[Il 5 marzo 1947 l'Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Vengono qui riportate solo le parti relative all'articolo in esame, mentre si rimanda alle appendici per il testo completo della discussione.]
Tupini. [...] Nelle disposizioni generali del progetto che ne costituiscono la introduzione solenne è racchiuso lo spirito informatore della Costituzione: Repubblica democratica, l'Italia ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale dello Stato, il quale si fonda, dunque, sull'uomo socialmente attivo, sul cittadino che ha nel lavoro lo strumento della sua fatica e della sua redenzione.
[...]
Ma la libertà e la dignità dell'uomo non saranno mai sicure se non si darà al lavoro la preminenza su ogni altro valore economico e se il lavoro non sarà il fondamento stesso della Repubblica. Né qui si deve intendere il solo lavoro manuale, alla stregua di una concezione piatta e materialistica della vita: l'articolo primo, infatti, si integra con l'articolo 31, in cui il lavoro è considerato come condizione dei diritti politici e in cui si precisa che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività e una funzione che non è quella onorevole Calamandrei, del dolce far niente, ma di concorrere allo sviluppo materiale e spirituale della Società. È lavoratore, dunque, per una espressa norma statutaria, non solo l'operaio manuale, l'artigiano, ma anche il maestro, ma anche il sacerdote, ma anche il missionario: chiunque concorra alla potenza della tecnica e della cultura, della civiltà e della morale italiana, comprese anche, onorevole Lucifero, le cosiddette suore di clausura che, secondo la legge divina della compensazione, pregano e con le loro preghiere ristabiliscono l'equilibrio turbato dai nostri e dai vostri peccati. (Applausi al centro — Interruzioni a destra — Commenti a sinistra).
[...]
Mastrojanni. [...] l'articolo primo parla della Repubblica italiana, che «ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo articolo primo rappresenta la soddisfazione parziale di una proposta specificamente espressa dal partito comunista.
L'onorevole Togliatti propose, che venisse definita l'Italia come una Repubblica democratica di lavoratori; io stesso in sede di discussione davanti la prima Sottocommissione feci garbatamente rilevare che la Repubblica rappresenta lo Stato e la Nazione, rappresenta tutti i suoi consociati, rappresenta le creature di Dio, fatte a sua immagine e somiglianza, le quali, per lo stesso fatto naturale di essere stati immessi nella società umana, hanno diritto di asilo e di rispetto da parte di tutti i consociati.
Definire una Repubblica, definire uno Stato, attraverso una caratteristica, che rappresenta, sì, la più nobile delle manifestazioni della vita umana, il lavoro, ma escludere coloro che non possono essere identificati in questa nobilissima categoria (che noi esaltiamo e nella quale noi riconosciamo gli attributi più elevati dell'umanità); definire una Repubblica, attraverso la circoscritta denominazione dei lavoratori, sembrava a noi, così come sembra, escludere dal consorzio umano coloro che, per ipotesi, non avessero la possibilità di essere annoverati fra i lavoratori.
Si desistette da questa caratteristica particolaristica, ma, scendendo nella subordinata, si volle affermare il principio in modo generico nell'articolo 1, ma in modo preciso e ben definito nell'articolo 31; talché, quanto noi avevamo osservato come non opportuno nell'articolo 1, trova la sua sede nell'articolo 31, il quale recita:
«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività con una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.
«L'adempimento di questo dovere è condizione per l'esercizio dei diritti politici».
Onorevoli colleghi, come vedete, se è vero che l'Italia è definita Repubblica democratica, è innegabile che in essa hanno diritto di asilo solamente coloro che sono lavoratori, ed essendo lavoratori hanno l'obbligo dell'adempimento di determinati doveri, per potere partecipare alla gestione della cosa pubblica.
Ed allora, o signori, torto aveva Aristotele che definì l'uomo animale politico; torto quando egli pensò che l'uomo, per sua stessa natura politico, avesse diritto di partecipare nell'umano consorzio e nell'umana politica società, se noi ci arroghiamo il diritto di escludere dal consorzio umano il consociato, che per sua stessa natura, individuo politico non è identificato come lavoratore.
È vero che la formula di Stalin è: «Chi non lavora non ha diritto di mangiare», formula che, sotto un certo aspetto, si attribuiva anche a San Paolo, il quale, peraltro, pur esaltando il lavoro, affermava il principio, per cui omnis auctoritas omnis potestas a Deo, quasi per significare che l'autorità, qualunque ne sia l'investitura trova fondamento nella divinità.
