la Costituzione, deve tener conto della generalità dei casi e non dei casi singoli.
Maffi. C'è il 95 per cento dei casi singoli. È un grossolano errore di ragionamento.
Badini Confalonieri. Il cinque per cento sarebbe l'eccezione alla quale accennavo io, quindi la grossolanità del ragionamento non sarebbe nella mia, ma nella sua osservazione. Io dicevo che è il principio che deve essere affermato, nella Costituzione, mentre i casi singoli, temperabili con l'istituto della separazione personale, potranno eventualmente essere sottoposti a diversa, più ampia regolamentazione dei casi di nullità dei matrimoni, quando possano costituire errore di persona. È la generalità dei casi il principio che nella Costituzione dev'essere affermato; un principio di natura eminentemente costituzionale, se vero è che senza indissolubilità del matrimonio non vi è famiglia, e senza la famiglia manca un pilastro fondamentale alla costruzione dell'edificio statale, cui noi con la Costituzione tendiamo.
Questo è il contenuto dell'articolo 23, un articolo 23 che, per essere il cappello di tutto il titolo secondo dei rapporti etico-sociali, evidentemente non può contenere altre aggiunte di carattere particolare, ma deve rimanere così redatto quale definizione generale di principio.
L'articolo 23 considera la famiglia; l'articolo 24, secondo il mio emendamento, il matrimonio; l'articolo 25 la prole legittima ed illegittima, e la tutela dello Stato nei confronti della famiglia.
Se la Costituzione si redige per creare un'educazione sociale e politica al popolo, per incrementare un costume, per dare stabilità e forza a quegli istituti che della rinnovata società costituiscono il nerbo, alla affermazione della famiglia costituita dal matrimonio deve seguire l'altra, non meno esplicita, relativa all'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Veramente credo che si sia tutti d'accordo a questo riguardo. L'autorizzazione maritale, la tanto deprecata autorizzazione maritale della relazione presentata dall'onorevole Iotti, è istituto che è stato abolito dal Governo liberale del 1919, e che quell'abolizione fosse conforme al nostro costume è dimostrato dal fatto che neppure il fascismo ha osato ripristinarla. La donna ha proseguito nel giusto cammino della sua emancipazione; ed oggi ha piena, assoluta parità di diritti, anche politici, come è affermazione categorica dell'articolo 9 della Costituzione, che più alcuno intende porre in discussione. Ma l'affermazione di principio, come è formulata nel progetto sottoposto al nostro esame, è in una forma che direi eccessivamente drastica, un'affermazione campata in aria, che non risponde a verità storica né a possibilità giuridica.
Qualora sorga dissenso fra i coniugi, per esempio, al riguardo della patria potestà, al riguardo della fissazione del domicilio, al riguardo di tanti altri problemi che nella vita coniugale sono diuturni, non possono coesistere due volontà perfettamente eguali e contrarie: si eliderebbero. Nessuno intende sancire uno stato di inferiorità; ma non ci si può nascondere la necessità, secondo le leggi civili vigenti, di statuire la prevalenza dell'una o dell'altra volontà nell'interesse comune e in quello superiore della famiglia. L'argomento è complesso ed esorbita dai limiti di una Costituzione: ad essa rimane il compito dell'affermazione di principio relativa all'eguaglianza, così come recita l'emendamento proposto «nei limiti stabiliti dal bene comune della famiglia, dalla mutua assistenza, dagli interessi della prole». È formulazione che, con poche modifiche, ho fatta mia, ispirandomi alla recente Costituzione estone.
[...]
Crispo. Trattando lo stesso tema dell'onorevole Badini, cercherò di evitare inutili ripetizioni. Il titolo secondo si inizia con una definizione della famiglia. Si dice che «la famiglia è una società naturale»; evidentemente per affermare che la famiglia preesiste alla legge ed allo Stato sì che i diritti familiari non sono diritti riflessi, cioè non sono creati, ma riconosciuti dallo Stato. Una siffatta definizione non può e non deve trovar posto in un articolo della Costituzione, perché il concetto che la definizione esprime ha un carattere storico, sociologico, e non un contenuto giuridico; vorrei anzi dire all'onorevole Tupini, se me lo consente, che è giuridicamente controproducente. Perché? Perché lo Stato non si occupa del fatto della convivenza, ma si occupa della famiglia giuridicamente ordinata. Sotto questo aspetto, a mio avviso, non vi possono essere un prius ed un posterius, in quanto i diritti individuali e i diritti familiari sono un tutt'uno con l'ordinamento giuridico, sorgono, cioè, allo stesso punto.
