[Il 17 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Benvenuti. Onorevoli colleghi, rileggo il testo dell'emendamento che avrò l'onore di svolgere dinanzi all'Assemblea:
«Sostituire l'articolo 6 col seguente:
«La Repubblica riconosce e garantisce l'autonomia, la libertà e la dignità della persona umana come diritti naturali e inalienabili.
«Essa riconosce e garantisce altresì i diritti essenziali delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità di ciascun uomo».
Premetto, onorevoli colleghi, che questo emendamento non rappresenta la presa di posizione di un partito; rappresenta la difesa di un patrimonio comune a tutti gli uomini liberi. Io levo la mia parola in difesa dei diritti naturali originari, inalienabili della persona umana. La mia difesa si riallaccia ad un'altra difesa dei diritti dell'uomo, svolta nel parlamento italiano. Dobbiamo risalire al novembre del 1925. Allora la stessa causa veniva sostenuta, non da un modesto Deputato, ma da un giurista insigne, da una splendida coscienza e da un inflessibile antifascista, il senatore Francesco Ruffini. È questa per me una ragione di conforto, in quanto conferma il mio convincimento di difendere una causa giusta. Riprendere la battaglia per i diritti dell'uomo è un dovere, data la formulazione dell'articolo 6 del testo costituzionale. Mi si consenta un richiamo ai precedenti della nostra discussione, discussione generale, e discussione della parte generale del progetto di Costituzione. Tutti gli oratori hanno rievocato le classiche dichiarazioni dei diritti dell'uomo; tutti le hanno considerate come acquisite al nostro patrimonio giuridico e morale; tutti hanno ritenuto che, dal 1700 in poi, noi abbiamo acquistato coscienza di nuovi diritti della persona umana, cioè di quelli che oggi noi chiamiamo i diritti sociali. Sostanzialmente, impostando il problema dei diritti sociali, noi abbiamo impostato nella Costituzione il problema della redenzione delle classi proletarie. Redemptio proletariorum: l'espressione non è mia, è di un grande pontefice. Essa significa che tutti gli uomini e in particolare tutti i cristiani (ed i cristiani non si esauriscono in una particolare formazione, poiché anzi il Messaggio cristiano vive e opera anche oltre i confini della Chiesa visibile) sono chiamati a collaborare alla creazione di un mondo nuovo e migliore ove regni la giustizia e la fraternità.
Per questo scopo, naturalmente, abbiamo dovuto procedere ad una specie di parziale demolizione del sistema del nostro diritto privato. Ciò abbiamo consacrato nel nostro progetto costituzionale: la proprietà vi è garantita, ma essa assomiglia ormai, più che ad un istituto di diritto privato, ad una cellula fondamentale d'una società solidaristica. E così procedendo il progetto costituzionale muove al superamento di altri ostacoli di diritto che potrebbero frapporsi alla realizzazione da un assetto nuovo. Ed ecco che un articolo autorizza dei limiti al diritto di proprietà, un altro parla della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende: e il tutto è coordinato verso un sistema di attuazioni di carattere sociale (lavoro, scuola, assistenza, ecc.), che potrà veramente mutare il volto delle società italiane.
E su tutto questo nessun disaccordo sostanziale è insorto. Vi sono è vero i problemi della formulazione. Quando, anziché limitarsi ad impedire allo Stato di invadere certe sfere inviolabili (come la libertà dei cittadini), ci si propone di ottenere dallo Stato l'esecuzione di certe posticce attività sociali, sorgano problemi delicati: problemi di rapporti fra potere legislativo e potere costituente, fra il programma sociale e l'attuale realtà economica. La buona volontà di tutti potrà superare questi problemi, e dal testo costituzionale potrà uscire un messaggio unanime di profonda, di intensa fraternità per tutti gli italiani.
Sennonché, a me non è parso, ascoltando i vari oratori, che la formulazione di questa fase di diritti nuovi dovesse significare l'oblio o la perdita, anche solo parziale, delle classiche libertà fondamentali, di quelli che si chiamano i diritti di libertà, proclamati nella seconda metà del 700 e formulati nelle famose dichiarazioni di diritti.