Di conseguenza: anche se questa autorità personifichi una dittatura. Se il concetto di lavoro è connesso con quella di dittatura, perché con la dittatura sola può il lavoro realizzare i suoi diritti economici e morali, noi dissentiamo e decisamente da queste formulazioni particolaristiche, le quali incrinano e vulnerano quelli che sono i diritti essenziali, sacri, inalienabili, imprescrittibili, della persona umana.
[...]
Laconi. [...] La Repubblica, giustamente diceva ieri l'onorevole Calamandrei, è una forma definitiva di regime. La decisione sulla forma repubblicana è sottratta alla nostra competenza di costituenti, perché il popolo stesso si è espresso su questo punto e ha dichiarato la sua volontà.
A noi, altro spetta. A noi spetta fare in modo che questo regime sia un regime democratico conseguente, sia un regime, cioè, progressivo, orientato verso forme nuove, deciso ad elevare il popolo dalle sue miserie, un regime pacifico che si inserisca nella comunità dei popoli liberi con volontà di pace e di collaborazione. E per poter essere quello che noi vogliamo, questo regime deve essere fondato su due principî fondamentali: sulla sovranità popolare e sulla posizione preminente del lavoro.
[...]
Ma certo, onorevoli colleghi, la garanzia suprema, la garanzia decisiva che questi principî, queste direttive verranno attuati, che questi diritti verranno tradotti in realtà, non sta in quei pochi elementi di economia nuova che vengono immessi nel corpo della Costituzione; ma sta in qualche altra cosa. La garanzia suprema e decisiva che il nostro Paese si orienterà realmente sulla strada di un rinnovamento sociale sta nella democraticità assoluta dell'ordinamento dello Stato, sta nella partecipazione effettiva di tutti i lavoratori — come è detto nel primo articolo — alla vita sociale, economica, politica del Paese; sta nel fatto che tutto l'ordinamento dallo Stato poggi sul principio della sovranità popolare.
Appunto per sottolineare questo carattere, il carattere di una democrazia progressiva che pone a suo fondamento il lavoro, abbiamo proposto che la Repubblica italiana venisse definita Repubblica democratica di lavoratori.
Ho letto nella relazione dell'onorevole Ruini che molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l'Italia «repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre Costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Non so quali siano queste altre Costituzioni.
Ruini, Presidente della Commissione. Quella jugoslava, per esempio.
Laconi. A me non consta che nella Costituzione jugoslava ci sia una denominazione di questo genere, sebbene l'abbia letta attentamente. Certo questa denominazione non può riferirsi in nessun caso alla realtà economica sovietica. È noto che nella discussione che ebbe luogo per l'approvazione del progetto della Costituzione sovietica, lo stesso Relatore, Stalin, propose che venisse respinto l'emendamento col quale si definiva la Repubblica sovietica come Repubblica di lavoratori, in quanto la realtà sovietica è andata più in là, perché lo Stato sovietico si basa ormai su categorie definite, armonizzate in uno Stato senza classi. Per questi motivi l'emendamento fu respinto.
Quando noi abbiamo proposto che la Repubblica italiana venisse definita Repubblica di lavoratori, ben sapevamo che la genericità del vocabolo ci consentiva di non riferirci ad alcuna struttura classista, in quanto una struttura di questo genere non corrisponde alla realtà italiana. Abbiamo usato il termine lavoratori in quanto più comprensivo, in quanto in esso si può ritrovare chiunque partecipi col braccio o col pensiero, con attività manuali o spirituali, teoretiche o pratiche, alla vita, al progresso, alla ricchezza della Nazione. E chi è assente da questo, e chi vuol essere alieno da questo progresso, chi può dire di non collaborare a questo processo produttivo?
L'onorevole Mastrojanni ha fatto un tale giro di parole, ha mascherato talmente il suo pensiero, che io non sono riuscito a comprendere di quali gruppi egli si faccia difensore; ma indubbiamente, da una definizione di questo genere, sarebbero esclusi unicamente quei gruppi che senza partecipare in maniera alcuna, con la propria opera, col proprio lavoro, alla vita della Nazione, si accontentano soltanto di sfruttare il lavoro altrui e di vivere parassitariamente, senza partecipare in nessun modo alla vita della Nazione. Se ella vuol farsi difensore di questi ristrettissimi gruppi, ella è buon giudice. Per quanto riguarda noi, noi pensiamo che una denominazione di questo genere, la più comprensiva ma anche la più significativa, corrisponda al carattere attuale della democrazia italiana, a quello che noi vogliamo diventi, noi tutti, noi uomini delle grandi formazioni di massa, noi uomini del popolo, a ciò che vogliamo diventi la democrazia italiana.