Pertanto, lo Stato non riconosce la famiglia, ma ne riconosce i diritti, per essere la famiglia, per sé, una entità giuridica.
Per concludere, se le definizioni sono sempre da evitare nelle leggi, questa definizione della famiglia, giuridicamente irrilevante, e di equivoco significato, non deve trovar posto nella Costituzione.
Nell'articolo 24 si dice che «il matrimonio è basato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Mi permetto di fare qualche riserva su questo concetto, non in quanto io voglio riferirmi ad una eventuale condizione di inferiorità dell'un coniuge rispetto all'altro, ma in quanto intendo riferirmi a quel concetto di ordinamento gerarchico che è insito in ogni organismo, e che, quindi, è proprio della famiglia. Concetto gerarchico, di cui nell'articolo non è cenno di sorta, poiché esso si limita ad affermare l'eguaglianza giuridica e morale dei coniugi come base del matrimonio. La mia riserva è, dunque, del tutto giustificata perché, chi bene guardi, il concetto gerarchico è come scolpito, quando si dice che il marito è il capo della famiglia, che la moglie segue la condizione civile di lui, che ne assume il cognome e che è obbligata ad avere la stessa residenza del marito.
Pertanto, se si può affermare l'eguaglianza giuridica in rapporto agli obblighi dell'assistenza, della fedeltà e della coabitazione, che sono innegabilmente obblighi reciproci, non si può, invece, affermarla per tutti gli altri rapporti che derivano dal matrimonio. Eccovi un esempio.
Quando si dice che il marito è il titolare del domicilio, tale titolarità non è meramente nominale, ma ad essa corrisponde, nel caso di violazione del domicilio, un diritto, che può essere esercitato dalla moglie solo quando non possa essere esercitato dal titolare.
Del pari, titolare della potestà patria è il padre, e solo in via sussidiaria la madre, onde la rappresentanza legale di figli minori spetta al padre, come gli spetta anche il diritto di querela per i reati commessi in danno dei minori stessi. È evidente, adunque, che nello svolgimento dei rapporti familiari il concetto dell'ordinamento gerarchico della famiglia stabilisce necessariamente una differenza giuridica, se non morale.
Rappresentanza, nel suo molteplice contenuto: in giudizio, nell'accettazione di una eredità, nell'accettazione di una donazione, e simili. Questo diritto è riconosciuto da tutte le leggi al padre.
E mi permetto di ricordarle, onorevole Tupini, che a questi diritti che spettano al padre ope legis, ed a quei diritti che spettano a ciascun coniuge, non è consentito derogare per eventuali convenzioni fra le parti. Il che significa che vi sono dei rapporti che la legge contempla come di diritto pubblico, di interesse pubblico, dando la preminenza al padre in rapporto alla posizione della madre. Tale preminenza può rilevarsi in rapporto al patrimonio familiare, quando esso è costituito, in rapporto al regime della comunione dei beni, in rapporto alla dote, alle azioni e ai diritti relativi alla dote, e specialmente in rapporto al regime coniugale nel caso di separazione personale dei coniugi, perché la colpa dell'uno o dell'altro coniuge, come causa della separazione, determina, per sé, una evidente condizione d'inferiorità, sia nella posizione morale sia in quella giuridica ed economica del coniuge colpevole.
Così, la moglie può perdere gli utili stabiliti nel contratto di matrimonio, l'usufrutto legale sui beni del figlio, e perfino l'uso del cognome del marito, e anche gli alimenti nel caso di abbandono ingiustificato del domicilio coniugale. Occorre, adunque, che la Commissione trovi una formula espressiva del concetto gerarchico da me prospettato.
