[Il 4 marzo 1947 l'Assemblea Costituente inizia la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Lucifero. [...] Per esempio, è demagogico l'uso che spesse volte si fa nella Costituzione della parola «lavoratori». Badate che nella Costituzione stessa — se voi guardate l'ultimo capoverso dell'articolo 31 — il termine «lavoratori» ha due significati; perché quando noi entriamo in una fase della Costituzione, allora il lavoratore corrisponde in un certo senso al cittadino; invece in altra sede il lavoratore rappresenta determinate categorie di cittadini, cioè determinate categorie di lavoratori in uno Stato in cui tutti sono lavoratori. Ora, questo non può andare in una Costituzione, la cui dizione deve essere chiara. Di fronte alla Costituzione i cittadini sono cittadini; i lavoratori sono lavoratori in quello che riguarda questa loro particolare attività nella vita sociale, che deve essere tutelata, difesa, protetta, generalizzata; ma però, quando vanno a votare, anche i lavoratori vanno ad esercitare una funzione di cittadini, non di lavoratori.
Oppure, se noi vogliamo identificare il termine, dobbiamo modificarlo in quelle sedi in cui, come nell'articolo 31, noi contrapponiamo i lavoratori ad altre categorie di cittadini. Intendiamoci bene, con questo termine di lavoratori — siamo tutti lavoratori — noi per poter infilare questa affermazione — scusate ancora una volta l'accenno demagogico — nella Costituzione, siamo arrivati al punto di dover qualificare lavoratori, ai fini dei diritti politici, le monache di clausura, perché il giorno in cui abbiamo affermato che determinati diritti erano riservati soltanto (i diritti più importanti sono i diritti politici) a coloro che ottemperavano a quel tale obbligo del lavoro, abbiamo dovuto stabilire che fra i lavoratori vi erano anche le monache di clausura. Ho il massimo rispetto verso di esse e credo utilissima la loro opera di elevazione verso il Signore, ma qualificarle lavoratrici, ai fini giuridici e costituzionali, non mi pare esatto. (Commenti).
Una voce al centro. Lavorano sempre, lavorano più degli altri!
Lucifero. Vi sono quelle destinate alla vita contemplativa. (Commenti).
Per i miei peccati ci vogliono molte monache, ma questa non è la sede competente!
C'è un altro punto sul quale richiamo la vostra attenzione, sempre nel campo demagogico. Non discuto l'articolo, sarà discusso a suo tempo, ma sempre per chiarire alcuni punti che hanno determinato la mia perplessità, devo rilevare che noi qui stiamo costruendo una Costituzione democratica e nello stesso tempo creiamo dei privilegi. Vi faccio notare che anticamente vi erano delle classi, quali le classi padronali, che avevano certi privilegi. Oggi noi ritorniamo al Medioevo, perché quando affermiamo che tutti i lavoratori hanno diritto allo sciopero, i casi sono due: o noi entriamo nella accezione a), (prima parte della Costituzione) che tutti i cittadini sono lavoratori, ed allora la serrata diventerebbe lo sciopero dei lavoratori che danno il lavoro; oppure noi entriamo nella accezione b) della parola, quella cioè per cui come lavoratori si definisce una determinata categoria di cittadini, ed allora stabiliamo un privilegio a favore di questa categoria di cittadini. Questo si chiama rovesciare il Medio Evo!
Ora, badate, queste possono sembrare osservazioni di quel bieco reazionario che sono io, ma sono osservazioni che vanno più in là, di significato, di senso, di dizione nella Costituzione. Cerchiamo di sfrondarla da queste affermazioni, perché prima di tutto non possono sembrare serie; e poi quando si arriverà alla fase dell'applicazione della Costituzione, ad un certo punto non sapremo più la parola lavoratori che cosa significhi, se nel senso a) o nel senso b) della Costituzione.
Dobbiamo stabilire un vocabolario che sia sempre lo stesso per qualificare il termine di lavoratore.
[...]
Calamandrei. [...] Prendo l'articolo 1 che dice questa bellissima cosa: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro». È una bellissima frase; ma io che sono giurista — questa d'altronde è la mia professione ed ognuno di noi bisogna che porti qui la sua esperienza e le sue attitudini, perché è proprio da questa varietà di attitudini e di esperienze che deriva la ricchezza e la pienezza di questa Assemblea — io come giurista mi domando: quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?
Dovrò forse dire che in Italia la massima parte degli uomini continueranno a lavorare come lavorano ora, che ci saranno coloro che lavorano di più e coloro che lavorano di meno, coloro che guadagnano di più e coloro che guadagnano di meno, coloro che non lavorano affatto e che guadagnano più di quelli che lavorano? Oppure questo articolo vorrà dire qualche cosa di nuovo, vorrà essere un avviamento che ci porti verso qualche cosa di nuovo? Mi accorgo allora che c'è un altro articolo, il 31, il quale dice che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. Ma c'è anche un dovere del lavoro, e infatti il capoverso dice che ogni cittadino ha il dovere ai svolgere un'attività: dunque diritto di lavorare ma anche dovere di lavorare. Debbo pensare che si voglia con ciò imitare quell'articolo della costituzione russa, nel quale è scritto il principio che chi non lavora non mangia? Ma se leggo più attentamente questo capoverso dell'articolo 31, vedo che esso dice precisamente così: «ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività (e fin qui si intende che parla di lavoro) o una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta...» Dunque c'è chi svolge un'attività e c'è chi svolge una funzione. Questa funzione può essere anche una funzione spirituale; sta bene: ammetto che quella dei religiosi sia effettivamente una funzione sociale. Ma io penso a qualche altra cosa; penso agli oziosi, penso a coloro che vivono di rendita, a coloro che vivono sul lavoro altrui. Nella Repubblica italiana, dove c'è il dovere di compiere un'attività o una funzione, coloro che vivono senza lavorare o vivono alle spalle altrui, saranno ammessi come soggetti politici? Ho paura di sì: ho paura che saranno ammessi e che essi diranno che il vivere senza lavorare, il vivere di rendita, non sarà un'attività, ma è certamente una funzione. (Si ride). E siccome ognuno può dedicarsi, dice l'articolo, alla funzione che meglio corrisponde alle proprie possibilità e alla propria scelta, essi hanno preferito la funzione di non lavorare, e quindi hanno pieno diritto di cittadinanza nella Repubblica Italiana... Si noti che in quest'articolo c'è un ultimo capoverso il quale dice che «l'adempimento di questo dovere è condizione per l'esercizio dei diritti politici»; ora questo è un capoverso che non corrisponde a verità: quale è infatti la sanzione di questo capoverso? Per l'esercizio dei diritti politici non è detto affatto in nessun altro articolo, né in nessuna legge elettorale, che sia condizione l'esercizio di un'attività o di una funzione. Ecco intanto qui una di quelle disposizioni in cui a ben guardare si annida una... (come la devo chiamare?) sì, una bugia; perché non è vero che l'adempimento di questo dovere sia condizione per l'esercizio dei diritti politici.
A cura di Fabrizio Calzaretti