Per questo noi abbiamo sostenuto, durante il corso del dibattito nelle Sottocommissioni e nella Commissione dei settantacinque, un tipo di organizzazione e di ordinamento dello Stato che avesse i caratteri di una assoluta democrazia, e che fosse contemporaneamente uno strumento efficace della volontà popolare; abbiamo cioè sostenuto, da un lato, che ogni organo e ogni potere deve avere il suo fondamento, la sua origine nel popolo o deve essere controllato dal popolo o da quegli organi che nel popolo trovano la loro radice.
D'altro lato, abbiamo sostenuto sempre forme di regime che siano capaci di venire incontro con decisione alle esigenze che sorgono dalle masse.
Noi abbiamo sostenuto un tipo di regime democratico non per quel piccolo calcolo politico che l'onorevole Calamandrei, mi duole ancora dirgli, ha voluto attribuirci, non perché contiamo sopra una maggioranza e solo in vista di questa maggioranza siamo fedeli assertori delle idee democratiche, ma perché noi siamo invece mossi dalla fede e dalla fiducia che abbiamo nelle istituzioni democratiche; per questo abbiamo sostenuto, in ogni momento e ad ogni passo, il regime democratico più avanzato, il più lucido, quello che traducesse in un modo più semplice e schietto la volontà popolare.
Uno sforzo considerevole in questo senso è stato fatto e trapela dalle pagine di questo progetto. È innegabile che la Costituzione della Regione, come organo di decentramento amministrativo dello Stato, consente di avvicinare tutta la macchina dello Stato al popolo e di sottoporla ad un suo più diretto ed immediato controllo. È indubbio che l'abolizione dei prefetti, e degli organi burocratici che governano oggi la vita delle nostre province, è un passo avanti, è un radicale passo avanti in questo senso. È anche indubbio che il potere legislativo, integralmente rimesso ad istanze di pressoché diretta origine popolare, è un altro passo avanti che noi facciamo verso la democrazia. Il riconoscimento, l'ammissione nel corpo della nostra Costituzione della iniziativa popolare e del referendum sono altri passi che noi facciamo su questa strada. Il fatto che il Capo dello Stato sia eletto dall'Assemblea Nazionale e il fatto che il Governo debba riscuotere la fiducia espressa del Parlamento, e cioè dell'istanza democratica più alta del Paese, sono elementi indubbiamente positivi e così anche il fatto che nella Carta costituzionale sia stato introdotto il principio che al Governo della Magistratura partecipa una rappresentanza del Parlamento, ed è ancora più positivo il fatto che l'Alta Corte sia anch'essa designata dal Parlamento.
Ma se tutto ciò tende ad aprire la strada al popolo, tende a consentire l'immissione della volontà popolare nelle strutture, nei congegni del nuovo ordinamento democratico e tende ad estendere il controllo dell'organo rappresentativo su tutti i settori, su tutti i gangli dell'apparato, è indubbio che nel progetto è rimasta traccia anche di un'altra tendenza, di una vecchia tendenza che si ricollega ad una dottrina di nobili ed antiche origini: la tendenza a limitare, a correggere, a bilanciare l'azione popolare, tendenza che suona sfiducia nel popolo e nei suoi organi rappresentativi, la tendenza a limitare l'azione delle istanze democratiche, a frenarla, a disperderla nel tempo, ad impedire cioè che la democrazia diventi qualche cosa di efficiente, qualche cosa di decisivo nella vita del Paese, a togliere cioè allo Stato democratico la capacità di tradurre in atto la volontà popolare.
Questa tendenza rimane nel progetto, la si vede la si sente. Si sente, da un lato, attraverso quel congegno complicato di Consigli, di Camere che si controllano l'una con l'altra, quell'ordinamento così complesso di Regioni che condividono con le Camere determinati poteri e secondo determinate forme e in limiti particolari. Si sente attraverso la lentezza prevista per il funzionamento degli organi legislativi.
Io penso che uno sforzo più in là si possa fare in questo senso e che noi dobbiamo fare questo sforzo. Dobbiamo tentare di realizzare una democrazia più conseguente, nel delineare l'ordinamento della Repubblica, e dobbiamo d'altro lato cercare di dare una vitalità maggiore, una forza maggiore allo Stato democratico che stiamo creando.