Quanto alla indissolubilità del matrimonio, io ritengo che il problema non costituisca materia costituzionale. Ma se dovessi esprimere il mio pensiero direi che il problema del divorzio non si può porre, come ha fatto il collega Badini, in termini di libertà, perché in tali termini sarebbe agevole dire che, come non potrebbe essere imposto ad alcuno il vincolo matrimoniale, così non potrebbe imporsi la indissolubilità del vincolo stesso, soprattutto in quei casi nei quali la indissolubilità può divenire peggio che una catena di dolore e d'infamia.
Il problema si pone in termini ben diversi. Quando si dice che il matrimonio non è un contratto, ma è un sacramento, io mi domando che cosa resta del sacramento, che cosa, cioè, resta della grazia intima, propria del sacramento, nei casi in cui il vincolo è già spezzato di fatto o per adulterio, o per condanna grave infamante di uno dei coniugi. Si può anche seguire la dottrina della chiesa, come fa la Democrazia cristiana, ma non si può, nello stesso tempo, non avere nel cuore un senso di orrore per l'indissolubilità del vincolo nei casi da me ricordati. (Commenti — Interruzioni al centro).
Comunque, io ripeto che pongo la questione in termini, per così dire, procedurali, per dire che questa non è materia costituzionale, ma materia propria del Codice civile. Non comprendo, peraltro, che cosa significa la disposizione per la quale «la legge regola la condizione dei coniugi al fine di garantire l'indissolubilità del matrimonio e l'unità della famiglia».
Tupini, Presidente della prima Sottocommissione. Corrisponde a quella preoccupazione che giustamente lei ha espresso poc'anzi circa il pericolo che non ci sia almeno un primus inter pares. Ecco a che cosa vuol arrivare.
Crispo. No, onorevole Tupini: la legge non regola la famiglia allo scopo di garantirne l'indissolubilità, perché l'indissolubilità è nella legge, nel senso, cioè, che il vincolo si risolve solo con la morte. In che modo, adunque, la legge regola la famiglia per garantirne l'indissolubilità? Garantire significa offrire sicurtà che il vincolo non sarà spezzato. La legge, invece, impone l'indissolubilità, ma non può far nulla per garantirla: la tutela soltanto con le norme del Codice penale. Alla stessa guisa colui che assassina è punito, ma questo non significa che la legge garantisce la vita. Per me, adunque, le parole della disposizione sono assolutamente prive di contenuto e, come tali, dovrebbero essere eliminate dal progetto.
[...]
Merlin Umberto. [...] Il mio consenso cade sull'articolo 24; il mio dissenso sull'articolo 25. L'articolo 24 dice così: «Il matrimonio è basato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. La legge ne regola la condizione a fine di garantire l'indissolubilità del matrimonio e l'unità della famiglia».
[...]
Superfluo in realtà è il ricordare a tutti coloro che conoscono il nostro pensiero quale sia il nostro animo, il nostro favore, vorrei dire la nostra adorazione, per l'istituto della famiglia. Superfluo è dire che noi rendiamo plauso sincero alle parole di un grande giurista italiano, il quale recentemente ha detto che lo Stato deve serbare verso questo istituto il favor familiae, perché questo soltanto può essere il principio direttivo della costruzione dello Stato. Nulla infatti si può costruire all'infuori o contro la famiglia, perché essa è stata definita la piccola cellula, e come la cellula è l'elemento fondamentale dell'organismo biologico, altrettanto la famiglia è l'elemento fondamentale dell'organismo sociologico. Ora, se si vuole rafforzare lo Stato, bisogna difendere e rafforzare la famiglia.
E diciamo anche chiaramente questo, che a sostenere queste idee non siamo soli e ciò noi lo constatiamo con soddisfazione, con animo lieto, senza avere nessuna gelosia e nessuna preoccupazione; per cui, quando, per esempio, la onorevole Iotti, per citare la testimonianza di una collega che, appartenendo al partito comunista, può presentare le idee più antitetiche alle nostre, nella sua relazione scrive queste parole: «La famiglia si presenta ora più che mai come il nucleo primordiale su cui i cittadini dello Stato possono e devono poggiare per il rinnovamento materiale e morale della vita italiana ed è di importanza fondamentale la tutela da parte dello Stato dell'istituto familiare», noi non possiamo che prendere atto di queste dichiarazioni con grande soddisfazione e con animo lieto. Ed altrettanto ci hanno soddisfatto e ci soddisfano le parole che ha pronunziato testé un liberale, l'onorevole Badini Confalonieri.