Sennonché, leggendo il testo dell'articolo 6 si ha la sensazione precisa che tutta la sostanza della dichiarazione dei diritti sia andata radicalmente perduta. Infatti, onorevoli colleghi, basta leggere l'articolo stesso per convincersene.
Qual era la sostanza delle vecchie dichiarazioni dei diritti? Era che i diritti fondamentali dell'uomo (libertà della persona, di coscienza, di espressione, di associazione, di partecipazione alla vita politica) venivano proclamati come diritti originari della persona umana, non conferiti dallo Stato, indipendenti dal diritto dello Stato, indipendenti dallo Stato come fonte di diritto.
Ecco perché allora furono chiamati diritti naturali.
Di tutto questo, onorevoli colleghi, non c'è più traccia nell'articolo 6; il quale garantisce i diritti essenziali degli individui, ma è tutt'altra cosa. Anche le costituzioni elargite dai sovrani del secolo scorso garantivano i diritti, ma non li riconoscevano.
Notasi bene che l'articolo usa bensì i termini «inviolabile e sacro», ma tutto è portato sul piano metafisico, astratto; tanto vero che, eccezione fatta per la famiglia e il lavoro, in tutti gli articoli nei quali è trattata la materia dei diritti non si usa mai il verbo «riconoscere». E la conferma di questa interpretazione la troviamo nel testo originario della Sottocommissione: dove la sostanza della dichiarazione era rimasta, perché si proclamava che la Costituzione «riconosce» e garantisce i «diritti inalienabili e sacri» dell'uomo come singolo e nelle formazioni sociali. Il testo originario conteneva dunque il riconoscimento dei diritti. La modificazione intervenuta sembra significare che non si è voluto riconoscere i diritti dell'uomo; ma si è voluta soltanto una semplice, vaga enunciazione di principio.
Vogliano darmi venia gli onorevoli colleghi: io sono un fanatico dei diritti dell'uomo. Forse la parola fanatico non è appropriata alla serenità di questa Assemblea. Dirò allora che sono un romantico dei diritti dell'uomo, e permettete, colla vostra indulgenza, che io faccia risuonare in quest'Aula il testo delle antiche, delle classiche dichiarazioni dei diritti dell'uomo, di quei documenti venerandi, augusti, che hanno creato la storia, e commosso tanti cuori.
La Costituzione americana dei 13 Stati dice: «Noi consideriamo come incontestabile ed evidente la seguente verità, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, e fra questi in primo luogo la vita, la libertà, la ricerca della felicità».
La Costituzione dello Stato di Virginia proclamava: «Tutti gli uomini sono di natura, ugualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni diritti innati di cui, entrando nello stato di società, non possono privare o spogliare la loro personalità».
E negli articoli aggiuntivi della Costituzione federale si proclamava il concetto d'intangibilità dei diritti umani da parte del potere legislativo: «Il Congresso non farà legge alcuna per istituire una religione o per proibire o restringere la libertà di parola o il diritto del popolo di ordinarsi pacificamente».
Questi sono i testi fondamentali della Costituzione americana.
Passando poi alle dichiarazioni della Francia rivoluzionaria ritroviamo gli stessi concetti. «Il potere legislativo — stabilisce la Costituzione del 1791 — non potrà fare legge alcuna che porti attentato o metta ostacolo all'esercizio dei diritti naturali garantiti dalla Costituzione. Il Governo è costituito per garantire il godimento dei diritti naturali dell'uomo».
Onorevoli colleghi, di tutto questo non c'è più traccia nell'articolo 6. Anzi la storia dell'articolo dimostra che non si è voluto accedere al riconoscimento dei diritti dell'uomo come diritti originari e indipendenti dai poteri dello Stato.
Naturalmente, quando, dopo l'epoca rivoluzionaria, venne l'epoca del cesarismo, si spensero i diritti dell'uomo. Nella stessa Costituzione termidoriana, la dichiarazione dei diritti dell'uomo si attenua, è sommersa nella legislazione imperiale.
Risorge nel 1814, quando Luigi XVIII elargisce la nuova costituzione, la Costituzione «octroyée». In questa Costituzione i diritti dell'uomo sono garantiti, ma non riconosciuti nel loro valore e carattere originale. Tanto è vero, che quando nel 1830 sopravviene la monarchia di luglio, con la dichiarazione del 7 agosto 1830 la Camera dei Deputati pronunzia un voto perché venga abolito il preambolo della Carta costituzionale del 1814, ritenendo offensivo della dignità nazionale che venissero concessi ed elargiti ai francesi dei diritti che loro già appartenevano originariamente.