Questa tendenza si manifesta in tutte le diverse parti dell'ordinamento costituzionale previste nel progetto; è quella tendenza cui si richiamava ieri l'onorevole Lucifero, dicendo di crederci. «Io sono un credente — diceva — negli antagonismi costituzionali». Io credo che avesse un senso dichiararsi un credente nella teoria della divisione, dell'equilibrio dei poteri, nel sistema dei contrappesi; quando si dava come condizione pregiudiziale — e purtroppo ineliminabile — il fatto che uno di questi poteri avesse un'origine non popolare, quando si era nella condizione di dover bilanciare questo potere assoluto non derivato dal popolo: il potere della corona.
Ma che senso ha oggi il voler bilanciare e frenare i poteri del popolo, il voler stabilire un limite alla sovranità popolare? Questo io chiedo.
Lucifero. Io ho detto il contrario, onorevole Laconi.
Laconi. Può darsi che io abbia male udito; e me ne scuso, in questo caso.
Certo, limiti in questo senso non mancano. Noi vedremmo con estremo favore l'istituzione nel nostro Paese di nuove istanze democratiche che corrispondano alla Regione così come è individuata e figurata tradizionalmente, in quanto — come dicevo poco fa — il decentramento amministrativo avvicina il popolo al Governo e rende più facili i controlli del popolo sull'amministrazione.
Ma è indubbio che quando alle Regioni si attribuiscono poteri che esorbitano da quelli della semplice amministrazione, che giungono, come in questa parte del progetto, ad una potestà legislativa esclusiva, a cui segue una potestà legislativa concorrente, e a cui segue ancora una potestà legislativa di integrazione e di attuazione delle leggi dello Stato, quasi per meglio specificare e caratterizzare quel carattere pieno e primario, che ha il primo tipo di legislazione; è indubbio che in questo caso non possiamo più essere favorevoli.
Pensiamo che non si tratti più di avvicinare il popolo alle istanze della vita democratica e di sottoporre al controllo del popolo i rami e i settori della vita del Paese; pensiamo che ormai si tratti di qualcosa di più, che si giunga al frazionamento del potere legislativo, al disgregamento dell'unità organica del nostro Paese. È indubbio che domani, se vedessimo approvata questa parte del progetto, ci troveremmo ad avere in Italia, ancora una volta, a ritroso dei secoli, una miriade di staterelli, ciascuno per sé esercitante potestà legislativa, ciascuno capace di attuare, nell'ambito del proprio territorio, chissà quali riforme, differenti da quelle della vicina o lontana Regione.
Credo che in questo modo verremmo a stabilire nel corpo della democrazia italiana una serie di compartimenti stagni, che servirebbe unicamente a frenare, a ritardare, a rallentare quanto più possibile la circolazione delle idee e del progresso, la circolazione delle leggi del nostro Paese, ad impedire un'azione conseguente decisa dallo Stato democratico.
Piemonte. Manca la fiducia del popolo in loco.
Laconi. Questo è uno degli sbarramenti che vengono frapposti all'azione dello Stato.
Ma quante precauzioni non si sono prese, per potere rendere inoperante il potere legislativo, già con l'istituzione d'una seconda Camera accanto alla prima? Ognuno sa quale battaglia ci sia stata intorno a questa seconda Camera legislativa, che dovrebbe concorrere all'opera della prima e perfezionare l'opera della prima, ma insieme dovrebbe limitare la prima Camera, la quale, data la sua derivazione popolare, è ritenuta, per sua natura, avventata e temeraria.
Ma tutte le volte che si discuteva su questa parte, i sostenitori d'una seconda Camera non democratica si dicevano mossi dall'intenzione di porre un limite, di porre un freno all'azione della prima Camera, per ottenere una riflessione maggiore nella formazione delle leggi, quasi dimenticando che la prima Camera rappresenta nel nostro Paese, attraverso l'elezione diretta, attraverso il suffragio universale, la volontà di tutto quanto il popolo, alla quale non v'è ragione alcuna di porre dei freni e dei limiti.