Siamo ben lontani da quei tempi (lo dico purtroppo con amarezza, perché quei tempi coincidevano col periodo della mia giovinezza, che è superata da gran tempo) in cui si diceva che «l'amore deve essere libero», che «l'appagamento dell'istinto sessuale è un affare personale di ciascun individuo», che «deve essere soppresso ogni regime matrimoniale», che «deve essere affermato l'assoluto disinteresse dello Stato nei riguardi delle relazioni intercedenti fra maschio e femmina», che «la famiglia è una istituzione borghese», ecc. Questi evidenti errori non si ripetono più, perché è accaduto nella famiglia quello che accade di tutte le istituzioni che seguono le leggi di natura, che quanto più sono colpite, ferite, combattute, tanto più resistono e dimostrano così la loro forza e la loro vitalità.
Quindi noi di questo prendiamo atto con soddisfazione e diciamo, in risposta a quello che ha detto testé il collega Crispo, che abbiamo voluto nell'articolo 23 proprio affermare con le parole «la famiglia è una società naturale» una definizione esatta della famiglia che non può essere negata da nessuno a qualunque scuola appartenga.
Infatti, a parte lo stabilire quando sia sorto lo Stato e quale Stato, ognuno comprende che la famiglia lo precede.
Lo Stato è l'organizzazione giuridica della società. Ma quale organizzazione giuridica? Non parliamo dello Stato moderno, che è recentissimo; ma anche a risalire nei secoli gli studiosi non scorgono una forma chiara di organizzazione statuale, ma l'unica forma di organizzazione, l'unico centro nel quale si afferma il principio di autorità è veramente la famiglia, nella quale il capo è padre, legislatore e sovrano. Più tardi più famiglie daranno vita alle tribù e queste a forme primordiali dello Stato; ma la famiglia ha preceduto questa organizzazione. Noi diciamo che questo concetto è affermato con le parole «la famiglia è una società naturale», per dimostrare questa semplice verità che la famiglia ha dei diritti primordiali, propri, che lo Stato non deve concedere come una graziosa concessione, ma che deve semplicemente riconoscere perché sono preesistenti alla sua organizzazione.
Ecco perché noi crediamo che l'Assemblea vorrà votare questa formula, la quale, ripeto, può essere accettata da tutti senza offesa al patrimonio di idee che ciascuno conserva.
La famiglia è formata da due elementi, è una unione fisiologica; ma è ovvio — e io dico delle cose elementari e certamente condivise da tutti — che essa è una unità economica, una unità politica e soprattutto, o signori, è una unità morale. Ora è evidente che questa unione non può essere lasciata a se stessa senza che lo Stato intervenga. Lo Stato ha il dovere di intervenire, e presso tutti i popoli e presso le più antiche civiltà la cura maggiore di uno Stato ben ordinato è stata quella di tutelare e difendere la famiglia. Parole vecchie e ripetute di Platone ricordano che «perché una repubblica sia bene ordinata, le principali leggi devono essere quelle che regolano il matrimonio». Se così è, poteva la nostra Carta statutaria tacere di questo istituto?
Vi fu un collega che, parlando nella discussione generale, ha detto che questa non era materia da Carta costituzionale, che nella Carta costituzionale si poteva non parlarne, perché l'argomento rientrava nei rapporti regolati dal Codice civile e dalle leggi ordinarie.
Risponderei a questa obiezione pregiudiziale, se fosse ripetuta, che io non sono certo un costituzionalista e non ho la pretesa di insegnare a nessuno; ma se devo dire, modestamente, la mia opinione, dirò che se la Carta statutaria, per antonomasia e per definizione, deve regolare in sintesi i principali doveri e diritti dei cittadini, non so come si sarebbe potuto tacere della famiglia, che è la fonte dei maggiori doveri non solo dei coniugi fra loro, ma anche verso i figli.