Vi chiedo, onorevoli colleghi, se la nostra sensibilità di uomini liberi debba essere inferiore a quella dei deputati francesi della Monarchia di luglio, o se non dobbiamo invece ritenere offensiva per la nostra dignità di uomini e di cittadini la formulazione dell'articolo 6, nella quale i diritti dell'uomo sembrano elargiti e non riconosciuti.
È proprio contro questa offesa ai diritti fondamentali che levò la sua parola, nel 1925, il senatore Francesco Ruffini. Allora, chi recalcitrava al riconoscimento dei diritti dell'uomo, come diritti originari e inalienabili, era il guardasigilli fascista onorevole Alfredo Rocco. E quella seduta è stata non soltanto uno scontro di due dottrine, ma di due uomini. Il senatore Ruffini polemizzò infatti personalmente col ministro Rocco, che a Perugia aveva pronunziato un discorso, contro il quale appunto il Ruffini insorgeva.
Anche la libertà — aveva detto Alfredo Rocco — è una concessione dello Stato; le libertà quindi, ove vengano riconosciute, non sono che un riflesso dei poteri dello Stato. Contro questa argomentazione di pura marca teutonica, il senatore Ruffini contrapponeva i diritti di libertà; egli contestava che i diritti di libertà potessero essere dei diritti riflessi di quelli dello Stato; e riaffermava solennemente l'intangibilità e l'imperscrittibilità dei diritti del cittadino, i quali scaturiscono dalla concezione più profonda e più moderna della dottrina dello Stato: il quale, prima di essere fonte di diritto, è ordinamento del diritto, di quel diritto che ha una sua origine autonoma.
Soltanto in un secondo tempo sopravviene la legge, come manifestazione secondaria e tardiva; e viene elaborata la norma scritta per opera dello Stato.
Questa era, onorevoli colleghi, la parola accorata del grande giurista, il quale lamentava allora che le vecchie screditate concezioni germaniche potessero tornare alla base del diritto costituzionale italiano. Oggi, onorevoli colleghi, di fronte alla trasformazione sostanziale del testo dell'articolo 6, dalla quale si rileva che si è espressamente voluto disconoscere i diritti dell'uomo come diritti originari indipendenti dallo Stato, viene fatto di chiedersi se il germanesimo, due volte sconfitto, non si annidi ancora nelle pieghe del nostro testo costituzionale, con le sue teorie liberticide e il suo fatale spirito di regresso.
È contro questa eventualità che io levo la mia parola, onorevoli colleghi. Possono sussistere dubbi giuridici circa l'ammissibilità dei diritti fondamentali dell'uomo come diritti autonomi, anziché come diritti dello Stato? Io non lo ritengo, onorevoli colleghi. Premetto che io credo nei diritti di natura: ciò fa parte della mia concezione cristiana e spiritualistica della vita, ma i diritti dell'uomo, come diritti precedenti a qualsiasi diritto codificato in qualsiasi Costituzione, emergono sul piano scientifico, sul piano della scienza del diritto, indipendentemente dalle concezioni del diritto naturale. Il concetto di diritto naturale ha questa caratteristica: basta dare una scorsa al diritto pubblico moderno per rendersene conto. La scienza del diritto pubblico, si può dire (press'a poco), dalla metà del secolo scorso ha dato battaglia contro il diritto naturale. Ma il diritto naturale scacciato dalla porta, è sempre regolarmente rientrato dalla finestra. Non vi nascondo, egregi colleghi, il mio stupore quando pochi giorni or sono ho sentito l'onorevole Orlando, il nostro così amato e insigne maestro, proclamare in quest'Aula: «Ma che cosa significa che la famiglia è un istituto di diritto naturale?» Io mi sono affrettato, onorevoli colleghi, a studiare la questione proprio sui testi dell'onorevole Orlando; e permettetemi che vi legga una considerazione contenuta in uno studio del 1933, intitolato: «Teorie giuridiche dello Stato». È da notare che opere ciclopiche come quella dell'onorevole Orlando possono presentare diverse maniere, proprio come i grandi pittori: può darsi che questa sia l'ultima maniera dell'onorevole Orlando. Comunque vi leggo il testo; allude espressamente alla famiglia. Scrive Orlando: «Nessuno può seriamente credere che se in Italia il padre ha il diritto e l'obbligo di educare la prole, ciò si debba agli articoli 225 e seguenti del Codice civile... Lo stesso deve dirsi in generale per tutto il diritto; e ciò importa che quando uno Stato positivo stabilisce il suo ordinamento, esso si muove entro limiti predeterminati dalle condizioni svariate e complesse della coscienza giuridica».