Ma non soltanto in questo modo sono stati predisposti dei limiti all'attività del legislatore. Altri limiti e freni sono stati previsti nella procedura, la quale è d'una tale lentezza, onorevoli colleghi, che io vorrei, per provocare la vostra meraviglia e per stimolare lo scrupolo di coloro stessi che hanno partecipato alla stesura di questo progetto, vorrei, dico, farvi la storia, l'itinerario d'un disegno di legge, il quale partirà dal Governo un determinato giorno e giungerà un determinato giorno alla prima Camera; questa dovrà sottoporlo ad una sua Commissione e poi dovrà esaminarlo, discuterlo, approvarlo in Assemblea plenaria, e quindi dovrà rimetterlo all'altra Camera che, a sua volta, ripercorrerà tutti i gradi della procedura, sicché entro un mese dalla pronunzia della seconda Camera, la legge potrà finalmente essere pubblicata e venti giorni dopo entrerà in vigore, a meno che non intervenga un conflitto.
Se infatti l'altra Camera si pronunciasse in senso contrario o tacesse, si aprirebbe in tal caso tutta una procedura nuova.
Avremmo allora l'intervento del Presidente della Repubblica; ed eventualmente il referendum. E se anche non vi sia il parere sfavorevole della seconda Camera, ma la legge venga approvata con meno di due terzi dei voti, essa è sospesa quando ve ne sia richiesta di 50.000 elettori o di 3 Consigli regionali, ed entro due mesi cinquecentomila elettori o sette consigli regionali debbono pronunziarsi; soltanto dopo tale pronunzia, può mettersi in moto la macchina lenta e complessa del referendum. Io penso che tutta questa parte solleverà indubbiamente le critiche di coloro stessi che l'hanno sostenuta e ne hanno promosso l'inserimento nella Costituzione.
Ma quello che interessa è di vedere l'animo, l'intenzione con cui tutta questa parte è stata introdotta; almeno l'onorevole Fabbri, ricordo, lo diceva sinceramente: voglio che la Camera non legiferi, o faccia meno leggi che sia possibile. Ma altri non lo diceva con eguale sincerità; eppure si comportava come lei, onorevole Fabbri. Ed è per questo che sono state inserite tante more, che sono state previste tante lentezze nella procedura legislativa, che il legislatore di domani dovrà essere forzatamente inoperante, incapace di venire incontro alle esigenze che possano prospettarglisi.
Quando poi sorga un motivo di conflitto in questo faticoso congegno, sarà il Capo dello Stato ad intervenire. Io non riesco a comprendere come, essendosi concepito il potere legislativo in una sua unità, sia pure distinto in due Camere egualmente concorrenti al perfezionamento della legge; io non riesco a comprendere come debba poi intervenire un elemento estraneo per comporre il dissidio. Non abbiamo noi previsto, nell'Assemblea nazionale, l'organismo collegiale che aduna le due Camere in una e che costituisce l'organo legislativo supremo del Paese? Per quale ragione, se non per accrescere le possibilità di conflitto, noi dobbiamo fare intervenire un elemento estraneo nei conflitti delle due Camere? Ma anche questa volta si è detto che era necessario mettere dei freni a che il potere legislativo non esorbitasse dalle sue funzioni, a che noi non dovessimo cadere in una situazione in cui il Parlamento, attraverso le sue crisi e i suoi dissensi, dovesse portare ad un progressivo svilimento dell'istituto democratico. Ma ancora agli altri poteri sono stati stabiliti, nel complesso di questo progetto, limiti, condizioni, strumenti di rallentamento e di freno. Così accade per il Governo che dovrebbe patire, secondo l'attuale progetto, almeno il controllo di un Consiglio di Stato, di una Corte dei conti, il cui modo di composizione è completamente sottratto alla competenza del costituente e rinviato al legislatore ordinario.
Ora, io penso che domani, quando il Governo dovrà trovarsi a concretare, secondo lo spirito delle leggi che verranno emanate dal legislatore futuro, i principî che noi stabiliamo in questo momento nella Costituzione, esso dovrà agire e dovrà muoversi nell'ambito di una sfera di discrezionalità tale che l'organo che dovrà domani controllare i suoi atti non potrà limitarsi a controllare la pura legittimità; dovrà fatalmente sconfinare nel merito. E noi possiamo rimettere un controllo di tale portata ad un organo di cui oggi non possiamo prevedere quale sarà la composizione, quale sarà la natura? Io penso che ciò non sia possibile. Ma questo intervento di un'istanza giurisdizionale, di un corpo tecnico giudicante, nella vita e nello svolgimento dell'attività di un Governo e nell'attività legislativa del nostro Paese risponde ad un criterio, ad una tendenza che ha trovato i suoi assertori nelle Commissioni e che ha lasciato traccia — come dicevo — in tutto il progetto di Costituzione: ed è la tendenza a inserire il giudice, il tecnico, il possessore dei criteri interpretativi della legge, come giudice e arbitro tra i poteri, come discriminatore dei loro conflitti, come il meglio adatto ad interpretare la volontà del legislatore ed a correggere l'indirizzo dell'esecutore o del legislatore stesso, quando si tratti dell'interpretazione e dell'applicazione dei principî di questa Carta.