E vi sono già precedenti, non in Islanda, come recentemente si scrisse equivocando la s con la r, ma in Irlanda, la cui Costituzione parla abbondantemente dell'istituto familiare. Si dica egualmente della Costituzione di Weimar e, anche più recentemente, della Costituzione jugoslava.
Perché avremmo dovuto tacerne noi?
Del resto un grande italiano, Giuseppe Mazzini, ha scritto su questo argomento: «La vita associata è come disposta in ordini concentrici, via via più ampi: la città, lo Stato, l'umanità». Ma al centro di tutto l'ordine sociale Giuseppe Mazzini collocava la famiglia e la definiva «la prima società su cui tutte le altre si assidono».
E allora, signori, bisogna parlarne, anche perché noi non siamo soltanto legislatori, ma costituenti; e dobbiamo avere la franchezza di dire il nostro pensiero su questo argomento, per non aver l'aria — scusate quello che dico in questo momento — di voler eludere le più spinose e delicate questioni.
Parliamo dunque del matrimonio e parliamone chiaramente.
Dalla classica definizione di Modestino che è nota a tutti, all'elevazione che Cristo ha fatto del matrimonio a Sacramento, è tutta una serie di giureconsulti, di scrittori, di riformatori, di romanzieri e di poeti, che hanno esaltato la forza e la grandezza di questa divina istituzione.
Ora noi nella Costituzione stiamo per scrivere innanzi tutto che il matrimonio si basa sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e poi sulla indissolubilità e unità della famiglia.
Era perfettamente superfluo riaffermare nella Carta statutaria il principio monogamico della famiglia, perché sarebbe stata quasi un'offesa alla nostra stessa civiltà, perché è tale un principio questo accettato da tutti che non era il caso di parlarne. La famiglia monogamica rappresenta, nel corso dei secoli, una elevazione ed un perfezionamento per il quale la famiglia, abbandonando forme di poliandria e di poligamia deprecabili, si avvia al suo perfezionamento, l'unione di un uomo con una sola donna ed i figli procreati da loro.
Dunque l'articolo 24 sancisce l'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e l'indissolubilità del matrimonio.
Sul primo punto devo dire chiaramente che noi l'abbiamo votato perché consideriamo la donna pari all'uomo in molti punti e perché questo concetto della elevazione della donna che diventa uguale all'uomo nella collaborazione e nel vantaggio della famiglia è un principio morale e cristiano che noi accettiamo. Ma con ciò non vogliamo negare che l'uomo resti capo della famiglia, come la donna ne è il cuore; l'uomo tiene il primato del governo, come la donna può e deve attribuirsi come suo proprio il primato sull'amore.
Onde bene ha detto l'onorevole Tupini nel discorso, con cui egli ha aperto la discussione generale, che l'uomo resta il primus inter pares, nel senso che noi vogliamo dare alla donna la parità morale e giuridica, conciliando questo principio con l'altro che capo della famiglia è l'uomo.
Se in questo punto — come già altri oratori hanno fatto supporre — fosse necessario chiarire, io domanderei che si chiarisse.
Ma non su questo, ma sul secondo punto si darà forse battaglia: quello cioè della indissolubilità.
Già abbiamo sentito due oratori autorevolissimi, appartenenti tutt'e due al partito liberale, se non erro.
Una voce. Liberali veri.
Merlin Umberto. Liberali veri, ma che non vanno d'accordo. Perché, mentre a quello che ha detto l'onorevole Badini Confalonieri io mi sono associato plaudendo, non altrettanto potrei fare per il collega Crispo, pur così eloquente e profondo giurista, come egli è.
Io ho sentito dall'onorevole Badini Confalonieri esprimere delle idee, che collimano perfettamente col nostro pensiero ed io lo ringrazio di quanto ha detto.
Su questo punto dichiaro: possiamo essere agnostici?
Possiamo fare quello che l'onorevole Grilli proporrebbe: che si levassero quelle parolette della indissolubilità e si lasciasse questa questione indecisa?