Qui, onorevoli colleghi, abbiamo la restaurazione del diritto naturale sulla forma positiva. Il concetto è evidente: prima dello Stato, indipendente dallo Stato, esiste un diritto acquisito dei cittadini, e della famiglia in particolare, che resiste al diritto dello Stato, di fronte al quale lo Stato non ha libertà di scelta; nel quale, quindi, il diritto dello Stato non può e non deve intervenire; e, ove lo faccia, lo farà in virtù della forza di coazione di cui è munito, ma violando il diritto. Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, l'articolo 147 del Codice civile fascista, ove si diceva che l'educazione e la istruzione della prole devono essere conformi al sentimento nazionale fascista: il che significava che i genitori italiani, per essere in regola con la legge, dovevano educare i loro figliuoli a detestare la libertà e a servire l'oppressione. Queste sono le aberrazioni a cui può arrivare una legislazione, quando dimentichi che la famiglia è una società di diritto naturale.
Il concetto che il diritto naturale risorge in nuova forma nella scienza del diritto pubblico moderno è rilevato dallo stesso Orlando in altri casi, dove egli studia altri autori di diritto pubblico, i quali ripudiano il diritto naturale come introduzione del soprannaturale nella scienza, e poi ritornano a dire quello che le vecchie concezioni del diritto naturale già avevano rilevato, cioè che alla base della società e prima della società vi è una norma che regola le associazioni elementari dell'uomo e ne costituisce il diritto di fronte al quale lo Stato è originariamente limitato. Questo è il concetto moderno e scientifico dei diritti fondamentali dell'uomo e del cittadino.
Naturalmente, onorevoli colleghi, anche in Germania si è verificato questo fenomeno: cioè, appena è sorto l'astro bismarckiano questo ha trovato, come tutte le tirannidi, i suoi filosofi, i suoi teorici e i suoi giuristi. Ed abbiamo tutta la scuola classica del diritto germanico, i grandi autori, che sostenevano che di diritti dell'uomo, dell'individuo, non c'è neppure da discutere; tanto che uno di tali autori si scandalizzava, perché il diritto penale italiano tutela la libertà dei culti, e sosteneva che non si potesse parlare di questo tipo di libertà. Intanto si emettono cambiali e si fondano società anonime, in quanto lo Stato crea la rispettiva legge, e i diritti della persona, e la libertà di culto, e tutte le libertà sono ammesse nello stesso senso, cioè in quanto esistono le relative leggi dello Stato.
Ma la stessa Germania è andata liberandosi da questi funesti principî, e già alla fine dell'altra guerra e durante il periodo della Repubblica di Weimar, queste concezioni statolatriche erano in declino. Naturalmente, risorta la dittatura, arrivato al potere Hitler, si è avuta l'esasperazione della statolatria germanica. Se scorrete il diritto pubblico nazista, vedrete che non soltanto non sono considerati i diritti della persona, ma per tale concezione la persona isolata non esiste, esiste solo il diritto della comunità, il quale si riflette sulla persona.
Onorevoli colleghi, io vi chiedo se sia possibile che di fronte a questo problema, se cioè i diritti dell'uomo siano diritti originari o se debbano considerarsi come elargiti dallo Stato, la nostra Assemblea e il nostro testo costituzionale possano rimanere neutri.
In altre parole, tra l'emendamento proposto e il testo dell'articolo 6 come progettato, c'è la stessa distanza che esisteva fra la dottrina di Alfredo Rocco e la dottrina di Francesco Ruffini.