In questo senso e rispondendo a questi principî, a questo punto di vista, si è svolta nelle Commissioni una grande battaglia per affermare l'autonomia della Magistratura. Oh! Io non polemizzerò su questo argomento; non ricorderò il caso Pilotti, che è stato già ricordato. Non è certo stata questa la ragione per cui noi ci siamo opposti ad una autonomia assoluta della Magistratura: non davamo una tale importanza al caso Pilotti, per quanto una sua importanza l'abbia; non fosse altro come sintomo. Non è stata questa però la ragione per cui noi abbiamo ritenuto che la Magistratura non debba costituire un corpo a sé, un ordine a sé, autogovernantesi in forma assoluta, indipendente e senza alcun controllo di altre istanze o di altri organi. Non è stata questa la ragione. Se fosse stata questa, e se noi dovessimo scendere su questo terreno, io ripeterei quello che dicevo ieri, interrompendolo, all'onorevole Calamandrei: se noi entriamo su questo terreno polemico e ci poniamo a considerare se la Magistratura fra cinque, dieci, fra cinquant'anni potrà diventare una Magistratura nuova, antifascista e democratica, se noi ci poniamo su questa prospettiva del domani, ebbene rimandiamo al preambolo questo principio; al preambolo in cui, secondo lei, onorevole Calamandrei, dovrebbero inserirsi quei principî che non possono trovare un'attuazione immediata. Qui sì vi sarebbe motivo, perché l'attuazione di questo principio non da noi dipende, ma dalla Magistrature stessa, dagli uomini, dalla posizione che essi assumeranno nello schieramento democratico e dall'atteggiamento che prenderanno rispetto alla realtà viva, repubblicana, del nostro Paese. Non da noi. E poiché la cosa non dipende da noi, io sarei favorevole a che la si affermasse nel preambolo.
Ma non è questo, ripeto, il motivo per cui noi ci siamo manifestati in questo senso per quanto riguarda la Magistratura. È un altro, ed è che nello Stato italiano non possono esservi poteri che siano completamente sottratti al controllo delle istanze democratiche, delle rappresentanze popolari. Noi non possiamo ammettere che i giudici, corpo qualificato, alto e selezionato quanto si voglia, possano però immettersi nel corpo della democrazia italiana, inserirsi come organo giudicante tra il legislativo e l'esecutivo, controllare la legittimità di determinati atti di Governo o la costituzionalità di determinate leggi, senza che abbiano dietro di essi una volontà popolare, che suffraghi la loro interpretazione, senza che abbiano una qualsiasi investitura che li ponga in condizione di poter interpretare la volontà del legislatore, di poter interpretare la volontà del costituente.
Per queste ragioni, noi siamo stati sostenitori del principio che la Magistratura deve essere governata e controllata da organi in seno ai quali i diversi poteri, e particolarmente il potere legislativo e le rappresentanze popolari, abbiano una loro specifica rappresentanza.
La traccia, però, dell'opinione contraria è rimasta. È rimasta in quanto si esclude la partecipazione in questi organi del rappresentante più diretto e più qualificato dell'esecutivo, del Ministro della giustizia, ed è rimasta in quanto in nessuna parte di questo progetto si prevede la eleggibilità del giudice, si prevedono dei giudici elettivi.
Noi siamo sempre pronti, o meglio talune frazioni di questa Assemblea e taluni gruppi della Commissione, erano sempre pronti a celebrare altre Costituzioni, in altri momenti e per altre ragioni; nessuno però celebrava la parte positiva delle altre Costituzioni, nessuno ha ricordato che in altre Costituzioni il principio della elettività dei giudici, almeno nei primi gradi, è ammesso e riconosciuto come uno dei fondamenti del regime.
Questa è indubbiamente una deficienza che è rimasta nella stesura del nostro progetto e che corrisponde a tutta una tendenza contro la quale noi abbiamo dovuto lottare, tendenza diretta a sottrarre al popolo e al controllo diretto del popolo, quanto fosse più possibile, i poteri dello Stato.