Signori, so cosa voi dite su questo punto contro di noi, quando ci si vuole combattere e disprezzarci...
Molè. No, no.
Merlin Umberto. Sta bene, ritiro la parola.
Voi dite dunque che noi lo facciamo per calcolo politico. Non è vero.
Se voi sentiste il nostro animo verso la famiglia, se voi sapeste qual è l'affezione profonda...
Voci. Noi, lo stesso.
Merlin Umberto. Ne prendo atto con piacere.
Mancini. Non siete dei privilegiati voi.
Merlin Umberto. No, non siamo dei privilegiati, ma uomini che sostengono questi principî per ragioni profondamente superiori e morali, pronti ad accettare la collaborazione di tutti.
Vi parla un uomo libero, il quale ama profondamente la libertà ed ha sempre sentito che impara di più dalle critiche degli avversari che dal plauso degli amici.
Perciò io rispetto anche il punto di vista di quanti non condividono il mio pensiero, pur rimanendo fermo e deciso a sostenere il mio.
Io, ad ogni modo, stasera, anche perché il Presidente non me lo permetterebbe, non farò un discorso contro il divorzio; sia per ragioni di tempo, sia perché — tranne l'accenno dell'onorevole Crispo al solito caso dell'ergastolano che desta pietà nel cuore di tutti — nessun deputato si è fatto iniziatore d'una legge a favore del divorzio. (Interruzioni).
Una voce. Vi fu l'emendamento Comandini e vi fu il progetto Marangoni.
Merlin Umberto. Dopo quel progetto Marangoni, che conosco perché ero deputato con lui, non ho sentito alcuna altra proposta del genere.
Ad ogni modo, se voi volete proporre il progetto siete sempre in tempo; ma proponetelo, non fate come si è fatto nella prima Sottocommissione in cui non c'era uno che si dichiarasse divorzista e tutti continuavano a ripetere che il popolo italiano non vuole il divorzio e che nessuno pensava di proporre una legge simile. Ed allora lasciateci sbarrare la porta, lasciateci venire incontro alla volontà popolare. Ma lasciatemi anche ricordare che il divorzio coincide con i periodi della maggiore decadenza di un popolo (Interruzioni — Commenti).
Andate a imparare dove questa grande fortuna esiste, e troverete tutti gli uomini maggiori: i sociologi, i medici, i giuristi, che non fanno che riconoscere tutto il danno e tutto il pregiudizio che deriva alla unità della famiglia da questa legge.
Ma del resto qui noi siamo in Italia e noi possiamo riferirci piuttosto alla nostra Roma ed al suo insegnamento. Roma decadde quando non riconobbe la santità della famiglia...
Calosso. Ma lei è contro il cristianesimo.
Merlin Umberto. L'onorevole Calosso è profondo in tutto e quindi anche nella conoscenza del cristianesimo. Creda però, onorevole collega, che noi conosciamo il cristianesimo un po' più di lei, perché lo pratichiamo. (Applausi al centro).
Le illustri matrone romane — e parlo delle matrone perché questa legge sul divorzio il popolo non la vuole; e se la vogliono, la vogliono certi aristocratici per far diventare legale anche l'adulterio...
Calosso. Evviva Roma pagana!
Merlin Umberto. Le illustri matrone romane, diceva Seneca, contavano il numero degli anni non dal numero dei consoli, ma dal numero dei mariti che avevano avuto. Fu il cristianesimo che salvò la famiglia e salvò anche la civiltà. (Interruzione dell'onorevole Minio).
E allora, o signori, dove se ne va la famiglia quando i genitori non si riconoscono più e i figli non riconoscono più i genitori? La famiglia non solo decade, ma aumenta (cosa che sembra strana) il numero dei celibi. Sicuro, pure con la facilità di rompere il matrimonio, in Roma i celibi aumentarono a tal punto da preoccupare l'imperatore, e vennero le leggi di Augusto che condannavano il celibato per salvare Roma, la sua civiltà, e le generazioni future.
Calosso. C'è una pagina del Manzoni che è contro quello che dice lei.
Una voce al centro. È divorzista anche Manzoni, adesso?