Riconosciamo che i diritti dell'uomo sono originari e non sono conferiti da questa Costituzione, o riteniamo che i diritti dell'uomo in tanto esistono in quanto esiste un testo positivo che li conferisce? Io non posso dubitare sulla scelta da parte dell'Assemblea a questo riguardo. In sostanza, noi cittadini dell'Italia libera, repubblicana, antifascista, non chiediamo la elargizione di una nuova Costituzione, di un nuovo Statuto, chiediamo che la Repubblica riconosca i nostri diritti come già a noi originariamente spettanti, e come diritti preesistenti allo Stato e non tali da trovare la loro fonte nella sua attività legislativa.
Notiamo poi l'assurdo di una Costituzione che concedesse ai cittadini italiani quei diritti di cui sono già titolari, in forza dello stesso diritto costituzionale positivo. Per ottenere i diritti fondamentali di libertà non abbiamo bisogno della nuova Costituzione.
Mi si consenta di rammentare il pensiero di Cavour, il quale fin dal marzo del 1848, in un articolo sul «Risorgimento», scriveva che i principî fondamentali stabiliti dallo Statuto dovevano considerarsi perpetui ed irrevocabili in questo senso: che quelle libertà potevano essere allargate, potenziate, meglio garantite, ma non mai limitate. Quindi, è in base al vecchio Statuto che i cittadini italiani hanno la facoltà di ritenere a sé acquistate le libertà fondamentali e di ritenersi lesi nel loro diritto acquisito qualora la Costituzione non riconosca loro ciò di cui sono già titolari.
Ma non è questo il problema: non è al diritto positivo che io mi rifaccio. Mi rifaccio ai principî: se i diritti di libertà sono stati concessi nel 1848 dal regno sardo e poi estesi a tutte le province annesse al Piemonte, oggi è la Repubblica che deve riconoscerli indipendentemente da qualsiasi concessione, come diritti nostri, intangibili, imprescrittibili ed inviolabili.
Ecco, onorevoli colleghi, lo spirito ed il concetto del mio emendamento. A questo punto il mio dire dovrebbe inoltrarsi in nuovi svolgimenti: dovrei cioè, rifacendomi a quanto ha proposto l'onorevole Calamandrei, illustrare la necessità di sottrarre a qualsiasi procedimento di revisione costituzionale i diritti fondamentali dell'uomo. Condivido pienamente quest'ordine di idee; ma non chiedo di svolgerlo qui, perché il tempo stringe, e questa non è ancora la sede opportuna.
Mi si consenta solo un'osservazione: non esitiamo, onorevoli colleghi, ad introdurre nella nostra Costituzione delle norme giuridiche nuove rispetto alle altre Costituzioni.
Permettete che vi rammenti quanto scriveva cinque o sei anni fa un grande maestro di diritto, il professore Francesco Carnelutti. Egli osservava che noi ci preoccupiamo, e giustamente, di estendere le nostre esportazioni: e rilevava in proposito che c'è una cosa che possiamo sempre esportare e che trova rispondenza nella nostra migliore tradizione: il diritto».
Onorevoli colleghi, affermiamo dunque i diritti dell'uomo, riconosciamoli, muniamoli di una tutela sempre più intensa ed efficace. Proclamiamo, coi nostri testi costituzionali e soprattutto coll'esempio, dinanzi al mondo i principî del vivere libero. Con questo non soltanto avrà la nostra giovane Repubblica restituita la persona umana al posto che le compete, cioè al più alto gradino nella scala dei valori, ma avrà reso un nobilissimo servigio alla causa sacra dell'umana libertà. (Applausi — Congratulazioni).
[...]
Valiani. [...] Nell'articolo 6 — anch'esso formulato in modo confuso, ma che tuttavia esprime un principio generale giusto, cioè che la libertà e la dignità della persona umana, nonché l'interesse generale della società, dello Stato, sono principî filosofici ai quali si richiama la nuova Costituzione in questo articolo — sono comprese implicitamente, e si possono rendere più esplicite, le esigenze che hanno mosso i redattori del secondo capoverso dell'articolo primo. Rifacciamo l'articolo 6, in modo che sia chiaro che l'interesse generale della società è superiore ad ogni altro interesse particolaristico; e allora avremo dato alla Costituzione il suo nerbo.
A cura di Fabrizio Calzaretti