Un'ultima questione, che è sorta in questo ordine, è quella che concerne la Corte costituzionale. Anche della Corte costituzionale si è tentato di fare un organo avulso dalla vita della nazione e dalla volontà del popolo. Questo tentativo è caduto. La Corte costituzionale, per quanto eletta secondo particolari criteri e con particolari modalità che non sono completamente soddisfacenti, sarà sempre un organismo investito della sua autorità dal Parlamento, e noi pensiamo che soltanto il Parlamento, il quale sia pure con maggioranza qualificata può modificare la Costituzione, soltanto il Parlamento, il quale unico nella vita della democrazia italiana, è investito della facoltà di rappresentare tutto il popolo nel suo complesso, possa eleggere, sia pure entro determinate categorie, i giudici che dovranno interpretare la volontà nostra e comparare le norme legislative emanate dal legislatore ordinario alle norme emanate da noi, potere costituente. Tutti questi limiti naturalmente non sono stati introdotti senza pretesto. Si è detto e si è ripetuto che si voleva ovviare a quelli che vengono definiti i difetti del regime parlamentare. Quando si è attribuito il potere legislativo alle Regioni, si è detto che si voleva lottare contro il centralismo, contro lo Stato centralizzatore, contro il Parlamento che monopolizzerebbe la potestà legislativa e sottrarrebbe alle istanze inferiori qualsiasi possibilità di regolare secondo esigenze particolari i loro particolari problemi.
Quando si è costituita la seconda Camera con eguali poteri e si è determinata una procedura lenta e laboriosa, si è detto che si introducevano queste cautele contro le avventatezze della prima Camera; quando si è stabilito l'intervento del Capo dello Stato e quando si è attribuita al Capo dello Stato la facoltà di sciogliere le due Camere, si è detto che questo era necessario per introdurre un elemento estraneo che potesse comporre i dissidi; quando si è creato il Consiglio di Stato e si è riconosciuta la necessità di mantenere la Corte dei Conti, si è detto che questo era ancora necessario perché l'esecutivo patisse un controllo esterno ed indipendente da esso; quando si è costituita la Corte costituzionale si volevano garanzie perché la Costituzione fosse realmente osservata.
Ma se noi osserviamo quale significato e quale valore abbiano nella nostra Carta costituzionale tutte queste garanzie che io ho elencato, noi scopriremmo che la giustificazione si fonda sopra una essenziale ingenuità: si cercano le garanzie nei congegni, in particolari strutture, in particolari forme organizzative che dovrebbero impedire, che dovrebbero eliminare tutti i difetti del regime parlamentare. Si vuole risolvere con particolari congegni, con particolari strutture quello che è un problema eminentemente politico e soltanto politico. Io comprendo che impedire, frenare, limitare, trattenere hanno un significato ed hanno un valore politico in quanto frenare e trattenere vuol dire conservare, e risponde quindi all'indirizzo di una politica eminentemente conservatrice il frapporre ostacoli all'attività dello Stato, o il mettere in uno stato di crisi permanente i diversi poteri, o il predeterminare congegni di una particolare lentezza. Io Comprendo che tutto ciò ha un significato politico, che significa conservare quello che vi è, impedire che le forze nuove che sono la espressione del popolo manifestino la loro volontà, esprimano la volontà di rinnovamento che pervade tutta la democrazia italiana. Ma noi dobbiamo svelare che cosa si cela dietro questo tentativo. Dietro questo tentativo e dietro questa tendenza si cela unicamente e soltanto una fondamentale paura del popolo, un timore della volontà popolare, una paura del popolo e dei partiti in cui il popolo si organizza, dai quali invece deve partire, sui quali deve fondarsi ed a cui deve tendere tutta l'organizzazione dello Stato.
L'onorevole Lombardi, se non erro, in altra discussione constatava che ormai la sostanza del potere politico è fuori di questa Assemblea, e lamentava questo fatto ricordando come in altri tempi il Parlamento era realmente centro del dibattito e della lotta politica del Paese. Ma io credo che questo accada oggi fatalmente perché il potere politico è nel popolo, e deve essere fatalmente nel popolo quando noi poniamo a fondamento della nostra Costituzione la sovranità popolare.