Merlin Umberto. Ma io vorrei domandare alla lealtà dei miei cortesi contraddittori — che questa sera, si vede, sono in vena di umorismo se vogliono scherzare su una cosa tanto seria — vorrei domandare: cosa accade nei paesi dove il divorzio è ammesso? Lo ha detto già Badini: si arriva dalla divisione per mutuo consenso ai matrimoni risolti perché la donna non sa cuocere una bistecca o interpretare il pensiero del marito nell'abbigliamento della casa. (Rumori — Commenti a sinistra).
Io dico, signori, e concludo su questo punto, che il divorzio sarebbe come un veleno roditore, un veleno che si insinua inavvertitamente fin dal primo giorno di matrimonio. Badate, voi potete anche essere di parere contrario al mio, ma le donne no, a qualunque partito appartengano; vorrei sentire anche il parere delle donne comuniste, anche delle donne socialiste (Interruzione dell'onorevole Mattei Teresa); esse sono tutte contrarie al divorzio, perché capiscono una cosa: è facile voler bene ad una donna quando le grazie della gioventù la rendono bella e piacente; ma è altrettanto facile ai signori uomini di abbandonarla quando i capelli diventano bianchi o le rughe deturpano il viso. (Interruzioni).
Presidente Terracini. Sono costretto a richiamare con una certa decisione i signori deputati al silenzio. Ci sono ancora tanti altri iscritti a parlare. Prosegua, onorevole Merlin.
Merlin Umberto. Ho letto pochi giorni fa un libro di Chesterton che è intitolato La superstizione del divorzio. Basterebbe leggerlo per convincersi della verità della tesi da me sostenuta. Quel chiaro autore scrive:
«È vero che l'indissolubilità crea talvolta (ce lo ha ricordato l'onorevole Crispo) nelle famiglie dei casi veramente dolorosi; ma la famiglia è basata su concetti di lealtà, di fedeltà e di onore, ed è a questi concetti che bisogna richiamarsi. Questi concetti sono quelli che sono, non si cambiano a piacere, come si cambia a vista lo scenario di un teatro. La fedeltà non è condizionata o temporanea: come il cittadino non diserta la bandiera quando è in pericolo la patria, così la lealtà, l'onore e la fedeltà impongono di non disertare la famiglia».
Ma, anche per poter dimostrare che questa discussione può essere un tantino superflua, io ricordo a coloro che hanno votato l'articolo 7 della nostra Costituzione che essi sarebbero in contrasto con se stessi se non volessero votare l'articolo 24 così come è concepito, perché per l'articolo 7 i rapporti tra la Chiesa e lo Stato sono regolati dai Patti lateranensi. Ora, l'articolo 34 del Concordato dice:
«Lo Stato italiano, volendo ridonare all'istituto della famiglia dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili».
Dunque, la materia è regolata dal diritto canonico e, per questo diritto, il matrimonio è un sacramento. Se è un sacramento, è per sua natura indissolubile.
Ma del resto volete sapere, o signori, dopo il Concordato quanti matrimoni si sono celebrati in Italia col rito civile? Io ho le statistiche. Dal 1930 al 1942 in Italia, ogni anno, fino al 1942 — l'anno forse della maggiore depressione per cause abbastanza chiare, e cioè la guerra — il numero dei matrimoni è stato di 300 mila all'anno. Volete sapere quanti matrimoni si sono celebrati col solo rito civile? Da 9448 nel 1930 si discende a 2339 nel 1942, neanche l'uno per cento. (Commenti — Interruzioni a sinistra). E badate, o signori, che il Concordato non impone in Italia un matrimonio confessionale, come sarebbe in Austria o in Ispagna; esso non impone cioè ai cattolici di celebrare il matrimonio soltanto col rito della loro fede. No, il matrimonio civile è libero anche per i cattolici, e chiunque voglia andare a celebrarlo davanti al sindaco con la fascia tricolore è perfettamente libero. La verità è che queste statistiche dimostrano, nel modo più eloquente, che in Italia la gran massa dei cittadini vuole il matrimonio cattolico, saldo e indissolubile, a garanzia della sanità e dell'unità della famiglia.
A cura di Fabrizio Calzaretti