Non noi, non questa Assemblea è sovrana, ma il popolo che sta fuori di questa Assemblea e di cui noi siamo i genuini e legittimi rappresentanti. Nel popolo, quindi, e nei partiti in cui il popolo si organizza, risiede la sostanza del potere politico. Da chi vogliamo garantirci noi? Da questo potere politico? Dai partiti, dal popolo? Vogliamo quindi misconoscere la sovranità popolare, menomarla, limitarla quanto più è possibile? Io credo che tutti i difetti del parlamentarismo scompaiano man mano che i partiti avanzano, man mano che i partiti si consolidano e penetrano nella coscienza dei cittadini, man mano che diventano forme di organizzazione popolari e raggruppano quanto più è possibile intorno a movimenti ideali e ad indirizzi pratici le più grandi masse.
Io credo che questa forza dei partiti tenda ad eliminare i difetti del parlamentarismo. La sovranità è nel popolo, non è nel Parlamento, e noi qui contiamo unicamente per quel che rappresentiamo. È per questo che tutto ciò che è stato previsto per la difesa delle minoranze ha un valore, ma un valore limitato, nelle forme attuali in cui si sviluppa e si orienta la nuova democrazia italiana.
Lo scopo fondamentale del regime democratico non è soltanto garantire la libertà dei pochi, ma è permettere l'attuazione di quelle idee e di quei principî che sono ormai penetrati nella coscienza dei più, che sono diventati anima di grandi movimenti popolari, che ormai raccolgono il suffragio ed il consenso della più gran parte della nazione.
In questo senso, onorevoli colleghi, io credo che la Costituzione debba orientarsi e che noi dobbiamo orientarci nel giudicare la Costituzione. In questo senso moveranno le nostre critiche a questo progetto che noi accettiamo come base di discussione, come utile base di discussione.
Noi non temiamo quello che dalla Costituzione rimane escluso, quello che rimane indefinito. Noi non temiamo il popolo che sta dietro a questa Costituzione e che sarà domani al di là dell'ordinamento democratico, come presupposto dell'ordinamento democratico dello Stato. Noi non pensiamo che i congegni, che i meccanismi costituzionali che possiamo predeterminare possano essere così efficienti da poter escludere qualunque pericolo.
Io vorrei che fosse così; vorrei che la semplice istituzione di una Carta costituzionale potesse garantirci per sempre dal pericolo della tirannide; vorrei che la forza e la solennità di queste parole impresse sulla carta o sulle tavole costituzionali avessero tal peso da poter impedire domani qualsiasi tentativo contro la democrazia.
Ma non ho questa speranza, non ho questa illusione. So che la garanzia maggiore dell'orientamento democratico del nostro Paese non è in questa Carta. È, onorevoli colleghi, unicamente nel popolo; è soltanto il popolo che può garantire che i principî che noi immettiamo nella Costituzione si tradurranno domani, in realtà, che può garantire che i congegni che noi predeterminiamo agiranno domani nel senso che noi oggi ci auguriamo. È soltanto nel popolo che noi possiamo trovare la nuova garanzia del domani. Ed è per questa ragione che noi ci sforzeremo in tutti i modi, nel criticare questo progetto di Costituzione, di far sì che l'ordinamento dello Stato di domani sia il più democratico possibile, che non vi siano vicoli ciechi, che non vi siano budelli, vasi ostruiti; che la volontà popolare possa penetrare tutto il congegno e giungere in ogni lato, fin nelle più remote parti, nei più remoti settori dell'ingranaggio. È per questo che noi ci sforzeremo di fare in modo che l'ordinamento dello Stato sia quanto più democratico possibile, in modo che le forze delle grandi correnti democratiche del nostro Paese possano immettervi domani quello spirito unitario, quella volontà unitaria che manca oggi forse in questi congegni così predeterminati, l'uno distinto dall'altro, l'uno all'altro contrapposto. In questa volontà unitaria dei partiti e delle grandi masse popolari noi troviamo la maggiore garanzia che l'unità politica materiale e morale del nostro Paese non verrà spezzata. Nella forza dei grandi partiti di massa noi troviamo la garanzia che domani i principî che noi immettiamo nella Costituzione verranno tradotti in realtà. In questa circolazione, in questo respiro nuovo, noi vediamo la garanzia dell'orientamento interno e internazionale del nostro Paese, onorevoli colleghi, la garanzia suprema che l'Italia di domani sarà realmente una Repubblica democratica rispettosa della libertà, avviata sulla strada del progresso, decisa ad entrare come una forza attiva e pacifica nella comunità dei popoli liberi. (Vivissimi applausi a sinistra — Congratulazioni).
A cura di Fabrizio Calzaretti